< La Rosa del Dong-Giang
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L'appuntamento
Tay-See La fuga

L'APPUNTAMENTO


La giovane cocincinese, la delicata Rosa del Dong-Giang, che da parecchie lune minacciava di appassire per sempre, semiuccisa dallo strazio di aver veduto alle prese colla tigre colui che da tanto tempo attendeva struggendosi in pianto, era stata prontamente trasportata alla sua abitazione. L'infelice giaceva sulle coltri di bianca seta del suo lettuccio, pallida come un cadavere, la faccia spaventevolmente alterata, gli occhi chiusi, i denti convulsivamente stretti, le membra irrigidite, insensibile alle affettuose cure che le prodigava Kia, la sua fida amica, figlia di un quan-an o capo della giustizia di Bien-hoa.

Senza l'affannoso respiro che sollevavate il seno di fanciulla e senza il rantolo e le parole che sfuggivanle dalle labbra scolorate, si sarebbe creduta morta.

Da tre quarti d'ora Tay-See era in questo stato, quando ad un tratto sussultò, come fosse toccata da una scossa elettrica. Aprì gli occhi, si alzò quasi spinta da una molla invisibile, appoggiandosi sulle diafane manine e girò attorno uno sguardo smarrito.

— Josè!... Josè!... — balbettò, con accento straziante.

— Tay-See — mormorò Kia, avvicinandosi a lei.

Tay-See la mirò con ispavento come se non la conoscesse più.

— Josè!... Josè!... — ripetè con maggior forza. — Dove sei o mio adorato Josè?... Perché quella tigre?... Perché quella gente armata?... Ah miserabili!...

La disgraziata, in preda al delirio tese le braccia, mise un urlo straziante e cadde di peso sul lettuccio, come se le forze le fossero improvvisamente mancate.

Kia si curvò su quel volto che esprimeva uno strazio indescrivibile.

— Tay-See, mia buona Tay-See — disse. — Ma che hai tu? Mio povero fiore del Dong-Giang, non appassire! Maledetto vento dei bianchi, tutte le volte che soffia atterra il mio vago fiore. Ma che hai fatto ai visi bianchi, se ogni volta che ti fissano t'avvelenano? Tay-See, ritorna in te e guarda la tua fida Kia.

Tay-See parve comprendesse le ultime parole dell'amica, poiché tornò ad alzarsi, gettandosi nelle braccia di lei. Un singhiozzo le lacerò il seno.

— Kia!... Kia!... — esclamò. — Tutto è finito!... Sto per morire!... Josè!... Josè!... Oh mio adorato Josè!...

— Josè!... Ma chi è questo Josè?... — domandò Kia, spaventata. — Questo nome non è cocincinese. Chi è, Tay-See, chi è?...

— Kia, è morto o vivo quell'uomo?

— Ma quale uomo?...

— Josè. Jo...

S'arrestò rabbrividendo.

Nella stanza vicina si udiva la voce di Tay-Shung.

— Kia!... — esclamò ella, afferrando convulsivamente le mani della giovane cocincinese. — Kia!... Quell'uomo mi fa paura... non voglio vederlo... ha le mani insanguinate... me lo ha ucciso...

— Deliri, Tay-See?

— No, non deliro, non deliro... Eccolo che viene!

La porta si aprì e Tay-Shung si precipitò nella stanza, accorrendo verso il lettuccio.

Il guerriero, cosa inaudita, piangeva come un fanciullo.

— Tay-See! — gridò egli. — Mia bella Tay-See! Che ti è accaduto? Perché tanto spavento? Perché quell'urlo?... Tay-See! Tay-See, io non voglio che tu muoia, io voglio che tu viva, mia bella Rosa del Dong-Giang. Tu hai qualche cosa che rode il tuo cuoricino e tu stai terribilmente male. Che hai?... Dillo a me, dillo al tuo Tay-Shung che ti vuole tanto bene. Io farò per te ogni sacrificio, dovesse costarmi tutto il sangue che mi scorre nelle vene.

Tay-See, atterrita, lo guardava senza essere capace di pronunciare una parola.

Avrebbe voluto respingere quell'uomo che forse le aveva assassinato l'amante; avrebbe voluto interrogarlo per sapere ciò che era accaduto di Josè, ma non ardiva. Sapeva che un abisso stava aperto ai suoi piedi e il più piccolo sospetto poteva perderla.

Alzò lentamente gli occhi e guardò Tay-Shung che sembrava più atterrito di lei.

— Tay-See! — esclamò il guerriero con accento supplichevole. — Parlami, parlami, amor mio. Tu ti senti male, oh sì! Molto male, lo leggo ne' tuoi occhi.

La disgraziata scosse la testa con suprema energia. Egli le afferrò una mano ma ella prontamente la ritirò, come avesse toccata una serpe.

— Tay-See! — ripetè il guerriero. — Ma che hai, infelice creatura?

— Nulla... nulla — balbettò Tay-See, rabbrividendo.

— E perché quell'urlo?

— Quell'urlo? — esclamò ella... come se non si ricordasse più nulla.

— Sì, quell'urlo terribile, straziante, che m'ha lacerato il cuore.

— La tigre... il sangue... quell'uomo... m'hanno fatto paura...

— Quell'uomo!... E perché?...

— Nol so... dimmi... è morto quell'uomo? — chiese ella con accento disperato, aggrappandosi alle vesti di lui.

La risposta era la vita o la morte.

— Quell'uomo! — mormorò egli per la seconda volta. — Ma lo conosci forse?

— No, Tay-Shung, non lo conosco, te lo giuro, ma io voglio sapere se è vivo o morto, dimmelo, dimmelo...

— No, Tay-See, non è morto. Quel nemico della patria nostra ha ucciso la tigre.

Tay-See frenò a gran pena il grido di gioia che stava per eromperle dalle labbra.

Un'ondata di sangue le salì al capo a colorire le pallide gote.

Il delicato fiore del Dong-Giang, piegato sull'esile suo gambo dall'impetuoso soffio dell'uragano, si rialzava ripieno di vita.

— Che accade? — chiese Tay-Shung pieno di stupore. — Tu rivivi, io lo vedo, Tay-See. Qual miracolo si compie mai?

— Non so... mi sembra di stare meglio Tay-Shung — mormorò ella con voce soffocata. — Lasciami... ho bisogno di parlare con Kia... lasciami...

— Ma non son qui io?... Non sono tuo schiavo?...

— Lasciami, Tay-Shung, io te ne prego... lo voglio.

Il guerriero chinò il capo sul petto, mandando un gemito.

— Ah! — esclamò. — Tu sei incomprensibile, Tay-See... Tu mi fai paura!... Sento che un grande mistero si cela nel tuo piccolo cuore, ma obbedisco.

Si allontanò a lenti passi, pensieroso, cupo, triste ed uscì. Kia, che erasi seduta dinanzi le piccole finestre riparate da sottili stuoie, s'avvicinò al letto.

— Tay-See — mormorò.

Le due amiche si abbracciarono: Tay-See taceva, ma il seno le si sollevava sotto i singhiozzi.

— Tu piangi — disse Kia commossa fino alle lagrime. — È un nuovo dardo che ha trafitto il tuo cuore o un nuovo uragano che ha piegato la delicata Rosa del Dong-Giang? Tu soffri, mia buona amica, parla, confidati. Non celare a me le tue pene.

— Kia... — mormorò con voce rotta Tay-See. — Quanto sono infelice!

Una nuova vampa le salì sul volto, un tremito la prese; si abbandonò fra le braccia dell'amica la quale se le strinse amorosamente al seno, come una madre farebbe della sua bimba.

— Parla — disse la figlia del quan-an.

— Sai perché io lentamente muoio?

— So che un grande dolore ti strazia il cuore e mi si disse per un uomo che non appartiene alla nostra razza.

— È vero, o mia buona Kia. Ah! Quanto sono disgraziata! Meglio sarebbe stato che io fossi da lungo tempo morta!

— Tay-See, tu devi raccontarmi tutto, tutto.

— Sì, più nulla ti tacerò.

Kia lanciò un rapido sguardo nella stanza, aprì la porta onde assicurarsi che nessuno stava fuori ad ascoltare. La richiuse sprangandola, poi tornando verso l'amica:

— Puoi parlare — le disse.

— Odimi, mia buona Kia — disse la povera Rosa del Dong-Giang, con voce fioca.

— Tre anni or sono a Saigon incontrai un giovane spagnolo di nome Josè Blancos, bello, forte, prode. Era addetto all'ambasciata spagnola e aveva un grado nell'esercito della patria sua. I nostri cuori ben presto parlarono: io l'amai ed egli mi amò, ma di un amore immenso, di un amore di cui tu non potrai mai avere una idea. Quali sublimi momenti, mia Kia, io passai fra le sue braccia! Sento anche oggi i suoi baci impressi sulle mie labbra, caldi, ardenti ancora come se m'avesse baciata ieri.

Tay-See s'interruppe mandando un gemito e si nascose il viso fra le mani.

— Quella felicità durò tre lune, poi fu bruscamente spezzata. Josè era stato richiamato in patria assieme all'ambasciata e fu necessario separarci. Sulla tomba di mia madre ci giurammo eterno amore: io gli giurai di conservarmi sua ed egli di ritornare un giorno per farmi felice per sempre. Quante lagrime, Kia! Oh! Come fu terribile l'istante in cui vidi il vascello allontanarsi dalle nostre sponde, colla prua rivolta verso il lontano occidente! Io avevo fede nella sua parola, io non dubitava che sarebbe ritornato poiché troppo mi amava, ma vaghe paure mi agitavano e una voce misteriosa mi sussurrava che per Tay-See tutto stava per finire. Un giorno mio padre, che nutriva un odio violento contro la razza bianca e particolarmente la spagnola, mi intercettò una lettera di Josè e da quel giorno la mia felicità fu infranta. Tay-Shung da lungo tempo ambiva la mia mano e mio padre, il quale teneva molto a imparentarsi con un generale che godeva fama di essere uno dei più valenti, per sradicare dal mio cuore l'amore che mi univa allo spagnolo, trattò con lui il mio matrimonio. Invano pregai, invano piansi, invano dissi all'uno che sarebbe stato come uccidermi trascinarmi lontana da Saigon; e all'altro che mi sarebbe stato impossibile l'amarlo o come padrone o come sposo, perché il mio cuore ormai lo possedeva un altro uomo e che questi un giorno sarebbe ritornato; e invano dissi che avevo ormai giurato sulla tomba della mia defunta madre, di conservarmi fedele al mio Josè. Una sera mi strapparono dalla mia stanza, mi trassero a forza su di un balon e al mattino mi trovai qui, moglie di Tay-Shung, che mi aveva comperato per quaranta chiodi d'oro. Credetti di morire, ma così non avvenne. Mi sentii consumare a poco a poco, sentii andarsene le mie forze, scorrere sempre più lento il succo vitale, ammalai, ma vissi. Josè mi aveva promesso di ritornare e non volevo morire senza prima averlo veduto, fosse pure per un sol minuto, per un solo istante. Quanti tormenti, o mia Kia, in questi due anni! Ho contato i mesi, i giorni, le ore, i minuti, lottando estremamente per non venire spenta prima del suo ritorno ed ora in qual modo lo rivedo!...

— E Tay-Shung, mai erasi accorto di questo tuo amore?

— Lo sospettava.

— E nulla fece per sradicartelo dal cuore?

— Sì, dapprima ricorse alle minacce. Ero sua, poiché mi aveva comperata e a quale prezzo, ma opposi una energia che non credevo possedere e una sera corsi sulle rive del Dong-Giang per seppellirmi nei suoi gorghi. Tay-Shung, che mi amava alla pazzia, capì che non avrei esitato a uccidermi se avesse osato violentarmi. Da quel giorno divenne un altro uomo e la sua passione, anziché diminuire, si accrebbe smisuratamente. Mi trattò non più come sua moglie ma come sua padrona, circondandomi d'ogni cura. Non l'odio quell'uomo, no, perché con me fu buono, perché mi adora come fossi una divinità, ma sento che non lo amerò mai! O Josè o la morte: ecco il mio destino.

Uno scroscio di pianto le soffocò la voce e si lasciò ricadere sul lettuccio, priva di forze.

— Mia buona amica, non piangere così — disse Kia che pur singhiozzava. — Dimmi, l'hai riveduto lo spagnolo?

— Sì, al recinto, dove combatteva contro la tigre!...

— Che!... Il prigioniero era il tuo Josè?... Buddha, proteggetelo!

— Sì — continuò Tay-See, con un filo di voce rotto dai singhiozzi. — Era lui, il mio amato Josè! È atroce, rivederlo prigioniero, rivederlo dinanzi alla morte, dopo tanti giorni d'angosciosa aspettativa, dopo tante sofferenze e tante lagrime. Ah! Perché Buddha mi negò l'ultima consolazione di vederlo almeno libero? Kia, mia buona Kia, tutto è finito per la Rosa del Dong-Giang.

Kia la guardò coi lucciconi agli occhi e la baciò a più riprese, dicendo:

— No, non voglio che tu muoia!

— Perché non vuoi che io muoia? Vive forse il fiore senza sole e senza rugiada? A che vivere, mia buona amica Kia, quando viene a mancare la speranza che mi sosteneva? Avevo sperato un tempo di rivederlo e di viver felice al suo fianco, ma ciò oggi è impossibile poiché egli fra breve sarà morto. Kia, Kia, è meglio la morte al martirio. Tutto crolla a me d'intorno ed io mi perdo fra le tenebre!

— Oh! Non parlare così, Tay-See! — esclamò la giovanotta. — Tay-Shung ignora che il prigioniero è Josè?

— No, non sa nulla, ma che importa? Josè è un prigioniero di guerra e fra non molto morrà. Gli uomini della nostra razza sono inesorabili!

— Ma ha ucciso la tigre...

— Peggio per lui; morrà calpestato dall'elefante.

— È orribile.

— Sì, è orribile, è spaventevole, è mostruoso! Ah! Kia, sento che la sorgente della vita si inaridisce a poco a poco e che le nere ali della morte mi sfiorano.

— Tay-See, io sono pronta a tutto pur di rivederti felice. Che posso fare? Io non voglio che tu muoia.

— Non morrò... finché lui vivrà!... Ma quando sarà ucciso, chiuderà gli occhi... e io pure scenderò nella tomba.

— Tay-See! — esclamò Kia. — Se noi lo salvassimo?

Un amaro sorriso sfiorò le arse labbra della misera cocincinese.

— Salvarlo? — mormorò. — Non è possibile, non è possibile!

— Io sono scaltra e so giuocare gli uomini.

Tay-See s'impadronì delle mani della sua fida amica, stringendole convulsivamente ed esclamò:

— Salvarlo!... Tu vuoi salvarlo!... Kia... non illudermi, non uccidermi prima di lui!

— Dimmi, Tay-See, — disse la giovanetta sedendosi presso il capezzale, — dove sono gli stranieri?

— A Saigon e stanno per invadere tutta la Gia-Dinh.

— Marceranno su Bien-hoa?

— Sì, Tay-Shung me lo ha detto.

— Sta bene.

— Che vuoi fare?

— Spargere la voce che gli stranieri marciano rapidamente su Bien-hoa e far uscire Tay-Shung colle truppe.

— Perché?

— Per allontanarlo mentre libereremo Josè. Tay-Shung è uomo troppo astuto e troppo pericoloso. Un sospetto solo basterebbe per far cadere la testa dello spagnolo.

— Buddha, proteggetelo!

— Non correrà alcun pericolo, Tay-See, te lo assicuro! Io mi recherò da Josè e gli dirò che venga da te.

— Da me!... Da me hai detto?

— Sì, verrà da te.

— Qui, in questa stanza?

— Sì, in questa stanza.

— Kia... Kia!...

— Te lo giuro, mia povera Tay-See.

— Mi fai morire di gioia... Ah! Kia, non è possibile, non è possibile!

— Perché non è possibile?

— Ma non sai adunque che egli è prigioniero?

— Lo so, ma io ho trovato il mezzo di salvarlo. Mi abboccherò fra poco col mio fidanzato, il prode Thay-Mit, e gli narrerò tutto chiedendogli il suo appoggio. Thay-Mit è buono e nulla negherà alla sua Kia.

— Mi fai paura! — esclamò Tay-See battendo i denti pel terrore. — Una parola sola basterebbe per uccidermelo.

— Non temere, mia buona amica, Thay-Mit non dirà parola a chicchessia. Odimi.

— Ti ascolto, ma affrettati che ho la febbre indosso.

— Fra due ore manderò Thay-Mit a passeggiare nei boschi e poco dopo tornerà di corsa, annunciando che gli stranieri sono a poche miglia da Bien-hoa. Tay-Shung radunerà i suoi guerrieri e correrà verso il sud in cerca del nemico. Lui lontano, sarà cosa facile liberare Josè.

— Kia!...

— Ascolta, ascolta ancora, Rosa del Dong-Giang — proseguì l'astuta giovinetta. — Quando i guerrieri saranno partiti, Thay-Mit si recherà da Wang, il carceriere, lo ubriacherà di ruon-manch e di oppio ed il prigioniero sarà libero.

— Ah... mia buona Kia! — esclamò Tay-See, abbracciandola. — Come morrei felice, stretta fra le braccia del mio Josè. Potessi almeno avere quest'ultimo conforto!

— Non parlare di morire, Tay-See. Io voglio vederti ancora felice.

— Per me la felicità non tornerà mai, lo sento — disse l'infelice, con amarezza. — L'ho provata un sol momento, laggiù, a Saigon, quando Josè mi amava, quando mi giurava eterno amore e non la proverò mai più. Ah! Perché, Tay-Shung, sei venuto a spezzarla? Perché il destino ti guidò sulle mie tracce? Senza di te, a quest'ora sarei felice nella patria di Josè e invece martirio, strazio e disperazione!

— Coraggio, Tay-See.

— Coraggio! Ah, Kia, ho un presentimento che distrugge le mie speranze e che mi fa inorridire. Sento che una catastrofe mi è vicina.

— È la paura che ti fa parlare così e vedere tutto oscuro.

— Non tutto oscuro, vedo tutto sangue, Kia.

— Maledetto Tay-Shung! — esclamò la figlia del duan-an.

— Non maledirlo, Kia — mormorò dolcemente Tay-See. — Io lo compiango.

— Tu sei troppo buona, Tay-See. Eppure egli fu causa della tua infelicità.

— Mi rese infelice perché mi idolatrava troppo.

Il gong del mezzodì rimbombò in distanza. Kia si alzò.

— È tempo di operare — diss'ella. — Quando l'ultimo raggio di sole avrà terminato d'indorare l'alte cime dei cay me e la luna comincerà a rischiarare la gran riviera, volgi il tuo sguardo verso le piantagioni di sesame nero. Di là vedrai arrivare il tuo Josè, te lo giuro. Addio e non tremare.

Si chinò sul pallido volto di Tay-See, vi depose un lungo bacio e si allontanò silenziosamente. Un momento dopo era sulla via e si dirigeva verso l'abitazione del quan-an.

Tay-See rimase un momento immobile, come trasognata, poi portò le mani al viso e proruppe in un singhiozzo straziante.

— Gran Dio! — esclamò ella. — Potessi vederlo almeno un minuto, un solo istante, udire una sola sua parola, mi sentirei felice per tutta l'eternità e salirei senza rimpianti nel nirvana di Buddha.

Si ripiegò priva di forze, la vista le si intorbidì, le palpebre le si fecero pesanti e ricadde assopita col sorriso sulle labbra e il viso animato da un roseo colorito.

Il povero fiore, malgrado il colpo ricevuto, tornava a vivere.

Erano trascorse parecchie ore, quando fu bruscamente svegliata da un profondo sospiro e da un ardente alito. Riaprì gli occhi e si vide dinanzi Tay-Shung il quale la spiava attentamente. Una profonda ruga solcava la bruna e ampia fronte di lui.

— Tay-See — diss'egli senza però alcuna alterazione. — Dormendo ti lamentavi. Soffri molto? Mia cara, tu stai assai male, poiché parlavi con accento straziante.

Ella trasalì e lo guardò con ispavento.

— Mi lamentavo!... Parlavo?... — balbettò essa.

— Sì, Tay-See, e dalle tue labbra cadevano non so quali strane parole... Parlavi d'infelicità... di fughe... e hai ripetuto più volte un nome che mi è straniero: dimmi, che vuol dire Josè?

Tay-See rabbrividì e lo guardò attentamente come se volesse leggergli dentro gli occhi, ma egli era tranquillo, quantunque la profonda ruga solcasse ancora la sua fronte.

— Non so che significhi — diss'ella. — I sogni sono così strani!...

— Josè! — ripetè egli. — Sai, Tay-See, questa parola mi ha fatto una profonda impressione!

Ella non rispose ma portò una mano al cuore come avesse ricevuto un colpo di pugnale. Ad un tratto in lontananza si udì un furioso rullare di tam tam. Tay-Shung alzò il capo e portò la destra all'impugnatura della scimitarra.

— Che significa ciò? — chiese, mentre un lampo di fierezza gli balenava negli occhi. — Sarebbe il nemico già giunto sulle rive del Dong-Giang? Oh! Guai, guai a lui!

Si affacciò alla finestra e guardò.

Una turba di soldati armati di picche, di fucili e di sciaboloni, si avvicinava rapidamente all'abitazione. Thay-Mit, l'amante di Kia, camminava innanzi senza cappello, tutto lacero, inzaccherato di fango, trafelato.

— Thay-Mit! — esclamò il generale. — Che succede?

Tay-See lo udì e provò un fremito. Reagì nondimeno e scese dal letto appoggiandosi ad una colonna della stanza.

Si era appena alzata che Thay-Mit entrava come un fulmine.

Uno sguardo di lui la rassicurò che tutto andava bene e non c'era da temere nulla.

— Che hai? — domandò il generale, correndo incontro all'amante di Kia.

— Tay-Shung, il nemico è sulle rive del Dong-Giang!

Un grido di furore eruppe dalle labbra del generale.

— Il nemico?! — urlò. — Come lo sai tu?

— L'ho veduto io con questi occhi. Era accampato presso il tempio di Bahaoting.

— Ma quando?... Come?... Di', su, narra.

— Ero partito per la caccia del rinoceronte, — disse Thay-Mit che ripeteva la lezione di Kia, — allorquando, a dieci miglia di qui, mi ritrovai a caso in un accampamento francese...

— Erano molti? — chiese Thay-Shung.

— Che so io?... Cento, duecento, molti infine.

— E ti hanno inseguito?

— Sì, e per due miglia, sparandomi delle fucilate.

— Ah! Il nemico è qui! — esclamò Tay-Shung, con aria feroce. — Sta bene! Vendicherò la rotta di Saigon con un fiume di sangue, Thay-Mit. Marceremo incontro ai francesi portando sulla punta d'una picca la testa del prigioniero.

Tay-See emise un sordo gemito e tentò di parlare ma non fu capace di aprire le labbra. Fortunatamente Thay-Mit era preparato a tutto.

— No, per Buddha! — esclamò egli. — Se tu l'ammazzi col medesimo colpo fai cadere la testa del tuan-fu di Bre-Lum.

— Che?... La testa del governatore di Bre-Lum! La testa di mio nipote! — gridò Tay-Shung con disperazione.

— Sì, Tay-Shung, poiché i francesi l'hanno fatto prigioniero.

— Quando?... Quando?...

— Ieri mattina.

— Ah! Maledetti!...

— Affrettati a partire, generale. Raccogli i tuoi cavalieri e corri incontro ai nemici, sterminali e libera tuo nipote.

— E il prigioniero che è in nostra mano?

— Bisogna conservarlo, Tay-Shung. Se tu vieni sconfitto puoi proporre uno scambio. Noi perderemo il francese, ma libereremo tuo nipote.

— È giusto, Thay-Mit. Presto, va' a radunare cento cavalieri che io vengo immediatamente.

Thay-Mit non se lo fece dire due volte e uscì correndo.

Tay-Shung si gettò ad armacollo l'archibugio, passò nella cintura la scimitarra e appressandosi a Tay-See le disse con voce commossa:

— Mia bella Rosa del Dong-Giang, io mi rimetto in campagna per salvare mio nipote e Bien-hoa. Ritornerò presto e se Buddha lo vorrà, tornerò vincitore.

— Addio, Tay-Shung — mormorò ella con voce appena distinta.

Il guerriero la baciò in viso, la mirò un istante come trasognato e si allontanò rapidamente.

Dieci minuti dopo, sotto le finestre dell'abitazione passavano come un uragano cento cavalieri galoppando verso il sud. Il generale era alla loro testa colla scimitarra in pugno.

Tay-See, nell'udire i cavalli allontanarsi a corsa sfrenata, sentì una stretta al cuore. Si trascinò lungo le pareti, raggiunse il letto e vi si lasciò cadere col volto nascosto fra le mani.

— Povero Tay-Shung — mormorò con voce fievole. — È finita!...

Passarono due lunghe ore, durante le quali il sole declinò dietro i grandi boschi d'occidente. Tay-See, ansante, febbricitante, aspettava cogli orecchi tesi e gli occhi ripieni di lagrime. Il cuore le balzava in petto come se volesse spezzarsi e funesti presentimenti l'assalivano facendola tremare come la foglia scossa dagli impetuosi soffi della tramontana.

D'un tratto un lungo fischio risuonò al di fuori. Trasalì come se una fucilata le avesse rasentato le orecchie, si alzò pallida, disfatta, tremante, poi, facendo uno sforzo disperato, si precipitò verso la finestra appoggiandosi al davanzale.

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