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Questo testo fa parte della raccolta Storie incredibili



LA CADUTA


DELLA


CASA USHER



Durante un’intiera giornata d’autunno — giornata fuligginosa, mesta, muta, in cui le nubi grevi grevi e basse basse vagavano per lo cielo — solo ed a cavallo io aveva attraversato una distesa di paese, singolarmente lugubre; e, da ultimo, al sopraggiugnere delle ombre serali, io mi trovava in vista della melanconica Casa Usher.

Ignoro donde e come ciò provenisse; ma, alla prima occhiata che diedi all’edifizio, un sentimento d’insopportabile melanconia mi penetrò tutta l’anima. E dico insopportabile, poichè cotal melanconia non era per nulla temprata da bricia di quel sentimento la cui poetica essenza, sveglia quasi la voluttà, e del quale in generale lo spirito è colpito in presenza delle immagini naturali della più cupa desolazione e del più nero terrore. Io guardava il quadro che mi si stendeva d’innanzi, e al solo vedere la casa e la prospettiva caratteristica di quel dominio, le mura solitarie, le finestre somiglianti ad occhi immani e distratti; e cespi di giunchi vigorosi, qualche vecchio albero lopposo, provava quel completo abbattimento dell’animo che nelle nostre sensazioni terrene non può venir meglio paragonato che agli ultimi vaneggiamenti del mangiatore d’oppio, — al suo doloroso ritorno alla vita del dì, all’orribile e lento svanire dell’illusorio velo.

Provava un freddo sconforto al cuore, un malessere vivo, — una persistente mestizia di pensiero, tale che nessun pungolo di fervida fantasia avrebbe potuto ravvivare e scuotere potentemente. E che era mai dunque — così mi diedi a riflettere — che cos’era mai quel non so che ond’io mi sentiva venir meno al solo contemplare la casa Usher? Mistero tutt’affatto insoluto ed insolubile, nè io mi sentiva da tanto da poter lottare contro i tenebrosi pensieri, che sempre più si addensavano man mano ch’io mi figgeva in essi.

Per lo che dovetti appigliarmi a questa poco soddisfacente conclusione, che cioè esistono in natura sì fatti accozzamenti semplicissimi di oggetti che posseggono la strania facoltà d’impressionarci in cotesto modo, l’analisi della cui virtù od influsso riposa appunto in quella specie di considerazioni nelle quali la nostra ragione si intrica e si perde. Forse — così almeno pensava — poteva darsi che una semplice differenza nella collocazione materiale degli ornati, delle particolarità del quadro, del complesso della scena bastasse per modificare, e fors’anche per distruggere questa stessa potenza d’impression dolorosa: e, nel tener dietro a questa idea, guidava il mio cavallo verso le ripide rive di uno stagno nero e lugubre — specchio immane ed immoto — che d’innanzi al solitario edifizio mestamente si distendeva. E lì, con un ribrezzo ancora più acuto di prima, mi posi a contemplare le immagini riflesse e capovolte dei grigiastri giunchi, dei tronchi d’alberi sinistri e de’ finestroni simili a occhi smisurati, senza moto e senza pensiero.

E nondimeno era proprio in sì melanconico palazzo ch’io aveva disegnato di fermarmi per alcune settimane. Roderick Usher, il proprietario, era stato uno dei miei ottimi amici d’infanzia; era però scorso gran tempo dall’ultima volta che ci eravamo veduti; se non che, da poco tempo, erami arrivata da lontana provincia del paese una lettera di lui, la cui forma strana ed urgente non ammetteva altra risposta che l’immediata mia presenza. Quello scritto rivelava le traccie di un’agitazione nervosa. L’autore della lettera mi parlava di una malattia fisico-acuta — d’un’affezione mentale che l’opprimeva, — d’un ardente desiderio di vedermi, essendo io il migliore ed anzi l’unico suo vero amico, — fermissimamente convinto che nel piacere della mia società avrebbe trovato qualche alleviamento a’ suoi mali. Era questo il tono in cui tutte queste cose, ed anzi molte altre ancora, erano esposte, — specie d’espansione d’un cuor supplice e tenero, che troncava ogni esitazione in proposito.

Per la qual cosa immediatamente obbedii a quanto io tuttavia considerava come un invito tutt’affatto singolare.

Sebbene nella nostra infanzia, Usher ed io, fossimo sempre stati gl’intimissimi camerata, in realtà poco e ben poco io conosceva del mio amico. Le sue abitudini eransi sempre mantenute entro una circospezione eccessiva. Ma era tuttavia ben noto com’egli appartenesse ad una antichissima famiglia da tempo immemorabile sempre conosciuta per una particolarissima sensibilità di temperamento. La quale sensibilità attraverso gli anni erasi chiarita in numerose opere di arte sopraffina; e manifestata da tempo antico con ripetuti atti d’una carità altrettanto larga quanto discreta, ed eziandio per un amore intenso alle difficoltà, anzi che per le bellezze ortodosse, sempre sì facilmente riconoscibili, della scienza musicale. Ed era pur a mia cognizione questo fatto notevolissimo, che, cioè, lo stipite della razza degli Usher, per quanto glorioso nella sua antichità, non aveva mai gettato in nessun’epoca durevoli rami; in altri termini, che l’intiera famiglia erasi sempre mai perpetuata in linea retta, tranne poche eccezioni insignificanti e leggerissime. E forse questa assenza (pensava meco stesso, fantasticando sul perfetto accordo del carattere proverbiale della razza, e riflettendo all’influsso che l’uno poteva aver esercitato, in un long’ordine di secoli, sopra dell’altro), forse, dico, quest’assenza del ramo collaterale, unita alla costante trasmissione di padre in figlio del patrimonio e del nome, era stata quella che a lungo andare aveva tanto perfettamente identificato, amendue, padre e figlio, che il nome primitivo del dominio erasi fuso nel bizzarro ed equivoco appellativo di Casa Usher, — appellativo usato dai paesani, a cui nella loro mente pareva così racchiudere e la famiglia e l’abitazione della famiglia.

Dissi, che il solo effetto della mia esperienza forse un po’ fanciullesca, — vale a dire d’avere osservato nello stagno — avea potuto dare un più cupo e profondo colorito alle mie prime e singolari impressioni. Certo, non devo mettere in dubbio che la coscienza della mia crescente superstizione, — e perchè non dovrei definirla così? — non abbia precipuamente contribuito ad affrettare l’intensità di quelle impressioni. E questa — e lo sapeva da molto tempo, — è la paradossale legge di tutti i sentimenti che procedono dal terrore. E forse cotesta fu l’unica ragione per cui, quando i miei occhi lasciarono di fissare le immagini dello stagno, portandosi verso la casa stessa, un’idea molto strana mi balzò in capo, — un’idea invero tanto ridicola che, se m’induco ad accennarla; è soltanto per mostrare la viva forza delle sensazioni che crudamente opprimevanmi. Ecco: la mia fantasia era così bizzarramente agitata, che in realtà io credeva, aggirarsi tutto attorno di quell’edifizio e dell’intiero dominio un’ammosfera affatto speciale, e tale pure in tutti que’ siti circostanti, — un’ammosfera che non avesse affinità alcuna con l’aria del cielo, e che si esalasse dagli alberi cadenti, dalle grigiastre mura, dallo stagno silenzioso, — un vapore insomma misterioso e pestifero, visibile appena, greve, pesante e dal colore del piombo.

Scacciai dal mio spirito tutto ciò che non sapeva che di sogno, e presi ad esaminare con maggior attenzione l’aspetto reale della casa. — Il suo carattere dominante sembrava essere appunto un’eccessiva antichità; e grande era per vero lo squallore lasciatovi dai secoli. — Piccole fungosità vegetali ne cuoprivano tutta la faccia esterna e, dal tetto alle fondamenta, a guisa di fina stoffa fantasticamente ornata, la tappezzavano. Tutto questo però non potevasi dir segno spiccato di straordinario deterioramento. Nessuna parte dell’edifizio era caduta, in guisa che pareva fossevi stata una strana contraddizione tra l’intatta consistenza generale del tutto, e lo stato particolare delle pietre sbriciolate, che completamente rammentavanmi la speciosa integrità di quei vecchi assiti, lungamente obbliati a putrefarsi in qualche remoto sotterraneo, lungi dal soffio dell’aria esterna. Tranne quest’indizio di grande sfacelo, nessun altro sintomo di fragilità appariva nell’edilizio. Forse forse l’esperto occhio di minuzioso osservatore avrebbevi scoperto una fessura leggiera leggiera, appena visibile, che dipartendosi dal tetto della facciata delineavasi a zig zag traverso il muro, e si andava a perdere nelle acque funeste dello stagno.

Le quali particolarità tutte io notava, in quella che, standomi a cavallo, discorreva il breve spalto che traeva dritto alla casa. — Un famiglio, pronto, prese le redini del mio cavallo, ed io entrai sotto la gotica volta del vestibolo; e un secondo famiglio a passi cauti e misurati condussemi in silenzio traverso molti oscuri, e complicati corridoj, diretto al gabinetto del suo signore. Le molte cose da me osservate in questo giro contribuirono, non saprei in qual modo, a rinvigorire le vaghe sensazioni di cui già feci parola. E gli oggetti che stavanmi d’attorno, — le sculture delle vôlte, i mesti damaschi delle mura, il nero di ebano delle stanze e i trofei fantasmagorici delle armi luccicanti che — scosse al mio franco passo — davan suoni cupi, erano invero per me altrettante cose di antica conoscenza. — Ero stato sin dalla mia infanzia assueto a spettacoli siffatti; ma, sebbene senza esitanza alcuna io le riconoscessi come cose a me famigliari, qui meravigliava a’ pensieri insoliti e strani che queste ordinarie immagini ridestavano in me tanto solennemente. In una delle scale m’imbattei nel medico della famiglia: a quanto parvemi, la sua fisionomia rivelava un’espressione mista di bassa malignità e di ambigua irresolutezza. — Lesto, m’attraversò i passi, e scomparve. — Allora il famiglio aperse una porta ed introdussemi alla presenza del suo signore.

La camera in cui mi vidi era grandissima ed altissima; lunghe le finestre, strette ed a tale distanza dal soffitto di quercia, che riesciva assolutamente impossibile d’arrivarvi. — Deboli raggi. d’una luce chermisina aprivansi il cammino tra gli ingraticolati cristalli, debilmente colorando, i principali oggetti circostanti; nullameno l’occhio invano s’affaticava a distinguere i lontani angoli di essa, e gli sfondi del vôlto convesso e sculto. — E neri drappi velavano per intiero le mura; e, in generale, il complesso degli arredi stravagante, incomodo, vecchio e cadente. Vedevansi libri e musicali strumenti qua e là sparpagliati, non atti a dare un po’ di vita a quella scena, ond’io ben accorgevami di respirare una vera ammosfera d’affanni e di guai, ammosfera nuova, strana. Un ambiente, aspro, pesante ed incurabile libravasi sopra ogni cosa, sì che pareva il tutto avvicinare, compenetrare il tutto.

Al mio entrare, Usher, si alzò da un lettuccio su cui stavasi sdraiato lungo disteso, e mi accolse con affettuosa vivacità, molto simile (almen questa fu la mia prima idea) ad una cordialità enfatica, — allo sforzo di un uomo di mondo assai annoiato che obbedisce ad una circostanza. Se non che, una semplice occhiata spinta alla sua fisionomia, bastò a convincermi della di lui perfetta sincerità. Ci assettammo tutt’e due e, non avendo egli per alcuni minuti mosso labbro, stetti a contemplarlo in un sentimento misto tra pietà e paura. Certo è che giammai fuvvi uomo che come Roderick Usher, si fosse in così poco spazio di tempo orribilmente, compassionevolmente mutato! E in vero fu proprio a gran fatica che potei darmi a credere che l’uomo che mi sedeva di faccia, fosse quegli stesso ch’era stato il compagnone de’ miei verdissimi anni. Notevolissimo era sempre stato il carattere della sua fisionomia: un colorito cadaverico, — un occhio grande, liquido e luminoso fuor d’ogni paragone, le labbra piuttosto piccole e pallidissime, d’una curva però stupendamente bella, — di ebraico stampo, delicatissimo, con tale ampiezza però di narici che offendeva l’armonia di quelle forme: — un mento d’incantevole modello che per difetto di rilievo accusava debolezza di morale energia, — capelli d’una pastosità e sottigliezza d’Aracne; tutti questi segni caratteristici, a cui bisogna aggiugnere un eccessivo dilatamento della fronte, gli davano una fisionomia cui sarebbe riescito difficilissimo — una volta veduta — obbliare. Se non che in quell’istante, nella semplice esagerazione del carattere di quella figura e nell’espressione ch’essa d’ordinario offeriva, eravi tale mutamento, ch’io fortemente mi teneva in forse dell’identità dell’uomo cui parlava.

Il sepolcrale pallore della sua pelle ed il sinistro balenare della pupilla mi colpirono in modo speciale, e mi opprimessero anzi di terrore. In oltre, quasi senza accorgersene, egli aveva lascialo smisuratamente crescere i suoi capelli, e siccome quell’intricato e sconvolto volume anzichè graziosamente contornargli il viso gli ondulava mestamente d’attorno, io non poteva — malgrado la mia buona volontà — trovare in quelle stravaganti e disordinate apparenze alcun che di somigliante ad una figura umana.

Rimasi tosto colpito da una tal quale incoerenza, da un’incostanza ne’ modi del mio amico, — nè tardai a scuoprire che ciò proveniva da uno sforzo incessante, altrettanto debole quanto frivolo, per dominare una trepidazione abituale, — un’eccessiva agitazione nervosa. E per verità io mi aspettava a qualche cosa di questo genere, e mi vi era preparato non solo dalla sua lettera, ma eziandio per la rimembranza di certi contrassegni della sua infanzia, e dalle conclusioni dedotte dalla singolare sua conformazion fisica e dallo stesso suo temperamento. Per vero i suoi atti alternavansi sempre tra la vivacità e l’indolenza. La sua voce passava rapidamente da un’indecisione tremula, (quando gli spiriti vitali paiono tutt’affatto assenti) a quella sì fatta brevità energica, a quell’accento secco, fermo, a cadenza, quasi suono d’eco, — a favella gutturale e rude, in giusta lance ed uniformità, tali che perfettamente vediam noi riprodursi in ogni ubbriaco fradicio o nell’ostinato mangiatore d’oppio, durante i periodi del maggior loro surreccitamento.

E fu appunto in questo, tono ch’e’ parlò dell’oggetto della mia visita, dell’ardente suo desiderio di vedermi, e della consolazione che da me s’aspettava. Tennesi molto diffuso nel suo conversare, e spiegossi a modo suo circa il carattere della sua malattia. Era questa, e’ diceva, una malattia di famiglia, una malattia costituzionale; un male a cui disperava di potere trovare rimedio, — una semplice affezione nervosa, — aggiunse subito dopo — della quale senza dubbio presto mi sarò sciolto. Manifestarsi essa con una folla di sensazioni soprannaturali: alcune mentre me le descriveva, m’interessarono e mi confusero; ciò non pertanto inclino pure a credere, il tono ed il modo del suo esporre vi abbiano non poco contribuito. E’ pativa vivamente d’una squisita acuità di sensi; per lui, alimenti solo tollerabili, i più semplici; in fatto di abiti gli erano soltanto possibili certi tessuti; tutti gli odori dei fiori gli davano fastidio e soffocamento; una luce, anche debolissima, non poteva soffrirsi da’ suoi occhi e solo alcuni suoni particolarissimi, vale a dire que’ mandati dagli strumenti a corda, che non gl’ispirassero orrore. Io ben mi avvidi ch’egli era lo schiavo incatenato d’una specie di terrore veramente anormale. Morrò, sclamò egli; sì bisogna che io muoia di questa deplorabile follia. È proprio così così, e non altrimenti, ch’io devo soggiacere al fato mio: nè temo gli avvenimenti futuri in sè, li temo piuttosto nei loro fini. E raccapriccio al pensiero d’un accidente qualsiasi, accidente per lo più volgarissimo, che possa in qualche modo influire sopra quest’insopportabile agitazione dell’anima mia. Non pavento, no, il pericolo per sè stesso, ma nel suo effetto reale, — il terrore. — In cotesto mio stato di spossatezza, — stato compassionevole — ben sento che tosto o tardi verrà il momento in cui la vita e la ragione mi abbandoneranno ad una ad una in qualche lotta ineguale con questo sinistro e fatale spettro, — la paura!

Tratto tratto e in ripetuti colloqui, per mezze frasi e per sottili deduzioni conobbi ancora un’altra particolarità di quel suo stato morale. Mostravasi dominato da certe impressioni superstiziose relativamente alla propria abitazione, donde da più anni non aveva più osato mettere fuori il piede, — superstizioni riflettenti influssi, il cui supposto valore e’ rappresentava con frasi molto oscure od ambigue per essere qui riferite, — una specie d’influenza che, a suo dire, alcune particolarità nella forma stessa e nella materia di quell’ereditaria abitazione di sua famiglia; per l’attrito continuo del male, avevano come impresso nel suo spirito; — un effetto, che il fisico delle stesse grigiastre mura, delle torricciuole e del nerastro stagno in cui riflettevasi l’edifizio, aveva con l’andar del tempo creato sul morale della sua esistenza.

Tuttavolta, non senza qualche esitazione, egli ammetteva, che una gran parte della singolare e dolorosa sua melanconia poteva benissimo essere attribuita ad un’origine più naturale e molto più positiva, — alla morte, in somma, per certo non lontana d’una sorella da lui tenerissimamente amata, — unica sua compagnia da lunghi e lunghi anni, — sua ultima ed unica parente su questa terra. — La di lei morte, diss’egli con tal enfatica amarezza che non dimenticherò giammai, renderà me — me già così debole e senza speme e conforto! — l’ultimo dell’antica schiatta degli Usher.

In quella ch’e’ parlava, ecco madamigella Maddalena (era questo il di lei nome) lentamente lentamente e quasi affannosa transitare da un angolo remoto della camera, la quale, come non s’avvedesse della mia presenza, lentamente scomparve. Stetti a guardarla con istupore immenso, indescrivibile, misto a terrore indefinito; ma invero mal qui saprei rendermi conto degli stessi miei sentimenti. E mentre i miei occhi tenevan dietro a’ suoi passi, che man mano involavansi nell’ombra, mi sentiva venir meno per una sensazione d’alto stupore. In fine, quando mi accorsi ch’ell’era scomparsa dietro il silenzioso chiudersi di una porta, quasi per istinto e naturale curiosità, i miei occhi portaronsi sulla fisionomia del fratello; — ma questi aveva nascosto nelle mani la sua faccia, ond’io potei solamente accorgermi che un pallore straordinario erasi diffuso sulle scarne sue dita, nel cui vano vedevansi gemere lagrime continue e passionate.

Per lungo e lungo tempo la malattia di madamigella Maddalena aveva formato la disperazione e il dileggio de’ suoi medici. Un’apatia fissa, un graduale disfacimento della sua persona, crisi frequenti e passeggiere, di carattere quasi catalettico: eccone i diagnostici singolarissimi. Sino a que’ giorni ella aveva con fortezza sopportato la sua malattia, nè erasi ancora rassegnata al letto: ma al sopravvenire della sera del mio stesso arrivo al castello essa infine cedeva (fu il di lei medesimo fratello che me lo partecipò in quella notte tra un’agitazione inesprimibile) alla prepotente forza del male; e presentii che la muta e solenne occhiata ch’io le aveva gittato sopra, ben probabilmente sarebbe stata l’ultima; che io non avrei più potuto vedere questa donna, almeno vivente.

Ne’ dì seguenti, nè Ushér nè io proferimmo mai il suo nome; e in tutto quest’intervallo io misi studio grandissimo ad attenuare la melanconia del mio amico. Dipingevamo e leggevamo assieme; ovvero, come assorto in dolci sogni, io me ne stava a godere le strane di lui improvvisazioni sulla chitarra. Per tal modo, grado a grado che un’intimità sempre più dichiarata immettevami con sempre più crescente famigliarità nei penetrali dell’animo suo, cresceva in me l’amarezza scorgendo ognor più frustranei i miei sforzi in ravvivare il desolato suo spirito, il quale — alla notte — quasi fosse stato un’intima sua speciale proprietà, tenendolo nella contemplazione del mondo fisico o morale, ravvolgeva costantemente il meschino in una tenebra profonda, invincibile, fatale. — Io avrò sempre lì lì presente su gli occhi della mente i ricordi delle molte e molte ore solenni passate nella solitaria compagnia del proprietario della casa Usher: e pure io mi studierei invano di definire l’esatto carattere degli studj o delle occupazioni a cui, senz’avvedersene, Roderick mi traeva, e a cui bel bello m’incamminava. — Curioso! quella era un’idealità ardente, eccessiva, squisita, la quale irraggiava sulle cose tutte le sua sulfurea luce. Ahi, le lunghe e ferali improvvisazioni del mio amico risuoneranno sempre, come arpa di oltre tomba, nelle mie orecchie. In fra le altre cose, rammento ancora una parafrasi singolare, una strozzatura, un pervertimento direi meglio dell’arietta, già tanto strana, dell’ultimo valzer di Weber. Quanto poi alle pitture che venivan fuori dalla feconda sua fantasia e che, di tratto in tratto, destavano un non so che di mistico e di profondo, che mi faceva fremere, e fremere tanto più dolorosamente quanto meno io mi accorgeva di quelle elettriche convulsioni, — quanto, dico, a queste pitture, così per me vive e vere che ancor parmi di averle lì lì d’innanzi agli occhi, — io tenterei invano di offrirvene un’immagine purchessia, tale almeno che valesse a colorirsi con la parola scritta. Con una semplicità assoluta, con una nudità viva di disegno, e’ tenea sospesa e poi avvinta l’attenzione; e se fuvvi mai uomo che quaggiù dipingesse un’idea, questi potrebbe unicamente dirsi Roderik Usher.

Nelle circostanze in cui mi trovava, da quelle pure e forti astrazioni che il povero ipocondriaco studiavasi di diffondere sulle sue tele, si alzava, si diffondeva, — almeno per me — un terrore intenso, irresistibile, pari a cui non trovai nemmen l’ombra in nissuna delle più meste fantasticaggini della mia vita, nemmeno in quelle dello stesso Fuseli, senza dubbio straordinariissime, ma nondimeno troppo ancora concrete.

Eccovi, esempigrazia, uno dei fantasmagorici capricci del mio amico, in cui lo spirito astrattivo non aveva una parte tanto spiccata ed esclusiva; e del quale, sebbene debolmente, possono essere dati alcuni schizzi col magistero della parola. Era questo un piccolo quadro rappresentante l’interno d’una cantina o di un sotterraneo immensamente lungo, rettangolare, con muri bassi, nitidi, bianchi senza ornamento di sorta, senz’alcuna interruzione. Varie accessorie particolarità di questa composizione valevano a far comprendere che una tale galleria trovavasi ad una eccessiva profondità al di sotto della superficie della terra. Nell’immensa sua distesa non vedevi alcun’uscita, non distinguevi alcun, lume, nè alcun’artificiale sorgente di luce; e nondimeno un’effusione d’intensi raggi vibrava da un capo all’altro del misterioso silo, e tingeva il tutto d’uno splendore fantastico ed incomprensibile.

Ho fatto cenno dello stato squisitamente morvido del suo nervo acustico, — il quale facea sì che l’infelice non potesse reggere al suono di nessuno strumento, eccezione fatta di certi strumenti da corda. Lo che probabilmente derivava dagli stretti limiti imposti al suo talento nell’uso della chitarra; per cui era venuta alla maggior parte delle sue composizioni quel carattere altrettanto singolare quanto fantastico.

Ma non era certo dato, rendersi la stessa ragione per rispetto all’ardente facilità delle sue improvvisazioni: le quali bisognava evidentemente che consistessero — e, di fatto, consistevano — non tanto nelle note che nelle parole delle stesse stravaganti sue fantasie, (poich’egli di spesso accompagnava la sua musica con versi improvvisi e rimati) fossero il risultamento di un intenso immaginare e di quella concentrazione di forze mentali che, come già l’ebbi a dire, si manifestano soltanto in certi casi del più alto surreccitamento.

Delle quali rapsodie, una m’è rimasta fedelmente fissa nella memoria: e forse io ne restai così impressionato, quando la conobbi, perchè nell’intimo e misterioso senso di quella ballata io credetti per la prima volta intravedere che Usher aveva la piena coscienza del proprio stato, e ch’e’ sentiva la sublime e potente sua ragione vacillare sul proprio trono. I quali versi, che avevano per titolo Il palazzo incantato, suonavano a un di presso nel seguente modo:

I.


Nella più verde di nostre valli —
     Stanza di pace, di amor, di balli,
               A Genî amici, consolator’; —
Un dì sorgeva, — superbo e bello,
     Vasto palagio, famoso ostello:
Era il soggiorno del re Pensiero,
     Ch’ivi stendeva l’alto su’ impero. —
Giammai del Cielo gli Spirti eletti
     Ebbero seggi così perfetti.

II.


Sull’alte cime stanno spiegate
     Bandiere bionde, bandiere aurate —
               Simbol di gloria, di Vecchio onor;
(Poichè son corsi lunghi e lunghi anni
     Dal dì che avvennero questi rei danni)
E d’ogn’intorno scherza gentile
     Vivace auretta d’eterno aprile,
Che su gli spaldi da’ mille fiori
     Agita e sparge i mille odori.

III.


— Incerti, attoniti i vïandanti
     Da due lontane sfolgoreggianti
               Finestre veggon fantasmi errar.
Schiera è di Spirti, che all’armonia
     D’un liuto d’oro la vita obblia
Intorno al trono del più possente
     Re, che mai videsi in Orïente: —
E qual più forte, più ricco e altiero;
     Esser vi puote del re Pensiero?


IV.


Smeraldi e perle, topazi ed oro
     Formâr la porta con gran lavoro;
               Ma l’arte in tutto vittrice appar.
Ed ivi sboccano in gran concento
     Voci di gioja e di contento;
E gli echi a dieci, a cento, a mille
     Destan lontane mistiche squille;
E al re felice di riva in riva
     Gli echi rimandano: E viva! e viva!

V.


Ahi, ria sventura! Avvenne un giorno
     Che su quest’almo, regal soggiorno
D’infausti Spirti piombò una schiera,
     Ch’alta di morte tenea bandiera.
Tutto allor cadde nelle rovine, —
     Sovrano, Impero — tutto ebbe fine! —
Piangiam que’ giorni, fedeli amici,
     Piangiam que’ Genî già sì felici...
Tutto scomparve: l’amor, il riso,
     Il Sir, la gloria di quell’Eliso;
Solo ci resta fatale storia,
     Di vecchi tempi truce memoria. —

VI.


Ed ora il vïandante in questa valle,
     Traverso le finestre rosse e gialle,
Vede spettri passar confusamente
     Al suono d’una musica stridente;

E — qual rapida e lugubre fiumana
               Traverso l’ampia porta,
               Dove ogni speme è morta, —
     Mira scalmarsi una plebaglia insana.
               Non più l’antico riso
               S’alterna a bel sorriso:
               Ma si ode eternamente.
               Ghignare oscenamente.


Mi ricordo benissimo che le ispirazioni derivate da questa ballata ci spinsero in una corrente d’idee, in cui manifestossi un’opinione d’Usher che io cito, non tanto a ragione della sua novità, — poichè altri1 ha pur pensato su lo stesso tono — quanto a causa dell’ostinatezza con cui egli la sosteneva. La quale opinione altro non era, nella sua forma generale, che la credenza nella sensitività di tutti gli esseri vegetali. Se non che, in quella sregolata sua fantasia, tale idea aveva assunto un carattere più ancora audace e — in certe condizioni — essa estendevasi eziandio sul regno inorganico. Io non trovo parole bastevoli ad esprimere tutta l’estensione, tutta la solennità, tutto l’abbandono di questa sua fede. Ma, come già lasciai comprendere, questa credenza si riferiva alle grigie pietre dell’abitazione de’ suoi antenati. Ivi, secondo lui, le condizioni di sensitività erano soddisfatte dal metodo che aveva presieduto alla fabbrica, — dalla rispettiva disposizione delle pietre, come anche da tutte le fungosità vegetali di cui erano rivestite, e dagli annosi e cadenti alberi elevantisi d’ogn’intorno; soprattutto poi dall’immutabilità di tale acconciamento e dallo stesso specchiarsi della casa nelle dormenti acque del lago. — La prova, di questa sensitività — ei diceva, ed io lo stava ascoltando con vivo ed irrequieto disìo — la prova di questa sensitività si fa vedere in quel condensamento graduale ma positivo, sopra le acque e attorno le mura, d’un’ammosfera tutta lor propria. E il risultamento, — aggiunse — si appalesa spiccato in quest’influenza muta, ma importuna e terribile, che avea, per così dire, plasmato da secoli i destini della sua famiglia, e che lo rendeva, lui, tal quale io vedevalo allora, — tal quale egli veramente era. Opinioni tali non abbisognando di commenti, non ne farò qui punto.

I nostri libri — i libri che da anni costituivano la maggior parte della spirituale esistenza del malato — erano, com’è facile a supporsi, in perfetto accordo con questo carattere di visionario. Amendue passavamo ad esame, facendone l’analisi, opere analoghe, quali il Verde-Verde e la Certosa, di Gresset; la Belfegora, del Machiavelli; le Meraviglie del Cielo e dell’Inferno, di Swedenborg; il Viaggio sotterra di Niccola Klimm, di Holberg; la Chiromanzia, di Roberto Hud, di Giovanni d’Indaginé e di De la Chambre; il Viaggio nell’Azzurro, di Tieck, e la Città del Sole, — di Campanella. Uno dei suoi volumi favoriti, era una piccola edizione in ottavo del Directorium inquisitorium, del domenicano Emerico De Gironne; e in Pomponio Mela erano passi a proposito degli antichi Satiri africani e degli Egizii, su cui Usher perdevasi a fantasticare per ore ed ore. Nondimeno, le primissime delle sue delizie e’ le ricavava nella lettura d’un in-quarto gotico, eccessivamente raro e mirabile, — il manuale di una chiesa dimenticata — , ossia le Virgiliae Mortuarum secundum Chorum Ecclesiae Maguntinae.

Io stava, mio malgrado, pensando allo strano rituale contenuto in questo libro ed alla sua probabile influenza sul povero ipocondriaco, quando, una sera, dopo avermi egli bruscamente informato che madamigella Maddalena era morta, mi partecipò l’intenzion di conservarne il corpo per una quindicina di giorni — sino a sepoltura finale — in uno dei numerosi sotterranei posti sotto le grosse mura del castello.

L’umana ragione, ch’ei dava, di questa singolare maniera d’oprare, era una di quelle che io sentiva di non avere alcun diritto a contraddire. — Come fratello, dicevami egli, aveva preso questa risoluzione a causa dell’insolito carattere della malattia della defunta, per una tal quale importuna ed indiscreta curiosità degli uomini di scienza, e stante la situazione troppo lontana ed esposta dei sepolcri della famiglia. E qui schiettamente confesso che, quando mi richiamai in mente la sinistra fisionomia dell’individuo da me incontrato sulla scala la prima sera stessa del mio arrivo al castello, non mi pigliò punto vaghezza di oppormi a quanto io riguardava come un’innocentissima precauzione e, senza dubbio, tutt’affatto particolare.

A questa preghiera, io lo aiutai personalmente nei preparativi della temporanea sepoltura. Collocammo il corpo nella bara e, da noi soli, lo portammo al sito di sua dimora. Il sotterraneo in cui lo deponemmo — chiuso da sì gran tempo che le nostre torcie, semispente per quell’ammosfera greve e soffocante, non ci lasciavano bene distinguere gli oggetti — era piccolo, umido e privo di ogni qualsiasi apertura per cui potesse penetrarvi un po’ di luce. Trovavasi posto ad una grande profondità, e appunto al di sotto di quella parte del fabbricato in cui era la mia camera da letto. Molto probabilmente, ne’ vecchi tempi della feudalità, esso aveva adempiuto all’orribile uffizio di prigione a vita, e, ne’ tempi posteriori, a rimoto ricovero di polveri o di qualunque altra materia facilmente infiammabile; avvegnachè parte del pavimento e le intiere pareti del lungo vestibolo da noi attraversato per giugnere sin là fossero scrupolosamente vestite di rame. La porta, di ferro massiccio, era stata oggetto delle stesse precauzioni; e allorchè questo immane pondo girava sugli arpioni, mandava un suono singolarmente acuto, stridente e discorde.

Adunque, posammo il funebre nostro fardello sui cavalletti, in questa regione d’orrore; e, girato un po’ di fianco il coperchio della bara non ancora fisso con le viti, ci mettemmo a contemplare intensamente il cadavere. A tutta prima, io fui colpito dalla rassomiglianza vivissima tra il fratello e la sorella; ed Usher, che probabilmente lesse ne’ miei pensieri, balbettò alcune sommesse parole, per cui venni chiarito come la defunta e Roderick fossero gemelli, e che tra loro due erano sempre esistite simpatie d’un’indole direi inesplicabile. Nondimeno, i nostri occhi restarono ben poco fissi sopra il cadavere, perchè in verità noi non potevamo contemplarlo senza un cotale ribrezzo. Il male che aveva tratto alla fossa madamigella Maddalena nella pienezza di sua gioventù, aveva lasciato (fatto ordinario in tutte le malattie di carattere strettamente catalettico) l’ironia d’un debole coloramento sul seno e sulla faccia, — e sulle labbra quella specie di equivoco ed errante sorriso che sul viso della morte è qualcosa di veramente orribile. — Ricollocammo il coperchio — serrammo le viti, e, chiusa dietro noi la fatal porta di ferro, lassi e pensosi, rifacemmo la via verso gli appartamenti superiori, che non meno di noi apparivano desolati.

Se non che, dopo l’intervallo di alquanti giorni, giorni pieni di amarissimo affanno, avvenne un sensibile mutamento nei sintomi della malattia morale del mio amico. Affatto scomparsi i soliti suoi comportamenti, le ordinarie sue occupazioni andarono neglette, obbliate. Errava di qua e di là, di camera in camera con passi precipiti, ineguali, senza scopo. Il pallore della sua fisionomia, tramutandosi ancora, sembrava propriamente quello d’uno spettro; e la lucida proprietà della sua pupilla era intieramente svanita. Nè più il tono della sua voce arrivavami sì aspro, come già altra fiata, all’orecchio, intanto che un tremito, che sarebbesi creduto provenire da un terrore estremo, contrassegnava abitualmente il di lui accento.

E per vero tal fiata avveniva cosa per cui dovessi figurarmi che il suo spirito, incessantemente agitato e sconvolto, fosse martoriato da qualche soffocante e terribile segreto, e ch’e’ non arrivasse a trovare il coraggio necessario a disvelarmelo. Altra volta poi io mi sentiva costretto di conchiudere semplicemente che tutto ciò dovesse attribuirsi a’ capricci inesplicabili della pazzia; avvegnachè io lo sorprendessi tutto assorto a contemplare per lunghe e lungh’ore nella vuota immensità dell’orizzonte in attitudine di uomo che ascolti un pericoloso immaginario rumore in lontananza: mio Dio, quale atteggiamento era mai il suo in quell’istante! Nè debbesi certo far le meraviglie che quel suo stato mi spaventasse, anzi che quasi quasi mi dèsse la malia. A mezzo di una graduazione lenta lenta, ma reale, io sentiva serpere in me lo strano influsso delle fantastiche e contagiose sue superstizioni.

Potere di certi misteriosi contatti e rapporti, che mal qui saprebbesi definire!

Or, — una notte specialmente, la settima o l’ottava della deposizione di madamigella Maddalena nel sotterraneo, molto in sul tardi, prima di mettermi a letto — avvenne che io provassi sopra di me tutta la potenza di tali sensazioni. Il sonno, ostinato, rifiutavasi a’ miei occhi: oh, com’eran lunghe le ore! ‐ cadevano lente lente, grevi, spiccate, sonore ‐ ad una ad una ‐ cadevano e cadevano sempre! Ed io studiavami con la ragione di dominare quell’agitazione nervosa: tentai di persuadermi che quanto provava dovevasi attribuire in parte, se non assolutamente, allo strano influsso delle melanconiche suppellettili della mia camera, ai neri drappi laceri e cadenti che, scossi dall’incipiente soffio del vicin temporale, ondulavano — come in eccesso di doglia — qua e là sui muri, e susurravano dolorosamente intorno gli ornamenti del letto.

Ma ogni mio sforzo fu vano.

Un invincibile, intenso terrore avvinghiava grado a grado tutto l’essere mio, infiltravasi in ogni mia fibra; — e dappoi un’angoscia straziante, un vero incubo venne a posarsi sul mio cuore. Respirai con violenza, e feci un vivo sforzo per iscacciarlo; e alfin lo scacciai: allora, sollevatomi su’ guanciali, spinsi con ardente disio lo sguardo tra la fittissima tenebra della camera, e tesi l’orecchio (nè saprei la ragione di questo mio fare; forse unica, la semplice forza degl’istinti) a certi suoni bassi e vaghi che partivansi di non so dove, e che ad intervalli arrivano lenti e misti a’ frastuoni della tempesta.

In preda ad un’intensa sensazione di orrore, orrore inesplicabile, intollerabile, in fretta in fretta indossai i miei abiti — (ben mi accorsi che in quella notte non avrei potuto chiudere occhio) e aggirandomi qua e là a gran passi nella camera, mi sforzai d’uscire dallo stato deplorabile in cui era caduto. — Aveva compiuto appena qualche giro, allor che un passo lieve lieve venne ad arrestare la mia attenzione; immantinenti m’accorsi, quello essere il passo di Usher.

Ed ecco che, non ancor volto un minuto secondo, piano piano udii picchiare alla mia porta, e lui, proprio lui farsi innanzi con una lampada in mano. Un cadaverico pallore si stendeva, come al solito, sopra la sua fisionomia; dippiù, eravi ne’ suoi occhi un non so che d’insensata ilarità, e in tutti i suoi modi una specie d’isterismo evidentemente compresso. Quell’aria mi spaventò; nondimeno la sua presenza era preferibile certo alla solitudine che sin’ allora aveva sopportato; accolsi quindi l’amico come un vero sollievo.

— Come! non lo vedeste voi dunque? dissemi egli bruscamente, dopo alcuni minuti di silenzio e dopo avere dato intorno intorno un’occhiata fissa e spaventata: — Come! voi dunque, replicò, non lo scorgeste? — Aspettate, aspettate! Lo vedrete, sì, lo vedrete! E in questo dire, postò con cautela la sua lampada in un cantuccio, e poscia lanciossi ad una delle finestre, e la spalancò tutta quanta al furore della tempesta.

L’improvvisa e rapida raffica del vento poco mancò non ci sollevasse dal suolo. Era proprio una notte di temporale spaventosamente bella, una notte unica e strana nel suo orrore e nella sua magnificenza. Sembrava che un fiero turbine si fosse tutto concentrato in que’ d’intorni, poich’eranvi spessi e terribili mutamenti nella direzione del vento, e l’eccessiva densità delle nubi — discese allora sì basse che quasi pesavano sulle torricciuole del castello — c’impediva di valutare giustamente quella vivente velocità con cui i venti urtavansi l’un l’altro in tutti i punti dell’orizzonte, a vece di perdersi nello spazio. Quella straordinaria loro densità ci vietava di scorgere cotale fenomeno; ed intanto non un filo del disco lunare, non raggio di stella, non qualsiasi altro brillamento di luce splendeva ai nostri occhi.

Ma le superficie inferiori di questi grossi ammassi di vapori sconvolti e sobbalzanti, e ogni terrestre oggetto sito nel raggio del limitato nostro orizzonte, riflettevano — strano a credersi! — il soprannaturale chiarore d’un irraggiamento di gaz, che pesava sulla casa e l’avvolgeva come in un lenzuolo, luminoso e distintamente visibile.

— Via, voi non dovete vedere di simili scene, voi! Non dovete contemplare di tali cose, capite? dissi con senso di ribrezzo ad Usher; e, in questa, con dolce violenza lo traeva dalla finestra sopra un seggiolone vicino. — Tali cose, che vi pongono il capo in dissesto, non sono, Roderick, che semplici ed ordinari fenomeni elettrici, la cui funesta cagione deriva anzi dai fetidi miasmi dello stagno. Chiudiamo la finestra; quest’aria diacciata è pericolosa pel vostro temperamento. Eccovi uno dei prediletti vostri romanzi; io leggerò e voi mi ascolterete; per tal modo noi passeremo insieme questa terribile notte. —

Il vecchio libro, su cui avea posto mano, era il Mad Trist di sir Lancellotto Canning; ma, così per ischerzo, io avevalo decorato del titolo di libro favorito d’Usher; brutto scherzo invero, poichè nella sua insipida e barocca prolissità vi era ben poco pascolo a trarre per la squisita spiritualità dell’amico mio. Tuttavia era il solo libro che mi fosse immediatamente capitato sotto mano; ed io mi cullava nella vaga speranza che i cupi vapori ipocondriaci, ond’era torturato il mio amico, otterrebbero un sollievo (la storia delle malattie mentali è piena di siffatte anomalie) nell’esagerazione delle stesse follie ch’io stava per leggergli. A giudicar poi dall’aria disiosa con cui egli tutto intento ascoltava o fingeva di ascoltare le frasi del racconto, io avrei potuto felicitarmi meco stesso del successo della mia finzione.

Era omai giunto a quella parte sì conosciuta della storia in cui Etelredo, l’eroe del libro, avendo invan tentato d’entrare amichevolmente nel ritiro di un eremita, credesi in diritto d’introdurvisi per forza. Qui, se ben ricordisi, il narratore si esprime in questo modo:

«Ed Etelredo, ch’era per natura di cuor valoroso, e che lì era eziandio fortissimo, in ragione dell’efficacia generosa del vin tracannato, non ebbe più pazienza di fare parlamento con l’eremita che, a dir vero, mostrava un animo molto dedito all’ostinatezza ed alla malizia; ma, sentendo la pioggia cadere giù grossa sulle proprie spalle, e temendo da uno all’altro istante l’esplosione del temporale, sollevò vigorosamente la sua mazza e con pochi buoni colpi maestri s’aperse presto una via a traverso le tavole della porta, con la sua mano dal guanto di ferro; e, traendola energicamente a sè, la fe’ scricchiolare, rompere e saltare in pezzi, con tale riuscita che il rumore del legno secco e scrosciante destò lo spavento e venne ripercosso da un capo all’altro, della foresta.»

Al finire di questa frase io mi scossi e feci una pausa; poichè m’era sembrato (ma tosto m’accorsi dell’illusione della mia fantasia), m’era sembrato, ripeto, che da una qualche remotissima parte della casa fosse pervenuto al mio orecchio una specie di romore che, stante la sua esatta analogia, sarebbesi potuto tenere per un’eco soffocato, estinto dal romore di scricchiolamento e rottura tanto meravigliosamente descritto dal signor Lancelotto. Evidentemente, non era che la semplice coincidenza che avesse scosso la mia attenzione; imperciocchè tra lo stridore delle imposte delle finestre ed il frastuono della tempesta ognor più crescente quel suono nulla aveva di per sè che mi potesse turbare o spaventarmi. — Così dunque io seguitai la lettura:

«Ma Etelredo, il valente campione, varcando allora la porta, montò su tutte le furie, meravigliato di non iscorgere alcuna traccia del malizioso eremita; ma in vece sua ed al suo posto trovò un dragone di apparenza mostruosa, squamoso, con una lingua di fuoco, fisso a sorveglianza d’innanzi un palazzo d’oro, con impalcato d’argento; e sopra il muro vedevasi sospeso uno scudo di rame sfolgorante con su impressavi questa leggenda:

«Colui che qui entrerà sarà il vincitore;
     E quegli che ucciderà il dragone, avrà guadagnato lo scudo.»

«Ed Etelredo sollevò la sua mazza, e di pieno colpo ne percosse il capo del dragone, che cadde a lui dinanzi, rendendo l’estremo suo fiato tutto nauseabondo con sì spaventevole, sì aspro e sì acuto ruggito, che Etelredo fu costretto di turarsi le orecchie colle mani per eludere un sì terribile rumore, tale che simile non aveva mai udito di sua vita.»

Qui, feci bruscamente una nuova pausa, e questa volta con senso di violento stupore; avvegnachè adesso non fosse proprio più il caso di dubitare ch’io realmente non avessi inteso (certo mi sarebbe impossibile di affermare in quale direzione) un suono debole debole in lontananza, ma aspro, prolungato e in modo singolare acuto e stridente, — l’esatta, la perfetta contraffazione del ruggito soprannaturale del dragone, descritto dal romanziere, e tal quale se l’aveva figurato la stessa mia immaginazione.

Oppresso come io già fortemente mi trovava, prima di questa nuova e piucchè straordinaria coincidenza, da mille contradditorie sensazioni, in cui dominavano uno stupore ed uno spavento estremi, mantenni nondimeno tanta fortezza d’animo da evitare, con un’osservazione qualunque un maggiore eccitamento nella sensibilità nervosa dell’amico mio. Veramente, io non era del tutto sicuro ch’e’ non avesse pure avvertito i medesimi suoni, sebbene ad evidenza scorgessi che da qualche momento erasi manifestata nel suo contegno una molto strana alterazione.

Dalla primitiva sua postura, a me dirimpetto, egli aveva a poco a poco girato la sua poltrona in modo che ora la sua faccia stava rivolta verso la porta della camera, — così che io non riesciva a vedere completamente le linee del suo volto, sebbene mi accorgessi benissimo dal tremito convulso delle sue labbra ch’ei mormorava alcun che di misterioso e d’impercettibile.

Teneva il capo appoggiato al petto; e non pertanto mi avvedeva che non dormiva, poichè, fissandolo di profilo, i suoi occhi apparivano aperti, avidamente ed intensamente fissi. D’altronde, il movimento del suo corpo smentiva pure cotest’idea, poichè egli lieve lieve si dondolava da destra a manca, costante ed uniforme. Tutto ciò ben notai con occhiata rapida e comprensiva, e quindi ripresi la narrazione di Lancellotto, che era del tenore seguente:

«Ed ora il valido guerriero essendo sfuggito alla terribile furia del dragone, sovvenendosi dello scudo di rame e che l’incanto suddescritto erasi rotto, rimosso il cadavere che gli abbarrava la via, coraggiosamente avanzossi sul pavimento d’argento del castello, verso l’angolo del muro donde penzolava lo scudo, il quale, prima che il vincitore gli fosse vicino, cadde a’ suoi piedi sopra il suolo d’argento, mandando un suono lungo lungo, acuto acuto e terrificante!»

Ma queste ultime sillabe erano appena morte sulle mie labbra, che intesi l’eco distinto, profondo, metallico e tintinnante dello scudo di bronzo, così precisamente come se in quello stesso istante quel valido arnese di guerra fosse pesantemente caduto sull’impiantito di argento; l’eco era soltanto men vivo, e quale se avvertito in lontananza. Rimasi di sasso; ma tosto, scossomi, saltai ’n piedi: Usher però non aveva di un ette interrotto il suo dondolarsi. Mi slanciai verso la poltrona su cui stava sempre seduto: i suoi occhi erano sbarrati e fissi in linea retta, e tutta la di lui fisionomia appariva in preda d’una marmorea rigidità. Ma non sì tosto ebbi posato la mano sulla sua spalla, ecco un violento tremito percorrere ogni fibra dell’essere suo, un sorriso ignoto ed insano errare sulle sue labbra, intanto che mi accorsi ch’ei parlava come tra sè — basso, basso, basso — una specie di susurro precipitato ed inarticolato, come se non avesse coscienza della mia presenza.

Io accostai tutt’affatto la mia alla sua faccia e, teso l’orecchio, riescii a divorare, direi, il terribile significato delle sue parole — che erano:

— Che! non sentite voi? non sentiste voi adunque? — Oh, io, sì, io sento, ed è già da molto molto che sento — oh, da molto, da molto! — sono minuti, sono ore, sono giorni, che sento; ma io non osava, non osava, capite! pietà, deh! pietà per me, povero sventurato che sono! Non osava, capite? Non osava parlarne! Ah noi l’abbiamo seppellita viva,..... viva! Non vi ho io forse detto che i miei sensi erano finissimi, squisitissimi? — Ed ora, ora vi dico che ho sentito i suoi deboli movimenti al fondo della bara. E sono diggià giorni, — giorni, giorni! ma io non ardiva, — no, non ardiva parlarne! E adesso, adesso — questa notte,... Etelredo... Ah! ah! — la porta sfondata dell’eremita, e il rantolo del dragone, e il rimbombo dello scudo!

Ah, ah! — Dite piuttosto la rottura della sua bara e lo stridio de’ ferrei arpioni della sua prigione, e la sua spaventosa lotta nel vestibolo di rame! Oh, dove fuggire? Non sarà dessa forse qui a momenti? Non giugnerà per rimproverarmi la precipite sepoltura? Non ho forse sentito i suoi passi sulla scala! Non distinguo ora forse abbastanza l’orribile e lento battito del suo cuore? Insensato! — E qui e’ si rizzò furiosamente in piedi, e urlò le sue sillabe, quasi in questo sforzo supremo esalasse lo spirito: — Insensato, ripetè, vi dico che essa ora è là, là dietro la porta!

In questo medesimo istante, come se la soprannaturale energia della sua parola avesse acquistato l’onnipotenza d’un incanto, gli ampi ed antichi portoni indicati da Usher si dischiusero lenti lenti sopra le pesanti loro imposte di ebano. È vero, quello era stato l’effetto di una violentissima raffica di vento; ma allora di dietro la porta apparve ritta ritta l’alta figura di madamigella Maddalena Usher, tutt’avvolta nel suo funereo lenzuolo. E sopra le sue bianche vesti erano sparse goccie di sangue, e tutta la sua persona, spunta e tirata, ostentava chiaramente i contrassegni di un'orribile lotta. Rimase un istante sulla porta, indecisa e vacillante; — poscia con un grido lamentevole e profondo pesantemente cadde davanti suo fratello, e nella sua violenta ed estrema agonia lo trasse a terra, sopra di sè — cadavere e vittima nello stesso tempo de’ suoi prematuri terrori.

In preda ad un orrore letale, io fuggii di questa sala e di questa casa. — La tempesta romoreggiava ancora in tutta la sua rabbia, allorchè giunsi a varcare il recinto dell’antico tenimento.

Tutt’a un tratto una luce strana strana si diffuse su tutta la via ed io mi volsi ad osservare donde partisse fenomeno così meraviglioso, avvegnachè dietro di me io non avessi che l’ampio castello interamente ravvolto nelle profonde sue ombre. E questo irraggiamento proveniva dalla luna che, piena e rossa quasi vivo sangue, stava tramontando; la quale in tal momento vivamente splendeva a traverso la fessura, poc’anzi appena visibile che, come dissi, delineavasi in zig-zag sulla facciata di casa Usher, dall’alto tetto alle ime fondamenta.

E in quella ch’io stava osservando, la fessura rapidamente si allargava: poi si fece sentire un nuovo impeto di vento, un turbine spaventosamente furioso; — e qui l’intero disco del pianeta apparve d’un tratto superbamente sfolgoreggiante alla mia vista. — Ohimè! io provai il capogirlo allor che vidi quelle vecchie e grosse muraglie spaccarsi.

.................

E successe un frastuono prolungato, un fracasso tumultuoso simile alla voce spaventosamente scrosciante di mille cateratte, — ed il profondo e corrotto stagno, lì a poca distanza, mestamente e silenziosamente si distese, allagandole, sulle rovine della Casa Usher.


  1. Watson Percival, Spallanzani e in ispecial modo, il vescovo di Landoff. — Vedi il Chemical Essays — vol. V.

    E. A. P.

    Sono opinioni che oggidì han preso maggior diffusione e colorito, di cui non fia vano più minutamente cercare le idee e i principj de’ loro fautori.

    B. E. M.


Note

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