Questo testo è completo, ma ancora da rileggere.
Questo testo fa parte della raccolta Saggi e discorsi (Martinetti)

La funzione religiosa della filosofia 1


A chi intraprenda da un punto di vista alquanto comprensivo e profondo l'insegnamento della filosofia o l’esposizione d’una dottrina filosofica il primo compito che si impone è naturalmente quello di determinare la via da seguirsi, di precisare i motivi, i limiti ed i criteri dell'insegnamento filosofico. Ora è facile vedere che non è possibile trattare adeguatamente questo punto senza entrare fin dal primo istante in un problema assai più arduo e più vasto, senza chiedere che cosa è e che cosa vuole la filosofia, in altre parole senza determinare fin da principio quale sia la funzione sociale, quale il valore umano della filosofia. La filosofia come problema — ecco il primo problema della filosofia. Questo problema non è evidentemente tale che possa venir divelto dal problema universale della realtà che è l’oggetto vero e proprio della filosofia; quell’attività umana particolare, che diciamo filosofia, è pur essa un momento della vita umana, un processo, che un sistema filosofico è in dovere di esplicare determinandone la natura e la funzione ed assegnandogli il posto che gli spetta nel sistema delle attività spirituali e nel complesso dell’esistenza in genere. Ciò posto, non apparirà strano che oggi ancora la filosofia debba considerare come un problema la determinazione della sua natura e del suo fine: dal momento che il concetto della filosofia dipende strettamente dalla soluzione che ogni concezione filosofica dà al problema metafisico fondamentale, è naturale che anche questo concetto muti con l’avvicendarsi dei sistemi filosofici e che ogni nuova filosofia, per il fatto stesso che ci presenta una nuova concezione delle cose, ci dia nel tempo stesso una nuova giustificazione del diritto all’esistenza della filosofia medesima. Nè in questa variabilità della filosofia, rispetto alla determinazione della sua natura e del suo fine, alcuno vorrà vedere, come superficialmente parrebbe, un segno d’inferiorità della filosofia rispetto alle altre scienze, le quali non sentono quest’esigenza e si presentano perciò orgogliosamente sicure di sè stesse: l’incertezza e la riserva della filosofia non sono che l’espressione di quello spirito eminentemente critico che costituisce il vero spirito filosofico; per la filosofia non è un problema questo o quel punto dell’esistenza, ma l’esistenza stessa e perciò anche la filosofia che ne fa parte. E se ciascuna delle altre discipline dovesse al suo inizio giustificare sè medesima e porre in luce il suo valore ed il suo vero ed ultimo significato, non per la coltura, ma per la vita umana e per i fini supremi dell’uomo in generale, noi assisteremmo ad incertezze ed a discrepanze non meno rilevanti: vero è che esse farebbero allora opera propria non delle scienze, ma della filosofia.

Poco filosofico sarebbe quindi il prendere senz’altro come punto di partenza la filosofia stessa assunta come semplice dato di fatto, affermando che l’uomo desidera naturalmente di conoscere; ciò equivarrebbe ad introdurre fin da principio come un dato di fatto isolato una tendenza inesplicata, di cui rimarrebbero ugualmente misteriosi la natura come il fine, nè sarebbe allora possibile reprimere la domanda: ma perchè l’uomo desidera conoscere? La natura medesima dell’esposizione filosofica esige così che non si imprenda a determinare l’oggetto ed il fine immediato della filosofia senza determinarne anche, almeno rapidamente, il compito ultimo e definitivo; determinazione che naturalmente non può sin da principio avvenire con quell’ampiezza e con quella precisione che essa potrebbe avere in un sistema di filosofia dello spirito, ma che tuttavia serve come di orientamento iniziale e di preparazione all’intelligenza dei particolari successivi, in cui troverà il proprio ampliamento e la propria conferma.

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Il multiforme complesso delle attività umane non può costituire, se è vero che il mondo dell’esperienza deve essere riducibile ad un sistema intelligibile, una molteplicità disgregata di attività isolate, ma deve costituire uno svolgimento unico e continuo, un sistema in cui le attività stesse si concatenano e si dispongono secondo una gradazione di valore determinata dal loro rispettivo rapporto con quell’attività che costituisce il valore supremo, il fine di tutto il sistema. Il primo e più vasto gruppo di questo insieme ci è dato dal complesso di quelle attività umane che hanno per fine la conservazione organica e che noi possiamo chiamare attività tecniche: complesso che ha subito, parallelamente al progresso della vita umana sotto ogni altro rapporto, uno svolgimento considerevole e che abbraccia tutti i mezzi per cui l’uomo esplica la propria potenza sulla natura facendola servire ai suoi fini materiali. Sul fondamento delle attività tecniche si leva un altro ordine di attività, che trascendono nella loro finalità i fini egoistici dell’individuo e sembrano avere il loro oggetto nella costituzione d’una viltà collettiva, d’un organismo sociale eretto, come una specie di personalità superiore, sulle unità individuali; questa è la sfera della morale e del diritto. E finalmente dalla costituzione di quest’unità morale della collettività viene reso possibile un altro ordine di funzioni, in cui sembrano riassumersi la ragione ed il fine di tutto il processo: queste sono le attività che costituiscono ciò che nel suo più ristretto senso diciamo cultura — e cioè l’arte, la scienza, la filosofia, la religione. Ora in quale di queste sfere, in quale di queste attività, ci chiediamo, dobbiamo noi effettivamente porre il valore supremo della vita, sì da poterne derivare il criterio con cui giudicare del rispettivo valore e del reale compito delle altre attività? Certo lo spirito raramente si pone questa domanda nel corso della vita pratica, guidata generalmente dagli istinti, dai sentimenti, dal caso, più che dalla riflessione; ma la filosofia non può, quando voglia procedere ad una definitiva valutazione teorica della vita e dei suoi vari aspetti, non proporsi nella sua integrità l’arduo problema.

La parola stessa «valutazione» indica che la decisione, innanzi a cui questo problema ci pone, non è una fredda decisione teoretica: ed è naturale del resto che, se anche la decisione teoretica e l’elezione pratica possono con un certo fondamento venir separate per astrazione nei momenti singoli e subordinati della vita e dell’agire umano, esse non possano venir isolate in un atto che, essendo un giudizio su tutto quanto può essere oggetto della conoscenza o dell’interesse umano, non può costituire una sintesi teoretica senza introdurre nello stesso tempo, potenzialmente almeno, un nuovo e corrispondente indirizzo pratico. Certo il momento primitivo e decisivo di questa valutazione è e rimane pur sempre un atto teoretico, informato ai puri criteri teoretici: l’oggetto, che ad esso immediatamente si propone, non è la determinazione diretta della preminenza pratica di questa o quell’attività umana, ma l’ordinamento di queste diverse attività, quali ci sono date dall’esperienza obbiettiva e subbiettiva, in un sistema che ce ne renda intelligibile il complesso, che ci riveli la direzione in cui si muove, sotto le apparenze mutevoli e varie, la corrente profonda della vita. Ma la vita non è una realtà lontana e straniera all’intimo essere nostro, su cui l’intelletto possa spaziare in una fredda contemplazione: essa è una realtà che è viva e presente nel nostro interno ed i diversi momenti della vita umana, oggetto presente del nostro giudizio teoretico, sono anche i motivi che si contendono il dominio della nostra volontà ed attività interiore. Ora se è vero che una sola è la natura profonda di quell’attività interna che ci appare ora come intelletto, ora come volontà, e che sotto l’una e l’altra forma aspira costantemente verso un unico fine, verso l’essere immutabile e definitivo: se è vero che nessun giudizio teoretico, anche il più astratto dalla realtà, è senza una ripercussione pratica, perchè l’attività pratica non è in fondo che un’assimilazione complessa, graduale e lenta di tutta la natura nostra verso il momento e l’atto suo supremo dell’intuizione intellettiva; tanto meno potrà ciò avvenire in un campo che riflette la realtà medesima dell’essere nostro ed in cui ogni indirizzo pratico è l’implicita affermazione teoretica della realtà suprema d’un dato aspetto della vita, come ogni decisione teoretica è nel tempo stesso un’iniziale affermazione pratica. Allo stesso modo quindi che non è possibile scindere la concezione teoretica della vita dall’apprezzamento pratico dei suoi diversi aspetti, così non è possibile non riconoscere al costante indirizzo della volontà collettiva, che si esplica nella storia dell’umanità e si rivela nelle aspirazioni del nostro spirito, un valore teoretico; onde è per noi in fondo indifferente formulare il problema sotto l’aspetto teoretico o sotto l’aspetto pratico e chiedere: Quale è l’attività umana che costituisce la realtà assoluta della vita? Quale è l’attività da cui possiamo attenderci la soppressione del desiderio, l’arrivo al fine, la pace?

Niuno ignora come una larga ed antica corrente del pensiero abbia risoluto il problema col porre come essenziali e fondamentali quelle attività, che hanno per fine diretto la conservazione e l’espansione della vita deirindividuo: in questa generica affermazione si riassumono le varie forme dell’individualismo edonistico, che, sotto vari aspetti, ha avuto così larga eco anche al tempo nostro. Ma a questa soluzione contrastano gravemente due fatti, i medesimi che già Platone nel Gorgia oppone all’edonismo di Polo e di Callide: e cioè in primo luogo resistenza nell’uomo dìi tendenze invincibili che trascendono la limitata cerchia degli interessi egoistici e sono perciò ad essi irreducibili: in secondo luogo la testimonianza della realtà stessa, che con aspre esperienze insegna all’uomo il suo fine non essere posto nella soddisfazione dei desideri individuali egoistici. Nell’uomo normale indubbiamente vive e resiste ad ogni critica un impulso che ostinatamente si ribella all’egoismo assoluto come ad una degenerazione mostruosa della natura umana, che gli fa giudicare del valore delle azioni sue e degli altri secondo un criterio ben diverso da quello della quantità maggiore o minore del godimento conseguito; e nessun utilitarismo ha mai potuto risolvere senza residuo questa tendenza, che pure è un fatto della più alta importanza, in una complicazione ed in una modificazione di tendenze egoistiche. D’altronde se vi fosse un’umanità così degradata da non sentire la voce di questo daimonion, di questo giudice interiore, resterebbe ancora sempre un altro potente argomento, il dolore. È un’antica esperienza dell’umanità che nessuna delle cose che sono sotto il cielo può dare all’uomo la pace definitiva dell’anima. L’aspirazione ardente dell’uomo è la vita: il godimento non è che intensità di vita. Ora appartiene alla natura delle cose finite di essere travolte in un movimento, anzi in una morte continua: l’essere deiruomo e quello delle cose che lo circondano sembra avere, come dice il Leopardi, per proprio ed unico obbietto il morire. Le amarezze e le sventure di ogni specie, che irrompono nel corso della vita, non sono che forme diverse della morte, la quale in ogni istante ci rapisce una parte della vita e travolge nell’irrevocabile passato noi e le cose che d sono più care. Contro questa dura esperienza, che l’uomo troppo spesso dimentica nel facile ottimismo della vita quotidiana, naufraga irremissibilmente ogni illusione edonistica.

Questa è stata del resto anche l’esperienza secolare dell’umannità, che lentamente si è levata, sotto la pressione del dolore, dal seno dell’animalità ad una vita superiore: se l’uomo è diventato un essere morale, se egli ha svolto in sè le virtù della pietà e della carità attiva, egli lo deve sopratutto al fatto, dice bene il Wundt, che la terra non è per lui un paradiso. Dovremo ora noi, come da molti si vuole, arrestarci a questa sfera superiore della vita e porre in essa, vale a dire nella realizzazione delle idealità morali, il fine supremo dell’uomo?

Certo l’attività morale pone l’uomo dinanzi, a grandi compiti, che possono essere il degno fine d’una vita intiera: ma quando noi la consideriamo da un più alto punto di vista, dobbiamo riconoscere che anche la vita morale non presenta all’uomo un termine ultimo e definitivo dell’attività sua. Come Fichte ha più d’ogni altro messo chiaramente in luce, ciò che ha valore nell’atto morale non è il risultato materiale raggiunto, ma la conformità della volontà interiore con un ordine puramente ideale: l’ordine morale non è una Gerusalemme celeste realizzabile sulla terra, ma un regno ideale di fini, di cui l’uomo si rende partecipe per la vita morale. Ora ciò equivale ad affermare che la vita morale umana non può venire obbiettivamente posta come fine a sè medesima: perchè il fine vero ed ultimo dell’atto morale trascende il fine diretto ed immediato che è l’attuazione del bene nell’ordine sensibile. Questo non è del resto che il risultato cui deve giungere ogni osservatore acuto ed imparziale della realtà sociale. Forse che con tutto il vantato progresso morale il mondo attuale è intrinsecamente migliore? Forse che anche oggi la violenza e la frode non sono le vere forze dominatrici e forse che oggi non sarebbe giustificata la domanda che muove al suo Dio il profeta ebraico: perchè l’innocente è oppresso e l’iniquità trionfa? È vero che un superficiale ottimismo pone dinanzi a noi l’età dell’oro in un avvenire più o meno remoto: l’esperienza del passato ci mostra troppo bene come dobbiamo pensare l’avvenire. E dato pure che questo futuro regno della giustizia fosse possibile, distruggerebbe esso tutto il passato di ingiustizie e di dolori che pure, per una delicata coscienza morale, non deve essere meno tormentoso del presente? L’impulso morale dell’uomo non potrà quindi sperare mai di vedere realizzato quandochessia il suo ideale. Ciò riconosce del resto anche la coscienza religiosa volgare, per cui l’ordine morale è inseparabile dal concetto d’una esistenza oltremondana; il che vuol dire che la vita morale non può avere per sè stessa un valore assoluto, ma riceve il suo compimento e la sua ragion d’essere da un ordine soprasensibile, che diventa direttamente accessibile soltanto nell’esperienza religiosa.

Ed alle stesse riflessioni ci conduce la considerazione di tutte le altre forme positive della cultura, che si suole proporre all’uomo come un campo d’un progresso indefinito, d’un’esplicazione indefinita della sua attività. Che cosa significano tutte queste parole di progresso, di evoluzione spirituale indefinita, se non se ne precisa chiaramente il fine? E se si pone questo fine nello sviluppo illimitato delle facoltà superiori, sorge spontanea la domanda: a che giova? Nessuna di queste attività che pure possono, nessuno lo nega, costituire per l’individuo un nobile fine della vita, costituisce, quando venga considerata nella sua totalità sub specie aeternitatis, un tutto avente in sè la sua ragione ed il suo fine, in modo che l’ uomo debba in esso riconoscere il valore definitivo e supremo. La stessa attività del pensiero, che pure è sorgente allo spirito dell’uomo di tante gioie e di tanto legittimo orgoglio, non presenta allo spirito umano, quando profondamente sii pensi, alcuna soddisfazione definitiva. Colui che abbraccia al di là della piccola isola del sapere umano il mare infinito di ciò che non sappiamo e non sapremo mai — quel mare per cui non abbiamo nè barca, nè vela — come potrà non ripetere in sè l’amaro lamento del dottor Fausto:

E vedo solo che non possiamo saper nulla!

Anche qui del resto ciò che più rende impossibile un appagamento completo dello spirito è la presenza in esso d’un’aspirazione indefinita verso qualche cosa di perfetto, di definitivo, di assoluto: anche i più nobili fini impallidiscono, come gli oggetti del desiderio sensibile, dinanzi a questo vago bisogno dello spirito, che lo riempie d’un’inquietudine indefinibile ed è come il presentimento ed il desiderio confuso d’una vita superiore. «L’ideale, scrive Amiel, uccide la gioia del presente. Esso è veramente lo spirito che sempre nega, la voce che mormora all’uomo: No, tu non sei riuscito, no, quest’opera non è bella: no, tu non sei beato; no, tutto ciò che hai., che vedi, che fai, non ti darà il riposo, non è perfetto, non è eterno, non è ciò cui tu aneli».

Date queste contraddizioni dolorose inseparabili dalla vita interiore dell’uomo, non è meraviglia che l' umanità abbia fin dai suoi primi inizi vagheggiato il desiderio di un’esistenza più vera e più pura, che l’urto doloroso con la realtà abbia suscitato in essa la convinzione che questa non sia la vera, l’ultima realtà, che al di là di questo mondo vi sia un mondo puro e beato in cui abbiano il loro termine i desideri supremi dell’uomo. Da questo desiderio, da questa convinzione ha avuto origine la religione. Ciò che caratterizza quest’attività spirituale di fronte alle altre è precisamente questo, che il suo ideale è un ideale trascendente: laddove la morale, l’arte, la scienza considerano l’opera loro come un contributo positivo all’esistenza sensibile, la religione, pur ponendo sè stessa come il coronamento del la vita spirituale e concorrendo indirettamente alla perfezione di questa sotto tutti i suoi aspetti, pone il proprio termine al di là del mondo, in una realtà soprasensibile sottratta alle condizioni dell’esistenza empirica, di fronte a cui tutti gli altri fini della vita perdono ogni valore assoluto e definitivo. Quale è ora il valore di questa tendenza suprema dello spirito, che sembra voler accogliere in sè tutti i valori della vita umana solo per involgerli nella negazione più radicale?

Noi siamo giunti qui ad un punto la cui decisione è della massima importanza per l’apprezzamento dei vari aspetti della vita umana: tutta la vita dello spirito dovrà apparirci sotto un aspetto ben diverso, secondo che si giudichi che la religione sia soltanto un sogno poetico, un’illusione subbiettiva, ovvero costituisca realmente la rivelazione d’un fine trascendente, oggetto unico e definitivo dolio aspirazioni o dell e attività umane. Una questione di questa natura, che involge in sè la trattazione di tutti i più gravi problemi relativi alla conoscenza ed all’esistenza, esigerebbe naturalmente un ben più vasto svolgimento: le conclusioni, che qui riassumiamo, hanno il loro posto alla fine, non ai primi inizi d’un sistema filosofico. Gioverà tuttavia ricordare qui brevemente come anche nella sfera dell’esperienza naturale la serena considerazione dei fatti escluda la superficiale filosofia religiosa del naturalismo: l’ordine meccanico artificiale creato dalla scienza con le sue astrazioni, quando noi lo consideriamo più profondamente, si risolve, come già Leibniz divinò, in un ordine armonioso di pensieri, di impulsi, di volontà analoghe a quella che s’agita nel nostro interno, il quale può avere la sua esplicazione ed il suo legittimo compimento solo nel regno luminoso dello spirito e nel suo graduale progresso verso l’unità che ne traluce. Ma l’argomento più potente in favore dell’interpretazione religiosa della realtà e della vita ci è dato dalla vita stessa dello spirito: dove è possibile dare un senso e un fine alle molteplici attività umane solo quando esse vengano considerate come manifestazioni imperfette e graduali di un’attività unica, che ha nella religione la sua ultima conclusione. Il fatto religioso, in modo particolare, costituirebbe esso medesimo, nella sua universalità e perennità, un miracolo continuo ed inesplicabile, se la religione non fosse la realizzazione di un fine fondato sulla natura dell’uomo e delle cose: fine che solo può dare un senso alle altre forme dell’attività spirituale, che altrimenti sarebbero destinate ad esaurire i loro sforzi dietro alla chimera d’un progresso indefinito; e solo può dare un senso a quelle aspirazioni verso una perfezione trascendente, che l’elevazione dello spirito e l’esercizio delle facoltà superiori non solo non distruggono, ma anzi rendono più perfette e più intense.

La stessa considerazione teoretica della realtà conduce così a concludere, nello stesso indirizzo del sentimento, che la vita religiosa non è soltanto il frutto d’un’illusione primitiva, ma costituisce veramente la rivelazione d’una realtà più profonda, la conversione qualitativa suprema dello spirito, in cui le altre forme della vita trovano il loro fondamento ed il loro fine. Certo essa ha, come ogni progresso spirituale, la sua origine nel dolore dell’esistenza e nel desiderio umano della liberazione; ma non ha in essi la sua unica ragione, poiché anzi è nel bisogno religioso, nel presentimento, che lo spirito ha del divino in lui immanente, che noi possiamo trovare la ragione del dolore, dell’ insoddisfazione perenne del cuore umano, che non trova quiete in nessuna cosa terrena e ne sente dolorosamente, nel suo desiderio del perfetto e dell’eterno, il carattere transitorio e finito. Quindi la totalità della vita dello spirito ci si presenta, complessivamente considerata, come un processo graduale di espansione, di liberazione, di potenziamento dello spirito, che ha per effetto la manifestazione di unità sempre più comprensive e più alte: processo che già si inizia nella stessa vita organica, la quale è l’accentramento delle innumerevoli coscienze inferiori dell’essere nostro in quella sintesi, in quella forma (per usare il termine tradizionale), che è l' anima individuale. Al disopra della vita organica si dispiega, come una vita spirituale più comprensiva, la vita morale, che ha per effetto di creare una coscienza interindividuale, una coscienza sociale superiore, che noi non possiamo vivere direttamente, ma a cui partecipiamo per mezzo della vita morale: la voce di questa coscienza superiore è l’imperativo morale. L’ultima fase di questa ascensione dello spirito è la vita religiosa, che è costituita dalla comunione dello spirito individuale con la vita universale delle cose, dalla partecipazione alla vita dello spirito universale, che in sè abbraccia la totalità assoluta dell’essere ed in cui hanno perciò riposo i desideri e le aspirazioni umane: esso è ciò che la coscienza religiosa chiama Dio.

Certamente la vita religiosa non è ancora una coscienza assoluta del divino, una partecipazione perfetta alla vita divina: appunto perciò essa è dinanzi a noi come un ideale da realizzare, come un dovere d’un ordine superiore: ma anche questo dover essere è già l’essere iniziale, la rivelazione d’una nuova forma dell’esistenza, l’alba d’una nuova vita, che si apre all’umanità al di là dei limiti dell’esistenza empirica. «Ogni sfera dell’essere, scrive Amiel, tende ad una sfera più elevata e ne ha digià rivelazioni e presentimenti. L’ideale sotto tutte le sue forme è l’anticipazione, la visione profetica di quest’esistenza superiore alla propria, verso cui ogni essere sempre aspira». Questa conversione dello spirito nell’unità spirituale suprema implica naturalmente la rinuncia dello spirito individuale alle limitazioni inerenti ad ogni forma inferiore di esistenza: di qui il carattere di rinuncia, di negazione che riveste la religione. Ma questo carattere è solo l’aspetto negativo di un potenziamento positivo dello spirito ed è già in parte presente, se ben si osserva, nella stessa morale: la carità, la vita negli altri, se è per un lato una estensione dell’essere nostro, è per altro lato anche un rinunciamento a noi, una dedizione, un sacrificio. «La rinuncia e la simpatia, dice il Möbius, sono le due facce della stessa moneta. La simpatia è la conoscenza che noi siamo una cosa sola con gli altri, la rinunzia è la conclusione che la limitazione al nostro proprio io è un’illusione. La rinunzia presuppone la simpatia, la conoscenza che noi siamo una cosa sola con gli altri e col mondo».


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Chiarito così, nei limiti che la natura della trattazione ci imponeva, il primo punto della questione, posto il significato ed il valore supremo della vita nell’elevazione progressiva della coscienza verso quell’unità ideale, che è oggetto della coscienza religiosa, ci rimane ora a chiedere: Quale è il valore e la funzione della filosofia rispetto alla vita religiosa? Quale è il posto della filosofia in una concezione religiosa della vita?

Chi dice coscienza del divino dice perciò anche conoscenza: non solo non vi è nessuna modificazione cosciente del nostro io che non sia in modo indivisibile e simultaneo conoscenza, sentimento ed azione, ma il momento teoretico è l’aspetto predominante in tutte quelle attività, che realizzano un progresso nella vita interiore: come tutte le forme novelle della vita, anche la vita religiosa deve essere anticipata e preparata nella conoscenza. È necessario affermare ben altamente questo punto di fronte ad una teoria, oggi molto in favore, secondo cui la vita religiosa avrebbe la sua radice esclusivamente nel sentimento e le sue creazioni teoretiche, come i miti ed i dogmi, non sarebbero che la materia indifferente dell’estrinsecazione del sentimento, il riflesso passivo d’una misteriosa ed irresistibile tendenza interiore. Il momento decisivo e supremo è al contrario, tanto nella vita morale quanto nella vita religiosa, il momento teoretico, il momento dell’intuizione: momento che, sebbene in sè accolga la vita dell’anima sotto tutti d suoi aspetti e vi confluiscano naturalmente, come fattori, anche i sentimenti, le tendenze e le volontà dell’individuo, è essenzialmente una visione interiore, la quale trascina con sè l’individuo e la sua vita. Ciò che ha più contribuito all’opinione, che la religione sia essenzialmente sentimento, è il fatto che realmente l’intuizione religiosa dà origine, ripetendosi e fissandosi attraverso le generazioni, a disposizioni sentimentali di carattere religioso, in cui, come in tutte le disposizioni sentimentali che riassumono in sè il risultato pratico di -innumerevoli esperienze ereditariamente trasmesse, il momento conoscitivo, cosciente, tende ad oscurarsi di fronte alla tendenza, all’azione: di questo genere p. es. è il sentimento che ci rapisce dinanzi alla visione dei grandi spettacoli della natura o l’emozione che suscitano, anche in chi più non conosce la fede degli anni dell’adolescenza, i canti e le cerimonie del culto. E tanto più trascurabile appare il momento dell’intuizione interiore di fronte alla forza cieca ed oscura del sentimento nella moltitudine imitatrice che vive d’una vita religiosa partecipata e che accetta dalla tradizione l’espressione teorica della sua coscienza religiosa: non v’è dubbio che il fattore essenziale della vita religiosa risiede in questo caso nel sentimento, non nella metafisica religiosa, nel dogma. Ma non bisogna dimenticare che anche queste disposizioni sentimentali hanno originariamente avuto la loro sorgente in un’intuizione: e d’altra parte è innegabile che anche in questo come in ogni altro caso, le disposizioni sentimentali confluiscono in un’intuizione, in una concezione rudimentale che costituisce il momento più alto anche della più umile coscienza religiosa. La sola differenza sta in ciò che nel caso della turba imitatrice il momento della creazione personale, dell’elaborazione intellettiva, che condiziona la sintesi geniale dell’intuizione religiosa, non ha che una scarsa efficacia e si limita ad estrinsecare la sua azione, anziché nella creazione di nuove concezioni, nell’adattamento, per la più inconsapevole, delle concezioni tradizionali. La vita religiosa non è pertanto solo sentimento ma anche, e sopraffatto, conoscenza: l’evoluzione della coscienza religiosa non è solo l’evoluzione di una forza cieca ed oscura com’è il sentimento, ma è l’evoluzione d’una forma superiore della vita in cui il sentimento rappresental’elemento tradizionale, l’abitudine, e la conoscenza rappresenta l’elemento innovatore, l’atto della sintesi geniale creatrice.

L’intuizione religiosa non è nella vita dell’individuo che il privilegio di qualche istante; ma questa breve rivelazione basta per orientare secondo un nuovo indirizzo la vita dell’individuo, per suscitare nella coscienza un desiderio inestinguibile di possedere più profondamente questa vita interiore che è sorgente di tanta elevazione e di tanta beatitudine. Da questo desiderio nasce alla coscienza il bisogno di sistemare e di fissare la propria esperienza religiosa in modo che essa diventi un possesso stabile dello spirito; in questo bisogno hanno avuto origine i miti, i dogmi, le filosofie, in una parola i simboli della vita religiosa. Ma la realtà spirituale che è oggetto della intuizione religiosa, è una realtà trascendente la quale, come esclude le condizioni della esistenza sensibile, così esclude anche le condizioni della conoscenza: essa è presente allo spirito più come un ideale della ragione, che come un vero oggetto di conoscenza, più che per vera scienza, per una specie di presentimento o, come Plotino si esprime, per una specie di presenza superiore al pensiero. Naturale è quindi che questa realtà, pur essendo oggetto di esperienza immediata nella vita religiosa, non possa avere la sua espressione nella conoscenza altrimenti che per mezzo di simboli. La nozione di simbolo non è del resto particolare alla filosofia della religione. Ogni intuizione superiore alla conoscenza sensibile deve sempre venir fissata dallo spirito in un simbolo, vale a dire in un’immagine sensibile che la renda afferrabile e che sintetizzi in se le condizioni atte a rievocare, ove occorra, l’intuizione originaria; così il simbolo trasforma quest’ultima in un possesso stabile dello spirito, revocabile e trasmissibile. Già lo stesso linguaggio è un’incarnazione simbolica del pensiero: i suoni e le lettere che lo compongono non sono che i segni d’un’attività in sè inafferrabile, che quando se ne possiede il secreto, rievocano vivo e presente, nell’animo di chi legge, il pensiero ond’essi procedono. Anche la creazione artistica è la creazione d’un simbolo: nell’opera d’arte l’artista fissa la sua visione geniale d’un momento: visione che è stata anche una vita, una comunione spirituale dell’artista con un momento della realtà e che il simbolo da lui creato rievoca e perpetua in tutti coloro che ne comprenderanno il senso alto e secreto. Così anche la conoscenza religiosa non può esprimere l’alta realtà spirituale che ne è l’oggetto se non traducendolo in un’immagine di cose sensibili: ogni concezione religiosa, sia essa l’immagine poetica d’un mito primitivo od un astratto sistema di dogmi teologici non è mai altro che un tentativo più o meno inadeguato di rendere e fissare un’intuizione in sè inesprimibile, una traduzione, nei termini del pensiero discursivo, d’uno stato d’animo che non può venir tradotto in nessuna immagine ed in nessun concetto e che tuttavia è ciò che dà alle immagini ed ai concetti dei miti e dei dogmi il loro contenuto e la loro verità. I grandi iniziatori religiosi sono stati sopratutto dei grandi creatori di simboli: non solo essi hanno vissuto in sè un’alta vita religiosa, ma hanno saputo far passare questa vita in coloro che li circondavano, hanno saputo comunicare agli altri la loro anima, dando così il primo impulso a quei vasti movimenti collettivi della vita religiosa che sono le religioni storiche dell’umanità.

Dire quali siano state le forme primitive sotto cui si rivelò allo spirito umano la vita divina, quali siano stati i fenomeni che apparvero ai veggenti delle età remote come immagini e rivelazioni viventi dell’infinito è così difficile come è ogni ricerca intorno alle origini: e la difficoltà non sta tanto nel raccogliere sia dall’osservazione etnografica e storica, sta dall’analisi delle religioni superiori attuali i documenti della vita primitiva, quanto nell’interpretazione psicologica di questi documenti, ossia nel vivificare intuitivamente dinanzi a noi quegli stati d’animo onde ebbero origine le prime forme della vita religiosa. Ma a questo riguardo, qualunque sia stata la parte dell’elemento animistico, così lussureggiante nelle forme degenerate della religione, un punto almeno sembra certo: ed è che la sorgente fondamentale della vita religiosa dovette in origine essere la contemplazione della vita e della natura esteriore. Anche oggi il sacro orrore che desta in noi la solitudine tenebrosa delle foreste o il silenzio delle solitudini alpine non è lontano dalla venerazione religiosa: ciò che noi diciamo sentimento del sublime non è in realtà che un sentimento religioso d’un grado inferiore. «Non è soltanto la solitudine, scrive il Guyau, che gli asceti dell’India andavano a cercare nelle valli dell’Imalaia e S. Antonio nella Tebaide e S. Bruno alla grande Certosa. Essi provavano tutti l’indefinita attrazione che su tutte le anime veramente religiose esercita la divina bellezza della natura: essi andavano a cercare nei silenzi delle foreste o nei sereni orizzonti delle montagne quell’emozione profonda, mista di calma, di beatitudine e di un’indefinita melanconia che è come una rivelazione dell’essere misterioso ed eterno delle cose». Il linguaggio stesso ci ha conservato in certo modo ancora una traccia di quest’origine naturistica della religione: la parola dio, deva, dalla radice div, non fu da principio che il termine generico degli oggetti luminosi: e solo appresso quando si fu formato il concetto degli esseri divini, degli esseri che avevano per carattere comune di elevare lo spirito alla comunione con l’infinito, questa parola perdette il suo originario significato ed acquistò il senso spirituale che oggi noi le riferiamo.

Ora questo ci aiuta a comprendere la natura dei simboli creati dalla coscienza religiosa nel primo periodo della sua storia, simboli che oggi conosciamo sotto il nome di miti. La coscienza religiosa ispirata dalla contemplazione della natura cercò nella natura i suoi simboli: e dalla natura quella specie di pensiero sensibile che è l’immaginazione derivò le forme sensibili e concrete, con le quali rivestì l’ideale inafferrabile dell’unità infinita ed eterna, che si librava come un presentimento non ancora ben chiaro dinanzi alla sua coscienza. Così il pensiero religioso primitivo creò le rappresentazioni mitiche degli esseri divini venerati come potenze creatrici e protettrici dell’uomo e delle cose: rappresentazioni che per quanto possano in parte sembrarci attualmente inesplicabili — si pensi p. es. ai miti totemistici — non sono però per nulla soltanto il frutto d’una sbrigliata fantasia. La fantasia vi ha certamente una gran parte perchè è la fantasia soltanto che nel periodo primitivo del pensiero si assume il compito di dare una forma concreta all’intuizione del divino: forma, la quale, essendo derivata dal mondo degli essere sensibili, è, di fronte al vero contenuto che essa riveste, in una sproporzione che appare sempre tanto più evidente quanto più si affina la coscienza religiosa. Ma di questa sproporzione è già parzialmente conscia la stessa coscienza creatrice dei miti: anche per il pensiero primitivo l’oggetto sensibile che vale a risvegliare la coscienza del divino non è per esso che la rivelazione, la manifestazione, l’incarnazione del divino. Noi non dobbiamo pensare che quegli antichi contemplatori delle cose che furono i primi iniziatori della vita religiosa non distinguessero tra i fenomeni come tali ed il misterioso principio che in essi presentivano. Ciò che essi veneravano nelle forze sovrumane del cielo e della terra non era l’elemento materiale, ma l’infinito vivente che per esso si rivelava, il divino che l’anima loro afferrava nelle sue manifestazioni visibili in modo indeterminato ed ancora del tutto primitivo.

La degradazione dei miti a pure immaginazioni poetiche ha luogo soltanto più tardi quando ciò che in origine era una geniale visione religiosa diventa una concezione tradizionale: allora il senso un dì chiaro e profondo dei simboli si oscura: ciò che non era se non la veste diventa la sostanza del mito. Ed allora accade per i miti ciò che più tardi si rinnoverà in un altro periodo dell’evoluzione religiosa per i dogmi. I poeti, questi veri teologi dell’età mitologica, si impadroniscono degli elementi mitici, li raffinano artisticamente, li unificano, vi intessono tradizioni storiche e leggende nazionali: così sorgono i sistemi complicati delle mitologie, che sono vere stratificazioni successive di elementi mitici, i quali ci presentano come in un sol piano di prospettiva innumerevoli concezioni religiose di età differenti, il cui senso è per noi quasi del tutto perduto. Questo ci fa comprendere perchè certi, miti presentino talvolta un senso filosofico profondo e tuttavia ogni interpretazione continuata — sia euemeristica, sia allegorica o naturistica — d’un sistema mitologico conduca a risultati inaccettabili. Per ben comprendere il vero senso dei miti bisogna penetrare al di là dei sistemi assurdi e grotteschi delle favole mitologiche, mettere bene in luce in mezzo alla vegetazione parassitica del periodo secondario e terziario della fioritura mitica i simboli religiosi primitivi ed attraverso al poetico velo del simbolo penetrare l'intuizione religiosa che vi ha dato origine. Allora noi potremo trovare anche nei miti più strani qualche cosa di esplicabile e di umano: perchè alcunché di analogo a quella forza che suscitò nel pensiero degli antichi veggenti le divine fantasie del mito vive oggi ancora nella stessa anima nostra.

Noi denomineremo questo primo periodo della vita religiosa il periodo mitico od estetico. Oggi che l’arte — come la filosofia — si è distinta dalla religione ed appare, appunto per la sua specificazione individuale, come da essa indipendente, sembra un’irriverenza assimilare la vita religiosa ad un’emozione estetica. Se tuttavia si pensa come oggi ancora per molti, che l’educazione non ha introdotto nella sfera della vita religiosa e che non vi sono guidati dalla loro elevazione intellettuale, l’ arte è la migliore preparazione ad apprezzare la vita religiosa e come anche per gli altri essa giova a raffinare ed a fortificare il sentimento religioso, non sembrerà eccessiva l’affermazione che l’arte è stata all’inizio l’espressione ed il veicolo unico della vita religiosa. La vita estetica è del resto in fondo niente altro che una forma inferiore della vita religiosa: anche l’emozione estetica è un riconoscimento, almeno iniziale, della identità dell’essere nostro con l’essere unico in cui tutte le cose vivono e sono, un annegamento della nostra miserabile individualità nella grande anima delle cose. L’arte, dice Amiel, è la manifestazione d’un’anima che ha obliato sè stessa nell’anima eterna delle cose: la bellezza delle cose non è, secondo la felice espressione di Fechner, che il risplendere della loro anima. Se pur è vero, come l’Hartmann vuole, che il fiorire dell’arte religiosa è quasi sempre l’indice d’una decadenza della vita religiosa, ciò vuol dire soltanto che la coscienza estetica non può e non deve sostituire la coscienza religiosa là dove questa si è già elevata ad una forma superiore.

La formazione dei miti non è propria che del primo periodo dell’evoluzione religiosa. A mano a mano che il pensiero umano si libera dalla tirannia delle sensazioni immediate e sotto la stessa pressione dei bisogni materiali erige sulla base delle impressioni sensibili un sistema più o meno vasto di concetti logici, mutano anche gli, elementi su cui fonda la sua concezione del divino e nello stesso tempo se ne trasforma anche l’espressione simbolica: alla fantasia creatrice dei miti si sostituisce lentamente la ragione discursiva, la contemplazione filosofica. Il dogma rappresenta la forma di transizione fra queste due forme successive dell’attività simbolizzatrice: come il mito esso è ancora un’allegoria involontaria, un simbolismo sensibile di verità soprasensibili; come la filosofia esso obbedisce al bisogno dell’unificazione logica ed afferma sempre più esplicitamente la sua natura razionale. A questa categoria intermedia possiamo riferire per esempio le antiche cosmogonie greche: sebbene nel pensiero greco questa fase e per le condizioni particolari della religione greca e per il rapido sviluppo del pensiero greco sia passata rapidamente nella fase filosofica. Questo simbolismo dommatico si svolge e fiorisce sopratutto là dove ha potuto sorgere ed affermarsi una casta sacerdotale avente per ufficio la conservazione, e l’esplicazione delle tradizioni religiose: per opera di essa queste tradizioni, in cui si riflette l’esperienza religiosa di molte generazioni, sono raccolte nei libri sacri, i quali vengono trasmessi come un’immutabile rivelazione divina e costituiscono così il punto di partenza, per il pensiero ulteriore, d’un’opera paziente ed indefessa di coordinazione, di esplicazione, di interpretazione. Noi abbiamo nella teologia cristiana il più luminoso esempio d’un simbolismo dommatico che, sul fondamento degli ingenui miti evangelici, erige a poco a poco un vasto sistema teologico incorporandovi la stessa sapienza profana e trasformando il materiale mitico primitivo in modo da renderlo atto a soddisfare le esigenze d’uno spirito logicamente raffinato. Ma non è difficile comprendere che quest’opera di conciliazione, di adattamento logico del materiale mitico non può essere durevole: il dogma non è più un’immagine sensibile intuitiva e non è ancora un pensiero limpidamente logico: esso ha in sé un ostacolo insuperabile nel materiale mitico della rivelazione che deve per esso costituire il punto fisso di partenza e la norma costante della sua elaborazione teologica. Di qui l’insanabile dissidio che per opera stessa del pensiero logico non tarda a sorgere nel suo seno. «Il Messia Gesù, inviato dal cielo, (scrive lo Pfleiderer) era una bella immagine mitica del Cristianesimo primitivo: il concetto del Logos come della ragione divina rivelantesi nel mondo, un chiaro ed alto pensiero del platonismo alessandrino: Gesù come Logos è un uomo divinizzato nel quale non è più possibile comprendere nè come egli possa essere un Dio, nè come possa essere un uomo». Onde le infinite controversie dogmatiche dirette a risolvere questioni radicalmente insolubili: questioni che la Chiesa non ha potuto altrimenti risolvere che col porle come misteri e col considerare la fede cieca in formule incomprensibili come un atto di meritoria obbedienza.

Ciò che caratterizza il passaggio deciso al pensiero filosofico è precisamente l’eliminazione assoluta della tradizione mitica: Talete non per altro viene considerato come il primo padre dei filosofi d’Occidente che per avere razionalmente espresso un principio il quale già ricorre, velato da espressioni mitiche, nelle antiche cosmogonie. Ciò che rende necessaria quest’eliminazione è il progresso dell’esperienza, che da una parte epura ed eleva il concetto stesso del divino, mettendo sempre più in luce la sproporzione fra il concetto medesimo ed i grossolani simboli primitivi; dall’altra si oppone direttamente con la sua nuova concezione dei fenomeni naturali al contenuto stesso delle leggende e delle esplicazioni mitologiche. Di qui la viva guerra che vediamo levarsi nelle età filosofiche contro le credenze religiose tradizionali: come per esempio in Grecia nell’età dell’illuminismo sofistico e più recentemente da noi nel rinascimento e nello stesso pensiero contemporaneo. La nuova concezione, puramente razionale, sorge e matura lentamente nel seno delle ricerche particolari ancora prima di venire svolta in un sistema universale della realtà: così l’antica concezione teologica e la nuova concezione scientifica possono sussistere l’una accanto all’altra come due correnti spirituali distinte od almeno non ostili fra di loro. Ma viene inevitabilmente il giorno in cui il nuovo principio si erige a principio dominante dell’esplicazione delle cose ed invade lo stesso campo, sacro fino allora, dei dogmi e delle tradizioni religiose: allora noi abbiamo, di fronte all’antica concezione teologica, fondamento della vita religiosa tradizionale, una concezione filosofica, un principio nuovo d’una nuova vita religiosa.

La causa per cui è generalmente misconosciuto in questo conflitto il compito religioso del pensiero filosofico sta in ciò che nella maggior parte dei casi la critica esercitata dalla filosofia contro le concezioni tradizionali appare come un’opera negativa, distruttrice e perciò irreligiosa: ma tale è soltanto quando si voglia col limitato pensiero confessionale confondere la vita religiosa con una forma storica particolare della stessa. In realtà il pensiero filosofico ha sempre per fine ultimo, anche nelle sue negazioni, di elevare la religione verso una concezione del divino sempre più perfetta; se noi osserviamo la storia delle religioni, vediamo che ogni passo per cui la religione si è elevata verso le forme sue più alte le è stato imposto dalla filosofia. Anche i sistemi che si sono in apparenza mostrati più risolutamente ostili alla concezione religiosa dell’universo non hanno avuto altro reale risultato che quello di promovere una meno indegna concezione del divino ed un sentimento religioso più illuminato. Lo stesso materialismo meccanico deriva in parte, come Carlyle mostra nel suo Saggio su Diderot, da una specie di indignazione religiosa contro le assurdità della superstizione volgare ed ha nella storia dell’evoluzione religiosa una essenziale importanza come reazione salutare contro le Rappresentazioni inadeguate, spesso puerili, della teologia speculativa.

Del resto il carattere profondamente religioso del pensiero filosofico risalta in modo evidente se noi lo consideriamo sopratutto nelle grandi correnti complessive del pensiero e nei più grandi filosofi, che non si sono limitati all’analisi particolare di un problema, ma hanno incarnato nel loro pensiero e nella loro personalità l’ideale universale della filosofia. Sotto questo aspetto certamente le filosofie di Platone, dello Stoa, di Plotino, di Spinoza, l’idealismo kantiano e postkantiano sono qualche cosa di più che una semplice esplicazione teoretica dell’universo. Platone considera la filosofia come una preparazione dell’anima all’esistenza superiore, come una rinascita spirituale: ed è noto lo stretto rapporto che corre fra l’idealismo platonico e le affini correnti religiose del pensiero orfico. Plotino assegna alla filosofia il compito di condurre l’uomo all’unione con la divinità: egli stesso, più che come un semplice filosofo, ci appare come il gran sacerdote della religione degli spiriti più alti nel paganesimo morente. E dello Stoicismo scrive lo Zeller che «esso fu non soltanto un sistema filosofico, ma una religione: esso venne concepito come tale già dai suoi primi autori ed in appresso col decadere delle antiche religioni nazionali offrì, in unione col platonismo, agli spiriti più elevati e più colti, dappertutto dove si estendeva la cultura greca, uno sfogo al sentimento religioso ed un appoggio per la vita morale». Così vediamo da Spinoza nel De emendatione intellectus che la sua dottrina non fu per lui solo un’esigenza intellettiva, ma fu il soddisfacimento d’un vero e proprio bisogno religioso. «Una profonda aspirazione verso il divino, scrive di lui il Windelband, non soddisfatta delle dottrine delle religioni positive è il fondamento psicologico di tutta la sua attività scientifica; come tutto il suo pensiero è un tendere a Dio, così la filosofia non è nel suo complesso che una grande contemplazione del divino: egli è un ebbro del divino». E la stessa speculazione di Kant e dei grandi idealisti del principio del secolo, Fichte e Schopenhauer in special modo, non si può comprendere se si considera la loro attività come un’opera puramente scientifica: per essi la filosofia è anche una forza purificatrice e liberatrice, che mira ad elevare l’uomo dal mondo delle apparenze finite verso la realtà immutabile ed eterna.

Ma non sono soltanto i grandi sistemi e le grandi correnti idealistiche, che mettono in luce il carattere religioso del pensiero filosofico; anche il materialismo obbedisce quasi inconsciamente a questa secreta tendenza di ogni filosofia. La filosofia di Epicuro, di quel Greco che Lucrezio celebra come liberatore dei mortali dal terrore religioso, è un vero sistema religioso, il cui autore deve considerarsi quasi più come il fondatore d’una nuova religione che come un filosofo; e l’opera di Lucrezio, che pur considera l’annientamento della religione come il merito più alto dell’epicureismo, respira un vero entusiasmo religioso. Anche D. F. Strauss, per venire ai recenti, domanda per il suo universo la stessa pietà che il devoto dell’antica maniera domandava per il suo Dio. «Non dimenticare (egli scrive nel suo libro L’antica e la nuova fede) che tu e tutto ciò che vedi in te ed attorno a te, tutto ciò che accade in te e negli altri non è un accidente senza ordine, un caos di atomi e di eventi: ma che tutto scaturisce secondo leggi eterne da un’unica sorgente di ogni vita, di ogni ragione e di ogni bontà: in questo si riassume tutta la religione». Il positivismo di A. Comte voleva essere un puro sapere, una sintesi pura di tutte le conoscenze scientifiche: ma anche nella prima fase del suo pensiero ciò che lo guida, ciò che aduna intorno a lui i discepoli è un interesse veramente religioso per l’umanità: ed egli stesso, in ultimo, finì gran sacerdote della religione dell’umanità da lui fondata. Il naturalismo può essere irreligioso nelle sue affermazioni o negazioni particolari, nelle sue glorificazioni dell’individuale e del relativo; ma anch’esso, non appena si eleva alla contemplazione della totalità misteriosa dell’esistenza, subisce il fascino dell’infinito e riveste la propria realtà ultima di quei caratteri quasi divini che creano e giustificano il rapporto religioso.

La filosofia ha così il suo movente primo ed il suo fine non in un vano desiderio di conoscere per conoscere, in una curiosità oziosa od in un raffinamento egoistico dell’intelletto, ma nel bisogno della vita religiosa. Nell’aspirazione dell’anima nostra ad abbracciare con uno sguardo l’insieme dell’esistenza vive in realtà il desiderio secreto di confondere l’anima nostra con l’anima del gran Tutto: la conoscenza del Tutto non è che la forma precorritrice della vita nel Tutto. L’esperienza e la riflessione estendono ed approfondiscono sempre più l’orizzonte che il nostro sguardo può abbracciare: la filosofia è il tentativo di stringere questa molteplicità d’esperienze in una visione limpida ed unica che l’anima possa godere appropriandosela: essa comincia col puro desiderio teoretico e finisce coll’aspirazione dell’anima ad immergere sè stessa nell’unità sovrasensibile che il pensiero le ha rivelato. Nella storia dello spirito la filosofia appare perciò come la creatrice di forme religiose sempre più alte, di concezioni teoretiche, che sono la preparazione ad una vita religiosa più perfetta: in questo consiste la sua funzione essenziale, sia che essa esplichi la sua azione in modo negativo e distruttivo, eliminando le concezioni inadeguate, sia che essa vi concorra in modo più positivo col preparare e trasmettere il materiale teoretico su cui si costituirà la vita religiosa collettiva delle età avvenire.

Quanto diversamente ci appare allora la storia della filosofia, che dal volgare è generalmente considerata come un vano alternarsi di sistemi non aventi altro valore che quello d’una sterile soddisfazione intellettiva! Il risultato positivo del pensiero filosofico non è in nessuna teoria, in nessuna conclusione concreta e definitiva, ma nell’educazione religiosa dell'umanità. L’attitudine che il pensiero nostro assume di fronte alla realtà complessiva — e con queste parole io comprendo anche l’attitudine teoretica dello scienziato di fronte ai singoli problemi della scienza pura, la quale ha, più che non sembri, un carattere ed un valore religioso — non è qualche cosa di naturale e di spontaneo, ma è il frutto d’una lunga preparazione mentale fissata attraverso i secoli nella nostra organizzazione spirituale: ed il principio attivo di questa insensibile evoluzione è innanzi tutto il pensiero filosofico, che, trasformando gradualmente la concezione riflessa del mondo, trasforma nello stesso tempo in modo quasi inconsapevole quell’intreccio oscuro di tendenze, di sentimenti, di intuizioni spontanee, su cui l’uomo fonda la propria vita ed i suoi rapporti supremi con la realtà. E quanto diverso non ci apparirà ancora il valore sociale ed umano della filosofia, specialmente nell’età nostra, che invano tenta di celare sotto un’apparenza di splendore la sua miseria spirituale! La questione sociale, si è detto, è anzitutto una questione morale; ma la questione morale, possiamo aggiungere, è anzitutto una questione religiosa. Ciò che arma Luna contro l’altra in dura lotta le potenze del secolo è l’assenza d’un ideale religioso sinceramente e profondamente sentito: e questa mancanza di religiosità non è dovuta come si crede generalmente, al progresso dello spirito scientifico, il quale non ha veramente in se nulla di irreligioso, ma all’arresto della coscienza collettiva in forme religiose che sono diventate un ostacolo funesto al progresso dello spirito. Quale vita religiosa è ancora possibile quando lo spirito adulto in seguito alla riflessione personale è costretto a respingere da sè od a trasformare interamente le convinzioni di cui è stata nutrita la sua prima giovinezza? Un rinnovamento della vita religiosa si impone come la maggiore necessità sociale del tempo nostro; e questo rinnovamento verrà, com’è naturale, non dal seno dell’ortodossia, ma da coloro che, liberi dai vincoli del dogma, sentono vivo in sè il bisogno dell’elevazione religiosa; questo rinnovamento sarà, come in ogni tempo è stato, opera della filosofia.

Contro questa concezione del compito della filosofia si potrebbe opporre che le religioni sono formazioni storiche collettive, superiori all’arbitrio individuale. «I sistemi dei filosofi, scrive il Paulsen, le teorie degli scienziati, le dottrine dei teologi passano come vanno e vengono fra mattina e sera le nubi del cielo, mentre i grandi simboli religiosi sono come gli astri che compiono il loro corso eterno ed immutabile, anche se vengono per qualche momento oscurati dalle nubi». Una religione astratta, filosofica, non è possibile; una religione non si pasce di formule astratte, ma di simboli concreti; ed un sistema di simboli non può mai essere la creazione arbitraria d’un individuo. Ma non è difficile a questo proposito vedere che altro è pretendere che la tradizione collettiva debba venir sostituita all’improvviso dalla concezione artificiosa ed arbitraria d’un individuo, altro affermare che la tradizione collettiva è continuamente modificata e rinnovata dall’azione individuale e che in quest’azione dell’individualità geniale sulla tradizione religiosa risiede appunto il compito precipuo della filosofia. Anche nella sfera della vita morale l’insieme delle idealità etiche e delle abitudini sociali fissate e cristallizzate nelle norme del diritto è sempre, non l’opera d’un giorno, nè la creazione d’un uomo, ma il frutto di una lenta evoluzione collettiva: e nondimeno tutto ciò che in esso è così diventato parte incontrastata della coscienza morale collettiva, è stato nell’origine sua la divinazione isolata d’uno spirito geniale, l’atto audace d’un ribelle innovatore. L’asserire che le idealità individuali concorrono a modificare e ad elevare il livello della moralità collettiva è perciò ben differente dal pretendere che l’opera arbitraria d’un uomo o d’un gruppo d’uomini debba violentemente sostituirsi all’azione insensibilmente lenta dello spirito collettivo: noi possiamo bene a questo riguardo associarci allo sdegno di Hegel contro coloro, i quali si credono di poter imporre alla società una nuova costituzione da loro creata, come si farebbe d’un abito nuovo, e s’arrogano di sottoporre l’opera secolare dalla ragione collettiva alle accidentalità subbiettive della loro concezione personale. Nella stessa guisa noi riconosciamo che ogni religione storica è un complesso secolare di tradizioni intellettuali ed affettive che non si mutano in un giorno e che la pretesa d’un individuo di creare una nuova religione sarebbe, oltre che ridicola, profondamente vana, in quanto nel mondo dello spirito, non meno che in quello della natura, non si danno soluzioni di continuità ed anche i grandi rivolgimenti apparenti, considerati nell’insieme della corrente complessa e profonda, di cui fanno parte, vanno poco al di là del nome. Ma ciò non toglie che l’individuo possa esercitare un’azione, maggiore o minore, su questa corrente: che anzi tutto ciò che vi è di vero e di vivente nella coscienza religiosa collettiva è sempre ai suoi inizi la creazione d’una coscienza individuale: creazione che, pur isolandosi per il momento dalla coscienza comune ed apparendo perciò come antireligiosa, è anzi il momento più attivo della vita religiosa. Per questo noi non crediamo che la filosofia debba cercar di sostituire artificiosamente a quel sistema complesso di tradizioni varie per natura, per origine e per valore, che dicesi Cristianesimo e da cui esula sempre più la vita dello spirito, una nuova dottrina ed una nuova organizzazione religiosa: questo non è il compito immediato della filosofia e vano sarebbe d’altra parte voler prevedere in quale indirizzo, verso quali simboli si volgerà la coscienza religiosa dell’avvenire. Ma questo fermamente crediamo, che solo da una penetrazione sempre maggiore del pensiero filosofico — che è pensiero religioso — possiamo attenderci quel rinnovamento della vita religiosa verso cui anela l’anima moderna; tutta la storia del pensiero moderno, profondamente considerata, non è, crediamo noi, che la preparazione lenta e sicura di quella chiesa invisibile, che già oggi affratella le anime migliori di tutte le chiese visibili, di quella religione del libero spirito, verso cui tendono da secoli lo sguardo gli spiriti più profondamente religiosi e che anche noi, considerando la lotta, il dissenso interiore e la profonda miseria spirituale dell’età nostra, non possiamo non circondare delle speranze e dei desideri più ardenti.

  1. Prolusione al corso di Filosofia teoretica nella R. Accademia Scientifico-letteraria di Milano, letta il 26 novembre 1906
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