< La Scimitarra di Budda
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33. Il siamese
32. Amarapura 34. Il Khium-Dogè

33.

IL SIAMESE


Il primo a svegliarsi, l'indomani, fu il polacco. Aveva dormito malissimo e sognato tutta la notte incontri colle guardie, fughe, inseguimenti, fucilate e pistolettate. Il bravo ragazzo si stropicciò le membra ammaccate dai rottami, sbadigliò un paio di volte per svegliarsi completamente, indi pian piano, per non destare i compagni che russavano beatamente, uscì, colle mani in tasca, come un pacifico abitante della Città degli immortali che esce dalla sua casa a respirare una boccata d'aria libera. La città, che la sera precedente sembrava affatto spopolata, era animatissima, al punto che il polacco ne fu sbalordito. I trentacinquemila abitanti pareva fossero diventati settantamila. Si vedevano passare per le vie e per le viuzze a frotte di cento e duecento, tutti bizzarramente vestiti, e non pochi assai riccamente. Sul molo era un via vai continuo di barcaioli, di soldati, di mercanti, di facchini e un arrivare e partire di battelli d'ogni specie e d'ogni dimensione. Il baccano poi era assordante: di qua, di là, sul fiume, nelle capanne, sulle terrazze, grida, comandi, cantilene, che, prese assieme, formavano un fragore da paragonarlo ai muggiti del mare in un giorno di burrasca.

– Corpo d'una bombarda! – esclamò il buon ragazzo. – Si direbbe che questa città è una seconda Canton.

Gettò uno sguardo a destra e uno a sinistra, diede una sbirciata alla folla e un'altra alle belle abitazioni dei ricchi e, approfittando del momento in cui nessuno faceva attenzione a lui, rientrò nella diroccata capanna. Il rumore che fece frantumando le tegole che coprivano il suolo, svegliò l'americano e Min-Sì.

– Di già in piedi? – domandò l'americano. – Iih! Che baccano che fanno al di fuori.

– Gli immortali, sir James, sono tutti desti – rispose il polacco. – Se vedeste che movimento nelle vie!

– Hai visto delle taverne?

– Molte, sir James.

– Buono! Orsù, Giorgio, facciamo il nostro piano e poi andiamo a mangiare.

– È presto fatto – disse il Capitano. – Questa capanna sarà il nostro quartier generale.

– E poi? – domandò il polacco.

– Poi andremo a girellare per la città, pranzeremo nella migliore taverna e cercheremo notizie. Questa sera ci recheremo a teatro.

Nascosero le carabine e le munizioni sotto un vero monte di rottami e uscirono, prendendo una via larghissima, male selciata, ingombra di gente. Vi erano dei nobili in gran tenuta, vestiti con lunghe tonache di velluto, o di raso, o di seta ricamata a fiori, o di nanchino nazionale, larghi calzoni e stivaletti rossi a punta rialzata, seguiti da un gran numero di servi che portavano le scatole del betel, dalla minore o maggior grandezza delle quali distinguevasi la nobiltà del padrone; v'erano dei principi più riccamente vestiti, decorati del tsaloè[1] di dodici fili e adorni di orecchini d'oro così grandi e pesanti che avevano allungate le orecchie di uno o due pollici; poi dei trafficanti con camicia e calzoni di broccatello; dei facchini e dei barcaioli con un semplice paio di calzoncini e un turbante sul capo; dei monaci con lunghe tonache gialle di fina seta; e finalmente dei soldati seminudi, armati di vecchi fucili a miccia o a pietra, di baionette contorte, di picche, di sciaboloni e brillanti cavalieri del Cassay che facevano caracollare i loro piccoli destrieri ripieni di fuoco e bardati all'orientale.

– Che folla! – esclamò l'americano.

– E che lusso! – disse il polacco. – Questi nobili sembrano tanti principi.

– E che fogge strane, ragazzo mio!

– E quanto oro hanno indosso! Guardate quel nobile, sir James, che ha due piastre di mezzo chilogrammo l'una agli orecchi.

Così discorrendo, erano giunti in un'altra via assai più larga, fiancheggiata a destra e a sinistra da piccoli templi, sorretti da colonne dipinte o coperte di laminette d'oro e i tetti irti di punte e di guglie bizzarre. Essendo aperti da un lato, lasciavano vedere molte statuette di Gadma, alcune di legno, altre di rame e qualcuna di ferro dorato. Attorno a quei khium pregavano e gironzolavano molti raham a piedi nudi, la testa rasa e un lungo mantello indosso, nonché un gran numero di phonghi, monaci di un grado inferiore, detti comunemente talapoini. L'americano, nello scorgere quei monaci, si ricordò subito del famoso pugno di Kanny-Yua che per poco non gli era costato la vita, e si mise a ridere a crepapelle.

– Oh! – esclamò in quell'istante il polacco. – Cosa vedo mai? È superbo!

Erano giunti all'estremità della via e dinanzi a loro si apriva una vastissima piazza, in mezzo alla quale scorgevasi un maestoso palazzo zeppo di dorature, di guglie, di antenne e di colonne.

– Il palazzo reale! – esclamò il Capitano.

Fendettero la folla che ingombrava la piazza e si accostarono al grandioso fabbricato. Il palazzo reale di Amarapura occupa proprio il centro della città. Tre cinte che formano un parallelismo, i bastioni, una palizzata di legno di tek assai alta e una grossa muraglia di mattoni lo contornano interamente. Nel mezzo si eleva il fabbricato, tutto fregi, tutto ornamenti, tutto dorature con quattro uscite alle quattro facciate, che chiamansi del settentrione, dell'oriente, del mezzodì e dell'occidente. È là nel maye-nau (palazzo di terra), così chiamato per essere costruito sopra un rialzo di terra battuta, che trovasi la gran sala delle udienze, lunga venti metri e sorretta da ben settantasette colonne distribuite su undici ordini, e alla estremità della quale, nascosto da una gelosia, c'è il trono; e là che trovansi le magnifiche sale dell'imperatore arredate con un lusso incredibile; è là che ergesi il phya-salh (campanile) a vari piani, che restringesi man mano che si alza, sormontato da un gran ornamento di ferro dorato, chiamato htee, distintivo delle pagode e dei palagi reali. Di là partono i corridoi che mettono al gabinetto dell'elefante bianco; ed è là che si trovano le grandiose scuderie destinate ai cavalli della guardia imperiale e agli elefanti da guerra.

– Che bella cosa se lo si potesse saccheggiare! – disse lo yankee. – Mi sento tentare. Ci son molti soldati, Giorgio?

– Le quattro pareti che immettono nel palazzo sono guardate dì e notte dalla guardia imperiale, un sette od ottocento persone.

– Ditemi, Giorgio, è qui che vive il famoso elefante bianco?

– Sì, sì! – esclamò il polacco che si era accostato alla cinta. – Accorrete, sir James, se lo volete vedere.

L'americano, Giorgio e il cinese si precipitarono verso la muraglia che lasciava vedere una parte del giardino.

– È un piccolo elefante – disse il Capitano.

Infatti non era un elefante completamente sviluppato quello che vedevasi, ma un elefantino di pochi mesi, quasi bianco e saltellava presso un padiglione, seguito da una mezza dozzina di nobili e forse di principi del sangue.

– Deve essere lattante – disse Min-Sì.

– Lattante! – esclamò l'americano. – E chi lo allatterà ora?

– Le più belle ed eleganti donne di Amarapura – rispose Giorgio.

– Che dite? Le donne allattare un elefante?

– Racconto cose vere, James. Aggiungerò anzi che le balie sono moltissime e che ricevono pel loro disturbo venti dollari al mese.

– E allattano anche il grande elefante?

– Non ne ha bisogno. Gli si dà dell'eccellente burro, dello zucchero e delle tenere foglie.

– Esce dal palazzo, qualche volta?

– Quando c'è qualche festa solenne, e allora sfoggia un lusso straordinario. Sul capo porta una grande lastra d'oro sulla quale sono incisi i suoi titoli di nobiltà, fra gli occhi una grande mezzaluna pure d'oro tempestata di pietre preziose, agli orecchi corone d'argento e sul dorso una gualdrappa di velluto cremisi.

– Se tutto ciò me lo narrasse un altro uomo, non crederei.

– E non ho terminato, James. Aggiungo che l'elefante bianco ha un palazzo, un ministro, trenta nobili per servirlo e che non si può avvicinarlo senza prima inchinarsi tre volte e levarsi le scarpe.

– Ma è un vero re, adunque?

– Forse più di un re, James, poiché i birmani lo credono il favorito di Gadma.

I quattro avventurieri, che da alcuni minuti avevano lasciato il palazzo reale, erano giunti dinanzi ad una bella trattoria arredata con un certo lusso, occupata da borghesi, da capitani di navigli, da ufficiali della guardia imperiale e da giovinotti che tracannavano grandi tazze di birra birmana e di lau[2] siamese. Vi entrarono e ordinarono un pranzo servendosi delle pochissime parole di lingua birmana che sapevano. Il pasto, composto di riso condito con olio cotto, di cinghiale arrostito, di babirussa bollito, di pesce secco e di pasticci di carne di serpente, fu in poco tempo divorato. Vuotata una bottiglia di vino di Spagna, pagata una bella oncia d'oro e fattene portare delle altre, si misero bravamente all'opera. L'americano andò a sedersi accanto ad un ufficiale della guardia imperiale, che pareva non avesse il becco d'un quattrino da bere; il polacco si sedette presso ad un borghese; il Capitano ed il cinese invece, presso a due magistrati.

Disgraziatamente avevano scelto molto male i loro uomini: l'ufficiale della guardia bevette assai, ma non aprì bocca; il grosso borghese chiacchierò molto, ma il polacco non comprese un ette; il cinese e il Capitano ebbero un successo quasi eguale, non sapendo, quei due magistrati, né l'italiano, né lo spagnolo, né il francese, né l'inglese, né il cinese, né il coreano, né il giapponese.

– Non si fa nulla – disse James. – Questi asini non sanno che il birmano e noi non sappiamo dieci parole della loro lingua.

Proprio in quell'istante, all'estremità della loro tavola, si sedeva un giovinotto d'alta statura, vestito da marinaio europeo. Non era un bianco, ma non era nemmeno un birmano, perché aveva la faccia rossiccia, di forma quasi romboidale, larga, la fronte ristretta, le labbra grosse ma di un rosso pallido e gli occhi piccini, smorti, col bulbo interamente giallo.

– Toh! – esclamò l'americano. – Che uomo è quello lì che indossa un costume europeo? Se lo interrogassi e gli offrissi da bere?

– Bella idea, James.

– Ehi, giovinotto, bevete? – chiese James alzando la bottiglia.

Il marinaio a quella domanda alzò gli occhi, guardando fisso.

Sir – borbottò.

– Toh! Conosci l'inglese?

– Un po' – rispose colui porgendo la tazza all'americano che gliela riempì. – Bevete vino, signore?

– E di quello eccellente, ragazzo.

– Siete inglese?

– Americano, e della più bell'acqua.

– È tutt'uno.

– Ehi, ragazzo, sei geografo forse?

– Ho viaggiato molto, signore.

– Ma tu non sei birmano. Sei forse...

– Siamese di Bang-kok, signore.

– Marinaio?

– Fui marinaio e navigai a bordo di vascelli spagnoli e inglesi.

– Sei ad Amarapura da un pezzo?

– Da quattro anni. Ho una barca e pesco e viaggio.

– Bevi, ché hai la tazza piena – disse il Capitano, che aveva fatto portare due bottiglie di gin.

– Un marinaio non rifiuta mai di vuotare una bottiglia. Alla vostra salute, signori.

– Alla tua, giovinotto – rispose il Capitano.

Gli avventurieri e il siamese vuotarono le tazze che furono subito riempite.

– Dimmi, giovinotto, sei buddista tu? – chiese il Capitano.

– Non credo che in Dio – rispose il siamese. – Un missionario spagnolo mi ha detto che Budda non esiste ed io ho abbracciato la religione di Cristo.

– Tanto meglio! Anche noi siamo cristiani. Se tu non sei buddista, avrai però udito parlare della famosa Scimitarra di Budda.

– Cento e più volte.

– Ah! – esclamò il Capitano, che soffocò a gran pena un grido di gioia. – E l'hai vista l'arma miracolosa?

– No, perché è nascosta.

– E sai dove?

– Si dice che sia stata nascosta nel Khium-Dogè, o monastero reale di Amarapura.

Un grido irruppe dal petto dei quattro avventurieri.

– Cosa avete! – domandò il siamese con sorpresa.

Il Capitano se lo fece sedere vicino.

– Odimi, siamese – disse. – Noi siamo ai servigi di Hien-Fung, l'attuale imperatore della Cina e...

– Comprendo tutto – l'interruppe il siamese sorridendo. – Hien-Fung vi ha mandato in Birmania a ricuperare la Scimitarra.

– Hai indovinato. Vuoi guadagnare cinquanta once d'oro?

– Che devo fare per guadagnarle? – chiese il siamese, nei cui occhi brillò un lampo di cupidigia.

– Guidarci al Khium-Dogè. Acconsenti?

– Per cinquanta once d'oro io vi accompagno in capo al mondo.

Le mani degli avventurieri si stesero verso il siamese, che le strinse vigorosamente.

– A mezzanotte al Khium-Dogè – diss'egli, intascando dieci once d'oro dategli dal Capitano per acquistare funi e ferramenta.

– A mezzanotte – risposero gli avventurieri.

Vuotarono un'altra bottiglia, strinsero la mano al bravo marinaio e si separarono.


Note

  1. Catene di fili d'ottone. Ve ne sono di tre fili, di quattro, di cinque, e via via fino a dodici. L'imperatore solo porta il tsaloè di ventiquattro fili.
  2. Specie di arak.
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