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XXVI.1
CANTO DI PRIMAVERA
Qual sovra la profonda
Pace del glauco pelago
Uscí Venere, e l’onda
Accese e l’aer e l’isole,
Quando al ciel le divine
6Luci alzò raccogliendo il molle crine;
Primavera beata
Su le pianure italiche
Sorride. Ogni creata
Cosa in vista rallegrasi:
Scherza con l’aura e il fiore
12E vola nel sereno etere Amore.
Entro la chiusa stanza
Medita Amore, trovalo
In fragorosa danza
La giovinetta; ed integra
Cede a’ futuri affanni
18L’inconsapevol cuore e i candidi anni.
D’ebrïetà possente
Sale dal suol che vegeta
Un senso: al cor fremente
Il mondo antico vestesi
Di novi incanti, e a’ petti
24Novi palpiti chiede e novi affetti.
Transvolar le serene
Forme de’ sogni improvvido
L’uom ricontempla: arene
E deserto il ricingono:
La falsa imago anelo
30Lui tragge ove piú stride il verno e il gelo.
Tal, se l’alta marina
Ara e l’insonne Atlantico,
Vede, allor che ruina
La notte solitaria,
L’elvezio infermo il rio
36Alpin ne l’onde salse, e del natío
Monte le vacche quete
Pender da i verdi pascoli,
E tra l’ombre segrete
Un’aspettante vergine
Cantar, molle la guancia;
42Vede, ed in contro a lei nel mar si lancia,
Che sopra gli si chiude
Muto. O soavi imagini,
Pur d’ogni senso nude;
O d’inconsulti palpiti
Desío profondo arcano;
48Ultima gioventú del cuore umano!
Questa che deludete
Misera prole, o perfidi,
Quanto ha di voi pur sete!
E vi saluta reduci
Insieme al riso alterno
54Onde s’attempa il vol de l’orbe eterno.
Culto tra i feri studi
Sacro un giorno a’ romulidi,
E di solenni ludi
Empiea sonante l’isola
Che il Tebro ad Ostia in faccia
60Lieta di paschi e di roseti abbraccia.
Dal dí che il mese adduce
De la marina Venere
Sino alla terza luce
Già sorta a gl’incunabuli
Di Quirin, la gioconda
66Festa correa per la fiorita sponda.
E qui belle traéno
A’ rosei tabernacoli
Donzellette cui ’l seno
Tra i bianchi lin moveasi
Intatto anche a gli amori.
72Sotto gli astri roranti e a’ miti ardori
Del sole i verginali
Carmi intorno volavano,
Mentre il piacer da l’ali
Stillava ingenuo nèttare
E Terpsicore dea
78Invisibil co ’l suon danze movea.
“La sposa ecco di Tereo
Canta tra i verdi rami,
Né par che omai del barbaro
Marito si richiami:
Piú scorte note a lei
84Amore insegna e piú soavi omei.
Canta: e noi mute, o vergini,
L’udiamo. Oh quando fia
Che venga e me pur susciti
La primavera mia,
E rondine io diventi
90Che l’allegra canzon commette a’ venti?
Già voluttade l’aere
Empie di rosei lampi:
Sentono i campi Venere,
Amor nacque ne i campi:
Effuso dal terreno
96Lui raccolse la dea nel latteo seno.
E lo nudrîr le lacrime
D’odorati arboscelli,
E lo addormiro i gemiti
De l’aure e de’ ruscelli,
E lo educaro i molli
102Baci de’ fiori in su gli aperti colli.
L’umor che gli astri piangono
Per la notte serena
Sottil corre a la nubile
Rosa di vena in vena,
Onde al zefiro sposo
108Sciolga il peplo domani e il sen pomposo.
Di Cipri ella da l’ícore
Nata d’Amor tra i baci
Tien gemme e fiamme e porpore,
O Ciel, da le tue faci;
E conoscente figlia
114A le tue nozze il talamo invermiglia,
Allor che da le pendule
Nubi la maritale
Pioggia a la Terra cupida
Discende in grembo, ed ale
Nel vasto corpo i vasti
120Feti che tu, Ciel genitor, creasti.
Dal sangue tuo l’oceano
Tra selve di coralli,
Tra le caterve cerule
E i bipedi cavalli,
A i liti almi del lume
126Vener produsse avvolta in bianche spume.
Ed ella or del suo spirito
Le menti arde e le vene,
Del nuovo anno l’imperio
Procreatrice tiene,
Ed aria e terra e mare
132Soave riconsiglia a sempre amare.
Da i boschi, o delia vergine,
Cedi per oggi: noi
Invia la diva placide
Nunzie de’ voler suoi:
Non macchi, ahimè!, ferina
138Strage la selva il dí ch’ella è reina.
Essa a le ninfe il mirteo
Bosco d’entrare impone:
Amore a quelle aggiugnesi,
Ma l’armi pria depone.
Francate, o ninfe, il core:
144Posto ha giú l’armi, è ferïato Amore.
La madre il volle, pavida
No il picciolin rubello
Altrui ferisca improvido.
Ma pur Cupido è bello.
Guardate, o ninfe, il core:
150È tutto in armi, anche se nudo, Amore.
Con lui fermò nel Lazio
De’ lari idei l’esiglio,
E una laurente vergine
La dea concesse al figlio
D’Anchise; e quindi a Marte,
156Sbigottita orfanella in chiome sparte,
Di Vesta ella dal tempio
Traea la sacerdote:
Onde il gran padre Romolo
E Cesare nipote;
Onde i Ramni e i Quiriti,
162E tu, o Roma, signora in tutti i liti.„
Beate! e i lieti cori
Non rompea lituo barbaro,
Né i verecondi amori
Turbava allora il fremito
Che dal core ne preme
168La tradita d’Italia ultima speme.
Nel sangue nostro i nostri
Campi ringiovaniscono;
E quando lento i chiostri
Del verde pian d’Insubria
Apre l’aratro e frange,
174Su l’ossa rivelate un padre piange.
Non biondeggia superba
Da’ nostri solchi Cerere,
Ma lei calpesta acerba
L’ugna de’ rei quadrupedi;
E tu, vento sereno,
180Scaldi a’ tiranni osceni amor nel seno.
Oh quando fia che d’armi
E monte e piano fremano
A’ rai del sol, e i carmi
Del trionfo ridestino
Co’ suon del prisco orgoglio
186I numi addormentati in Campidoglio?
Te allor, cinti la chioma
De l’arbuscel di Venere,
Canterem, madre Roma;
Te del cui santo nascere
Il lieto april s’onora,
192Te de la nostra gente arcana Flora.
- ↑ [p. 282 modifica]È una specie d’idillio lirico, nel quale per le rappresentazioni della natura volle tornarsi alle forme del politeismo classico, e ai sentimenti della natura volle mescolarsi le ire nazionali del presente d’allora. Il canto messo in bocca alle fanciulle romane festeggianti la primavera nell’isoletta del Tevere [pagg. 44— 48] è imitazione o riduzione del Pervigilium Veneris. Chi volesse saper di piú su ’l luogo l’occasione e i modi di quella festa, cerchi il proemio del Wernsdorf a quell’idillio (Poetae latini minores, ii).