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L'EPITALAMIO1 D'ELENA.
Già presso a Menelao dal biondo crine
Dodici Verginelle un verde aventi
Giacinto in su le chiome, alto decoro
Del suol di Sparta, e in lor Città le prime,
5Formaro avanti al nuovamente pinto
Talamo un coro; indi co’ piè concordi
Battendo il suol, fean d’Imeneo4 la casa
Tutta sonar con l’uniforme canto,
Poichè ’l giovane Atrida5 in letto accolse
10Di Tindaro la figlia, Elena amata,
Seco tra’ lacci d’Imeneo congiunta.
Dunque, dicean, tu caro Sposo, al primo
Calar de l’ombre isti a cercar le piume?
Che? Forse la stanchezza, il sonno, il vino
15Rese t’avean le tue ginocchia gravi?
Tu sol, se sazio di vegliar mai fosti,
Dovevi gli occhi satollar di sonno;
Ma lasciar, che la Vergine a diporto
Stesse con l’altre Verginelle accanto
20De la tenera Madre, infin che l’Alba
Chiara sorgesse. Di mattin, di sera,
Ora, e poi d’anno in anno, o Menelao,
Questa sarà, sì questa ognor tua sposa.
O Sposo fortunato, allor che a Sparta,
25Soggiorno d’altri Eroi, per l’alte nozze
Giungesti, allor ti starnutò6 d’incontro
Alcun per fausto augurio. Avrai tu solo
Suocero Giove, di Saturno il figlio,
Tra’ Semidei. Sotto i medesmi lini
30Quella Figlia di Giove a te sen venne,
Eguale a cui non v’ha tra l’altre Achee
Donna, che calchi il suol. Gran prole aspetta,
Quando sia pari a sì gran Madre il parto.
Noi già nel corso, e ne l’età compagne
35Unte ognora con lei presso a’ lavacri7
Del fiume Eurota, a guisa d’uom; noi quattro
Volte sessanta Verginelle, e tutte
Giovani Donne, al paragon se tratte
D’Elena siam, noi tutte in volto abbiamo
40Alcun difetto. Qual nascente Aurora,
Che ceder fa la veneranda Notte,
A l’apparir de la Stagion più chiara,
Che ’l verno sgombra; entro di noi splendeva
L’impareggiabil Donna, altera, e grande.
45E qual s’alza ne’ campi il solco, e quale
E’ il Cipresso ne l’orto, o va nel corso
Tessalo8 corridor; tal fregio a Sparta
La di guance rosate Elena accresce.
Non v’è chi tali sul panier dipinga
50Opre, quant’Ella, o chi più taglj accorta
Da le lunghe forchette in su l’industre
Tela lo stame col fuscel tessuto:
Chi toccar sappia al par di lei la cetra,
O cantar vuol Diana, ovver la d’ampio
55Petto Minerva: ogni Amorin fra gli occhi
D’Elena siede. O bella, o graziosa
Vergine! Ah tu più vergine non sei.
Noi verremo al mattin, verremo al corso,
E a le foglie de’ prati a farne serti
60Dolce-odorosi, e avrem di Te memoria,
Elena, come le lattanti agnelle,
Che a la poppa materna ognor son tratte.
Noi prima un serto col cresciuto in terra
Loto9 intrecciando a Te, farem, che stia
65Sovr’un ombroso Platano sospeso.
Noi spargerem le prime a goccia a goccia
Sotto il Platano ombroso umido unguento
Ad onor tuo fuor d’un argenteo vase.
Tai note scriverem su la corteccia
70In Dorica10 favella, affinchè lette
Sien da chi passa: A me si dee rispetto,
Che d’Elena son pianta. O Sposa, addio,
Addio, tu, che la Figlia hai del gran Giove.
Latona a voi conceda illustre prole,
75Latona de la prole alma Nutrice.
Tra Voi Ciprigna inspiri un pari affetto,
La Dea Ciprigna: Giove stesso, Giove
Di Saturno il figliuol, dono a Voi faccia
D’immortali ricchezze, acciò che sempre
80Passino in avvenir da generosi
A generosi Eroi. Scenda col sonno
Un reciproco amor ne’ vostri petti,
Ed un’ardente brama. E in su l’Aurora
Poi vi sovvenga di lasciar le piume:
85Che a buon mattin ritornerem noi pure,
Quando il primo Cantor dal proprio letto
La ben pennuta sua cervice alzando
Sciorrà sua voce. Or ti rallegra intanto
Imene,11 o Imeneo per queste nozze.
FINE.
- ↑ [p. 220 modifica]Niun pensiero abbiamo avuto nel volgarizzare l'Epitalamio presente, che quello d'unire tutto ciò, che abbiam trovato di greco intorno ad Elena. Avremmo dovuto in questo volume altresì comprendere l'Elena d'Euripide; ma per esser Tragedia, e perchè ne aspettiamo una leggiadra traduzione dall'erudito P. Carmeli, non l'abbiam fatto. Quest'Epitalamio è stato già in versi italiani recato dal Regolotti, ma, per quanto ne pare, con poca grazia, e con assai libertà; in versi latini da Ugon Grozio, e dal Vvitford, e in inglese dal Dridenio.
- ↑ [p. 220 modifica]Non aveva voluto Pindaro assegnar nome particolare alle sue liriche poesìe, chiamandole così in genere εἶδος, ch'è quanto dire sorta di componimenti. Ha pensato d'imitarlo Teocrito, facendone il diminutivo εἰδύλλιον, per essere i di lui canti più brevi.
- ↑ [p. 220 modifica]Teocrito figlio di Prassagora, e di Filline, come abbiamo da un suo epigramma, fu certamente Italiano da Siracusa, sebbene alcuni lo chiamin di Coo, forse per esser lungamente vissuto in quell'Isola. Lo Scrittor greco della sua Vita suppone, che prima fosse nominato Mosco, indi per la soavità de' suoi versi divini appellato Teocrito. Suida però giustamente ne fa due autori, comechè amendue di cose pastorali scrivessero, e fossero Siciliani. Certo è, che il nostro Teocrito non ebbe l'eguale in sì fatto genere di poesìa, superato avendo, per giudizio comune, Virgilio medesimo. Viveva egli nell'Olimpiade CXXX. a' tempi d'Arato, e di Callimaco, regnante in Egitto Tolommeo Filadelfio, e fu Scuolaro di Filippida, e d'Asclepiade Samio Poeti.
- ↑ Erano appunto le Verginelle della Sposa compagne, che sulla sera principalmente si mettevano a gridare Imeneo, come abbiamo da Pindaro Od. III. πυθ.
- ↑ Menelao, fratel minore d’Agamennone, e amendue figliuoli d’Atreo.
- ↑ Qui prende Teocrito lo starnuto per fausto augurio. Così Penelope presso d’Omero Odis. XVII. v. 145. assegna per indizio sicuro dell’uccisione de’ Proci l’averle suo figlio starnutato ad ogni parola. Così anche i Soldati presso Senofonte lib. 3. Anabas. s’auguraron buon esito per un improvviso starnuto. Non resta però, che il nostro Teocrito nell’ Idillio intitolato Θαλύσια v. 96. per contrario segno non lo prendesse. Può essere, che siccome Plutarco nella Vita di Temistocle prese in buona parte lo starnutare alla destra, così da que’ ciechi Gentili fosse reputato funesto segno lo starnutare alla manca. S. Basilio al c. 2. d’ Isaía giustamente detesta sì fatta superstizione: Uno ha, dice egli, starnutato. Ciò significa qualche cosa, se io parlava... L’insolenza del Demonio contra l’uomo è sì grande ec.
- ↑ Era usanza de’ Greci, introdotta anche presso a’ Romani, d’ungersi spesse volte i corpi, e di lavarsegli eziandio. Nè tanto facevan questo ne’ caldi bagni domestici, quanto coll’acqua del mare, e dentro i fiumi. Molti esempi si trovano presso d’Omero, tra’ quali vien a proposito quel di Nausicae Odis. VI., che coll’altre compagne entrò nel fiume a lavarsi. Non era dunque ciò in uso tra gli uomini soli, ma ancor tra le donne. Eustazio al v. 577. Iliad. X. assegna due ragioni, per cui fu il bagno introdotto: ῥύπω μὲν ἀποθετικόν, ἀναψυχῆς δέ τινος αἴτιον.
- ↑ Erano assai in credito appresso a’ Greci i Cavalli di Tessaglia, e primi furono in quel paese i Centauri, che Cavalli domarono, e vi montaron sul dorso.
- ↑ Loto è un’erba, dice Suida, d’odor soave, che alcuni chiamano Myrcloto. Omero la nomina tra l’erbe la prima, che reca piacere agli Dei. E’ anche una pianta in Affrica di frutti sì dolci, che a’ Forestieri fa obbliare la Patria. Perciò i compagni d’Ulisse avendogli in que’ paesi gustati, non volevano per alcun modo alla lor Patria tornare. Così favoleggia Omero Odis. 9. Lotofagi si chiamavan coloro, che unicamente di questi frutti vivevano, da cui ne formavano anche il vino. Abitavano questi nella spiaggia de’ Gindani, secondo Erodoto lib. 4., che assomiglia la grandezza di questi frutti a un lentisco, e la dolcezza a que’ delle palme.
- ↑ Quattro essendo, oltre al comune, i dialetti più nobili, e più usati tra’ Greci, val a dire l’Attico, l’Ionico, l’Eolico, e ’l Dorico; in quest’ultimo scriveva d’ordinario Teocrito, e alcuna volta nell’Ionico. Era però il Dorico a’ suoi tempi già riformato, e reso più dolce νέα, κ. μαλθακωτέρα.
- ↑ Questa era la solita cantilena, che tra l’altre cerimonie nelle nozze s’usava. Perciò Catullo nell’Epitalamio, che fece per l’amico Manlio ripete anch’egli sì di frequente que’ versi
O Hymenœe Hymen
Hymen o Hymenœe.