< La Scimitarra di Budda
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32. Amarapura
31. Sull'Irawaddy 33. Il siamese

32.

AMARAPURA


Amarapura, o Ummerapura, soprannominata dai birmani la Città degli immortali, è situata a cavaliere di un istmo bagnato a ovest dalle acque dell'Irawaddy e ad est da quelle del lago di Tunzema. Fondata nel 1783 dal re Mendra Gschi, aveva toccato, come molte altre città dell'impero, l'apice della grandezza e della potenza, per poi decadere con una rapidità veramente spaventevole.

Nel marzo del 1810 era stata rovinata da un grande incendio che le aveva distrutto tre quarti delle sue 25.000 abitazioni. Nel 1819, per maggior disgrazia, era stata privata del grado di capitale. Riacquistatolo nel 1824, quindici anni più tardi era stata devastata dal terremoto. Nel 1858, quantunque ancora abitata dall'imperatore, non contava che 30.000 abitanti. Era però ancora una splendida città, con vie spaziose, templi bellissimi, fra i quali quello famoso di Arracan sostenuto da colonne dorate, e il Khium-Dogè, palazzi di legno grandiosi, fortificazioni salde e quartieri belli. Era pure ancora celebre per le sue oreficerie e per i suoi diamanti e il suo commercio era ancora vivissimo con Ava, Saigaing, Prome, Pegù e Rangun.

Come si disse, quando la barca di Nan-Yua approdò, la notte era già calata. A malapena si distinguevano, al chiarore delle stelle, le barche ancorate lungo il quai, le pagode, i palazzi e le abitazioni.

– Nan-Yua, – disse Giorgio, volgendosi al birmano – se tu non ci conduci in qualche albergo, non sappiamo dove passare la notte.

– Un albergo a quest'ora! – esclamò Nan-Yua con sorpresa. – È impossibile trovarne uno aperto, anzi vi consiglio di non cercarlo, se vi preme di non cadere nelle mani delle guardie notturne ed avere poi a che fare col maivum[1].

– Ma dove andremo? – borbottò lo yankee diventato pensieroso.

– Le capanne diroccate si contano a centinaia – disse Nan-Yua. – Passerete la notte in una di esse. Buona fortuna!

Il barcaiolo risalì nella barca e si spinse al largo. Pochi minuti dopo, il Rangun scompariva fra le ombre della notte.

– Cerchiamo qualche tettoia – disse Giorgio.

– O qualche pagoda diroccata – aggiunse il cinese.

Volsero le spalle al fiume e si cacciarono in una via larga, lunga, diritta, fiancheggiata da belle capanne, sul tetto delle quali scorgevansi degli oggetti bizzarri.

– Cosa sono quelle robe là? – chiese l'americano. – Degli uccelli forse?

– No, dei recipienti pieni d'acqua – disse il Capitano.

– Per che farne?

– Per spegnere gl'incendi. È una precauzione necessaria in questa città, che è costruita tutta in legno.

– Non mal pensata per dei birmani!

Camminando con precauzione, arrestandosi di quando in quando per ascoltare, giunsero, dopo un quarto d'ora, dinanzi ad una pagoda diroccata e senza cupola, forse caduta durante il fortissimo terremoto del 1839. L'interno era zeppo di rottami, di tavole schiantate, di mattoni, di frammenti di porcellane, di banderuole e di spranghe di ferro contorte.

– Il letto è un po' duro, – disse il Capitano – ma è da preferirsi a quello che ci offriva il quai.

Erano le dodici. I viaggiatori, che cadevano per la stanchezza e pel sonno, strapparono le erbe che crescevano all'intorno, improvvisarono alla meglio un lettuccio e, collocatesi a fianco le armi, chiusero gli occhi. Erano scorse appena due ore, quando il Capitano fu bruscamente svegliato da due voci che parlavano al di fuori. In preda ad una viva inquietudine, s'alzò, s'armò d'una pistola e s'avvicinò ad una larga fessura tentando di vedere qualche cosa. Quattro uomini, armati di sciabola e di fucili e un altro munito d'una lanterna gironzolavano presso la pagoda. Cosa facessero e chi fossero, in sulle prime non riuscì a saperlo, ma ben presto s'accorse che erano cinque soldati in perlustrazione.

– Dimmi, Kupang, – diceva uno di essi che pareva un caporale – sei sicuro di aver visto quelle ombre aggirarsi per questa via?

– Te l'assicuro, Issur. Le ho viste coi miei propri occhi discendere da una barca e darsela a gambe.

– Sicuramente erano spie che il maivum ci pagherà a peso d'oro se gliele portiamo. Ragazzi miei, domani andremo a vuotare una botte di liquore alla salute di Gadma, nostro patrono. Preparate le armi e perlustriamo attentamente.

– E se invece si andasse prima a vuotare qualche tazza dal vecchio Kanna-Luy? Avremmo più coraggio – disse un altro soldato.

– Ben pensata! – esclamò Kupang.

– Andiamo da Kanna-Luy – dissero in coro gli altri. – Le spie le prenderemo dopo.

Il caporale e i quattro soldati troncarono la perlustrazione appena cominciata e s'allontanarono strascicando fragorosamente le loro scimitarre. Si può immaginare con quale ansietà il Capitano avesse ascoltato quei discorsi. Appena il rumore delle armi cessò, mise la testa fuori della fessura, onde assicurarsi che non ci fosse più nessuno. Un profondo sospiro gli uscì nel vedere la via perfettamente deserta.

– L'abbiamo scampata bella – borbottò. – Senza dubbio il mariuolo che ci denunciò era sdraiato dietro a qualche albero. Speriamo che s'ubriachino tutti e cinque e che ci lascino tranquilli.

Tornò ad accomodarsi presso i compagni che russavano sonoramente e non tardò ad addormentarsi. Ma era scritto che quella notte non dovesse dormire tranquillo. Un'ora appena era trascorsa, che fu nuovamente svegliato e non da un mormorìo di voci, ma da una punta aguzza che gli penetrava in un braccio.

Scattò in piedi e si trovò dinanzi ai cinque soldati che egli credeva ormai ubriachi fradici nella taverna. Quattro fucili e una scimitarra furono tosto puntati contro di lui.

– In piedi, amici! – gridò egli, cercando di abbassare le armi dei soldati.

L'americano, il polacco e Min-Sì risposero pronti all'appello.

– Cosa succede? – chiese lo yankee.

– La guardia notturna ci ha presi – disse Giorgio.

– Mille fulmini! Dov'è la mia carabina?

– Non facciamo resistenza, James. Essi ci tengono sotto le canne dei loro fucili.

– Ma vi pare! Violare alle due del mattino il domicilio di una onesta famiglia! In America...

– Siamo in Birmania, James. Calmatevi e vi assicuro che il maivum non ci avrà.

Il caporale, convinto d'aver fatto una buona preda, afferrò Giorgio per un braccio intimandogli di seguirlo coi compagni.

– Adagio, mio caro – disse il Capitano, in cinese, opponendo un po' di resistenza. – Dove vuoi condurci?

– Dal maivum – rispose il soldato in egual lingua.

Il Capitano si disponeva a seguirlo, quando s'arrestò.

– È lontano il maivum? – chiese.

– Al centro della città.

– Allora abbiamo tempo di vuotare un barilotto di arak da mastro Kanna-Luy.

– Toh! – esclamò il caporale con sorpresa. – Tu conosci Kanna-Luy?

– Da molti anni. Se vieni con me, ti pagherò da bere.

– E ne pagherai molto?

– Una botte – rispose Giorgio.

Non ci voleva di più per decidere quei degni soldati che adoravano più l'arak che il loro potente imperatore. Disarmarono i prigionieri e tutti assieme, come buoni amici, si diressero verso la taverna di Kanna-Luy. Il Capitano, per via, avvertì i compagni del brutto tiro che voleva fare alle guardie. Dopo poche centinaia di passi giungevano dinanzi alla taverna. Un poderoso calcio che sgangherò la porta bastò per far accorrere il proprietario, il quale si affrettò a condurre i bevitori in una stanzaccia le cui finestre mettevano su vasti giardini. Una dozzina di lampade, in un batter d'occhio, furono accese.

– Ehi! Mio caro mastro, porta da bere – disse il Capitano, gettandogli una manata di monete. – Ti avverto che abbiamo molta sete.

Il taverniere, raccolte le monete, corse a prendere un vaso enorme d'un forte liquore. Il Capitano empì le tazze e alzando la sua:

– Alla tua salute, bravo caporale! – gridò.

– Alla tua, generoso straniero – rispose il soldato.

E bevve, imitato da tutti gli altri.

– Eccellente liquore! – esclamò l'americano. – Berrei tutto il vaso e colla certezza di non ubriacarmi.

– Sei una botte forse? – chiese il caporale ridendo.

– Sì, e senza fondo.

– Ma anch'io sono un gran beone e i miei compagni pure.

– Toh! Se io proponessi una scommessa? Pago io.

Il caporale sbarrò tanto d'occhi. Tanta generosità lo confondeva.

– Ohe, ragazzi! – esclamò. – Il signore ci sfida. Chi accetta?

– Ma tutti – risposero i soldati, riempiendo le tazze.

I soldati si misero a bere ingordamente senza numerare le tazze. James empiva per sé la tazza ogni momento, ma con un rapido colpo di mano la vuotava quasi sempre dietro ai compagni.

Mezz'ora dopo il caporale rotolava a terra come fosse stato improvvisamente fulminato, e un po' più tardi i suoi compagni, uno dopo l'altro, lo seguivano.

– Tutta l'ammoniaca della Birmania non sarebbe capace di far tornare in sé questi ubriachi – disse Giorgio allegramente. – Ehi, mastro Kanna-Luy, ti raccomando questi poveri diavoli.

Uscirono dalla taverna e, camminando rasente i muri delle case, tornarono nella diroccata capanna e terminarono il sonno così brutalmente interrotto dalle guardie di Sua Maestà l'imperatore di Birmania.


Note

  1. Capo della polizia.
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