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Torquato Tasso
Ovidio Gregorio VII

Alcuno trarrebbe la famiglia Tasso dai Della Torre di Valsàssina, che furono signori di Milano, e che, vinti e cacciati dai Visconti, ricoverati nelle montagne di Tasso fra Bergamo e Como, v’ebbero in signoria Cornello. Al 1290 un Omodeo Tasso stabilì le poste, invenzione perdutasi nel medioevo, e che da’ suoi discendenti diffusa in Germania, in Fiandra, in Ispagna, valse a quella casa un’illustrazione di genere particolare e il titolo di principi, conservato finora nei signori Della Torre e Taxis, e simbolizzata nel pelo di tasso che metteasi alla briglia dei cavalli di posta. Un Agostino Tasso era generale delle poste di Alessandro VI, e da un suo fratello nacque Gabriele, da cui Bernardo. Questi, senz’altro patrimonio che la nobiltà e una diligente educazione datagli dallo zio vescovo di Bergamo, s’addisse di buon’ora alle Corti; e prima servì da messo e da secretario a Guido Rangone generale della Chiesa, poi alla duchessa Renata di Ferrara, indi a Ferrante di Sanseverino principe di Salerno; e colmo d’onorificenze e di pensioni, partecipò alla spedizione di Carlo V contro Tunisi e nel Piemonte e in Fiandra. Ma il Sanseverino, essendo deputato a Carlo V da’ Napoletani per isviare il flagello dell’inquisizione spagnuola, cadde in disfavore, sicchè gettossi coi Francesi. Bernardo il seguì; onde come ribelle ebbe confiscati i beni; e mentre il Sanseverino andava a Costantinopoli a sollecitare il Turco contro Carlo V, Bernardo a Parigi in prosa e in versi confortava Enrico II all’impresa di Napoli, ma invano. Tornato in Italia, vi perdette la moglie Porzia de’ Rossi1, e ne’ disastri della guerra d’allora si trovò sul lastrico, finchè Guidubaldo duca d’Urbino non l’accolse, e gli diede agio a finir il suo poema; di poi visse a Mantova, e governò Ostiglia.

Vita sì fortunosa non interruppe il suo poetare, e neppur lo elevò. Fra l’altre, fu amoroso d’una Ginevra Malatesta, e quand’essa sposò il cavaliere degli Obizzi, egli espresse la sua disperazione in un sonetto, che tutte le colte persone d’Italia ebbero a mente. Compose poi due poemi, il Floridante di cui più non si parla, e l’Amadigi. Il soggetto di questo eragli dato dalla moda e dalle lodi attribuite all’Amadigi, settant’anni prima pubblicato dallo spagnuolo Montalvo. Volea farlo in versi sciolti, ma gli amici e i principi lo persuasera all’ottava; volea farlo aristotelicamente uno, ma avendone letto dieci canti alla Corte, gli sbadigli e il diradarsi dell’uditorio egli attribuì alla regolarità, onde intrecciollo di tre azioni e moltissimi episodj. Finito, lo sottopose a varie persone: col qual modo non si cerca profittare d’un buon giudice, ma avere consenso e lode, comprata con condiscendenze.

I cento suoi canti cominciavano tutti con una descrizione del mattino, con una della sera si chiudeano, se gli amici non l’avessero indotto a sopprimerne alcune. Avendo dapprima diretto il poema a onore e gloria di Enrico II e della casa di Francia, ch’ei derivava da Amadigi, di poi, per secondare il duca d’Urbino, lo dedicò a Filippo II, cambiando moltissime parti ed episodiche ed essenziali.

Non era egli dunque trascinato da genio prepotente, ma deferiva all’opinione altrui, e tanti cambiamenti elisero ogni spontaneità del primo getto. Alfine il Muzio, l’Atanagi, Bernardo Cappello, Antonio Gallo furono a Pesaro convocati dal duca per esaminar l’opera, la quale era aspettatissima: l’Accademia di Venezia il pregò di lasciarla stampare da essa, ma egli preferì farlo per proprio conto.

Eleganza e morbido stile ne sono il carattere, ond’egli medesimo diceva: — Mio figlio non mi supererà mai in dolcezza». E veramente d’immagini e d’espressioni è ricco, quanto n’è indigente Torquato; ma sempre vi scorgi studio non natura, artifizio non ispontaneità; esatto ai precetti grammaticali e retorici, corregge ed orna lo stile, ama le descrizioni, ripiego de’ mediocri, ma non appassiona mai, mai non palesa il vigore che viene dalla semplicità. Lasciamo che Speron Speroni lo anteponga all’Ariosto, come il Varchi facea col Giron Cortese; sta a mille miglia da quella smagliante varietà d’intrecci e da quella limpidezza di stile; tu il leggi da capo a fondo senza che un’ottava ti resti in memoria, o ti lasci desiderio di rileggerla.

Se schivò le laidezze de’ poemi congeneri, s’imbrattò nelle adulazioni comuni; e al cardinale Antonio Gallo scriveva il 12 luglio 1560: — Mando a S. E. due quinterni dell’Amadigi, dove sono i due tempj della Fama e della Pudicizia: nell’uno laudo l’imperatore Carlo V, il re suo figliuolo, molti capitani generali illustrissimi, così de’ morti come de’ vivi, e altri illustri nell’arte militare; nell’altro lodo molte signore e madonne italiane. E Dio perdoni all’Ariosto che, coll’introdur questo abuso ne’ poemi, ha obbligato chi scriverà dopo lui ad imitarlo. Che, ancora ch’egli imitasse Virgilio, passò, in questa parte almeno, i segni del giudizio, sforzato dall’adulazione che allora ed oggi più che mai regna nel mondo. Conciossiachè Virgilio nel VI, conoscendo che questo era per causar sazietà, fece menzione di pochi; ma egli dimora nella cosa, e di tanti vuol far menzione, che viene in fastidio. E pur è di mestieri che noi, che scriviamo da poi lui, andiamo per le istesse orme camminando. A me, perchè d’alcuni bisogna ch’io parli per l’obbligo di benefizj ricevuti, d’alcuni per la speranza ch’io ho di riceverne, d’alcuni per la riverenza, d’alcuni per merito di virtù, d’alcuni mal mio grado.... tanto mi sarà lecito dire, che in questa parte fastidirò meno che l’Ariosto».

Ma da quel Carlo V ch’egli sollucherava, eragli stato tolto il pane pe’ suoi figliuoli; e invece d’acconciarsi a un onorato mestiero, con cortigianerie ne invocava le misericordie, e ad esso cardinal Gallo scrivea il 18 maggio, anno stesso: — Se la magnanimità del cattolico re, al quale ho dedicato questo poema, non si muove a pietà delle mie disgrazie, e in ricompensa di tante mie fatiche non fa restituire a’ miei figliuoli l’eredità materna, e non ristora in alcuna parte i miei gran danni, io mi trovo a mal partito».

Chi c’intende sa perchè abbondiamo in queste particolarità, nè crederà superfluo l’avvertire come Bernardo Tasso compose que’ cento canti senza tampoco sapere se il suo Amadigi fosse di Gallia o di Galles, cioè nè dove nè quando succedano que’ fatti; poi gliene viene rimorso, e — Non sarebb’egli peccato veramente degno di riprensione; peccato, non di trascuraggine, ma d’ignoranza, e di quelli che Aristotele vuole nella sua poetica sieno indegni d’escusazione, se io pubblicassi questo poema sotto il titolo d’Amadigi di Gaula, senza sapere dove fosse questo regno? Non volete voi che io nomini qualche porto? qualche città principale?» e sta persuaso che Gaula sia uno sbaglio dell’ignorante scrittore invece di Gallia, e che l’erede del trono inglese s’intitoli principe di Gaula per le sue pretensioni sopra la Francia; e propenderebbe ad intitolare il suo Amadigi di Francia, e ne interroga Gerolamo Ruscelli, pregandolo a richiederne l’ambasciador d’Inghilterra od altro pratico2.

Torquato, partoritogli da Porzia de’ Rossi l’11 marzo 1544, da lui attinse l’amore de’ versi, l’altezza signorile che allora non iscompagnavasi dalla subordinazione di cortigiano; e per quanto il padre lo sconsigliasse da una carriera che avea trovata irta di triboli, egli si prefisse di riuscire poeta. Che natura non ve lo spingesse prepotentemente il mostrò coll’andare tentando diversi generi senza in uno acchetarsi, come chi opera non tanto pel bisogno di creare, quanto per riflessione sulle opere altrui; egli lirico, egli tragico, egli romanzesco, egli epico, egli cavalleresco, egli sacro, egli descrittivo.

A diciotto anni, mentr’era ancora studente, sull’orme paterne compose il Rinaldo, e come si vanta di non essersi legato alle leggi aristoteliche, si scusa di non cominciar ogni canto col prologo, di conservare unità d’azione e di non interrompere il filo. A tali discolpe era ridotto! E davvero la gemebonda melanconia che già vi fa sentire, dovea rimoverlo dalle ebbrezze di moda e dai gavazzieri poemi cavallereschi3; ma nobilmente invidiando alla gloria dell’Omero ferrarese, lo osservò soltanto dal suo debole; e poichè troppo era lontano da tanta ricchezza e padronanza di stile e di poesia, e da quella folleggiante amabilità, sperò poterlo superare mediante la regolarità che a quello mancava. Anche di Dante non parla Torquato che tardi4, e maggiormente ammirando il portoghese Camoens, autore dei Lusiadi, prefisse di trattare com’esso un argomento moderno, pur modellato sul tipo virgiliano. Che se Camoens avea cantato le glorie della sua nazione, egli, dopo molto ondeggiare, prescelse la crociata5.

Il soggetto conveniva ai tempi. Perocchè, dopo che la cristianità era stata sbranata dalla Riforma, la Chiesa cattolica avea purgato la sua disciplina e chiarito le sue credenze nel Concilio di Trento. Allora i costumi, se non migliori, divennero più riservati e contegnosi; e del diffuso spirito di pietà e di devozione la letteratura risentì, come avviene di tutti i cambiamenti. I missionarj introdussero canzoni popolari, che si cantavano in chiesa e nelle processioni. San Filippo Neri, ai giovani che raccoglieva a solazzo per distorli dalle feste pericolose, facea rappresentare oratorj, cioè commediole e drammi d’argomento sacro. Dal pulpito sbandironsi le buffonerie. Mentre da prima poneasi poca restrizione alla stampa, fu introdotta la censura preventiva, affidata ai vescovi o agli inquisitori, oltre l’Indice nel quale una congregazione a Roma registrava, e tuttora registra i libri pericolosi al costume, alla morale, alla fede, ma sol dopo pubblicati e denunziatile.

Denominarono Crociate le spedizioni che tutta Europa assunse, cominciando nel 1096 e seguitando per secoli, onde ritogliere la terrasanta ai Musulmani che la tiranneggiavano, e che minacciavano di là estendersi all’Europa. È l’impresa più grande de’ secoli moderni, e l’unica dove tutta Europa si trovasse unita a combattere tutta l’Asia e l’Africa maomettana: e non già per vendicare la rapita Elena o per fabbricare Roma, ma per proteggere la civiltà della croce contro la voluttuosa barbarie dell’islam; per decidere se l’umanità doveva retrocedere fino alla schiavitù, al despotismo, alla poligamia, o liberamente lanciarsi alla libertà, all’eguaglianza, al progresso.

La poesia sgorgava a torrenti da tal soggetto. L’antichità profana sui passi de’ crociati presentava le ruine della Grecia e dell’Egitto; e un museo in Costantinopoli, rimasto in piedi ancora a guisa d’un vascello gittato sulla spiaggia con tutto il suo attrezzamento, ma senza la ciurma. L’antichità sacra popolava di reminiscenze ogni contrada, ogni sentiero; i cedri del Libano ricordavano Salomone, come le rose di Gerico la Sunamitide: l’esultanza di David e i gemiti di Geremia, i trionfi di Giosuè e la deplorata schiavitù; le profezie annunziate e le compite, il giardino del primo uomo e la culla del Figliuolo di Dio, l’orto ove Cristo provò i mortali scoraggiamenti e la valle dove tornerà giudice tremendo, circondavano d’un alito sacro ogni moto dell’epica musa. Quanto di pittoresco poi non poteasi cogliere nei costumi riuniti di tutta Europa, dal siciliano Tancredi fin a Sveno di Danimarca! Ed erano quelli i secoli della forza, della varietà, delle avventure, delle volontà risolute e indipendenti, quando ogni castello vivea di vita distinta, ogni barone formava storia da sè, ogni vescovo avea combattuto sul campo e discusso ne’ Concilj. Nè già era un re o un capitano che disegnasse l’andamento d’una spedizione, cui migliaja d’uomini dovessero eseguire colla materialità di macchine; ma ciascun pedone devoto o cavaliere di ventura, consacrato a Cristo il braccio, passava per usar il più valore che potesse e al modo che volesse: conflitto e accordo di volontà maschie, indomite, donde risultavano i caratteri più determinati, le avventure più vive, la fantastica mescolanza, dominata dalla grande unità del pensiero cristiano. Qui dunque religione, qui memorie, qui cavalleria, qui rischi, qui un amplissimo divisamento ritardato da tante traversie, e finito con effetti maggiori ma diversi alle speranze. Quel soggetto serbava inoltre il merito dell’opportunità al tempo del Tasso, quando i Turchi ancora infondevano sgomento, ed eccitavasi contro di essi la pericolante Europa6, non bene rassicurata dalla battaglia di Lépanto, ultimo atto delle crociate, ove cenventisei navi di Venezia, quarantanove della Sicilia, altre del papa sconfissero la flotta ottomana di ducenventiquattro vele, uccidendo venticinque mila e facendo prigionieri diecimila Turchi; e quindicimila cristiani liberando dalle loro galee (1571).

Sì bel soggetto baleni ad un’intelligenza poetica, e ne sentirà l’impareggiabile elevatezza. Torquato invece esitò fra questo ed altri di troppo inferiore dignità; e il suo peritarsi fra la prima e la seconda crociata sarebbe inesplicabile, se non si riflettesse che, attenendosi al modulo virgiliano, credeva necessaria l’unità del protagonista. Alla seconda crociata armaronsi i re, nessuno alla prima: onde il Tasso dovette falsarla essenzialmente coll’attribuirvi ciò che più le repugnava, vale a dire un capo a cui tutte le volontà si sottomettessero nell’intento di «liberare il gran sepolcro e ridurre gli erranti compagni sotto ai santi segni».

Lui fortunato, fortunata l’italiana letteratura se soltanto dalla storia e dalle devote memorie avesse attinto l’ispirazione, anzichè tornare alle invenzioni romanzesche, a magie e incantesimi, e complicazione di amori, e sconveniente imitazione di frasi, di soggetti, di concetti!

Come la lirica è l’immediata manifestazione poetica de’ sentimenti ingenui e vivaci, l’epopea è la narrazione poetica d’un fatto grandioso, che ritragga la vita umana nella maggior sua universalità, e la vita sociale e politica d’un’età particolare. Abbraccia essa dunque la storia, le credenze, tutte le cognizioni d’un popolo, il compiuto quadro della presente e della futura esistenza, il godimento e l’anima della vita, il mondo della spontaneità e quello della riflessione, e lo spirito comune de’ varj tempi; infondendo il sentimento vago e melanconico della religione del passato.

Ma la materia e la forma della poesia sono concepite e usate differente dagli uomini di genio e dagli uomini di gusto, dai poeti primitivi e dai poeti colti. I primitivi non mostrano conoscere la propria possa e i mezzi onde conseguiscono grandi effetti; cadono in frequenti negligenze; non cercano la finitezza; negligono la melodia, mentre abbondano d’armonia imitativa; simili a cavriuoli che si slanciano per le balze più ardite e di sopra le voragini; ingenui di linguaggio come di idee, ripetendo parole e concetti, e non brigandosi di quel che la critica vi potrà appuntare, offendono l’arte, ma meglio rappresentano la natura, nelle cui opere il bello si trova accanto al deforme, l’aconito al ditamo, l’ussignolo alla strige.

La poesia primitiva poi suppone sempre un pensiero religioso, come l’odor d’incensi annunzia la vicinanza d’un tempio.

Tali poeti, il cui tipo fra noi è Dante e in minore scala i cronisti e gli autori delle laudi e delle leggende, differiscono dai poeti colti quanto l’uomo dell’innocenza dall’uomo delle passioni. Costoro, scrivendo a tavolino, vedonsi innanzi il cipiglio o il ghigno del censore, l’applauso o la negligenza del pubblico; han bisogno della protezione, alito de’ mediocri: mentre il genio usa istintivamente della propria ricchezza, e la profonde senza misurarsi nè volgersi indietro nè stancarsi, questi procedono ad orme regolari, riflettono, correggono, dubitano, verificano, cangiano: preparano un solletico agli orecchi, un diletto all’immaginazione o anche alla ragione o al fino gusto; nulla porgono se non meditato, forbito, elegante; possono render ragione di ciascun passo che danno, giustificarlo cogli esempj e coi precetti. Opere siffatte sono meglio sentite e lodate, perchè l’arte è più accessibile che non il genio, e gli uomini ammirano in altrui le qualità di cui hanno il germe in sè. E perchè a ciascuno è fissato un livello, oltre il quale più non gli è respirabile l’atmosfera, gli scrittori originali sono da minor numero compresi che non i mediocri; il merito loro è più spesso revocato in dubbio, perchè offrono quasi tanti appigli alla censura quanti all’ammirazione.

Il Tasso va appunto fra coloro, per cui l’imitazione prende il luogo dell’ispirazione, e che, procedendo non per istinto ma per arte, fan continuamente accompagnare la poesia che ricompone dalla critica che decompone.

L’epopea, che ne’ poeti cavallereschi non erasi data altra missione che il capriccio, altra legge che il talento, Torquato la prese sul serio. Quest’anima ordinata, e di sentimento soave più che robusto, libra lungamente qual delle crociate sceglierà per tema; non comprende la morale necessità, nè la sociale importanza di esse: e i due loro supremi moventi, il cristianesimo pericolante e la pericolante civiltà; le dipinge ordinate e capitanate, come sarebbero potute farsi nel Cinquecento. Innamorato della regolarità virgiliana, restringe quel gran quadro entro simmetrica cornice; tutto riduce ad ordine, perchè ordine era la sua mente; a ragione, in luogo di fantasia; a calcoli, invece d’entusiasmo. Un’impresa, cui carattere fu lo scompiglio dell’entusiasmo, egli cangiò in azione di principe assoluto, e que’ paladini in cortigiani; v’è un capitano che dirige e comanda; v’è disciplina nelle marce, gerarchia nelle parate; i duelli son combattuti con tutte le regole; sempre la reminiscenza invece della fantasia, le raffinatezze invece dell’impeto.

Prima d’ordire il suo poema, il Tasso, tormentato dal dubbio delle regole, dalla timidità delle poetiche, avea studiato Aristotele, analizzati Omero e Virgilio; ogni poetica che uscisse, egli volea vederla e scrisse Discorsi sull’epopea, ove dice che «i poemi eroici, e i discorsi intorno all’arte, e il modo del comporli, a niuno ragionevolmente dovrebbono esser più cari, che a coloro i quali leggono volentieri azioni somiglianti alle proprie operazioni ed a quelle de’ lor maggiori: perciocchè si veggono messa innanzi quasi una immagine di quella gloria per la quale essi sono stimati agli altri superiori; e riconoscendo le virtù del padre e degli avi, se non più belle, almeno più ornate con varj e diversi lumi della poesia, cercano di conformar l’animo loro a quello esempio; e l’intelletto loro medesimo è il pittore che va dipingendo nell’anima a quella similitudine le forme della fortezza, della temperanza, della prudenza, della giustizia, della fede, della pietà, della religione, e d’ogni altra virtù la quale o sia acquistata per lunga esercitazione, o infusa per grazia divina»7. Forse questi studj tardarongli il bisogno d’accorgersi d’un senso profondo, al difetto del quale cercò supplire con un’allegoria; oscura superfluità, dove non propone al pensiero che la psicologia, sceverandola dalla storia e dalla metafisica, le idee separando dal loro principio e dall’applicazione.

Com’è pio Enea, così pio dev’essere Goffredo; nè soltanto virtuoso come gli eroi di Bernardo Tasso, ma anche religioso. Perchè gli amori formano il viluppo dell’Eneide, così dev’essere qui; e dopo che nei primi due canti ci spiegò innanzi la maestosa marcia di tutta Europa e le opposizioni preparate dall’Asia e dal popol misto d’Affrica, eccolo impicciolirsi nel rinterzato romanzo di Tancredi amato da Erminia e amante di Clorinda, e in quel di Rinaldo vagheggiante Armida. Un concilio degli Dei d’Averno si risolve in mandare una fanciulla a sedurre qualche cavaliero. L’incantagione della foresta che somministrava il legname per le macchine, sospende l’impresa, finchè attraverso all’Atlantico due messaggieri, non contraddistinti che dal nome, vanno a svellere dalla voluttà Rinaldo, affinchè giunga di sì lontano a recidere una pianta. Allora tutto si ravvia prosperamente; Gerusalemme è presa; è sciolto il voto alla tomba di Cristo: ma la riconciliazione d’Armida con Rinaldo è solo lasciata indovinare, è incerta la sorte d’Erminia.

Questi amori, che riempiono due terzi del poema, atteggiano a mollezza un’impresa tutta di vigoria, e quella regolarità la riduce simile alle tante spedizioni, a’ tanti assedj, che la storia ricanta. Anzi spera che, quando che sia, possano rinnovarsi per togliere al fiero Trace la grande ingiusta preda, quasi a ciò la politica determinar potesse dopo mancata fede; quasi l’impresa di tutta Europa ispirata dal cattolicismo potesse venir ridesta da quel principotto che a Torquato dava pane, mortificazioni, prigionia.

Nulla intendendo dell’età feudale, il Tasso fallisce ad ogni convenienza di persone e di età; i caratteri disegna sol di profilo, e ai personaggi pone in bocca sentimenti nobilissimi, ma quali usavano alle corti del suo tempo. Goffredo è capitano perfetto ma troppo inaccessibile alle passioni; Tancredi, cavaliere compiuto, si smaschia in amori che nol portano ad altamente operare, ma a femminei lamenti; Rinaldo, bizzarro e passionato, trae unica impronta dal destino che lo serba a uccidere Solimano, e divenir padre dei duchi estensi. Nè vigoroso quanto bastasse per uscire di sè, trasformarsi negli eroi che descrive, sentire com’essi, come la loro età, il Tasso al soprannaturale del pensiero surroga quel dell’immaginazione; dalle stregherie de’ suoi tempi toglie a prestanza un meraviglioso vulgare, mentre i Crociati nella loro concitazione vedeano Dio e Santi dappertutto, e apparimenti di angeli nei fenomeni della natura.

Il cristianesimo in lui è di pallidi colori e di semplici contorni; si arresta alle esteriorità, alle processioni, alle litanie; nulla di elevato e potente sopra la civiltà e l’umanità. Neppur caldo cittadino si mostra, perchè cortigiano; segue il suo secolo, non se lo trae dietro. Pagò poi largo tributo al genio piacentiero dell’età sua8, spiegando le vele nel mar delle lodi; al gusto di quella profuse i concettini, di cui a gran torto il vollero inventore; nella grazia artifiziata del suo lavoro spigolando le bellezze di tutti i predecessori, o le fraintende, o esagerando le corrompe; le situazioni affettuose guasta colle arguzie e coll’eccesso. Anche la lingua, a tacer le frequenti scorrezioni, è troppo lontana dal sapore toscano, e l’ottava, se talvolta suona dolcissima come nell’episodio di Erminia9, troppa dista dalla facilità e dalla magnificenza dell’Ariosto.

Il soggetto lo porta a situazioni confacenti col suo sentire? Allora è veramente artista, come negli episodj d’Olindo e Sofronia, d’Erminia, d’Armida, tanto ben trovati quanto fuor di luogo; nè la poesia di verun paese ha situazione meglio immaginata che la morte di Clorinda.

Però a grandezza vera non ergesi mai, le occasioni poetiche lascia sfuggirsi, in modo visibile fin ai mediocri. Camoens doveva insegnargli a far grandeggiare la propria nazione: ma benchè Tancredi e Boemondo gliene offrissero il destro, dell’Italia non fa cenno forse che in due o quattro versi. Avrà a dipingervi il paradiso? Traduce il sogno di Scipione, egli cristiano10; come le ambascerie negli atti e nelle parole copieranno Tito Livio; Goffredo non saprà riconfortar il campo se non colle frasi di Enea; il viaggio traverso al Mediterraneo e coll’Atlantico è ricalcato su quel d’Astolfo nell’Ariosto; dalla scienza cavalleresca dell’età sua stilla la descrizione dei duelli11; dai libri di retorica i compassati discorsi; da quei di morale scolastica le pompose sentenze del suo Buglione.

Eppure quest’opera, sebbene non popolare come l’Iliade, ma aristocratica e monarchica come l’Eneide, ogni colto Italiano lesse per la prima, la sa a mente, la udì cantare sulla spiaggia di Mergellina e nelle gondole di Venezia; tanto sopra un popolo sovranamente musicale ha efficacia l’armonia poetica che vi domina da capo a fondo! Ma quello che rende popolare il Tasso sono gli episodj; prova che sono sconnessi dal tutt’insieme, e proprj di qualsivoglia età; siccome quel tono sentimentale, quell’elegiaco, che egli non depone neppur nella voluttà. Onde va guardato come precursore di quelli che, principalmente ai giorni nostri, introdussero la sistematica melanconia; e, quasi la malattia del pensare deva appassire il fiore della vita, empirono la poesia di mestizia e di guaiti sulle proprie sventure o sulle altrui ingiustizie; carattere di tempi fiacchi e d’anime deboli, che, non sapendo reluttare ai mali, nè dedurre forza dalla lotta, risolvono il pianto in meste armonie, simpatiche a chi loro somiglia. Già quell’aria si sente nel Rinaldo ove il Tasso conchiudeva:

               Così scherzando io risonar già fea
                    Di Rinaldo gli ardori e i dolci affanni,
                    Allor che ad altri studj il dì togliea
                    Nel quarto lustro ancor de’ miei verd’anni;
                    Ad altri studj, onde poi speme avea
                    Di ristorar d’avversa sorte i danni;
                    Ingrati studj, dal cui pondo oppresso,
                    Giaccio ignoto ad altrui, grave a me stesso.

Quella soave melanconia lo stacca insignemente dal fare burlevole de’ suoi contemporanei, quanto l’aver preso il lato nobile e serio della cavalleria che gli altri trattarono da celia; pretendendo frenare le caprestrerie della cavalleresca coll’epopea classica, unire il Trissino e l’Ariosto, il raziocinio e l’immaginativa, coll’interesse sempre sostenuto, con ostacoli via via crescenti fin ad una catastrofe, alla quale non toglie curiosità l’esser già nel titolo annunziata; sicchè come arte, come romanzo, è stupendamente composto. Pertanto riesce tanto caro, che il censurarlo dispiace, quanto il dire i difetti d’un amico. Anima buona, amorevole, gemebonda, senza la forza che fa reluttare ai mali e ringrandisce nelle patite ingiustizie; la sensibilità formò il suo merito e la sua espiazione; e il secol nostro, cui più non si confaceva la forma del suo poema, si accorò alla persona di lui ed ai misteriosi suoi sofferimenti.

Giovinetto, patì delle vicende di suo padre.

               Me dal sen della madre empia fortuna
               Pargoletto divelse. Ahi! di que’ baci
               Ch’ella bagnò di lacrime dolenti
               Con sospir mi rimembra, e degli ardenti
               Preghi che sen portar l’aure fugaci;
               Ch’io giunger non dovea più volto a volto
               Fra quelle braccia accolto
               Con nodi così stretti e sì tenaci.
               Lasso! e seguii con mal sicure piante
               Quale Ascanio o Camilla il padre errante.

Il Tasso, qual da sè stesso e dall’amico Manso, è descritto, era di volto bianco pallido, capelli castani, barba bionda e folta, testa grande ovale, lineamenti civili in aria donnesca, che indica molto sentimento e pendenza al fantasticare; occhi grandi cilestri, vivaci, tagliati a mandorla, come di chi guarda dentro di sè piuttosto che attorno. Alta persona e nobilmente portata, petto ampio, braccia lunghe e nerborute con mani morbide; gambe asciutte, temperamento sanguigno; tutt’insieme l’aria d’un gentiluomo, unita all’espressione dell’uomo d’ingegno, che diffida degli uomini, eppure gli ama e non sa scostarsene e desidera l’applauso anche de’ mediocri. Egli si qualificava «uomo ozioso nello studio e studioso nell’ozio».

L’indole sua e le prime abitudini lo trassero, anzichè alla vita indipendente, a servire ai principi, del che allora faceansi vanto i gentiluomini, come ora del non aver mai respirato aura di Corte. E mal fu ripagato della immoralità di cui esso li regalò.

Entrato di soli 22 anni (1565) nella Corte d’Alfonso II di Ferrara (al cui fratello cardinal Luigi avea dedicato il Rinaldo) assistette alle feste scialose ivi frequenti e se n’esaltò12: l’Aminta vi fu rappresentata la primavera del 73, nel 75 finiva il Goffredo; e il duca che aveagli conferito la cattedra di geometria nell’Università, l’incaricò di continuare la Storia de’ principi d’Este del Pigna ch’era stato suo segretario; fu col cardinale in Francia, accolto cordialmente, massime dal poeta Ronsard; amò Lucrezia Bendidio, poi Eleonora Sanvitale contessa di Scandiano, e forse riamato da Eleonora sorella del duca.

Era possibile che non fosse invidiato, e quindi calunniato? Egli medesimo s’indispetti qualche volta della protezione; nella conoscenza del proprio merito parevagli esser vilipeso dai valletti, contrariato ne’ suoi amori; la diffidenza come un’idea fìssa lo perseguitava; credeva gli s’intercettassero le lettere, si rovistasse il suo scritojo: Scipione Gonzaga tiene in sua casa convegni dove si disputa del merito delle opere di esso, ed egli dubita di burle; dubita di Orazio Ariosto che lo loda; dubita del conte Tassoni che a Modena lo distrae; dubita del cardinale Medici che gli esibisce ricovero a Firenze se gli Estensi lo abbandonassero; ed or piagnucola, ora stizzisce; e perchè il servidorame ride delle sue bizzarrie, e i cortigiani godono deprimere colla compassione quel che li mortifica coll’ingegno, egli dà schiaffi, tira coltellate, prorompe in parole ingiuriose al duca. Questo lo tiene alcun tempo in cura, poi presto gli restituisce la libertà ma col divieto di scrivere, ed egli da immaginarj pericoli fugge travestendosi, va a Napoli, a Venezia, a Padova13, a Mantova, a Torino; da per tutto ben accolto, sempre andando e non mai giungendo, sempre in dolori e paure; sta per accettare l’invito del granduca, ma pur torna a Ferrara (1579) e continua le stranezze, cui s’aggiungono scrupoli religiosi.

Già all’inquisitore di Bologna il Tasso aveva accusato sè stesso di dubbj intorno all’incarnazione, e quello avealo rimandato col «Va in pace, malato». Gli risorsero que’ dubbj, e il duca gli consigliò di presentarsi al Sant’Uffìzio, che di nuovo l’assicurò o d’innocenza o di perdono; il duca stesso accertollo di non aver nulla contro di lui: ma il Tasso avea trovato quell’assicurazione non essere in forma; non bastante l’esame degl’inquisitori, e smarrivasi in sottigliezze, e dava a rider colle bizzarrie; sicchè la sua ragione parendo assolutamente offuscata, Alfonso lo fece chiudere nell’ospedale di Sant’Anna.

È uno dei temi più divulgati per declamare sulla tirannide dei mecenati e sui patimenti dell’uomo di genio; e persone di senno consumarono libri per accertare la causa di quella disgrazia, e per iscoprire l’arcano di cui egli stesso mostravasi geloso allorchè scriveva: — Amico, non sai che Aristone giudicava niun vento esser più nojoso di quello che toglie altrui d’attorno la cappa? Or intendi che la prudenza ha per mantello il segreto».

In fatti, sebben tanto parlasse di sè, il Tasso lascia incertissimi sulle intime sue condizioni e sulla causa di sue ambasce; ma convince ch’egli soffriva d’allucinazioni; da sè confessasi pazzo14; cerca guarire or consultando i medici migliori e il famoso Mercuriale15, or usando rimedj taumaturgici, quali la manna di Sant’Andrea; ma perchè lo scattolino arriva aperto, egli teme sia veleno, e lo ricusa. Sopratutto si duole della svanita memoria, e la meravigliosa sua lettera a Scipione Gonzaga, del 1579, non è d’un frenetico, ma neppure d’una mente sana.

Gli sta fissa l’idea d’esser perseguitato, ma per quali accuse? In tale indagine passa in rassegna tutte quelle che mai possano essergli apposte; falli di gioventù, eresie, e la più vaga di tutte, quella di fellonia16. Poi rivolgendosi a Dio, si scagiona delle incredulità: — Non mi scuso io, o Signore, ma mi accuso che, tutto dentro e di fuori lordo e infetto di vizj della carne e della caligine del mondo, andava pensando di te non altramente di quel solessi talvolta pensare alle idee di Platone e agli atomi di Democrito.... o ad altre siffatte cose di filosofi; le quali il più delle volte sono piuttosto fattura della loro immaginazione che opera delle tue mani, o di quelle della natura, tua ministra. Non è meraviglia dunque s’io ti conosceva solo come una certa cagione dell’universo, la quale, amata e desiderata, tira a sè tutte le cose; e ti conosceva come un principio eterno e immobile di tutti movimenti, e come signore che in universale provede alla salute del mondo e di tutte le specie che da lui son contenute. Ma dubitava se tu avessi creato il mondo, o se ab eterno egli da te dipendesse; se tu avessi dotato l’uomo d’anima immortale; se tu fossi disceso a vestirti d’umanità.... Come credere fermamente ne’ sacramenti o nell’autorità del tuo pontefice, se dell’incarnazione del tuo figliuolo o dell’immortalità dell’anima era dubbio?... Pur m’incresceva il dubitarne, e volentieri l’intelletto avrei acchetato a credere quanto di te crede e pratica la Santa Chiesa. Ma ciò non desiderava io, o Signore, per amore che a te portassi e alla tua infinita bontà, quanto per una certa servile temenza che aveva delle pene dell’inferno; e spesso mi sonavano orribilmente nell’immaginazione l’angeliche trombe del giorno de’ premj e delle pene, e ti vedeva seder sopra le nubi, e udiva dirti parole piene di spavento: Andate maledetti, nel fuoco eterno. E questo pensiero era in me sì forte, che qualche volta era costretto parteciparlo con alcun mio amico o conoscente...; e vinto da questo timore, mi confessava e mi comunicava nei tempi e col modo che comanda la tua Chiesa Romana: e se alcuna volta mi pareva d’aver tralasciato alcun peccato per negligenza o per vergogna, replicava la confessione, e molte fiate la faceva generale. Nel manifestare nondimeno i miei dubbj al confessore non li manifestava con tanta forza nelle parole, con quanto mi si facevano sentir nell’animo, perciocchè alcune volte era vicino al non credere.... Ma pure mi consolava credendo che tu dovessi perdonare anche a coloro che non avessero a te creduto, purchè la loro incredulità non da ostinazione e malignità fosse fomentata; i quali vizj tu sai, o Signore, che da me erano e sono lontanissimi. Perciocchè tu sai che sempre desiderai l’esaltazione della tua fede con affetto incredibile, e desiderai con fervore piuttosto mondano che spirituale, grandissimo nondimeno che la sede della tua fede e del pontificato in Roma sino alla fin de’ secoli si conservasse; e sai che il nome di luterano e d’eretico era da me come cosa pestifera abborrito e abominato, sebben di coloro che per ragione, com’essi dicevano, di Stato vacillavano nella tua fede e all’intera incredulità erano assai vicini, non ischiarì alcuna fiata la domestichissima conversazione».

Queste erano allucinazioni parziali; ma benchè avesse scritto «non convenire per le ingiustizie degli uomini i buoni ingegni avvilirsi, ma doversi separare dal vulgo con l’altezza dell’animo e con gli scritti, nei quali ha poca forza la fortuna, nessuna la potenza dei grandi», pure il Tasso non cessava di far lamenti o diriger suppliche in versi o in prosa agli amici o al suo oppressore.

Mai forse non aveva poetato sì nobilmente come in questa canzone al suo duca:

               O magnanimo figlio
                    D’Alcide glorioso,
                    Che ’l paterno valor ti lasci a tergo,
                    A te, che dall’esiglio
                    Prima in nobil riposo
                    Mi raccogliesti nel reale albergo;
                    A te rivolgo ed ergo
                    Dal mio carcer profondo
                    Il cor, la mente, gli occhi;
                    A te chino i ginocchi,
                    A te le guance sol di pianto inondo,
                    A te la lingua scioglio;
                    Teco, ed a te, ma non di te mi doglio.
                    
               Volgi gli occhi clementi,
                    E vedrai dove langue
                    Vil vulgo, ed egro per pietà raccolto,
                    Sotto tutti i dolenti
                    Il tuo già servo esangue
                    Gemer, pieno di morte orrida il volto,
                    Fra mille pene avvolto,
                    Con occhi foschi e cavi,
                    Con membra immonde e brutte,
                    E cadenti ed asciutte
                    Dell’umor della vita, e stanche e gravi,
                    Invidiar la vil sorte
                    Degli altri, cui pietà vien che conforte.
                    
               A voi parlo, in cui fanno
                    Sì concorde armonia
                    Onestà, senno, onor, bellezza e gloria;
                    A voi spiego il mio affanno,

                    E della pena mia
                    Narro, e ’n parte piangendo, acerba istoria,
                    Ed in voi la memoria
                    Di voi, di me rinnovo;
                    Vostri effetti cortesi,
                    Gli anni miei tra voi spesi;
                    Qual son, qual fui, che chiedo, ove mi trovo,
                    Chi mi guidò, chi chiuse,
                    Lasso! chi m’affidò, chi mi deluse.
                    
               Queste cose rammento
                    A voi piangendo, o prole,
                    D’eroi, di regi gloriosa e grande:
                    E se nel mio lamento
                    Scarse son le parole,
                    Lagrime larghe il mio dolor vi spande.
                    Cetre, trombe, ghirlande,
                    Misero, piango, e piango
                    Studj, diporti, ed agi,
                    Mense, logge, e palagi,
                    Ov’or fui nobil servo ed or compagno;
                    Libertade e salute,
                    E leggi oimè! d’umanità perdute.

Non esaudito, abbandonato dagli uomini, credette che Maria stessa con san Benedetto e santa Scolastica gli comparissero per consolarlo17.

Peggiori strazj l’aspettavano in ciò che ad un autore è più caro, la reputazione. Perocchè, mentre egli era tenuto rinchiuso, alcuno pubblicò il poema di lui (1580), non solo mancante di quegli ultimi tocchi che l’autore suol dare all’atto della stampa, ma scompleto e scorrettissimo. In miglior guisa fu poi riprodotto; e in sei mesi del 1581 se ne fecero quattro edizioni; diciotto in cinque anni. Le bellezze reali del poema e le sventure del poeta fecero che alcuni di quelli che non sanno lodare uno senza deprimere un altro, lo dichiarassero superiore dell’Orlando Furioso; altri, o per ammirazione all’Ariosto, o per l’invidia che volentieri attacca le opere nuove, o per quei bassi istinti che sono proprj de’ giornalisti d’adesso come dei grammatici d’allora, fecero del poema quello strazio ch’è sì facile a chi si proponga non di valutar il merito vero, ma di scoprire ed esagerare i difetti.

Non parlando di coloro che mai non perdonano ai buoni18, la Crusca, inclinata come tutte le Accademie a valersi dei morti che non recano ombra per mortificare i vivi invidiati, gli antepose il Pulci e il Bojardo, proclamando la libertà dell’orditura, censurando a minuto i caratteri, gl’incidenti, lo stile19, e Leonardo Salviati, che in due volumi aveva lambiccato lo stil del Boccaccio, sottilizzò su quello del Tasso, cominciando dall’armi pietose. Altre censure uscirono, più grammaticali che estetiche, smodate al par delle lodi, e sempre intorno alla forma; ma chi tolga la scortesia de’ modi e la sofisticheria cui reca sempre il meschino proposito di volere scoprir mende, molti appunti rivelano, se non elevatezza di vedere, un gusto più fino che non siamo avvezzi a supporlo nel Seicento. Il gran Galileo vi fece delle considerazioni, a cui egli, pubblicandole, avrebbe tolto l’asprezza del primo getto, se non avesse fatto ancor meglio, cioè seppellirle: e sebbene non sorga al concetto generale dell’essenza poetica dell’epopea, e a confrontare l’indole del soggetto col modo onde fu trattato, pure si allarga ne’ riflessi: di scarsa vena trae indizio dalla poca connessione delle idee, dalla meschinità delle cose descritte, qualificandolo fin di «secchissimo, infelicissimo, miserabilissimo scrittore», paragonandolo al gabinetto ove un curioso collocò oggetti, forse apprezzati per antichità o per altro, ma che al mondo non sono che coselline; camaleonti disseccati, mosche nell’ambra, fantoccini scavati dalle tombe d’Egitto, qualche schizzetto di Baccio Bandinelli o del Parmigianino: mentre l’Orlando pargli una grande guardaroba, un’immensa tribuna, una galleria regia con cento statue de’ più valenti scultori, e vasi, cristalli, agate, lapislazzuli ed altre meraviglie20.

Del resto il farne il tipo dell’ingiustizia critica è esagerazione. Mentre il poeta languiva nel tristo carcere, tutta Europa prendeva interesse a’ suoi patimenti21; segni di stima e d’affetto gli erano profusi da ogni parte; di lui parlano molte poesie del tempo22; Aldo Manuzio stampatore, Muzio Manfredi tragico, i genovesi Gustavini letterato e Bernardo Castelli pittore teneangli spesso compagnia; ivi contrasse durevole amicizia col padre Angelo Grillo e con Antonio Costantini: il cardinale Alberto d’Austria, l’imperatore Rodolfo, il granduca e la granduchessa di Toscana, i papi Gregorio XIII e Sisto V, il duca d’Urbino, la duchessa di Mantova col figlio, il principe di Molfetta, il signor di Sassuolo, la città di Bergamo supplicavano per la sua liberazione. In sei mesi comparvero sei stampe del Goffredo; diciotto in cinque anni; ed una in Francia, dove era veneratissimo, e dove Balzac, dispensiero della gloria, diceva che «Virgilio è causa che il Tasso non sia il primo, e il Tasso è causa che Virgilio non sia solo», benchè il rimproveri perchè mescola il sacro al gentilesco, e come il suo Ismeno, «sovente in uso empio e profano confonde le due leggi a sè mal note». Malherbe non saziavasi d’ammirare l’Aminta23, e avrebbe dato (dice Ménage) tutto un mondo per esserne l’autore. In Italia il Tasso ebbe per lo meno tanti difensori quanti aggressori; e ruppero lancie per lui Giulio Gustavini, l’Iseo, Nicolò degli Oddi, Malatesta Porta, Alessandro Tassoni, Giambattista Marini, Camillo Pellegrini, Giulio Ottonelli, Paolo Beni. Che se il Salviati, anche col nome di Ormanozzo Rigoli, Orlando Pescetti, Giovanni Talentoni, Orazio Ariosto, Lodovico del Pellegrino, Francesco Patrizio, Gian dei Bardi, Orazio Lombardelli il combattevano, serbavangli però altissimo seggio, giacchè disputavano qual fosse superiore esso o l’Ariosto.

Ma l’Ariosto è il poeta del libero slancio, della fantasia apparentemente sbrigliata; rinterza quattro o cinque avvenimenti contemporanei, e tutto si fa perdonare colla lucida eleganza e l’animata soavità. Il Tasso non sa ribellarsi nè alla Crusca nè ad Aristotele nè all’opinione, ma si sottomette alle credenze, agli usi, ai precetti. L’Ariosto non bada nè ad Omero nè a Virgilio, ma al proprio capriccio; si ride del soggetto, degli uditori, di sè stesso; maneggia la lingua da padrone e padrone ricchissimo. Il Tasso s’assoggetta al desiderio de’ dotti contemporanei, che voleano ripristinar la grammatica e la poetica antica; non dà un passo se nol giustifichi cogli esempj; non un viluppo arrischia se non serva a tardare o svolgere l’azione principale; e il suo riprodurre i classici non consiste in reminiscenze, come avviene a Dante e all’Ariosto, ma in imitazioni fino al plagio; e quel continuo imitare elide l’impressione d’un’epica originalità. Canta armi e cavalieri, ma rimovendo l’ironia per ridursi sentimentale e galante; cerca lo splendore più che l’originalità e l’avventuroso; poeta della grazia artifiziata, della forma plastica inalterabile, povero nella lingua, zoppo nell’ottava, dando ai Secentisti l’esempio del descriver per descrivere e dell’iperbole. L’Ariosto esprime la reviviscenza pagana al tempo de’ Medici, con quell’innamoramento della forma esteriore, della vaghezza corporea, e la foga de’ sensi e della vita, e il barbaglio delle fantasie: disgusta colla lubricità studiata; non rispetta Dio nè la religione, osserva con ironia gli uomini e attesta la corruzione che produsse Lutero. Il Tasso fa sentire che la riforma cattolica era cominciata: permettesi appena qualche lenocinio di Corte depravata; sempre in tono di convinzione, sebbene profitti della macchina cavalleresca coi duelli e colle magie, indica il ritorno dello spirito cristiano nella devota proposizione, nella religiosità di quei cavalieri, nelle processioni, nella compunzione, nella costante dignità di eroi, benchè affascinati dalla verga romanzesca, e ribattezzati nel lavacro di Trento.

Se nonchè da fantasia e memoria lascia usurpare troppo spesso il luogo della fede reale; i prodigi oscillano fra il miracolo e la spiegazion naturale; Musulmani e Cristiani adoprano il linguaggio stesso, amano allo stesso modo. Tanta mescolanza di falso e di fittizio, tanta morbosa dolcezza rivelano il languore che invadeva la letteratura come la nazione, riducendola a falsa retorica, a poesia dotta, come quando è perduto il senso della poesia creatrice.

Ma se la fantasia più vivace, le invenzioni più abbaglianti, una più vasta concezione, una maggior libertà ci fanno ammirare altri, nel Tasso amiamo quella mesta armonia insinuante, quelle voci di cuore, quel gusto della simmetria, quel far convergere tutte le forze cristiane a un fine grande, al quale mettono capo le molteplici avventure. E que’ sentimenti sono ancora d’oggi, più che non le cupe architetture di Dante o il caleidoscopio dell’Ariosto: la gran quistione del ricuperar la terra ove nacque la civiltà e fu compita la redenzione, non è per anco risoluta; laonde le simpatie son tuttavia assicurate a Torquato, nel quale, se volete, amiam pure i difetti e le piccolezze, perchè il gusto di scoprirle ci toglie la mortificazione d’un confronto trascendente.

Torquato scese a difendersi, o piuttosto a confessarsi in colpa, giacchè insiste continuo sul non aver avuto campo di limare il poema suo: — Non l’ho riveduto; giovane, presi il condimento per nutrimento; a voler confutare le critiche dovrei confutar me stesso, che già più volte dissi altrettanto sulle affettazioni, sui giochetti, sui pensieri lambiccati»24. E diede causa vinta agli avversarj col rifonder l’opera de’ suoi migliori anni in un poema quasi nuovo, dove la verità storica meglio rispettò; corresse alcuni accidenti repugnanti; a scene d’amore voluttuoso ne sostituì di conjugale e paterno; destò interesse per Argante, facendolo difensore della patria, della religione, della moglie, de’ figli; di Ruggiero surrogato a Rinaldo, trasportò l’incantevole prigione sul Libano, sicchè l’inutile viaggio che i due appena nominati fanno per ricercarlo traverso all’Oceano è mutato in una corsa di amici suoi che vanno a toglierlo da quel monte: la flotta, ch’era parte sì principale della spedizione, non è più dimenticata, e si pugna sul mare come in terra; i lunghi ed infelici amori d’Erminia soppresse.

Chi paragonasse l’un poema coll’altro avrebbe un bello studio di stile; ma spesso sentirebbe indebolita la mente di Torquato. Il titolo di conquistata è assai men proprio che quel di liberata; massime che nella protasi, rimovendo le censurategli arme pietose, preconizzava:

.... l’arme e ’l cavalier sovrano,

Che tolse il giogo a la città di Cristo25.

Cantici sacri quasi letteralmente tradotti pose nel primo canto ove Gerusalemme invoca il Signore, mostrandogli la sua depressione; nel quarto allorchè i Crociati vedendo la Città Santa, le intuonano il Surge, Jerusalem, illuminare, quia venit lumen tuum; e in molti altri luoghi. Se però la storica fedeltà v’è cercata in particolari di poco rilievo, realmente non v’è per nulla riconosciuta l’importanza e la verità di quella spedizione. Servilmente calca le orme di Omero, che sembra allora soltanto avere conosciuto; e quanto ne rimanga addietro basta a mostrarlo la infelicissima imitazione dell’addio di Ettore e Andromaca, dove il nostro sfronda tutte le bellezze dell’originale, oltre l’assurdo di fare affettuoso padre e marito quell’Argante, cui carattere era un bestial valore. Passi bellissimi della Liberata son tolti via dalla Conquistata, per surrogarne di freddi e insulsi; lo stile è costantemente peggiorato; reso talora più duro e tronfio il verso, e intanto conservati i principali difetti e forse tutte le antitesi, i pleonasmi, i raddoppiati aggettivi, gli emistichj superflui, le allambiccature nell’espressione degli affetti. Nel sogno, ove Goffredo vede il regno di Dio e le sedi preparate agli eletti, il poeta, per figurar la beatitudine, non era ricorso alle sublimità profetiche, neppur alla tradizione popolare, ma, come dicemmo, limitossi a tradurre il ciceroniano sogno di Scipione. Sentì la sconvenienza, e nella Conquistata le immagini dedusse da Ezechiele, da san Paolo, da altri santi, benchè non felicemente se ne valesse. Sul cominciare esclama:

               Lunge siate, o profani, e voi c’addugge
                    L’ombra di morte e ’l cieco orror d’inferno,
                    Che ricercate pur latebre ed ugge
                    Al peccar vostro ed al nemico interno;
                    E voi, ch’il vago amore infiamma e strugge,
                    O l’odio indura al più gelato inverno.
                    Ma chi di santo ardor mi purga il labbro
                    Se l’opre or narro del celeste fabbro?

Goffredo scorge l’Amor divino e l’Amor terreno, colle varie opere loro, delle quali le immagini si presentano in visione al capitano, che, per una scala simile a quella di Giacobbe, monta al cielo, ove trova Eustazio, che gli mostra la reggia e il soglio dell’Eterno. Bel concetto che poi dilava in troppe stanze, e conclude sciaguratamente imitando i poeti anteriori col far che Goffredo scorga le sedi destinate a sè, a principi, a prelati, a guerrieri, di sollucherar i quali prende da ciò occasione.

Ma è colpa de’ critici se il vigor suo era svanito? La Conquistata fa la figura d’un bel giovane, al quale un artista col coltello e colle tenaglie avesse levato qua, allungato là per renderlo meglio proporzionato. I posteri che dimenticarono la prima edizione dell’Orlando Furioso (1532) per l’ultima tanto migliorata, lasciarono giustamente da banda la Gerusalemme Conquistata per rileggere la Liberata, benchè di questa egli si mostrasse pentito, e «alieno, come padre dai figli ribelli, e sospetti di esser nati da adulterio».

Nè qui son tutte le opere del Tasso. La favola boschereccia l’Aminta è forbitissima poesia, tutta venustà di parole, di versi, di stile, di concetti, benchè questi siano spesso sottilizzati troppo più che non s’addica a pastori e a satiri; ed anzichè la rapidità del movimento drammatico e la sospensione delle interessanti situazioni, sono a cercarvi la bellezza e la tranquilla pompa della poesia.

Volle emularlo Giambattista Guarini ferrarese (1537-1612) col Pastor Fido, tratto dall’avventura di Coreso e Calliroe di Pausania; e l’intitolò tragicommedia perchè di fine infelice. Vi lavorò attorno ventun anno; l’azione è protratta per seimila versi in dialoghi lenti, riflessioni superflue, luoghi comuni e scene sconnesse: ma il frequente calore della passione e della favola, larga, interessante, il buon intreccio a guisa di vera tragedia trasferita dalla reggia nei campi, gli assegnano un bel posto, sebbene ignori l’arte suprema della drammatica, il tener viva la curiosità. Porlo a petto dell’Aminta è ingiustizia, perocchè ai difetti medesimi, alla maggior raffinatezza nei pastori, tramutati in personaggi d’anticamera, alle arguzie più lambiccate, unisce l’evidente imitazione di Torquato, il quale a ragione potè dire: — E’ non sarebbe giunto a tanto se non avesse veduto me». L’impressione inoltre n’è pericolosissima, quantunque, nel descrivere l’età dell’oro, il Guarini abbia voluto opporre buona morale alla scorretta del Tasso26.

La tragedia del Torrismondo, della quale appena pubblicata si fecero dieci ristampe, fondata s’un amore incestuoso di fratello, tiene degl’intrecci romanzeschi che allora piacevano, e degli orridi che oggi ripiacciono, poichè pone a contrasto l’amore e l’amicizia: molta parte, sebbene non integrante, vi ha il coro e in conseguenza la lirica, la quale pure campeggia in molte parlate e sentenze; pure gli accidenti vi sono intralciati, inverosimili, precipitati, lunghi i discorsi, inopportune le descrizioni, e quello sfoggio di lirica guasta i parlari passionati.

I sonetti e le canzoni del Tasso diconsi i migliori dopo il Petrarca, ma chi ormai li legge? e pochi le lettere e le prose, chiare, inaffettate, ma senza forza, in una facilità che somiglia a negligenza. Benchè il Monti le chiami «fonti mirabili d’eleganza e di filosofia e di magnifica lingua sceltissima», stanca quel non procedere mai per ragionamento indipendente, mai per sentimento, bensì appoggiarsi continuo all’autorità di Aristotele, di Filopono, di Demetrio Falereo, di Orazio, di Quintiliano, e opporvi le objezioni di Seneca, di Macrobio, di Longino, di Socrate, di Boezio. Le più sono discussioni intorno alla poesia, che egli definisce «imitazione delle cose umane, a fine di ammaestramento o a fine di giovare dilettando; questo debb’essere il precipuo suo scopo. La descrizione di cose animate, come mare, campagne, tempeste, entrar vi dee per accidente, subordinato al mentovato primario suo fine»27.

Religioso sempre, e più negli ultimi anni, tentò anche un poema biblico. Le sette giornate del mondo creato, stucchevole come sempre riesce il descrivere senz’azione, quand’anche fossero minori le controversie e più vive le pitture, e quella fredda enumerazione non lasciasse sentire la fatica d’un poeta, anzichè la voce de’ cieli che narrano la gloria di Dio.

Dei difetti del Tasso ha colpa in parte l’indole di lui, uno di quelli che pajono predestinati a soffrire. Bisognoso d’uscir da sè stesso, di piacere alle donne, alla Corte, ispirazione principale de’ suoi canti; anche dopo scarcerato, non si senti forza di abbandonare i principj28, e raccogliersi nella dignità d’uomo grande. Nel luglio del 80 Alfonso lo consegnò al cognato principe di Mantova; e subito a Roma è ospitato dal cardinal Gonzaga, a Napoli dal Manso marchese di Villa.

Se si sentisse stanco della continua fatica di piacere, trovavasi senza affetti domestici, senza una dimora fissa; e andava vagando, ricevuto a onore dapertutto; i vescovi si pregiavano di ospitarlo, le città ne registravano sui loro fasti il passaggio29; Marco Sciarra, famoso capo di banda gli dà salvezza e compagnia; il papa gli assegna 200 scudi l’anno; a Firenze ha un’accoglienza popolare; Genova lo invitò a legger Aristotele in quell’Università «con la provvigione di quattrocento scudi d’oro fermi e altrettanti straordinarj»; eppure sempre pargli esser infelice, favella con uno spirito, cerca ricovero nell’ospedale de’ Bergamaschi a Roma; lamentasi de’ libraj indiscreti; per povertà non potea soddisfare innocentissimi gusti, e dovea vendere o impegnare i doni ricevuti30.

Querele e preghiere continuò finchè, per mezzo del cardinal Cintio Aldobrandini, il papa lo chiamò in Roma ad un onorato riposo, e a ricevere in Campidoglio l’alloro. Alloggiato dai monaci di Montecassino, — Se sventura ti preme (gli diceano) rimanti con noi; questo chiostro è avvezzo a ospiti illustri infelici». Egli rispondeva: — Sono avviato a Roma ad essere coronato poeta in Campidoglio, traendo meco, compagne al trionfo, povertà e malattia. Pure volontieri ci vado; perchè io amo quella città come centro della fede; poichè mio rifugio fu sempre la Chiesa; la Chiesa, madre mia, più tenera di qualunque madre».

Il Tasso vi s’indugiò tre giorni, sempre sentendo la necessità di veder la settima volta Roma «città che è la prima del mondo»; e temeva «non arrivarvi a tempo alla cerimonia, nè spero più rivedervi».

Fuor delle mura della metropoli cattolica l’attendeva gran turba di popolo; e cocchi, cavalieri, milizie: tutti faceano ressa di vederlo, di salutarlo. La carrozza del cardinal Cintio Aldobrandini l’accolse e lo condusse a Clemente VIII che gli disse: — Vi abbiamo destinata la corona d’alloro, affinchè sia da voi onorata quella che finora gli altri onorò».

Le pioggie ostinate del novembre 94 tolsero di far la solennità, che pertanto fu differita all’aprile. Ahimè! i giorni del poeta erano contati. Stremo di salute, non nei palagi degli Aldobrandini, ma si raccolse sul Gianicolo nel convento di Sant’Onofrio, su quell’altura così opportuna a contemplare la città delle glorie cadute. Lassù additano ancora la quercia dov’egli si riposava, e dove radunava i giovinetti san Filippo Neri, morto 31 giorni prima di lui.

Sentendosi finire, scriveva: — Il mondo ha pur voluto aver la vittoria di condurmi alla sepoltura mendico, quand’io pensava che quella gloria che, malgrado di chi non vuole, avrà questo secolo da’ miei scritti, non fosse per lasciarmi in alcun modo senza guiderdone. Mi son fatto condurre in questo monastero.... quasi per cominciar da questo luogo eminente, e colla conversazione di questi buoni padri, la mia conversazione in cielo».

E di cinquantun anno finì il 25 aprile 1595 come un santo.

Muori in pace, anima gemebonda, e lascia la scena al Marino, al gran ciarlatano, che alla simmetria virgiliana e petrarchesca surroghi la bizzarria mescolata di audacia e di pedantesco.

Il cardinale Cintio Aldobrandini fece rendergli solennissime esequie: vestito colla toga romana, coronato il capo d’alloro, fu tenuto esposto alcun tempo, poi recato processionalmente per Roma, accompagnato da tutta la Corte palatina e dalle famiglie dei due cardinali nipoti del papa. Fatti i funerali in Santo Spirito, fu deposto in Sant’Onofrio, presso all’altar maggiore, con lapide modesta. Il monumento che esso cardinale gli avea destinato non si eseguì. Il cardinale Bevilacqua di Ferrara ne fece poi dissotterare le ossa, e riporlo in cassa di piombo con piccolo mausoleo. Pio IX volle, col particolare peculio, ergergli un monumento più vistoso, in una cappella appositamente ornata; ove Giuseppe Fabris scolpì in bassorilievo i funerali, co’ ritratti de’ suoi amici e contemporanei; e al di sopra la statua in atto di invocar la «Musa che di caduchi allori non circonda la fronte di Elicona». In quel monumento, men degno e dello scultore e del poeta, il 25 aprile 1857, anniversario della morte del poeta, ne furono deposte le reliquie.




  1. A lei scriveva tra altre belle cose: — Non fate come per avventura fare a Torquato vostro alcune volte avete visto, che, sendogli tolto un pomo o alcun altro frutto per forza, tutti gli altri che si ritrovava in mano per dispetto ha in terra gettati; volendo voi per questo fuggire e gettar via ogni specie di consolazione e di piacere».
  2. Lettera 4 maggio a Girolamo Ruscelli: — Non dubito che lo scrittore di questa leggiadra e vaga invenzione (l’Amadigi del Montalvo) l’ha in parte cavata da qualche istoria di Bretagna, e poi abbellitala e ridotta a quella vaghezza che il mondo così diletta; e nel dare quel nome della patria ad Amadigi tengo per fermo che abbia errato, non per dar quella reputazione alla Francia, ma per non aver inteso quel vocabolo Gaula, il quale nella lingua inglese vuol dir Gallia. Nè io per altro (se non m’inganno) credo che il serenissimo re d’Inghilterra si faccia principe di Gaula nominare, che per le ragioni che detto re pretende d’avere sopra il regno di Francia. E che sia vero che l’autore si sia ingannato nell’interpretazione, o meglio dir traduzione di quella parola Gaula, e che chi prima scrisse questa istoria volesse intender della Francia, vedete nel libro II al cap. 20, dove Gaudanello, invidioso della gloria e grandezza d’Amadigi, dice al re Lisuarto queste parole: «Già sapete, signore, come gran tempo fu discordia fra questo regno della gran Bretagna e quel di Gaula, perchè di ragione quello dev’essere a questo soggetto, come tutti gli altri vicini vi sono, e ci conoscono voi per superiore». Dalle quali parole si può agevolmente conghietturare, che costui non volesse intendere d’altro regno che di quello di Francia. Ma perchè potrei facilmente come in molte altre cose ingannarmi per non aver pratica delle cose d’Inghilterra più che tanto, vi supplico che, avendo comodità o dall’ambasciadore d’Inghilterra o da altri che più di questo particolare vi possino dar notizie, d’informarvene, emne scriviate».
  3.                Musa, che in rozzo stil meco sovente
                        Umil cantasti le mie fiamme accese,
                        Sicchè, stando le selve al suono intente,
                        Eco a ridir l’amato nome apprese;
                        Or che ad opra maggior muovo la mente
                        Ed audace m’accingo ad alte imprese,
                        Ver me cotanto il tuo favor s’accresca
                        Ch’all’addoppiato peso egual riesca.

    È la seconda stanza del poema.

  4. Dal Capurro a Pisa nel 1831 furono stampate le postille sue alla Divina Commedia, fatte con indipendenza, ma pedantesche.
  5. Lo cominciò di 19 anni. Alla biblioteca vaticana è il manoscritto dei tre primi canti, colla dedica al duca d’Urbino.
  6. Anche più tardi Urbano VIII, nell’inno a san Martino, scriveva:

                   Tu natale solum protege, tu bonæ
                   Da pacis requiem Christiadum plagis,
                   Armorum strepitus et fera prælia
                                       In fines age thracios.
                   Et regum socians agmina sub crucis
                   Vexillo, Solymas nexibus exime,
                   Vindexque innocui sanguinis, hostium
                                       Robur funditus erue.

    Le poesie di Urbano VIII furono stampate un secolo dopo da un inglese: Maphæi suæ reverendissimæ eminentiæ cardinalis Barberini, postea Urbani papæ VIII poemata: præmissis quibusdam de vita auctoris et annotationibus adjunctis; edidit Josephus Brow, Oxonii, 1736.

  7. «Concedesi quel che si può negare, cioè che ’l diletto sia il fine della poesia; concedo parimente quel che l’esperienza ci dimostra, cioè che maggior diletto rechi a’ nostri uomini il Furioso, che l’Italia Liberata, o pur l’Iliade o l’Odissea. Ma nego però quel ch’è principale, e che importa tutto nel nostro proposito; cioè che la moltitudine delle azioni sia più alta a dilettare che l’unità; perchè il contrario si prova con l’autorità d’Aristotele, e con la ragione ch’egli adduce ne’ problemi; e benchè più diletta il Furioso, il quale molte favole contiene, che altro poema toscano o pure i poemi d’Omero, non avviene per rispetto della unità o della moltitudine, ma per due ragioni le quali nulla rilevano nel nostro proposito. L’una, perchè nel Furioso si leggono amori, cavallerie, venture ed incanti, ed insomma invenzioni più vaghe e più accomodate alle nostre orecchie; l’altra perchè nella convenevolezza delle usanze e nel decoro attribuito alle persone, l’Ariosto è più eccellente di molti altri. Queste cagioni sono accidentali alla moltitudine ed all’unità della favola e non in guisa propria di quella, che a questa non siano convenevoli. Laonde non si dee concludere che più diletti la moltitudine che l’unità. Ma per un’altra cagione per avventura si potrebbe provare; perciocchè, essendo la nostra umanità composta di due nature assai fra loro diverse, è necessario che d’un’istessa cosa sempre non si compiaccia, ma con la diversità procuri or all’uno, or all’altra delle sue parti soddisfare; essendo dunque la varietà dilettevolissima alla nostra natura, potranno dire ch’assai maggior diletto si trovi nella moltitudine, che nell’unità della favola».
  8. Ha grandi encomj a Bianca Cappello; e una canzone in lode del terribile Sisto V, ove mostra andar cercando la clemenza dappertutto, senza trovarla:

                   Ove fia che io la scerna?
                   Più bella che in avorio o in marmi o in oro
                   Opra di Fidia, in te (se ’l ver contempio)
                   Ha la clemenza e nel tuo core il tempio.

    Ad esso papa dice: — Tu sei Tifi, e la tua nave è Argo».

  9.                Non si destò finchè guarrir gli augelli
                   Non sentì lieti, e salutar gli alberi,
                   E mormorar il fiume e gli arboscelli,
                   E con l’onda scherzar l’aura e co’ fiori.
                   Apre i languidi lumi, e guarda quelli
                   Alberghi solitari de’ pastori;
                   E parle voce udir tra l’acqua e i rami,
                   Ch’ai sospiri ed al pianto la richiami.

  10. Ancor più pedestre imitatore del Sogno di Scipione mostrasi nella canzone in morte d’Ercole Gonzaga, dov’egli, contemporaneo di Galileo e posteriore d’un secolo a Colombo e a Vasco, canta:

                   Vedi come la terra in cinque cerchi
                   Distinta giace, e che ne son due sempre
                   Per algente pruina orridi e inculti;
                   Deserto è il terzo ancora, e che si stempri
                   Pare, e si sfaccia negli ardor soverchi;
                   Restan sol quelli frequentati e culti,
                   Ma sono all’un dell’altro i fatti occulti.
                   Quasi interposte in loro e vaste e nude
                   Solitudini scorgi, e in ogni parte
                   Quasi macchie cosparte,
                   Lor come isole il mare intorno chiude;
                   E quel che in voce in carte
                   È Oceano chiamato, ed ampio e magno,
                   Che ti sembra or, se non un piccol stagno?

    Il concilio dei diavoli nella Gerusalemme è tolto dalla Cristiade del Vida. Alcuni si presero la briga di accennare le imitazioni fatte dal Tasso, e potrebbe dirsi non v’abbia ottava che ne manchi. Argante ambasciadore contraffà gli atti o le parole di Fabrizio e Pirro in Tito Livio.

                   Indi il suo manto per lo lembo prese....
                   Curvollo, e fenne un seno, e il seno sporto,
                   Così pur anco a ragionar si prese....
                                  Or ti consiglia
                   Senz’altro indugio, e qual più ti vuoi piglia.
                Spiegò quel crudo il seno, e ’l manto scosse,
                   Ed a guerra mortal, disse, vi sfido,
                   E ’l disse in atto sì feroce ed empio
                   Che parve aprir di Giano il chiuso tempio.

    Quest’ultima allusione è la più dissonante da una guerra santa. Silio Italico, lib. II, V. 382, già avea verseggiato l’istesso atto; ma Livio, meglio d’entrambi, lo aveva espresso in prosa.
    Nell’imitare, il Tasso è spesso infelice. Per darne un esempio, Dante fa dire a Ugolino:

                   Ambe le mani per dolor mi morsi,

    • il Tasso canta che Plutone

                   Ambo le labbra per furor si morse.

    Dipingete i due atti, e riconoscerete la diversità.
    Dante dice:

                   Quando ti gioverà dicere, Io fui;

    • il Tasso stempera

                   Quando ti gioverà narrare altrui
                   Le novità vedute, e dire, Io fui.

    Dove Galileo Galilei, che lasciò manoscritta una critica acerbissima ma arguta, riflette: — Chi vuol conoscere un gusto storpiatissimo, tra gli altri segnali si potria servire di questo, cioè del vedere rubare dagli altri indifferentemente il buono e il cattivo, infallibile argomento che quel tale rubatore si serve solamente dell’autorità di quello a cui ruba, ma per sè non è capace di discernere quello che vale da quello, che non vale; la qual cosa procede da assai maggior debolezza di cervello che non è quella di chi s’inganna nelle sue cose proprie solamente».
    E singolare l’udir dal Tasso precelti diametralmente contrarj alla propria pratica. — La magnificenza agevolmente degenera in gonfiezza. Per non incorrere nel vizio del gonfio, schivi il magnifico dicitore certe minute diligenze, come di fare che membro a membro corrisponda, verbo a verbo, nome a nome, e non solo in quanto al numero, ma in quanto al senso. Schivi le antitesi come «tu veloce fanciullo, io vecchio e tardo». Chè tutte queste figure, ove si scopre l’affettazione, sono proprie della mediocrità; e siccome non dilettano, così nulla muovono. La magnificenza dello stile nasce dalle stesse cagioni, dalle quali, usate fuor di tempo, nasce la gonfiezza, vizio sì prossimo alla magnificenza». Dell’arte poetica.

  11. Il Tasso era il Giustiniano dei duellisti di quel secolo, citandosi le sue decisioni come oracoli: prova che fu infedele ai tempi che descrisse.
  12. Vedi il suo dialogo Il granduca, ovvero delle maschere.
  13. Una cronaca vicentina ricorda che alcuni giovani di Vicenza, andati a finire i loro studj a Padova, vi presero a pigione una casa dove conviveano in allegra concordia, visitati da scolari e gentiluomini.
    «Occorse in quel tempo che, essendo divenuto pazzo in Ferrara il famosissimo poeta Torquato Tasso, ed essendo fuggito dalla detta città e venuto in questa (in Padova), fu riconosciuto da Sartorio Losco; e vedendo che andava vagabondo senza aver recapito alcuno, l’invitò a venirsene abitar seco, che lo riceverebbe a singolarissimo favore, il che egli accettò, che fu di supremo gusto a tutta la compagnia. Si sparse la fama della venuta di questo uomo per tutta la città, onde ognuno desiderava conoscerlo di vista, e sentirlo recitare de’ suoi leggiadrissimi versi, il che egli prontissimamente faceva. Non si può dire con quanto gusto erano ascoltati, poichè a quel tempo non vi era alcuna composizione del detto Tasso alle stampe, se non quel suo Rinaldo fatto in sua giovinezza. Dava specialmente gran soddisfazione a tutti mentre recitava qualche canto del suo celebratissimo Goffredo. Stette più di 15 giorni in casa delli detti scolari; onde faceva che alla detta casa vi fosse un giubileo amplissimo per lo continuo concorso delle genti, che bramavano e di vederlo e di sentirlo. Si ritrovava allora in Padova Sforza Pallavicino, generale di questi Signori, il quale aveva gran desiderio di vedere esso Tasso, e mandò a pregare questi Vicentini, che volessero un giorno condurglielo, poichè, egli, per essere podagroso, non usciva di casa; si contentò il Tasso, e così con li detti quattro suoi ospiti andò a casa del detto signore, il quale subito fece portare anco uno sgabello vicino a lui, invitando il Tasso a voler sedere. Il Tasso con molta riverenza stando in piedi si iscusò di voler sedere; lo Sforza replicò più e più volte, acciò volesse far la grazia di sedere, egli pure iscusandosi che stava bene e non voleva farlo. Finalmente importunandolo pure detto signore con nuove preghiere, egli, fattogli una bella riverenza, si partì, e se ne andò giù per la scala; onde correndogli dietro Paolo pregavalo a voler ritornare, e non voler far questo affronto ad un personaggio così grande. Egli risolutamente gli disse, che non ne voleva far niente; ed interrogato dal Gualdo perchè facesse ciò, li rispose: — Perchè bisogna talvolta a questi tali insegnar creanza»; soggiungendo: — E perchè non far portare da sedere anco a voi altri gentiluomini? Perchè a me solo questa particolarità? Chi siete voi? Non siete per ogni rispetto maggiori di me?» e contuttochè il Gualdo cercasse di placarlo non fu mai possibile che volesse ritornare: sicchè partirono gli altri ancora, restando il signor Sforza tutto confuso, attribuendo ad un umor pazzo del Tasso quello ch’era mala creanza sua. Si suol dire ch’i principi ed uomini grandi non sogliono imparar mai bene esercizio alcuno, se non quello del cavalcare, perchè i cavalli non sanno adularli come fanno gli uomini che insegnano a’ principi, perchè se non saprà cavalcare, il cavallo non averà rispetto gettarlo a terra, e darli anco de’ calci; possiamo dire che l’istesso privilegio con li principi abbiano anco li pazzi».
  14. Vedasi, tra le altre, la lettera del 25 dicembre 1581 a Maurizio Cattaneo. — Una lettera è sparita, e credo se l’abbia portata il folletto.... e questo è uno di quei miracoli, che io ho veduto assai spesso nello spedale; laonde son certo che siano fatti da qualche maga; e n’ho altri molti argomenti.... Oltre quei miracoli del folletto, vi sono molti spaventi notturni.... ho veduto ombre.... ho udito strepiti spaventosi.... e fra tanti terrori e tanti dolori m’apparve in aria l’immagine della gloriosa Vergine col Figliuolo in braccio.... E benchè potesse facilmente essere una fantasia, perchè io sono frenetico, e quasi sempre perturbato da varj fantasmi e pieno di malinconia infinita, non di meno, per la grazia di Dio, posso cohibere assensum alcuna volta.... S’io non m’inganno, della frenesia furono cagione alcune confezioni ch’io mangiai tre anni sono.... Dappoi la malìa fu rinnovata un’altra volta.... La qualità del male è così maravigliosa, che potrebbe ingannare i medici più diligenti; onde io la stimo operazione di mago; e sarebbe opera di pietà cavarmi di questo luogo, dove gl’incantatori è conceduto di far tanto contro di me.... Del folletto voglio scrivere alcuna cosa ancora. Il ladroncello m’ha rubato molti scudi di moneta, nè so quanti siano, perchè non ne tengo conto come gli avari; ma forse arrivano a venti: mi mette tutti i libri sossopra, apre le casse, ruba le chiavi ch’io non me ne posso guardare».
  15. — Io mi purgo, nè voglio, nè posso disubbidire ai medici, i quali hanno ordinato che io no istudii nè scriva.... Mandatemi qualche consulto di medico che non vi costi». Ad Antonio Sersale, 1585.
  16. — L’accuse datemi d’infedele al mio principe, mescolate con quell’altre primiere accuse, fecero un torrente e un diluvio d’inforlunj così grande, che argine o riparo d’umana ragione, o favore delle serenissime principesse, che molto per mia salute s’affaticarono, non furono possenti di ritenerlo. Or che risponderò a queste grandi accuse?» E qui s’avviluppa in distinzioni aristoteliche sul prevalere dell’intelletto o della volontà; poi dopo lunghissimo divagare torna in proposito: — La principale azione della quale sono incolpato, e la quale per avventura è sola cagione che io sia gastigato, non dee essere per avventura punita come assolutamente rea, ma come mista; perchè non per elezione la feci, ma per necessità; necessità non assoluta ma condizionata; e per timore ora di morte, ora di vergogna grandissima d’infelice e perpetua ingratitudine. E perciocchè Aristotele pone due maniere d’azioni miste, una degna di laude e l’altra di perdono, sebbene io non ardisca di collocare la mia nella prima specie, di riporla nella seconda non temerò. Nè giudico meno degne di perdono le parole ch’io dissi, perchè fur dette da uomo non solo iracondo, ma in quella occasione adiratissimo.... Ma molte fiate, ove l’ira più abbonda ivi è maggior abbondanza di amore. Ed io, consapevole a me stesso, ne potrei addurre molti testimonj che in amare il mio signore, e in desiderare la grandezza e la felicità sua ho ceduto a pochi de’ suoi più cari; e nel portar affezione agli amici, e nel desiderare e procurar lor bene quanto per me s’è potuto, ho avuto così pochi paragoni, come niuna corrispondenza. E se Dio perdona mille bestemmie con le quali tutto il dì è offeso da’ peccatori, possono bene anche i principi alcuna parola contro lor detto perdonare.... Il dar per castigo ad un artefice che non si eserciti nell’arte sua è certo esempio inaudito.... Il principe volle con ciò per avventura esercitar la mia pazienza o far prova della mia fede, e vedermi umiliare in quelle cose dalle quali conosceva che alcuna mia altezza poteva procedere, con intenzione poi di rimovere questo duro divieto quando a lui paresse che la mia umiltà il meritasse.... Ma io non solo poco ubbidiente in trapassare i cenni del suo comandamento, ma molto incontinente eziandio in lamentarmi che mi fosse imposta sì dura legge, partii, non iscacciato, ma volontario da Ferrara, luogo dov’io era, se non nato, almeno rinato, e dove ora non sol dal bisogno sono stato costretto a ritornare, ma sospinto anche dal grandissimo desiderio che io aveva di baciar le mani di sua Altezza, e di riacquistare, nell’occasione delle nozze, alcuna parte della sua grazia».
  17.                     Egro io languiva, e d’alto sonno avvinta
                   Ogni mia possa avea d’intorno al core,
                   E pien d’orrido gelo e pien d’ardore
                   Giacea con guancia di pallor dipinta;
                   
                        Quando di luce incoronata e cinta,
                   E sfavillando del divino ardore,
                   Maria, pronta scendesti al mio dolore,
                   Perchè non fosse l’alma oppressa e vinta.
                   
                        E Benedetto fra que’ raggi e lampi
                   Vidi alla destra tua; nel sacro velo
                   Scolastica splendea dall’altra parte.
                   
                        Or sacro questo core e queste carte,
                   Mentre più bella io ti contemplo in cielo,
                   Regina, a te, che mi risani e scampi.

  18.                     S’opre d’arte e d’ingegno, amore e zelo
                   D’onore han premio, ovver perdono in terra,
                   Deh non sia, prego, il mio pregar deluso.

  19. A sgravio di essa dicasi come s’affrettò di tributargli onori quando venne a Firenze; e nell’edizione del 1691 già lo poneva fra le autorità.
  20. Galileo sentiva dall’Ariosto al Tasso tale divario, quale al mangiar citriuoli dopo gustato saporiti poponi; a questo rimprovera tanti scambietti, tante rispondenze, le capriole intrecciate, il madrigalesco, e quelle favole tutte freddissime e senza meraviglia.
    Nella prima strofa del poema giudica fuor di posto gli ultimi due versi. E sotto i santi Segni ridusse i suoi compagni erranti, non avendo detto che fosser dispersi, e soggiunge: — Uno tra gli altri difetti è molto famigliare al Tasso, nato da una gran strettezza di vena e povertà di concetti; ed è che, mancandogli bene spesso la materia, è costretto andar rappezzando insieme concetti spezzati e senza dipendenza e connessione tra loro: onde la sua narrazione ne riesce più presto una pittura intarsiata che colorita a olio.... Sfuma e fondeggia l’Ariosto, come quegli che è abbondantissimo di parole, frasi, locuzioni e concetti; rottamente, seccamente e crudamente le sue opere il Tasso, per la povertà di tutti i requisiti al ben operare.... e va empiendo per brevità di parole le stanze di concetti, che non hanno una necessaria continuazione con le cose dette e da dirsi».
    Altrove, dimenticando il rispetto che ognun deve al criticato e a sè stesso, lo rimprovera di «scioccherie fredde, insipide pedantesche»; lo intitola pedantino; e «fagiolaccio scimunito» il suo Tancredi; e dice: — Io resto pur alle volte stordito in considerare scempiate cose che si mette a descrivere questo poeta».
    E a quei versi or si volge, or si rivolge, or fugge, or fuga, si può dir la sua caccia nè fuga (III, 31), — Io non saprei qual epiteto darmi a questa maniera di replicare la ritirata di Clorinda, perchè non so formare un attributo che abbracci, nel suo significato tutte quelle qualità, freddo, secco, stiracchiato, stentato, insipido, saltabellante, bischiazzante, insieme poi col nostro accidente inseparabile del pedantesco».
  21. Nel Goffredo ovvero Gerusalemme Liberata, stampato a Venezia nel 1600 v’è un discorso di Filippo Pigafetta vicentino, ove dice:
    — Non ha per avventura egli stesso (il Tasso), nè anco insino a qui determinata giammai, qual di questi due titoli sia il migliore, stranamente da miserabile infermità et crudele trafitto: nondimeno, se riteniamo l’uno dei titoli, puossi difendere con lo scudo di Virgilio, havendo egli etiandio con tale intentione scritto forse quell’altro volume, nomato Rinaldo. Se ameremo meglio il secondo, sarà pur lodevole, appoggiandosi all’autorità sua propria et del Trissino. Ma ben deve essere pregato ciascun gentile spirito, che leggerà questo poema, a scolpare in ogni maniera nobilmente l’Autore se alcun picciol difetto vi scorgesse, overo non riuscisse così di sua piena soddisfattione, stimando egli non l’haver potuto rivedere compiutamente nè porgli l’ultima mano, insino a tanto che la rea fortuna cangi quell’infelice stato, in cui questo ammirabile Poeta è caduto, et lo renda al mondo: di che, quando intervenga, dovranno i mortali tenere obligo eterno alla molta liberalità et magnificenza del Serenissimo Signor Duca di Ferrara, il quale, seguendo l’orme dei suoi Predecessori e veri mecenati delle Muse, la sua salute con ogni carità et diligenza di continuo va procurando. Di Vicenza, alli 13 d’aprile, 1582».
  22. Giovanni Battista Maganza, vicentino, in lingua padovana, ne diceva:

                        Perquè se lagna el me caro figiuolo,
                   El me paron messier Torquato Tasso
                   Che ’l sipia insaraggiò, che staghe solo,
                   E col vorave, el no pò anare a spasso?
                   
                        Che ben ch’agn’homo muora
                   E ch’agno cousa manche, a ve sè dire
                   Che mè a si per mancar, mè per morire,
                   
                        S’agnon brama d’aldire,
                   E sliezer quel bel libro ch’ha g’hi fatto,
                   Attendi a far che’l sea stampà in t’un tratto.

    Rime in lingua rustica padovana, ecc., Venezia, 1620, pag. 153.

  23. Si suole dai nostri rimbrottare Boileau d’aver opposto à l’or de Virgile le clinquant du Tasse: ma già prima la frase era stata adoprata in paragone molto più basso da Leonardo Salviati nell’Infarinato Secondo, lamentandosi di chi pretende «agguagliare all’Avarchide il poema del Tasso, secondo che s’agguaglia anche l’orpello all’oro».
  24. Dell’Apologia scriveva il Lombardelli: — Avrei voluto ch’egli avesse speso quel tempo in finire il poema, perchè io son di parere che importi più una parola o un verso che si migliori nella Gerusalemme, che un’opera intera la qual si scriva». Ma soggiunge: — Non so trovar parte in quest’Apologia ch’io non ammiri: perchè mi piace la virtù eroica in dispregiar l’onte; la modestia e la creanza in ribatter le opposizioni; la gravità del procedere, e che si sia giustificato contro l’impression di quei che volevano ch’ei fosse nemico dell’Ariosto e d’altri valentuomini. Frizzami la maniera platonica, il rigor dialettico, l’acutezza delle cagioni e la temperata brevità del suo dire. Anco mi aggrada oltre misura la grazia che ha nel triburlare ove gli è piaciuto di farlo; l’acume in ritrovar la sconvenevolezza che è nel Furioso in alcune parti; i fondamenti delle sue difese, tolti da Platone, da Aristotele, da Demetrio Falereo, da Marco Tullio, da Petrarca e da altri classici».
  25.                     Io canto l’arme e ’l cavalier sovrano,
                   Che tolse il giogo a la città di Cristo:
                   Molto col senno, e con l’invitta mano
                   Egli adoprò nel glorioso acquisto,
                   E di morte ingombrò le valli e ’l piano;
                   E scorrer fece il mar di sangue misto.
                   Molto nel duro assedio ancor sofferse,
                   Per cui prima la terra e ’l ciel s’aperse.
                   
                        Quinci infiammar del tenebroso inferno
                   Gli angeli ribellanti, amori, e sdegni;
                   E spargendo ne’ suoi veneno interno,
                   Contra gli armàr de l’Oriente i regni;
                   E quindi il messager del Padre etern
                   Sgombrò le fiamme e l’arme e gli odj indegni:
                   Tanto di grazia diè nel dubbio assalto
                   A la croce il Figliuol spiegata in alto.

                        Voi, che volgete il Ciel, superne menti,
                   E tu, che duce sei del santo coro,
                   E fra giri lassù veloci e lenti
                   Porti la face luminosa e d’oro,
                   Il pensier m’inspirate e i chiari accenti
                   Perch’io sia degno del toscano alloro,
                   E d’angelico suon canora tromba
                   Faccia quella tacer ch’oggi rimbomba.

  26. Siccome il Tasso aveva raffigurato sè medesimo in Tirsi, così il Guarini si mascherò in Carini, e de’ guai toccatigli alla Corte di Ferrara geme così:


                   Scrissi, piansi, cantai, arsi, gelai,
                   Corsi, stetti, sostenni, or tristo, or lieto,
                   Or alto, or basso, or vilipeso, or caro;
                   E come il ferro delfico, stromento
                   Or d’impresa sublime, or d’opra vile;
                   Non temei risco e non schivai fatica.
                   Tutto fei, nulla fui; per cangiar loco,
                   Stato, vita, pensier, costumi e pelo,
                   Mai non cangiai fortuna. Alfin conobbi
                   E sospirai la libertà primiera;
                   E dopo tanti strazj amor lasciando
                   E le grandezze di miseria piene,
                   Tornai di Pisa ai riposati alberghi.

  27. Egli cita spesso Francesco Bolognetti, senatore di Bologna, autore d’un poema, Il Costante, in ottava rima, cui protagonista è Ceionio Albino romano, che accompagnò l’imperator Valeriano nella spedizione contro i Persiani, dove rimase vinto e prigioniero. Ceionio si propone di liberarlo, mentre l’imperatore morì in cattività. Fra altre cose, Giove predice la grandezza dei papi.
  28. Ciò spiegasi dalle condizioni sociali d’un tempo, in cui Chaudebonne diceva a Voiture: Vous êtes un trop galant homme pour demeurer dans la bourgeoisie: il faut que je vous en tire.
  29. Vedi la raccolta delle lettere fatta dal Guasti, vol. V, pag. 97.
  30. «Io non pensai mai di stampare a mie spese, perchè non ho molti scudi oltre li cento, i quali non mi basteranno quest’anno a vestire ed a mangiare. Sono sfornitissimo di tutte le cose necessarie. Avrei voluto (poichè gli stampatori non hanno discrezione o pietà o coscienza alcuna) ch’alcun mio amico facesse la spesa, e poi ritraesse i denari.
    «Appena questa state ho comperato per mio gusto due paja di meloni; e benchè io sia stato quasi sempre infermo, molte volte mi sono contentato del manzo per non ispendere in pollastro; e la minestra di lattuca e di zucca, quando ho potuto averne, m’è stata invece di delizia». Al Costantini, 12 settembre, 1590.
    «Io vendei in Mantova, per necessità, per venti scudi un rubino, già donatomi dalla signora duchessa d’Urbino, il quale era stato stimato, da chi più, settanta scudi; da chi meno, trentacinque.... I trentadue scudi non mi furono dati per pagamento d’un anello, ma per quel d’una collana, la quale io gli diedi da vendere, ed egli la vendè quattro scudi meno di quel che pesava l’oro». A Curzio Ardizio, 1581.
    «Io sottoscritto dichiaro d’aver ricevuto dal signor Abram Levi venticinque lire, per le quali ritiene in pegno una spada del mio padre, sei camicie, quattro lenzuoli e due tovaglie». A dì 2 marzo, 1570. Torquato Tasso.

Note

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