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ATTO II.
SCENA I.
Lampridio innamorato, Protodidascalo suo precettore.
Lampridio. Ecco pur veggio quell’ora, che per troppo desiderarla mai non parea che venisse. Quanto pensi, o Protodidascalo precettore, mi sia dolce Napoli?
Protodidascalo. Poi, aedepol, mehercle, quidem, Lampridio, che al fin ti será molto amarulenta. Nota «aedepol» col diftongo.
Lampridio. Pur la buona sorte ha voluto che ci venissi.
Protodidascalo. «O terque quaterque beatus» se non ci fosti venuto mai!
Lampridio. E come desiosa farfalla corre intorno l’amato lume, cosí vo io ratto a pascermi gli occhi dell’amata luce del mio sole! ...
Protodidascalo. La fiamma ti comburerá l’ali, caderai depiumato e ustulato come il Dedalide — patronimice loquendo: Icaro figliuolo di Dedalo.
Lampridio. ... da cui per esser stato cosí lontano, non so come le tenebre non m’abbino occecato e spento in tutto.
Protodidascalo. O quam melius non stuzzicassi i carboni semivivi, semisopiti sotto la cenere, che ogni favillula dandole fiato cresce in gran fiamma. Però smorzalo.
Lampridio. Oimè come vuoi ch’io lo smorzi se tutto ardo? e Amor sí fattamente soffia nelle faci che m’ave accese nell’alma, che sono avampato di sorte che son tutto di fuoco.
Protodidascalo. Rivolvendo le tue cure altrove, Amor insufflando ne’ tuoi igniculi non fará altro che fumo. Ma se tu non volessi ignescere piú di quello che sei, non saresti venuto Neapolim versus. Non sai quel famulo terenziano:
Accede ad ignem hunc, iam calesces plus satis;
che il fuoco arde piú vicino che lungi?
Lampridio. Anzi l’incendio d’amore arde e si fa sentir di lontano piú che da presso. Ma io vo’ palesarti il mio pensiero: le cose vietate sogliono piacere e le possedute rincrescere; io con l’esser venuto qui in Napoli, veggendola di continuo, per la troppa abondanza mi verrá in fastidio e mi levarò da questo amore.
Protodidascalo. Falsum, idest falsa imaginatio est che la vista d’una cosa amata voglia rincrescer giamai; anzi non è cosa piú melliflua e piena di dolcedine ch’un polcrissimo aspetto, e quanto gli oculari radii piú reciprocano meno si saziano. Concludo ergo che questo tuo venir a Napoli non è altro che addere ignem igni.
Lampridio. Questa será veramente l’acqua ch’estinguerá il mio foco.
Protodidascalo. Será come l’acqua che spruzza il fabro ferrarlo su’ carboni per fargli piú flagranti ed escandescenti.
Lampridio. Non fará il tuo dire ch’io perda la sua grazia, poiché l’ho acquistata.
Protodidascalo. Oh miserrimo e deperdito te, che chiami acquisizion d’altri la iattura di te medesimo! Rememora che quando pervenesti a Salerno non v’era giovine d’intelletto piú terso né di indole piú elegante di te. Sempre col Cantalicio e con lo Spicilegio alle mani; appena diceva: «arrige aures», che subito ti ponevi in ordine e aprivi le orecchie; non ti dava dettato cosí grande che non l’avessi capito e posto ben bene entro i meati dell’intelletto. Ed io vice versa tutto mi congratulava di tanta obedienza. Or piú non prezzi i fatti miei, «cepit te oblivio» d’ogni buon costume, e ti sei posto ad amplectere l’amor d’una donna. Odi Marone: «Varium et mutabile semper femina»; dove l’Ascensiano interprete enucleando quelle parole dice: «Femina nulla bona». Ella si ricorderá di te appunto come se non t’avesse conosciuto mai. Ma stimi che s’alcun formoso la chieda in copula matrimoniale, per amor tuo voglia giacer frigida nel lecto?
Lampridio. Protodidascalo, non far questa ingiuria al bello animo suo, ch’io nol comporterò.
Protodidascalo. Ma penso fin ora ne sará fatto cerziore tuo padre Filastorgo — che è nome greco, «apò tú philin, apò tú astorgin», «ab amando filium», «che ti ama molto»; — onde o ti richiamerá a Roma overo un giorno tel vedrai: «Quem quaeritis? adsum»; ché non solo verrá qua equester o pedester ma navester ancora.
Lampridio. Il fuoco d’amore si consuma piuttosto da se stesso col tempo che con ricordi o solleciti avedimenti: però andiamo a Capovana a trovar Giulio studente che conoscemmo in Salerno, ché quel certo mi rallegrará con alcuna buona novella di Olimpia mia.
Protodidascalo. Non ti ha scritto Giulio che Olimpia non voleva che tu fussi venuto a Napoli? e non ci fu detto nel diversorio che Olimpia si maritava con un certo capitano famigerato?
Lampridio. È bugia, nol credere.
Protodidascalo. Niuno crede a quel che gli dispiace. Ma io mi dimentichi tutti i modi di dire ciceroniani e non possa finire il sesto di Virgilio che ho cominciato, se non ti succederá quel che ti dico; «obtestor deúm — pro ‛deorum’ — atque hominum fidem»!
Lampridio. Questi che viene in qua non è Giulio quel nostro amico?
SCENA II.
Giulio studente, Lampridio, Protodidascalo.
Giulio. Se mal non veggio, questi mi par Lampridio; egli è desso. O Lampridio dolcissimo!
Lampridio. O Giulio fratello, ché persona piú desiderata non arei potuto incontrar oggi!
Giulio. Dio vi salvi e vi dia mille buon giorni!
Lampridio. Un solo basteria a farmi felice.
Giulio. Se soverchiano a voi siano per i vostri compagni; a voi, Protodidascalo.
Protodidascalo. Oh come optatissimo ti obietti agli occhi nostri!
Lampridio. Che sai d’Olimpia mia?
Giulio. Rispondete al saluto prima e dite: — Dio vi aiuti e salvi! — e poi mi dimandate d’Olimpia.
Lampridio. Come può mandarla salute chi è privo d’ogni salute?
Giulio. Or dite come stiate.
Lampridio. Dillomi tu, fratello, com’io stia, che lo sai meglio di me.
Giulio. Come?
Lampridio. S’Olimpia m’ama io sto benissimo, se non m’ama io sto assai peggio che morto: non sai tu ch’ella è l’anima mia? non amandomi come potrei viver senz’anima? sarei un che vivesse morendo sempre.
Protodidascalo. Larva d’uomo.
Lampridio. Lasciam questo: che sai d’Olimpia mia?
Giulio. Nulla di nuovo se non che venne a casa Mastica e mi pregò caldamente che vi scrivessi che per quanto amor portate ad Olimpia e se avete a caro il suo piacere, non foste venuto a Napoli per una cosa importantissima.
Lampridio. Che cosa importantissima è questa?
Giulio. Non saprei.
Lampridio. Che imaginate?
Giulio. Non saprei che imaginarmi. Parmi che sii contristato: sei tutto mutato di colore.
Protodidascalo. A questo nunzio oltre ogni suo cogitato dispiacevole, il freddo pavore di zelotipia ave invaso la fiamma comburenteli i precordi e l’ha fatto essangue e pieno di pallore. Segno di amore: «Palleat omnis amans», disse Nasone.
Lampridio. Per dirti la veritá, non avendomi detto la cagione m’hai posto l’animo non so come in suspetto.
Giulio. Vuoi tu attristarti del male prima che sia?
Lampridio. Par che l’animo se l’indovini.
Giulio. Forse è per ritornarne a Salerno di corto e vorrá ella istessa darti la nuova della sua venuta e risparmiarti questa fatica.
Lampridio. Non mi quadra, mi batte l’occhio dritto; e mi fu referito nel viaggio che si maritava con non so chi capitano suo vicino.
Giulio. Io non so nulla di ciò: questa è la casa del capitano che dite, e questi che viene è suo servidore; volete che gli ne dimandi? Non rispondete? volgete l’animo a me.
Lampridio. Non l’ho meco.
Giulio. Richiamalo a te.
Lampridio. Non posso, sta in gran tempesta, ondeggia. Ridillo, che non t’ho inteso.
Giulio. Vuoi ch’io ne dimandi questo servo?
Lampridio. Me ne faresti piacere.
Giulio. E vedrai quanto t’è stato detto tutto esser bugia.
Protodidascalo. Festina i celeri passi, vien alacre, baiula un simposio sive un convivio intiero, ch’è infausto augurio per voi. Vi son colombe, animal di Venere: dinota coniugio. Lampridi Lampridi, timeo actum esse de te.
SCENA III.
Squadra, Protodidascalo, Giulio, Lampridio.
Squadra. Sia benedetto Idio che siamo usciti di tanti «voglio e non voglio» e «che si facevano e che non si facevano»; ché al fin s’è voluto e si fanno queste nozze.
Protodidascalo. Rumina un certo quid de nupzie e ringrazia l’altitono Giove che sian pur fatte.
Giulio. Fermati, Squadra.
Squadra. Chi spensierato trattien un carico e che ha che fare?
Giulio. Un che ti spedirá tosto. Volgiti.
Squadra. Non posso volgermi: ho la schiena troppo dura adesso. Paga un che ti ubedisca.
Giulio. Dimmi, Squadra, donde vieni, dove vai e che robbe son queste?
Squadra. Vengo da comprare, vo a casa per apparecchiare il banchetto, ché il capitano s’ammoglia questa sera. Ecco t’ho detto donde vengo, dove vado e che robbe son queste.
Giulio. Se tu m’avessi detto con chi, a me aresti tolto fatica di dimandare e a te di rispondere.
Squadra. Con Olimpia figliuola di Sennia, questa nostra vicina.
Giulio. Questo è vero?
Squadra. Piú vero del vero.
Lampridio. (Mi par che da buon senno si mariti Olimpia, e di quanto ho sospetto, che sia vero).
Protodidascalo. (Etiam ti pare? non bisogna che piú ti paia perché è maritata; se ben hai ruminate le recensite parole, non hai piú diverticolo d’allucinar te stesso. È maritata, plus quam maritata).
Lampridio. (Taci col tuo malanno!).
Squadra. Non mi date piú fastidio, di grazia.
Giulio. Te ne darò mentre non mi dici quanto desidero.
Squadra. Non vedete che sto carrico, ho fretta, ho da far molte cose e ho poco tempo?
Giulio. Mentre hai detto cotesto, aresti risposto a quanto voleva. Mastica sa queste cose?
Squadra. Come non le sa, s’egli ha portato e riferito l’ambasciate e ogni giorno mangia col capitano?
Giulio. Mi sapresti dir dove fusse?
Squadra. Ove si mangia o si tratta di mangiare.
Giulio. Tutto questo sapevo io.
Squadra. Perché dunque ne me dimandi?
Giulio. Va’ in buon’ora carico e c’hai faccende; eccoti spedito.
Squadra. A dio, trattenitor degli affacendati.SCENA IV.
Giulio, Lampridio, Protodidascalo.
Giulio. Lampridio caro, oggi troveremo Mastica e c’informeremo meglio del negozio: forse non será cosí.
Lampridio. Questo «forse» non mi rileva nulla.
Giulio. Intanto andiamo a pranso.
Lampridio. Andate a pranso voi, ch’io non pranserò né cenerò piú mai.
Protodidascalo. Vuoi tu per questo appeter la morte?
Lampridio. Assai meglio che mal vivere. Sendo mancata la mia fé nel cuor di quella di cui l’imagine è piú viva nel mio che non v’è l’anima istessa, ed essendo morta per me chi era cagione che a me fusse cara la vita, non mi curo piú d’anima né di vita.
Giulio. Sei tu disperato?
Lampridio. Eh, Olimpia Olimpia, non son queste le parole che mi dicesti partendoti da me: che piuttosto il sole sarebbe mancato di luce che tu giamai di fede, o che il tempo bastasse ad intepidirti l’ardore che mostravi tener acceso nel petto per amor mio! Ed è possibile che nel cuore, donde sono uscite queste parole, or vi sia entrata tanta oblivione? Sia maladetto tal core e sia maladetta, Amor, la tua potenza, che in quel core ove piú regnar dovresti ti lasci come vil servo vincere e dispreggiare. ...
Protodidascalo. Lasciategli essalar gl’ignicoli accensi nell’intimo del suo core, che exarso dalla concupiscenza abbi l’egresso per questi respiracoli.
Lampridio. ... Capelli, questo mio braccio non è piú vostro luogo! Verde seta, quanto mal fosti intrecciata con essi: mi promettesti speranza ma è giá morta ogni speranza per me. Voi m’avete ingannato; ma chi non areste ingannato se ci foste avolti da quella con tante belle maniere e tanti baci? Io calpesto cosí voi come ella ha sprezzata e calpestata la mia fede. Anello, tu non starai piú in questo dito: mi mostravi due fedi gionte, che se ben la lontananza o la morte ne parte i corpi non partirá l’alme in eterno che sieno legate d’amore. ...
Protodidascalo. Oh, utinam, che concomitante il celeste favore questo fusse profícuo rimedio che lo vedessimo sospite di queste intricabili erumne!
Lampridio. ... Ahi donne perfide e infideli — delle ingrate parlo io, — tutte sète macchiate d’una pece, tutte sète ad un modo! Non perché vi si mostri piagato il core in mille parti, non perché si spenda la vita mille volte per onor vostro, si può acquistar tanto merito appresso voi che in un punto non vi si dilegui dalla memoria. L’instabilitá è ogetto del vostro cuore, la leggerezza è nata nel mondo dalla vostra condizione. ...
Protodidascalo. Oh che tu cernessi con gli occhi miei queste donne petulche Pasife, queste trisulche vipere!
Giulio. Lampridio caro, non avete ragione biasmar tutte per una che vi dia cagion di dolervi: ci sono delle cortesi e delle gentili sí. Ben si conosce che vi sopravince la còlera.
Lampridio. ... Ah Mastica Mastica, non senza cagione volevi che non fossi venuto a Napoli, accioché non vedessi che mi tradivi; della tua infedeltá non devo punto maravegliarmi, perché hai fatto da quel che sei! Ma io mi masticherò questo tuo core.
Protodidascalo. Non t’ho io da gl’incunabuli animadvertito con mille ciceroniane auree sentenze, che in questo abietto hominum genere v’è sempre carenzia di fede? e hai sempre fioccipeso le mie parole. Che vuol dir Mastica se non «mastix», «verbero», vulgari vocabolo «sacco di bastonate» e «truffatore »?
Giulio. Orsú, date fine a tanta còlera.
Lampridio. Amico, se mai mi facessi piacere, vattene, lasciami qui solo, lasciami sfogare e dolere a modo mio.
Giulio. Non è vergogna qui nella strada publica dolersi come figliuolo? Andiamo a casa, serratevi in una camera e qui a vostra posta doletivi quanto vi piace.
Lampridio. Né in casa vostra né in Napoli starò un sol punto; andrò a farmi monaco per disperato in un eremo. Anzi fammi una grazia, fratello: menami al Molo grande, ch’io voglio or ora buttarmi in mare.
Protodidascalo. Oh miserrimo chi segue questo giovenecida Amore! Germanule, andiamgli dietro, ché non incida in qualche discrimine della vita.
SCENA V.
Trasilogo, Squadra.
Trasilogo. Dunque un romano ará tanto ardimento da farmi un simile inganno?
Squadra. Chi v’ha rivelato questa cosa, padrone?
Trasilogo. Anasira, quella mia conoscente; e vogliono con questo inganno tormi Olimpia mia sposa. Son uscito per incontrario e ammazzarlo.
Squadra. Per dirlovi, padrone, a me parea impossibile che Olimpia v’amasse mai, perché alla vista conosceva che ne stava molto aliena.
Trasilogo. O Dio, che queste feminacce del diavolo fanno sí poco conto d’un cor tremendo e foribondo! Mirami un poco in viso: è faccia questa da sprezzarsi da Olimpia? Io mi ho inteso lodar di bellezza e ho fatto morir le migliaia delle donne d’amore a dí miei; e chi m’avea a dormir seco lo riputava a molto favore, per aver razza d’un par mio per uomini da guerra.
Squadra. Olimpia è come l’altre: s’attacca sempre al peggio.
Trasilogo. S’ella mi vedesse in mezzo un essercito di nemici, dove non si vede altro che spronar cavalli, abbassar lancie, sonar tamburri e trombe, scaricar archibuggi, bombarde e artegliarie, e io con questa mia Balisarda aprir elmi, forar corazze, romper teste, tagliar colli e infilar cuori; s’ella mi vedesse con una lancia in resta e prima che si pieghi buttar in terra almen sette persone, mi giudicarebbe un fulmine di guerra; ed ella e tutto il mondo impararebbe a far altro conto di me che non ne fanno.
Squadra. Or questo sí che desiderarebbe veder Olimpia prima che si pieghi: di buttar sette persone in terra.
Trasilogo. Ma oimè, che la gelosia m’ha posto un verme nel core che mi rode tutto e mi scompiglia: che verme, che verme! Io sento Amore che con cento cannoni mi dá la battaria all’anima. Giá sono abbattute le cortine e occecati i belovardi, ecco mi dan l’assalto; ahi spada, che mi consigli? ahi Durindana, tu non mi servi a nulla!
Squadra. Padrone, veggio non so chi in finestra.
Trasilogo. Mira se mi guarda.
Squadra. Non vi move gli occhi da dosso.
Trasilogo. Deh, che m’attaccassi ora alla scaramuccia con mille persone, ché in tre colpi ne vorrei far cento pezzi di tutti; che non vorrei mai tirar colpo che non andasse a pieno, né volger sguardo che non mi facessi fuggir dinanzi una compagnia. Vien qua che ti vo’ mostrar certi colpi di spada. Al primo sfodrar della spada fatti innanzi con questo mandritto sul capo, con questo roverscio alle tempie, poi caricagli sopra con un piede inanzi, che passaresti una torre da un canto all’altro.
Squadra. Padrone, riponete la spada or che siete in furore, che non m’ammazzate.
Trasilogo. Orsú, poni effetto a questo falso filo, ché saresti per sbarattar la scrima.
Squadra. Avertite che non vi scappi da mano. Diavolo! che Olimpia ha serrato la fenestra.
Trasilogo. Ahi, capitan Trasilogo, rovina degli esserciti, distruggitor delle cittadi, eversor degl’imperi, tu devi esser stimato cosí poco! Vien qua, spezza la porta, entra, sali e di’ ad Olimpia che ho preso piú cittá e castelli e che ho piú ferite nella persona ch’ella non ha posto punti d’ago su la tela in sua vita, e che ho cento gentildonne che spasimano per amor mio; e se non fusse che è una vil feminella, non la scamparia il cielo che non avesse a partirsi una cappa meco e ucciderci dentro un steccato. Che tardi?
Squadra. Non saria meglio, padrone, sfogar questa còlera sopra Mastica o sopra quel romano, e lasciar questa casa? chi può saper che vi sia dentro!
Trasilogo. Dici bene, mi vo’ appigliare al tuo consiglio; potrebbe esser qualche stratagemma, che ci fusse qualche imboscata dentro. Será bisogno venirci ben provisto e tôr prima le difese. Andiamo, ché vo’ spianar questa casa da’ fondamenti.
Squadra. Fermatevi, padrone, che vien Mastica e un giovanetto, qual stimo il romano. Ascoltiamo un poco: forse ragionano su questo fatto.
SCENA VI.
Mastica, Lampridio, Protodidascalo, Squadra, Trasilogo.
Mastica. Anzi or veniva insino a Salerno a recarti la piú lieta novella che tu avessi avuta giamai.
Lampridio. Perdonami se a torto mi sono adirato teco.
Mastica. Conosci tu questa lettera?
Lampridio. Oimè, d’Olimpia mia!
Mastica. Ti porto cosa miglior di questa.
Lampridio. Che cosa mi potrá esser piú cara e miglior di questa? Parla presto: che nuova m’apporti d’Olimpia?
Mastica. Nulla, ma lei tutta insieme.
Protodidascalo. (Me miserum, io arbitrava che fusse paulo minus che evaso da questa egritudine: or questa speranza sará un suscitabulo, ché di nuovo la fiamma si pascerá delle sue midolle!). Lampridio, perpendi gl’inganni, non credere, son tutte nughe.
Lampridio. Dimmi, Mastica, dove mi porti Olimpia?
Protodidascalo. Se non la porta dentro quel suo tumido ventre, ignoriamo dove la porti.
Mastica. Questo ventre è che te la porta.
Protodidascalo. Dunque bisogna invocar: «Iuno Lucina fer opem», che tu partorisca, o chiamar un lanista che ti squarti per cavamela fuori?
Mastica. Anzi mantenermelo grasso e grosso, onto e bisonte.
Lampridio. Mira che gran ventre che ha fatto!
Protodidascalo. Come può esser gracilescente se dentro vi sono i Bartoli e Baldi, i testi, l’arche e la supellectile ch’avevi in casa?
Mastica. Che testi, che archi, che tele?
Protodidascalo. Quei che saepicule abbiam pignorati e venduti per pabulare con munificentissima largitade la tua hiante bocca ed empir di vino cotesta tua absorbula gola.
Lampridio. Lasciam questo: mostrami Olimpia mia.
Mastica. Scostiamci di qui, che non siam visti ragionare insieme.
Lampridio. Eccomi.
Trasilogo. (Ascolta, Squadra).
Squadra. (E voi stiate ancora intento).
Mastica. Sappi che quando la vecchia mandò a chiamare Olimpia da Salerno, la voleva maritare con un certo capitano sciagurato. ...
Trasilogo. (A dispetto di... , potta del...!).
Squadra. (Fermatevi, ché ci sará tempo a questo).
Mastica. ... Ella negando sempre non volse mai consentirvi; pur volendo la madre che vi consentisse per forza, si serrò in una camera, si stracciò i capelli, si battè il petto, né fece altro che piangere e sospirare. ...
Lampridio. Questa è la lieta novella che m’apportavi? Mi hai mezzo morto!
Mastica. Ascolta se vuoi.
Lampridio. O cielo, come consenti che gli occhi, sole d’ogni tuo sole, or sparghino tante lacrime? o Amore, come tu soffri che si straccino quelle trecce dorate con che tu suoli legare ogni persona? o cuor mio, anzi non cuore ma pietra, come non scoppi di doglia in sentir questo?
Mastica. Tu piangi? e che faresti vedendo rotta una pignatta in mezzo il foco vicino l’ora di mangiare?
Protodidascalo. Sempre sta l’animo in saziar l’inexplebile aviditate del suo elefantino corpo e pascer l’ingluvie di quella vorace proboscide.
Lampridio. Presto, finisci d’uccidermi.
Mastica. ... Ella sempre che mi vedeva in presenza della madre, mi volgeva gli occhi con certo atto pietoso che parea che mi dicesse: — Mastica, abbi pietá di me. ...
Lampridio. Beato te!
Mastica. Per che cosa? perché ho fatto forse collazione?
Lampridio. Che collazione? Perché puoi trattare e ragionar con Olimpia e vederla quanto ti piace.
Mastica. Dieci di queste beatitudini le venderei per un bicchier di vino. — ... Poi quando alla sfuggita mi potea parlare, diceva: — Mastica, sai tu novella di Lampridio mio? — e finiva le parole che le portavano l’anima insino a’ denti. ...
Lampridio. O vita dell’anima mia, o somma allegrezza di questo cuore, ben serbi l’animo tuo generoso in ricordarti di chi promettesti d’amare! oh come uccidendomi m’hai risanato!
Mastica. Tu ridi adesso? o cervellaggine d’innamorati!
Protodidascalo. Ecco ristorate le prosternate passioni.
Lampridio. Segui.
Mastica. ... Al fin per tôrsi da questo intrico, ha inventato il piú bello e colorito inganno che si possa imaginare, facile a fare e piú facile a riuscire. ...
Lampridio. Dillomi di grazia.
Mastica. Leggi questa lettera e rispondi da te stesso alla tua dimanda e raccontati la trama ordinata.
Lampridio. Perché non me la dai? Non la stringer cosí forte, ahi come la tratti male! Dammela ché me la pongo nel petto, anzi nel core anzi nell’anima.
Protodidascalo. Eh! Lampridio Lampridio, tu dispreggi le mie parole, eh? non ti lasciar deludere.
Mastica. Adaggio, che abbiamo a far un patto tra noi. Subito che serai entrato in casa, vo’ che si bandisca la guerra mortale a sangue e a foco al pollaio, che si dia la rotta a tutt’i fiaschi, pignatte, bicchieri e piatti piccioli che sono in casa; vo’ che mi sieno consignate le chiavi della cantina, dispensa, casce e d’ogni cosa: vo’ essere il compratore, il cuoco e il maggiordomo; vo’ la parte di tutto quello che si pone in tavola, che non vogli vedere il conto di quel che spendo né che mi facci levar mattino, ma che mangi e dorma quanto mi piace; e sopra tutto che questo pedantaccio non accosti in casa.
Protodidascalo. Menti, lurcone, nugigerolo, sicofanta!
Mastica. Menti tu, che sia tuo fante.
Protodidascalo. Heu, heu, heu!
Mastica. Guai ti dia Dio, che hai?
Protodidascalo. Mi doglio all’antica. Da dolentis? heu, ah et cetera. Ma «o tempora, o mores», o aurea etá, dove sei transacta, ove sei! o Cicerone che increpavi i tuoi tempi! Siamo in questo esecrando secolo, in questa etá ferrea a garrir con questo petulante.
Mastica. Vuoi disputar meco? e se vincerai vo’ star un giorno senza mangiare, e se perdi vo’ farti un cavallo, ché non sai accordare il geno mascolino col feminino.
Protodidascalo. Va’ e disputa con i tuoi pari dell’arte tua, de re culinaria.
Mastica. Anzi questa è l’arte tua.
Protodidascalo. Dico «culinaria» seu «coquinaria», cioè di cocina; questo è un sinonimo.
Lampridio. Maestro, di grazia pártiti di qui, ché non può esser ben di me se mi stai d’intorno.
Protodidascalo. Leggi un poco questi endecasillabi che t’insegnano a non farti deludere.
Lampridio. Va’ col nome del diavolo tu e tuoi versi: che seccaggine è questa!
Protodidascalo. Heu misera, negletta e profligata virtude!
Mastica. Orsú, mi prometterai tu quanto ti ho detto?
Lampridio. Eh, Mastica, conoscerai in altro modo la mia liberalitá.
Mastica. Eccoti la lettera, leggi piano che non sii inteso.
Lampridio. — «Sola speranza d’ogni mio bene, ...». Oh dolcissimo principio! Beata carta, quanto tu devi tenerti piú felice dell’altre, poiché ella s’è degnata appoggiarci le belle mani! Mentre bacio questi caratteri parmi che baci quelle mani che l’han formati, quella bocca che gli ha dettati e quell’animo che gli ha concetti.
Mastica. Non tanti baci sopra baci; e che faresti a lei se cosí baci l’ombra delle sue mani?
Lampridio. Oh, che parole dolcissime! O bello inganno, ben veramente mostra esser uscito dal suo ingegno divino!
Mastica. Non piú, basta: non l’hai letta, vuoi tu leggerla un’altra volta?
Lampridio. Deh, lasciami leggere tutto oggi, ché mentre leggo questa parmi che ragioni seco!
Mastica. Fermati, dove vai?
Lampridio. Vo a casa di Giulio a trovar le vesti per vestirmi da turco e venir or ora a casa vostra.
Mastica. Ascolta, aspetta.
Lampridio. Presto, ché l’allegrezza mi scorre per tutte le vene di trovarmi con lei e disturbar il matrimonio tra lei e questo capitano furfante.
SCENA VII.
Trasilogo, Lampridio, Mastica, Squadra.
Trasilogo. Oimè, non posso piú tenermi che con un pugno non gli rompa la testa e non li schiacci quell’ossa.
Lampridio. Mastica, chi è questo rompiosse e schiacciateste?
Mastica. È quel capitano che vuol prender Olimpia tua per moglie.
Lampridio. Poiché questi cerca privarmi d’ogni mio bene, cercherò prima privar lui della vita.
Trasilogo. Io darò tal calcio dietro a questo furbetto che lo farò andar tanto alto che, se ben portasse seco un fardello di pane, gli sará piú periglio di morirsi di fame per la via che morirsi della caduta. E quest’altro vo’ che assaggi un pugno delle mie mani, ché so che non è duro il suo osso come la mia carne, e li farò tanto minuta la carne e l’ossa che non será buona per pasto delle formiche. ...
Squadra. Non con tanto impeto, padrone.
Trasilogo. ... Io lo spaventerò con la guardatura, che non será altrimente bisogno di por mano alla spada. ...
Lampridio. Mira che passeggiar altiero, mira che bravura!
Squadra. Lasciatelo andar, padrone, ché alla ciera mi par di buono stomaco.
Trasilogo. ... Io gli darò a ber un poco d’acqua di legno, che gli lo sconcierá di sorte che per parecchi giorni non gli verrá voglia di mangiare. Ma será meglio che gli parli prima. — Dimmi un poco, conoscimi tu?
Lampridio. Io non ti conosco né mi curo di conoscerti. Ma tu conosci me?
Trasilogo. Non io.
Lampridio. Orsú, vo’ che mi conoschi, perché vogliam fare questione insieme.
Trasilogo. Poiché io non conosco te né tu me, non accade far questione altrimente.
Lampridio. Su, poni mano alla spada.
Trasilogo. Non la vo’ ponere se non dove piace a me: vuoimene forzar tu? sei tu padrone delle mie mani? sto io con te che mi comandi?
Lampridio. Sí, perché ci vogliamo romper la testa insieme.
Trasilogo. La testa mia io la vo’ sana; se la vuoi rotta tu, battila in quel muro.
Lampridio. Per parlarti piú chiaro, dico che ferendoci tra noi ci vogliamo cavare un poco di sangue.
Trasilogo. Sangue ah? ne ho poco e buono; se soverchia a te, vattene ad un barbiero che con poca spesa te ne caverá quanto vuoi.
Mastica. (Uomini che abondano assai di parole mancano assai di fatti).
Lampridio. Hai paura di me?
Trasilogo. Ho paura di me, non di te.
Lampridio. Pecora, asinaccio!
Squadra. Rispondetegli, padrone.
Trasilogo. Il malanno che Dio ti dia, non mi chiamo cosí io!
Lampridio. Tu fuggi, eh?
Trasilogo. Io camino presto.
Mastica. (In cambio di menar le mani mena i piedi).
Trasilogo. Oimè, oimè!
Squadra. Ancor non vi ha tócco e voi gridate.
Trasilogo. Se gridassi dopo, a che mi gioverebbe?
Lampridio. Mastica, mira se è sciocco: non ha voluto venir all’esperienza dell’armi con me.
Mastica. Anzi è savio, che ha voluto prima credere che provare.
Lampridio. Andiam per i fatti nostri.
Mastica. Andiamo. Ecco mi vedrò le vene gonfie, i nervi distesi, allisciarsi la pelle della mia pancia che pareva la faccia della bisavola mia.
Trasilogo. Son partiti, Squadra.
Squadra. Sí, sono.
Trasilogo. Mira bene.
Squadra. Non vi è persona, dico.
Trasilogo. Io non ho voluto porre a rischio un par mio con lui, ché a me ogni minima ferita m’ucciderebbe perché son tutto cuore; ma egli è tutto polmone. Né gli ho voluto rispondere perché non aveva còlera.
Squadra. Perché non vi serbate la còlera per lo bisogno?
Trasilogo. Ma or che la còlera m’è salita al naso e mi fuma il cervello, ti farò conoscere chi son io. — Pecora, asinaccio sei tu. Menti per la gola: questa è mentita data a tempo, non te la torrai da dosso come pensi. Mondo traverso, perché non vieni qua ora? ché ti romperei la testa e ti cavarei col sangue l’anima: tif, taf. Hai paura di me? Fuggi dovunque tu vuoi, ch’io ti troverò e cavarò gli occhi e farò che tu stesso li veggia nelle tue mani.