< La guerra del vespro siciliano
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Capitolo VIII Capitolo X



Andata di re Pietro a Messina. Macalda moglie d’Alaimo. Fazioni navali. Pietro libera i prigioni di guerra. Parlamento in Catania. Trattato del duello tra i due re. Primi affronti delle soldatesche in Calabria. Carlo parte lasciando le sue veci al principe di Salerno. Almogaveri. Vittorie di Pietro in Calabria. Vien la reina Costanza co’ figli in Sicilia. Principi di scontento tra i baroni siciliani e il re. Parlamento in Messina; ove Giacomo è chiamato alla successione, e ordinato il governo. Movimenti repressi da Alaimo. Gualtier da Caltagirone. Partenza di Pietro per Catalogna. Ottobre 1282 a maggio 1283.

Levato l’assedio, prima cura de’ Messinesi fu di riconoscere le campagne, se vi si coprisse agguato di cavalleria nemica; ma fatti certi che l’oste s’era pienamente dileguata, non soggiornarono a mandare oratori a Pietro a Randazzo, invitandolo a città; com’eran essi impazienti di salutare il re nuovo, obbligato loro della invitta difesa, ed essi a lui del soccorso. E Pietro, fatta acconcia risposta, ove si rammaricava pur della fortuna, che gli avesse tolto di provarsi con l’arme in mano contro il Francese, mosse immantinenti alla volta di Messina con tutta l’oste siciliana e spagnuola; battendo la via delle marine settentrionali, perchè volea prima scacciar da Milazzo una punta di mille Francesi, lasciata in quel castello per fretta della ritirata, o appicco a nuovi disegni. Posato a Furnari perciò con le genti, mandava il dimane Giovanni de Oddone da Patti a intimare a quel presidio la resa: il quale non isperando veruno aiuto, rassegnati col castello le armi e i cavalli, passava sotto sicurtà in Messina e in Calabria. Nella terra di Santa Lucia l’Aragonese albergò1. E qui prendiamo a narrare un fatto di femminil vanità o peggior debolezza, perch’ebbe seguito ne’ casi dello stato, e dipinge al vivo re Pietro. Seconda moglie d’Alaimo fa Macalda Scaletta, disposata prima a un conte Guglielmo d’Amico, esule al tempo degli Svevi. Vedova di costui, dopo lungo vagare in abito da frate minore, e soggiorno men che onesto a Napoli ed a Messina, riavuti i suoi beni sotto il dominio di Carlo, maritossi Macalda ad Alaimo: si gittò gagliardamente poi nella rivoluzione dell’ottantadue, sconoscendo i beneficî dell’Angioino, o pensando che ogni rispetto privato dileguar si dovesse nella causa della patria; ma certo è da condannarsi per la tradigione de’ Francesi di Catania, cui finse ricettare negli strepiti dopo il vespro, e poi li spogliò, e dielli in balìa al popolo. Governò indi Macalda quella città durante l’assedio di Messina2: ed or intesa la venuta di Pietro a Randazzo, affrettavasi a complire con esso. Superba nella baronale riputazione e nel gran nome del Leontino, appresentavasi al re con molta pompa, coperta a piastra e a maglia, trattando una mazza d’argento; e non ostante il suo quarantesim’anno, pur altrimenti pensava conquidere il re. Il quale, non badando ad amori in quel tempo, finse non la intendere; e di rimando davale cortesie; l’onorava assai nobilmente; con un corteo di cavalieri ei medesimo riconduceala all’albergo. Ma a ciò non fatta accorta Macalda, prese a seguirlo nel viaggio; e parvele il caso la fermata a Santa Lucia, onde con aria incerta e confusa veniane al re chiedendo ricetto, ch’erano occupati gli alberghi nè altro luogo trovavasi nella picciola terra. Pietro, rassegnate a lei le sue stanze, passa ad altro albergo; e lì trova ancora, come a visitarlo, Macalda. Perciò schermendosi alla meglio, chiama nella stanza i suoi cavalieri, incomincia vacui ragionamenti: tra’ quali pur domandava a Macalda qual cosa più temesse al mondo, e «La caduta d’Alaimo» ella rispondeagli; e richiesta qual fosse il suo maggior desiderio, «Mio non è, replicava, ciò che più bramo.» Ma il re sordo, pur moralizzava e novellava; e alfine gli si aggravaron gli occhi di sonno. A questa sconfitta la donna s’accomiatò, struggendosi tutta. E venuta in Sicilia la reina Costanza, Macalda mai perdonar non le seppe questa fedeltà dello sposo; e tanto crebbe nell’odio e nell’arroganza, che sè stessa e il canuto Alaimo precipitò3.

Ripigliato la notte stessa il viaggio, al nuovo dì, che fu il due ottobre, su pei luoghi arsi e guasti dalla nimica rabbia, che nè contadino vi si scernea, nè armento, nè vestigia di côlti venivano a stuoli i Messinesi a incontrare il re. Il quale festevolmente raccoglieli, e ringraziali, e Alaimo sopra ogni altro: che ponselo al fianco, e in pegno d’amistà gli viene svelando i sospetti, che sulla fede sua e de’ Sicilian tutti avea cercato stillargli un tristo vegliardo, Vitale del Giudice, presentatogli a Furnari, com’esule, spoglio al mondo d’ogni cosa, per amor, dicea, della schiatta sveva, cui furo nimicissimi un tempo quest’Alaimo, questi or sì caldi parteggiatori. Tra cotali parole pervenuti alla città, col folto popolo si feano innanzi al re i sacerdoti, i cittadini più autorevoli, e la sinagoga de’ reietti Giudei, per loro ricchezze or carezzati, or manomessi in quei secoli. Solo cavalcava Piero con tutti onori di monarca: le strade al suo passaggio trovava parate a drappi di seta e d’oro; il suolo sparso di verdi ramoscelli ed erbe odorose. Smontato subito al duomo, rende grazie a Dio, entra in piacevoli parlari coi cittadini, affabile e grato in ogni atto; e loda i monumenti della città, e richiede d’ogni minuta sua cosa. Passò indi alla reggia, raccolto dalle più nobili donne, tra le quali non mancò la Macalda: ed ella ed Alaimo sedean anco a mensa col re. A ciò seguiron le pubbliche feste, splendidissime per la ricchezza, liete per l’affratellarsi dei cittadini coi seguaci di Pietro. Sciolsersi i voti fatti al Cielo nel tempo dell’assedio; nè altro spirava il paese, dice Bartolomeo de Neocastro, che ilarità, pace, e sollazzo4.

Ma ripigliaronsi in pochi dì le fatiche dell’arme, come vedeansi per lo stretto le nemiche navi a stuoli ritornar da Catona ai vari porti del regno. Era entrato il nove ottobre in Messina con ventidue galee catalane Giacomo Perez, natural figliuolo del re; e altre quindici delle disarmate in quel porto n’avea fatto allestir Piero tra gli stessi primi festeggiamenti. Accozzate in tutto cinquantadue navi da battaglia, diè dunque principio a travagliare il nimico, non ostante la disuguaglianza delle forze; ma pensava esser quello scoraggiato e discorde, i suoi in su la vittoria. Nè ascoltò chi sconsigliava quest’impresa; montò ei medesimo sulle navi catalane; arringò alle ciurme; nel nome di Dio le benedisse promettendo vittoria, e sbarcò. Il dì undici ottobre, tornando i Catalani dall’inseguire invano un primo stuolo angioino pe’ mari di Scilla, avvistatone un altro più grosso verso Reggio, mettono insieme coi Messinesi l’armata; contro vento e corrente vogan robusti sopra gli avversari. A ciò salito in furore re Carlo, facea tutte escir le sue navi al numero di settantadue, ma nè bene in attrezzi, nè in uomini; donde sbigottite a quel difilarsi de’ nostri sì destri e bramosi della zuffa, rifuggironsi a terra. Spintesi allor le catalane e siciliane navi fin sotto le fortezze, chiamano a battaglia i nimici; li aizzano con le ingiurie; sfidanli coi tiri delle saette; nè traendoli fuori con ciò, tornansi bravando a Messina. Tre dì appresso, salpati da Reggio quarantotto legni, perchè speravan che il vento ripingesse in porto l’armata di Sicilia, essa li investì con tanta virtù sua e scoraggimento degli avversari, che una schiera di quindici galee nostre, trovandosi innanti nella caccia, pur sola diè dentro, e ventidue ne prese tra di Principato, marsigliesi e pisane. Quando di Calabria videro ingaggiare l’inegual conflitto, ch’era presso il tramonto del dì, non tenendo dubbia la vittoria, con luminarie la festeggiarono; onde molta ansietà ne surse in Messina; e s’accrebbe la dimane, scorgendo un grosso stormo di vele che drizzavansi al porto. Si distinser poi le insegne; sventolanti in alto le aragonesi e siciliane, strascinate in mare quelle d’Angiò; e tra l’universale giubbilo preser porto le navi, recando, narra il d’Esclot, quattromila cinquanta prigioni. Caduto il dì, con fuochi e lumi sfolgoranti per tutta Messina, rendeasi cenno delle fallaci dimostrazioni della notte innanti in Calabria5.

Più nobil tratto e di più atto argomento Pietro adoperò co’ prigioni. Due dì appresso, ritenendo soltanto i Provenzali, fatto adunar gli altri sul prato a porta San Giovanni6, benigno parlava: conoscessero or lui e Carlo di Angiò; questi avrebbe messo a morte ogni prigione; ei liberi a lor case rimandavali senza riscatto, sol che promettessero non portare le armi contro Sicilia, e recasser lettere per Puglia e Principato, invitando que’ popoli a mercatare nell’isola, che sarebbervi sicuri e graditi, venendo con intendimenti di pace. Offrì i suoi stipendi a chi volesse; agli altri fornì barche e vivanda; e fe’ dispensare un tornese d’argento per capo. Talchè essi lietamente si tornavano, a spargere nel reame di terraferma le lodi del nuovo re di Sicilia; confortandoli a gara i Messinesi con savie parole: nulla da’ Siciliani temessero, nimici solo agli stranieri oppressori; alla gente italiana non già, che tratta a forza a questa guerra, benediva in suo cuore7 la rivoluzione siciliana.

Così entro due settimane, rincorati i Messinesi con tali ardimenti di naval guerra, cavata a’ nemici ogni fantasia di ripassare in Sicilia, e gettata anco l’esca a’ popoli di terraferma, Pietro cavalcò il sedici ottobre per Catania, a mostrare in val di Noto il viso e la benignità del principe nuovo. Onde in un parlamento di quanti sindichi di comuni si poteano in fretta adunare, ei stesso orò nella cattedrale di Catania: dalle unite forze avrebbero ormai sicurezza; godrebbersi lor franchigie, e giustizia nel governo, e riparazione di tutti gli abusi angioini; che il ben de’ sudditi, dicea, è ben del monarca; la tirannide li avea spolpato, la libertà porterebbe rigoglio e dovizie. Cassò di presente le collette; abolì i dritti odiosissimi dell’armamento delle navi; bandì non tornerebber quelli mai più sotto il governamento suo, nè dei successori; mai la corona non leverebbe d’autorità propria generali nè parziali sovvenzioni. Il parlamento gli accordò allora i sussidi per sostenere la guerra: e a questo effetto ei torna senza dimora a Messina il ventiquattro di ottobre8.

Permutate lor sorti, la Sicilia si faceva ad assaltare, a portar fomite e aiuto ai popoli scontenti, a turbar di là dallo stretto ogni cosa: e Carlo alla meglio recavasi in atto di difesa nel discredito della sua diffalta. La vien palliando perciò con iscrivere ai magistrati di terraferma, affinchè non restin presi alle ciance del volgo, com’ei, dato spaventevole guasto alle campagne di Messina, percossa e condotta agli estremi la città, da non poterle ormai giovar nulla il sospeso assedio, sopravvenendo il verno, s’era consigliato, per la comodità delle vittuaglie e la sicurezza delle navi, a ritirar gli alloggiamenti un pocolin9 di qua dallo stretto; per tornar poi a migliore stagione, con più formidabile apparecchiamento, da schiacciar sotto i suoi piè le corna dei protervi ribelli10. Cotesti vanti tradiva con una sollecitudine estrema di custodir le spiagge da tutta incursione di que’ che pur chiamava pirati; e ponea velette e pattuglie; ordinava segnali, di fuoco la notte, di fumo il dì, che desser l’allarme scoprendo la nostra bandiera11: perchè in vero l’aragonese e siciliana flotta correa vincitrice il Tirreno; armandosi di più parecchi galeoni a corseggiare12; onde grave il danno, e maggior lo spavento, stendeasi per le marine di tutto il reame di Puglia. A mettervi riparo ordinò Carlo ancora di racconciar prestamente tutte le galee, e cento teride13. Rimandate le milizie feudali del regno e gl’italiani aiuti, tenne insieme i soli Francesi e stanziali, che sommavano a sette migliaia di cavalli e dieci di fanti. Alla Catona e in altri luoghi marittimi di Calabria li spartì in grosse schiere: a Reggio ei rimase con la più forte14. E, per non sembrare inoperoso, un messaggio di rimbrotti mandò a re Pietro, già tornato a Messina.

Per Simon da Lentini, frate de’ predicatori, il mandò, che affidato nella chierca, rinfacciava al re d’Aragona: l’ingannevole risposta su i primi armamenti suoi; la guerra non denunziata, portata mentre fingeva amistà e trattava parentado; l’occupazione ingiusta del reame: con l’arme gliel proverebbe re Carlo. A que’ detti che suonavano slealtà e tradimento, balzò Pietro dal seggio, concitato nei passi, alterato il sembiante; ma in un attimo tornando padrone di sè, gli fea bilanciata risposta: tra lui e ’l conte d’Angiò gli omicidî di Manfredi e Corradino aver già da lungo tempo rotto la guerra: a ragione tener questo reame, per eredità ed elezione de’ popoli: mentir però chi gli apponea tradigione: e sì che il sosterrebbe in duello15. Onde due messaggi inviò a re Carlo, coi quali delle condizioni del duello si disputò lunga pezza; perciocchè re Carlo non amando a misurar le declinanti sue forze con la robusta età dell’Aragonese, volea compagni molti al combattere, chè tanti sì prodi, avvisava, non potrebbe trovar l’avversario: e questi, tenendosi al singolare combattimento, offria venirne senz’arnese contro Carlo coperto di tutt’arme; e sì ricusava il duello in Calabria, a meno che non gli si desse in istatico il principe stesso di Salerno. Accordaronsi al fine che i due re con cento cavalieri per ciascuno s’affrontassero a provare: «Carlo, come provocatore, esser Piero entrato nel reame di Sicilia contra ragione e in mal modo, senza sfidarlo dapprima: e il re di Aragona, come difensore, che l’occupazione e tutt’altro fatto contro Carlo, non fossero macchia all’onor suo, nè opera da vergognarne dinanzi a dignità di tribunale o cospetto d’uom giusto.» Ad ultimar la scelta del luogo e del tempo, si deputavan sei cavalieri dell’uno e sei dell’altro, per lettere patenti date il ventisei dicembre. I quali, convenuti nel real palagio di Messina, ferman, che si combatta in campo chiuso nel contado di Bordeaux in Guascogna, come vicino a Francia e ad Aragona, e tenuto dal giusto Eduardo re d’Inghilterra: il primo giugno milledugentottantatrè si presentin quivi i due principi a Edoardo, o a chi egli manderà, o, in difetto, a chi per lui regga la terra; ma, salvo nuovo accordo, non si venga allo scontro, se non presente Eduardo; aspettandolo infino a trenta dì, sotto fede di non si offendere reciprocamente in Guascogna infino al duello e otto dì appresso. Stipulano in ultimo che qual manchi ad appresentarsi co’ suoi campioni, tengasi d’indi in poi «vinto, spergiuro, falso, fallito, infedele e traditore, spoglio del nome e onore di re». Ratificaron ambo i principi questi capitoli con sacramento sugli evangeli. E com’era costume, chiamandosi a guarentigia dei re i veri arbitri dello stato, quaranta per ciascuna parte de’ primari baroni e capitani giuravano sul sacro libro, che legalmente e di buona fede secondo lor potere procaccerebbero l’osservanza di que’ patti: che se il lor principe fallasse, mai più non vedrebbero la persona di esso, nè aiuto di braccio gli presterebbero, nè di consiglio. Da loro soscritti e dai re in buona forma, si stendean di tutto ciò due atti, dati, quel di parte aragonese di Messina, l’altro di Reggio; ambo il trenta dicembre: e in questo leggesi, tra molti nobili nomi francesi, un Giovanni Villani, congiunto forse del fiorentino istorico16; nel primo notansi Alaimo di Lentini, il conte Ventimiglia, Ruggier Loria, Gualtiero di Caltagirone, e Pietro fratello, Giacomo Perez, natural figliuolo del re17. Gli scrittori parteggianti per l’uno o per l’altro dei principi li accusavan poscia vicendevolmente d’inganno. Dissero i nostri, che Carlo pretestando il duello volesse trar di Sicilia il rivale, per riassaltar l’isola più francamente, e spegner il fomite di ribellione in terraferma18. Di pari astuzia i Guelfi accagionavan l’Aragonese, supponendolo erroneamente provocatore al duello, come se per tema delle forze superiori di Carlo divisasse differir tanto la guerra, che inoperosi morissero nel meridional clima i Francesi19. Pensasserlo o no, Carlo e Pietro uomini eran ambo da meritare l’accusa. Ma forse la sfida non fu che un appello alla opinione pubblica alla guisa dei tempi; come un Pietro e un Carlo d’oggidì farebbero con promulgar dicerie d’umanità, legittimità, bilancia di potere, comodi de’ commerci, bene de’ popoli.

E Pietro ebbe il destro d’esplorar pei messaggi affaticantisi in que’ riti cavallereschi, la condizione e postura de’ nimici, su i quali s’apprestava a portar la vera guerra20: e volle incominciarla con infestagion di truppe leggiere, che riconoscesser meglio il paese, e gli coprisser lo sbarco. Ondechè sapendo da Bertrando de Cannellis, reduce dal campo francese, come duemila cavalli e altrettanti pedoni a mala guardia se ne stessero alla Catona; mosso ancora dal pregar degli almogaveri, ch’anelavan battaglia e bottino, il sei novembre appresso il tramonto, fea partir chetamente da Messina quindici galee con un grosso di fanti sotto il comando del suo natural figliuolo; cui pur non affidò altrimenti il disegno, che in un plico da schiudersi in mare. Colto all’improvvista così a profonda notte il presidio della Catona; fatto assai strage e prigioni; volti in fuga i più; e incalzati infino a Reggio: che fu trapasso degli ordini, pericolosissimo perchè raggiornava. Spiacque al re sì forte la temerità di Giacomo, che per amor che gli portasse, nè per merito della vittoria e preda, non si trattenne dal torgli il comando: e a stento ad intercession de’ baroni gli perdonò gastigo più grave; pensando che solo uno estremo rigor di ordini potesse render sicuri21 quegli audacissimi colpi tra tante grosse poste nimiche. Per pratiche ebbe intanto la terra di Scalea in Principato; al cui reggimento il dì undici novembre mandò Federigo Mosca conte di Modica22. Cinquecento uomini pose sulla estrema punta di Calabria: i quali annidatisi negli antichi boschi di Solano, costernavano il presidio di Reggio, con iscorrere in masnade pei contorni, rapir vittuaglie, infestare le strade, tutte comunicazioni troncargli23.

Tra queste scaramucce e ’l trattato del duello, il sanguinoso anno ottantadue chiudeasi chetamente, lasciando i semi sì di lunghissime guerre; alle quali non erano per mancare nè motivi, nè danari, nè uomini. Perchè oltre la propria potenza di Carlo, la corte di Roma vedendo tornar vane le prime prove, cominciò a rinforzare i comandi spirituali e le pratiche, co’ sussidi di moneta; le città guelfe d’Italia, necessitate da lor maligna stella a sostener la casa d’Angiò, mandaron tuttavia molte genti, e talvolta anco danaro; ed oltre le Alpi la guerriera schiatta francese era pronta sempre a dare il suo sangue. Infin dal primo annunzio della strage in Sicilia, il principe di Salerno corse di Provenza a Parigi, a rincalzar le inchieste del padre, a comporre le liti che questi avea con la regina Margherita di Francia per cagion delle contee di Provenza e di Forcalquier24. Ottenne da Filippo l’Ardito un sussidio di quindici mila lire tornesi25, e favore a levar a un di presso mille uomini d’arme. Questi condotti dal principe e da’ conti d’Alençon, Artois e Borgogna del sangue reale di Francia, e spesati in parte dal papa26, con assai altri cavalieri passavano in Italia in due schiere, tra la state e l’autunno ed27 alle Calabrie avviavansi, dove sempre furono combattute le guerre dei due reami di Sicilia e di Puglia, e gli uomini per somiglianza d’indole e paese, più tennero a’ vicini d’oltre lo stretto, che a que’ di terraferma. Al tempo medesimo, il papa consentiva a Carlo, che ne’ presenti pericoli dello stato mettesse presidio nelle fortezze di Monte Casino, e in tutt’altre possedute da corpi ecclesiastici nel regno suo, sotto fede di restituirle a ogni cenno della Chiesa28. Ed egli, sentendosi per tali aiuti più sicuro in quelle province, partì come per andarsi al duello, che ancor gliene avanzavano cinque mesi; ma fu che volle ultimar da sè stesso le pratiche con Francia e col papa29; o sforzato da’ tempi a moderare in Puglia la dura dominazione, gli rifuggì l’animo superbo dal farlo con le mani sue proprie. Pertanto, creato vicario generale del regno il principe di Salerno, unico figliuol suo, per nome anche Carlo, e da vizio della persona detto lo zoppo, comandò da Reggio il dodici gennaio milledugento ottantatrè ai magistrati e officiali, che a costui ubbidissero come alla persona sua stessa30. Altresì gli commetteva lo esercito31. Ma pria per consiglio de’ conti di Alençon, Artois, Borgogna, Squillace, Acerra, Catanzaro, mutò la linea di difesa dalla riva del Tirreno al corso del Metauro; o perchè i nostri tenendo il mare e i boschi di Solano affamavan tutta la estrema punta delle Calabrie32, o perchè ei pensò adescarli tant’oltre, che in mezzo ai suoi formidabili cavalli s’avviluppassero33. Perciò, abbandonata Reggio e i contorni, accampò il grosso delle genti nelle pianure di Santo Martino e di Terranova; e posò forti schiere in alcuna terra all’intorno. E pria che sgombrasse Reggio, i cittadini tanta finser nimistà coi Messinesi, e paura e incapacità a difender la terra senza presidio francese, che il re assentia si desser pure al nemico, se così portasse la fortuna, e non ne avrebber nota di fellonia. Com’ei volge le spalle, i Reggiani, per oratori raccomandati ai Messinesi, offron sè stessi e la città a re Pietro34.

Avea già questi messo in punto ogni cosa al passaggio; affidato al pro Ruggier Loria il comando della flotta35; accozzato in Messina tra Catalani e Siciliani gran podere di gente36; chiamando al militare servigio i baroni dell’isola, ch’alacremente il seguiano37. Quell’oste il re ordinava con poca man di cavalli, ed elette bande d’arcieri, balestrieri, e sopra tutto almugaveri: fanteria spedita, chiamata così dagli Spagnuoli con moresco vocabolo. Breve saio a costoro, un berretto di cuoio, una cintura, non camicia, non targa, calzati d’uose e scarponi, lo zaino sulle spalle col cibo, al fianco una spada corta e acuta, alle mani un’asta con largo ferro, e due giavellotti appuntati, che usavan vibrare con la sola destra, e poi nell’asta tutti affidavansi per dare e schermirsi. I lor condottieri, guide piuttosto che capitani, chiamavansi, anche con voce arabica, adelilli. Non disciplina soffrian questi feroci, non aveano stipendi, ma quanto bottino sapessero strappare al nimico, toltone un quinto pel re; nè questo medesimo contribuivano, quand’era cavalcata reale, ossia giusta fazione. Indurati a fame, a crudezza di stagioni, ad asprezza di luoghi; diversi, al dir degli storici contemporanei, dalla comune degli uomini, toglieano indosso tanti pani quanti dì proponeansi di scorrerie, del resto mangiavan erbe silvestri ove altro non trovassero: e senza bagaglie, senza impedimenti, avventuravansi due o tre giornate entro terra di nimici; piombavano di repente, e lesti ritraeansi; destri e temerari più la notte che il dì; tra balze e boschi più che in pianura; fortissimi ovunque i cavalli non potesser combattere. Ben seppe farne suo nerbo alla guerra delle montuose Calabrie re Pietro; e agevolmente li ordinò, perchè gli alpigiani Spagnuoli solean darsi a quest’aspra milizia, ed or parea fatta pei Siciliani, nati tra montagne, svelti, audaci, di mano e d’ingegno prontissimi38.

Con sì fatta gente a valicare lo stretto si apprestava re Pietro, saputo l’indietreggiar de’ nemici, quando l’ambasceria di Reggio sì l’affrettò, che il dì appresso che fu il quattordici di febbraio, navigava a quella città; recando seco nella sua galea medesima tra i più fidati baroni Alaimo di Lentini. Accolsero tanto più lieti i Reggiani, quanto, aperto il mare, dopo lunga penuria, ogni vivanda appo loro abbondò. L’oste parte albergava per le case; parte, non bastando quelle, attendavasi alla campagna. Tutta la Calabria allora piena della riputazione del re, cominciò occultamente a inviargli messaggi: e prima Geraci scoprissi, ov’ei mandò Ruggier Loria, e Naricio Ruggieri conte di Pagliarico, l’uno a prender, l’altro a regger la terra39.Egli intanto disegnando accostarsi al nemico esercito, il dì ventitrè febbraio, con un sol compagno a cavallo, trenta almugaveri e una guida, per cupi sentieri di valli e boschi infino agli alloggiamenti si spinse a riconoscere. Tornatosi a Reggio, conduce i suoi pei boschi di Solano; e ad otto miglia dal grosso delle genti francesi, e non guari lontano dalle altre lor poste, li accampa in un rispianato che ha nome la Corona, sopra alpestri e salvatichi monti, sicuro da assalti, comodo portarne su i luoghi bassi d’intorno. Quivi i Greci del paese, usi a praticar senza sospetto tra i nimici, d’ogni fiatare di quelli il ragguagliavano. Cheto aspettando ei posava, come se quelle foreste lo avessero inghiottito; tantochè in Calabria il bucinavano già uom dappoco e acquattatosi per paura40.

Quand’ecco stando agli alloggiamenti a Lagrussana presso Sinopoli cinquecento cavalli capitanati da Ramondo de Baux, mentre stanchi di gozzoviglia senza scolte straccurati giaceansi una notte, repente un fracasso li riscuote; gli almugaveri come torma di lupi saltano tra gli alloggiamenti; scannano, rapiscono; sconosciuto tra i gregari ammazzan Ramondo; e prestissimi dileguansi col bottino41. Non andò guari che un Arrigo Barrotta tesoriere di Carlo, recando sei mila once per gli stipendi dello esercito, nella terra di Seminara albergò; stanza in quel tempo di ottocento cavalli francesi. Avutane spia re Pietro, l’adescò lor mala guardia, e più la moneta. Onde il tredici marzo a sera, ei stesso con trecento cavalli e cinquemila almugaveri calavasi chetamente da Corona: e giunto a tre miglia da Seminara, fatte posar le genti svelò il meditato colpo. Quel generoso Alaimo il contrastava. Qual lode a re, dicea, da notturna rapina, e disutile strage? Vano il pensier sarebbe di tener Seminara sì presso al campo nimico. Lasciata dunque la misera terra, al campo si vada: lì il principe di Salerno, il fior della corte di Francia, sbadati, sicuri; investisserli risolutamente; che l’audacia partorirebbe fortuna, o gloria certo. Taccion le istorie il contegno del re, le parole, che furon certo pacate, i proponimenti, forse fieri e sinistri, che gli si ribadirono in mente contro l’eroe di Messina. Ostinato a Seminara ei marciò. Dove mentr’una schiera accostavasi al muro debolmente combattuta delle guardie, gli altri occupate velocissimi le porte, troncano ogni difesa. Il re, come se pratichissimo della terra, dritto sprona all’albergo del tesoriero: nè la moneta pur trova, mandata al principe il dì innanzi. Allora, postosi fuor dalle mura, alle riscosse contro gli aiuti che potesser venire dal campo, inondan Seminara gli almugaveri. Il Barrotta, d’ordine chierico, soldato a’ costumi, desto dal fracasso, lasciando una donna che seco avea, sorge, dà di piglio all’armi, e fieramente difendendosi è morto. Cadon altri resistendo; e fuggono i più, qual senza panni, quale a piè, qual balzando sull’ignudo cavallo; ma era gente sì ordinata, che, non ostante il subito scompiglio, da cinquecento rannodaronsi di lì a una mezza lega aspettando il dì, e partendosi poi i nostri, rientrarono in Seminara. Messa questa intanto a ruba e a guasto: per severo divieto del re furon salve tuttavia le vite degli abitanti, che fuggendo si dileguaro. Al nuovo albore straccarichi di preda rinselvansi i Catalani e i Siciliani alla Corona; non molestati dal nemico, il quale agli avvisi dei fuggenti s’era desto a tumulto, ma sorpreso e scoraggiato sì fattamente, che volendo il principe di Salerno muover pure a un assalto, niuno nol seguì. La dimane ei manda un drappel di cavalieri a Seminara; da’ quali intendendo non potersi munir contro nuova fazione, perchè non n’abbia comodità il nimico, la fa sgombrar anche da terrazzani, spartiti per le altre terre di Calabria ad accattare il pan dell’esilio42.

Con questo notturno guerreggiare e occulto adoprare, il re d’Aragona occupò parecchie terre intorno il campo stesso nemico; menomandosi ad ogni dì le speranze nei Francesi, che senza ferir colpo consumavansi. Per lo contrario crescea Pietro di riputazione e di forze; e la catalana e siciliana gente imbaldanziva per la fortuna dell’arme e per lo ricco bottino: che per lo bottino, scrive un guelfo, assalivan le terre; per la moneta del riscatto facean prigioni, e per le cuoia rapivan gli armenti43: e anco dal catalano Montaner s’intende come quelle masnade a gara chiedesser le più rischiose fazioni per arricchirsi, e cupide e animose nè a numero nè a forza de’ nemici badassero44. E già, come signor de’ mari, stendendosi Pietro più a dilungo, prende sull’Adriatico Geraci, chiamato da’ terrazzani. Quivi, serratosi nella rocca a’ movimenti primi de’ cittadini il presidio francese capitanato da un Guidone Alamanno, il re d’Aragona gli dava assalti ogni dì; e per fame e sete già riducealo, quando un sospetto d’umori nuovi in Sicilia, il fe’ precipitare al ritorno45.

In questo tempo la regina Costanza, chiamata da Pietro, fin quando pattuivasi il duello perchè restasse al governo in Sicilia, era venuta di Catalogna in Palermo co’ minori figliuoli suoi, Giacomo, Federigo, e Iolanda46; seco recando cortigiano o consigliero quel Giovanni di Procida, che sulle memorie degne di maggior fede or la prima volta appar venuto in Sicilia, nè più se ne facea menzione dopo quegli antichi disegni tra esso, Loria, ed il re47. Vedendo dunque la figlia di Manfredi, e i giovanetti principi di vago e nobil sembiante, la moltitudine esultava e plaudiva; soddisfatta alsì dalle novità, e dalle vittorie di terraferma. Ma tra i baroni e’ l re nasceano molti sospetti. Perch’avendogli dato quei la corona, superbia in loro, e nel re dispetto del troppo beneficio, lavoravan tanto, che a’ baroni non bastava guiderdone o favore, al re parea fellonia ogni picciolo scontento; e cominciava egli a giocare con suoi scaltrimenti per abbattere i più audaci. È probabile inoltre che cagionasse dispiacere la pattuita e mal osservata ristorazione agli ordini pubblici de’ tempi di Guglielmo il Buono48, di cui s’avean idee indefinite e pressochè favolose: onde tanto più ardentemente li vagheggiavano i popoli, tanto più diveniano difficili a soddisfarsi; nè Pietro era principe arrendevole, nè mantenitor di franchige che menomassero l’autorità regia. Pungea fors’anco i nostri invidia de’ Catalani, e del non aver parte abbastanza ne’ pubblici affari; onde alcun pensava non aver mutato la tirannide in libertà, ma la persona del principe e la nazione de’ signori: i quali umori è naturale che da’ baroni passassero anco ne’ popolani più veggenti, nè ignoti restassero al re. Stando Pietro così sotto il castel di Geraci, avvenne che il dì otto aprile, preso uno spion de’ nemici, rivelava pratiche del principe di Salerno in Sicilia. Confessò, dice il Neocastro, essersi indettato Gualtier da Caltagirone a dargli in balìa tutta l’isola, se alla partenza di Pietro per Bordeaux, mandasse in alcun porto di val di Noto cinquanta galee con un grosso di cavalli francesi. Il quale Gualtiero, signor di Butera e d’altri feudi, possente sopra ogni altro in val di Noto, e famoso appo i narratori della congiura di Procida, al primo avvenimento del re avea chiesto d’andar tra i cento campioni al duello; ma poi deluso nelle sue ambizioni, o sospicando de’ governanti, venne a tanta contumacia, che solo tra’ siciliani baroni, per inviti che replicassegli il re, niegò di seguirlo in arme in Calabria. Ciò dunque a’ detti della spia aggiugnea fede49. Saba Malaspina sol narra, che mandata la spia prima della forca a’ tormenti, svelato avesse vaghe macchinazioni in Sicilia; e che questo indizio, riscontrato co’ sospetti anteriori, conducesse a supporre una cospirazione contro la reina e i figliuoli, trattata con parecchi baroni da Palmiero Abbate, oriundo di Trapani, cittadin palermitano, ricchissimo in val di Mazara per terreni ed armenti, prode in arme, picciol di persona, grande di fama50. Del resto poco montano i nomi, e certo ritraesi nata nel baronaggio una trama, o supposta e spacciata da Pietro perchè la temea. In quel tempo stesso gli giunse la nuova dello arrivo della reina in Palermo; e andò in Calabria a trovarlo Piero fratel suo, ansioso tornandogli alla mente il solenne patto del duello; che il dì sovrastava; che mai spergiuro non infamò il sangue regio d’Aragona; non si mostrasse egli primo a tutta cristianità mancatore e codardo. Stretto dunque a tornar di presente in Sicilia e affrettarsi al duello, fremendo Pietro si restò dalla impresa di Calabria; le terre occupate abbandonò; sciolse l’esercito: e lo stesso dì Gualtier da Caltagirone alfin veniva al campo di Solano: tardo consiglio in vero a purgar sì gravi sospetti51.

A dì quattordici aprile, con le genti e il vasto bottino, Pietro valicava lo stretto. Il ventidue la reina co’ figli, chiamata da Palermo, con lui si trovò a Messina52. Dove adunati a parlamento il dì venticinque i sindichi delle città, per ordinare lo stato prima ch’ei si partisse dall’isola, con assai dimostrazione di affetto, il re lor presentava que’ suoi carissimi pegni, e: «Partir, dicea, m’è forza da questa terra, che amo quanto la stessa mia patria. Io vado innanti a tutta cristianità a confondere il superbo nostro nimico; a vendicare il mio nome nel giudizio di Dio. Perchè tutto io ho commesso alla fortuna per amor vostro, o Siciliani; e nome, e persona, e regno, e l’anima stessa. Nè men’incresce già, vedendo coronata l’impresa dall’onnipossente man del Signore; il nimico lungi di Sicilia; inseguito e prostrato in terraferma; ristorate le vostre leggi e franchige; voi crescenti a ricchezza, a gloria, e prosperità. Lasciovi una flotta vincitrice, capitani provati, fedeli ministri, la reina vostra e i nipoti di Manfredi. Questi giovanetti, la più cara parte delle mie viscere, io v’affido, o Siciliani, nè tremo per essi. Anzi, com’aspri e dubbi sono i casi della guerra, ecco novissima guarentigia a’ vostri dritti: Alfonso avrassi alla mia morte Aragona, Catalogna e Valenza; Giacomo, secondo figliuol mio, mi succederà sul trono di Sicilia. La reina e Giacomo terranno finch’io sia lungi le veci di re. E voi docili serbatevi al paternale impero; forti contro i nimici, e sordi alle insidie di chi cerca novità per vendervi ad essi.» Poi volto ad Alaimo: «Sian tuoi figli, disse, la mia consorte, i miei figli! e voi qual padre onoratelo53.» Assentiva il parlamento la successione di Giacomo, proposta forse dal re, perchè il parlamento e la nazione voleanla; non soffrendo che l’antico reame ridivenisse provincia d’altro più lontano, e ubbidisse a gente straniera. Così riparato alla principal cagione di scontento, volle anche rafforzarsi della virtù e gloria di Alaimo. Il creò gran giustiziere54; ma gli altri maggiori ufici die’ a suoi fidati: fatti Ruggier Loria grande ammiraglio55; Giovanni di Procida gran cancelliere, e il catalano Guglielmo Calcerando vicario, forse nel comando dell’esercito; e anco l’armò cavaliere. Gli ufici minori accomunò ancora tra Catalani e Siciliani: volle che in tutto il maneggio dello stato nulla senza saputa della regina non si comandasse. Ciò ordinato, cavalcò via da Messina il ventisei aprile; e prima investì Alaimo delle signorie di Buccheri, Palazzolo e Odogrillo; e baciatolo affettuosamente, gli donò il suo proprio destrier da battaglia, la spada, l’elmo, e lo scudo56.

Con questi ordinamenti Pietro a tempo racchetò la nazione, e potè senza pericolo, pria ch’ei lasciasse l’isola, assicurarsi con pronti fatti de’ pochi tuttavia discredenti e immansueti. Volle mostrar da vicino la regia autorità per le terre più affette a Gualtier da Caltagirone. Però comanda che l’infante ed Alaimo il seguan tosto; ed ei va a Mineo il ventotto aprile: dove intendendo essersi gridata già a Noto la ribellione, a stigazion di Gualtiero, da Bongiovanni di Noto, Tano Tusco, Baiamonte d’Eraclea, Giovanni da Mazzarino, Adenolfo da Mineo e altri molti, aspetta Alaimo e il figliuolo; consultane con essi di sopraccorrere su i sollevati senza dar loro tempo a ordinarsi; e avvia que’ due a Noto; ei cavalca per Caltagirone a trovar dritto Gualtiero. L’irresoluto non l’aspettò; ma borbottando co’ suoi che non sosterrebbe il sembiante di questo principe, cortese a lui sì, ma soperchiatore e pessimo nella signoria, si ridusse nella forte terra di Butera. Il re vedendolo dileguare e spregiandolo, senz’altro indugio fu a Trapani ad affrettare il viaggio57.

Alaimo intanto spegnea senza sangue i ribelli. All’entrar di maggio appresentatosi a Noto con Giacomo, lascia il giovanotto poco lungi dalla città; egli fattosi con quattro uomini soli alla serrata e non difesa porta, e abbattutala, al popol grida a gran voce, che corra all’incontro del re. E il popolo, aggreggatoglisi intorno a que’ detti, docilmente correva a salutare l’infante; perchè se il nome di Gualtiero e’ l romor de’ suoi seguaci il sommossero un istante, non potea per anco bramar gagliardamente nuove mutazioni di stato; nè senza forte volere il popol resiste a grandi nomi ed opere risolute. Indi ognuno abbandonò Bongiovanni, che minacciando era accorso; ma forza gli fu arrendersi ad Alaimo, e gittargli ai pie’ le sue armi. Tano Tusco fuggendo è preso, e alla tortura svela ogni cosa58.

Ignorando questi eventi, Gualtiero se ne stava in Butera, armato come in ribellione, e spreparato d’animo e di guardie come in piena pace; quando il tre maggio con grossa scorta l’infante ed Alaimo vi cavalcarono: e fermatosi a riva il fiume Giacomo con le genti, Alaimo ascese il poggio; sforzò le porte senza contrasto, come a Noto; ed entrando esortò anco la moltitudine a farsi innanti a Giacomo con dimostrazioni di lealtà e di gioia. Onde i terrazzani, i quali a Gualtiero non eran sì devoti, ma li tenea sospesi spargendo partito il re, ita sossopra in Sicilia la dominazione d’Aragona, ora al nome di Alaimo, al saper sì presso l’infante, non pensarono ad altro che a fargli onore; e maledicendo Gualtiero e sue fole, chi affollavasi alle porte, e chi si calava da’ muri, e tutta la moltitudine scendendo al fiume per quella pendice si sparse. Alaimo non s’arrestò che non trovasse prima Gualtiero. Smonta al palagio; entra: e da sessanta masnadieri toscani tutti armati a mensa sedeano con Gualtiero, banchettando e bravando, allorchè il fier vecchio fattosi innanti, franco salutò la brigata. Ammutolirono per maraviglia e dubbiezza: pendean tutti dal lor signore, che nulla si mosse; appoggiò la guancia sulla mano, il gomito sul desco; e affisava il volto d’Alaimo senza fiatare, se sbigottito o minaccioso non sel sapeva egli stesso. Alaimo si pentì quasi del troppo osare. Tacque un attimo; e risoluto: «Che vaneggi, o Gualtiero? gli disse. E tu al più vil de’ tuoi mercenari stenderesti la mano, renderesti il saluto; ed Alaimo cavaliero, Alaimo amico, nelle tue stanze così raccogli! Or più che non pensi amico io vengo. Vedi in chi ti affidavi! Vedi i tuoi vassalli precipitarsi incontro all’infante Giacomo, e menarlo a trionfo! Su, vien meco a fargli omaggio ancor tu, mentre ti avanza un altro istante a campar da ruina certissima59.» Tentennò Gualtiero: chiedea sicurtà che nol menerebbero oltre i mari al conflitto de’ cento; al che rinfacciavagli Alaimo: averlo ambito egli stesso a malgrado del re, che non chiedeva da lui nè braccio nè consiglio: e infine l’irresoluto si piegò a simulate dimostrazioni d’onore. L’infante, senza credergli, l’accolse benigno; parendogli abbastanza avere spento le prime scintille di aperta ribellione, ed evitato o differito quella di barone sì possente. Mostratosi indi a Palermo, sopraccorre a Trapani, ove ansioso aspettavalo il re. Lieto ei fu del successo. Ordinò punirsi di morte i capi della congiura di Noto; strettamente vegliarsi Gualtiero60: e il dì undici maggio, raccomandati novellamente ad Alaimo i suoi e ’l reame, sciolse da Trapani con una nave e quattro galee. Seco addusse, campione, al combattimento di Bordeaux, Palmiero Abbate, per gratificare, scrive lo Speciale, al suo zelo e guerriera indole; e Malaspina dice, per catturarlo in bel modo, a cagione de’ raccontati sospetti di stato61.

  1. Bart. de Neocastro, cap. 50.
    Montaner, cap. 65, parla del rammarico dimostrato dal re per non aver potuto combattere coi Francesi.
    D’Esclot, cap. 95, attesta il medesimo, e che marciò con Pietro alla volta di Messina tutta la gente sua e quella del regno di Sicilia.
  2. Bart. de Neocastro, cap. 43 e 87, e dal cap. 91 si scorge la età di Macalda. Il d’Esclot, che le è favorevole quanto nemico il concittadino di lei Neocastro, la dice, cap. 96, molt bella e gentil e molt prous et valent de cor e de cos e llarga de donar; e aggiugne che valesse quanto un uom d’arme, e con trenta cavalieri andasse battendo la città. Ho seguito il Neocastro che dovea saper meglio de’ fatti di costei, e la dice in Catania nel tempo dell’assedio di Messina.
  3. Bart. de Neocastro, cap. 50, 51, 52, narra il proposito di Macalda con una strana chiarezza: illa enim flammam urentem gerebat inclusam, quam sub quodam taciturnitatis velamine quærebat si posset...... comprimere, credens inde suis circonvencionibus juvenem excitare, etc.
    Tutto al contrario il d’Esclot, cap. 96, afferma che com’ella vide il re in Messina, que null temps nol havia vist, fon molt enamorada axi com de senyor valent e agradable, no gens per mal enteniment. Ma s’accorda meglio co’ fatti la malignità del Neocastro.
  4. Bart. de Neocastro, cap. 53.
    Nic. Speciale, lib. 1, cap. 18.
    D’Esclot, cap. 96.
    Montaner, cap. 65.
    Cron. sic. della cospirazione di Procida, pag. 274.
    Quanto a’ Giudei non è dubbio che in Messina e in molte altre città della Sicilia, fossero in gran numero e considerazione per le industrie e i commerci. Le nostre leggi del tempo, per non dir di tante altre memorie, ne fanno spesso menzione. E si ritrae che in Messina i Giudei, al par che i cristiani, fossero molto addetti all’industria delle tintorie, da un diploma del 24 gennaio 1292, che leggiamo presso il Testa, Vita di Federigo l’Aragonese, docum. XV.
  5. * Bart. de Neocastro, cap. 53.
    • D’Esclot, cap. 98.
    • Saba Malaspina, cont., pag. 384.
    • Nic. Speciale, lib. 1, cap. 18.
    • Montaner, cap. 65, 66, 67, 68, 69.
    • Anon. chron. sic., cap. 41.
    • Giachetto Malespini, cap. 212.
    • Gio. Villani, lib. 7, cap. 75.
    • Cron. sic. della cospirazione, pag. 274.
    Ho seguito a preferenza il Neocastro e gli altri due primi, che narrano con poco divario questi fatti.
    Non attesi al Villani e al Malespini che portano bruciati da’ nostri da 80 legni nimici, perchè Saba Malaspina e gli scrittori di parte nostra non l’avrebbero pretermesso; e Montaner accenna questo incendio (cap. 65) ma come avvenuto sulla spiaggia di Messina, che è forse quello de’ principî dell’assedio (Veg. cap. VII del presente lavoro). Il Montaner in questa impiastra tre fazioni: la caccia data alle 70 navi, la presura delle 22, e il saccheggio di Nicotra, seguito nel 1284; che è nuovo argomento della poca esattezza di questo autore, il quale scrivendo vecchio e molti anni appresso, confondea nella sua memoria l’ordine e le particolarità de’ fatti.
  6. Questa porta più non esiste, sendosi da quel canto ampliata la città.
    • Bart. de Neocastro, cap. 53.
    • Saba Malaspina, cont., pag. 385.
    • D’Esclot, cap. 98.
    • Montaner, cap. 74, il quale porta questa liberazione in altro tempo, e la abbellisce con una munificenza incredibile; facendo dispensare camicia, farsetto, brache, cappello, cintura, coltello catalanesco, e un fiorin d’oro per ciascuno, a 12,000 prigioni.
  7. Bart. de Neocastro, cap. 54.

    Diplomi dell’8 e 15 febbraio 1282 (cioè 1283, contandosi l’uno appo noi dal 25 marzo), docum. X ed XI; il secondo de’ quali è citato ancora dal Gallo, Annali di Messina, tom. II, pag. 135, con un altro privilegio del 20 aprile, che abolì tutti gli statuti e le leggi di re Carlo.
    Forse a questo o altro simil diploma allude il Fazello (Deca 2, lib. 9), che il dice conservato infino a’ suoi tempi; e il Pirri, Sicilia sacra, Not. ecc. catan. ann. 1283 che cita il parlamento e il diploma.
    Che Pietro avesse abolito i dritti de’ marinai è detto anco chiaramente nel capitolo 44 di re Giacomo, Cap. del regno di Sicilia.
  8. Aliquantulum.
  9. Diploma del 29 settembre 1282, docum. IX.
  10. Diploma del 2 ottobre 1282, citato nell’Elenco delle pergamene del r. archivio di Napoli, tom. I, pag. 244, e anche in parte trascrittovi nella nota che continua infine a pag. 246.
  11. Saba Malaspina, cont., pag. 395.
  12. Elenco delle pergamene sud., tom. I, pag. 247.
  13. * Saba Malaspina, cont., pag. 384.
    • Bart. de Neocastro, cap. 54.
    • D’Esclot, cap. 97.
    • Cron. della cospirazione di Procida, pag. 274.
    • Veggasi anche Montaner, cap. 67 e seg. Il soggiorno di re Carlo a Reggio per tutto questo tempo, è confermato dalla data de’ citati diplomi e dei seguenti altri: Reggio penultimo ottobre, undecima Ind. Ibid. 26 novembre, undecima Ind. Ibid. 1, 5 e 6 dicembre, undecima Ind. Nel r. archivio di Napoli, registro segn. 1283, E, fog. 1, 1 a t. e 4.
    • Bart. de Neocastro, cap. 54.
    • Nic. Speciale, lib. 1, cap. 23, 24.
    • Saba Malaspina, cont., pag. 385, 386, 387.
    • D’Esclot, cap. 99.
    • Montaner, cap. 72.
    • Raynald, Ann. ecc. 1283, §. 5.
    • Diploma di re Carlo, in Muratori, Ant. Ital. Med. Ævi, tom. III, pag. 651. Sul quale e su i due diplomi citati qui appresso, ho corretto lo errore di alcuni storici, che dicon fatta la sfida da re Pietro. Del rimanente la più parte di quegli scrittori si riscontra appunto co’ diplomi.
    I nomi degli ambasciadori di Pietro son portati variamente. Certo che vi fosse il giudice Rinaldo dei Limogi messinese, perchè, oltre l’attestato d’alcuno istorico nostro, leggiamo il suo nome ne’ diplomi. Notisi che il d’Esclot diversifica in qualche circostanza. Secondo lui, due famigliari di Carlo vestiti da frati portavano a Pietro parole d’ingiurie: egli si pose a ridere, e mandò con loro per ambasciatori, suoi cavalieri onorati e d’alto affare, per intender da Carlo se i due finti frati ne avessero avuto mandato; e saputo di sì, questi legati fermarono il duello, e tornarono in Messina con gli inviati di Carlo per ordinarne le condizioni. Montaner al contrario dice il grande sdegno di Pietro al sentirsi dar quelle accuse. Io ho seguito ne’ particolari piuttosto Speciale, Malaspina, e ’l Neocastro; nè è mestieri notar tutte le minute differenze degli altri cronisti.
  14. Da una scritta che ti trova nel r. archivio di Napoli, reg. segnalo 1268, A, fog. 35, si vede che fosse tra’ cortigiani di re Carlo, Rinaldo Villani da Siena milite.
    Un altro diploma del 28 aprile (forse 1268) che si legge nel medesimo archivio, reg. segn. 1268, O, fog. 30 a t., comanda a’ regi inquisitori d’investigare i carichi dati pe’ fatti di Corradino a Giovanni Villano da Aversa milite.
    Non mi preme il ricercare se costoro fosser della medesima famiglia, e se tra i mallevadori di Carlo fosse stato un Pugliese o un Toscano. Perciò me ne rimango a queste semplici notizie.
  15. I diplomi leggonsi presso:
    • Rymer, Atti pubblici d’Inghilterra, tom. II, pag. 226 a 234.
    • Muratori, Ant. Ital. Med. Ævi, tom. III, pag. 655.
    • Martene e Durand, op. cit., tom. III, pag. 101.
    • Lünig, Codex Ital. Dipl., tom. II, pag. 986 e 1015.
    • Registro di Carlo I, segn. 1280, B, fog. 151 a t., citato dal Vivenzio, Ist. del regno di Napoli, tom. II, pag. 353.
    E infine li cita Michele Carbonell, Chroniques de Espanya, ed. 1567, affermando trovarsi gli originali negli archivi di Barcellona, de’ quali egli era il conservatore; e similmente Feliu, Anales de Cataluña, lib. 11, cap. 17. Negli archivi del reame di Francia ho veduto io ancora in buona forma un di questi diplomi: e dal gran numero di copie che se ne trova, si può ben conchiudere che si volle dare a quest’atto la maggiore pubblicità che fosse possibile.

    Perfettamente rispondono a questi diplomi:
    • D’Esclot, cap. 100, che porta anco esattamente i nomi de’ cavalieri mallevadori.
    • Montaner, cap. 72, 73.
    • Saba Malaspina, cont., pag. 388, 389.
    • Nic. Speciale, lib. 1, cap. 25.
    • Bart. de Neocastro, cap. 54.
    • Geste de’ conti di Barcellona, cap. 28, nella Marca Hisp. del Baluzio.
    • Chron. S. Bert. in Martene e Durand, op. cit., tom. III, pag. 763; ed altri che lungo sarebbe a noverare, or più or meno esatti.
  16. D’Esclot, Montaner, Neocastro, Speciale nei luoghi citati.
    • Nangis, vita di Filippo l’Ardito, in Duchesne, H. Fr. S., tom. V, pag. 541.
    • Breve di papa Martino, in Raynald, Ann. ecc., 1283, §. 8.
    • Gio. Villani, lib. 7, cap. 86.
  17. Saba Malaspina, cont., pag. 386.
  18. * Ibidem, pag. 389, 390.
    • Bart. de Neocastro, cap. 55, 56.
    • Nic. Speciale, lib. 1, cap. 19.
    • Bernardo d’Esclot, cap. 102, il quale aggiugne la valente ritirata di 30 almogaveri restati in terra, e le straordinarie prove d’un condottiere di questa gente. * Ramondo Montaner, cap. 20, narra diversa e strana questa fazione, e vi fa uccidere il conte di Alençon, da lui detto di Lauço, il quale morì alcuni mesi appresso nel campo di Santo Martino, e non in questa fazione. E veramente ei fu uno dei capitani che consigliarono nel cominciar del seguente anno 1283 il tramutamento del campo da Reggio al piano di Santo Martino, come si scorge da un diploma del principe di Salerno, cavato dal r. archivio di Napoli, e citato da D. Ferrante della Marra. Discorsi, Napoli, 1641, pag. 46, a t.
    • Veggasi anche l’altro diploma del 20 aprile 1283, citato al cap. X di questo lavoro.
    • Nelle Geste de’ conti di Barcellona, cap. 28, si dice ferito nelle fazioni di Calabria il conte Pietro d’Alençon, e mortone qualche tempo appresso.
  19. Che il conte Federigo Mosca nominato dal Neocastro fosse conte di Modica, si ritrae da Surita, Annali d’Aragona, lib. 4, cap. 27, e da’ nostri noiosi scrittori delle genealogie nobili.
  20. Saba Malaspina, cont., pag. 390.

    Bart. de Neocastro, cap. 56.
  21. Diploma dato di Parigi a 20 giugno 1282, col quale Carlo principe di Salerno promettea di comporre amichevolmente questa faccenda. Negli archivi del reame di Francia, J. 511. 2.
  22. Diploma del 1303, ibid. J. 512. 24, nel quale sono noverati vari debiti di Carlo II con la corte di Francia, e in primo luogo queste 15,000 lire tornesi pagate a 18 giugno decima Ind. 1282.
  23. D’Esclot, cap. 101.
    • Nangis, loc. cit., pag. 541.
    • Giachetto Malespini, cap. 217.
    • Gio. Villani, lib. 7, cap. 62, 85.
    • Saba Malaspina, cont., pag. 385, 392.
    • Cron. an. sic. della cospirazione, pag. 266.
    • Annali genovesi, in Muratori, R. I. S., tom. VI, pag. 580.
    • Vita di Martino IV, in Muratori, R. I. S., tom. III, parte 1, pag. 610.
    • Chron. s. Bert. in Martene e Durand, Thes. Nov. Anec. tom. III, pag. 764.
    • Montaner, cap. 70, toltone l’errore della uccisione del conte d’Alençon.
  24. Breve dato di Montefiascone, 9 dicembre 1282, in Raynald, Ann. ecc., 1282, §. 27.
  25. D’Esclot, cap. 100.

    Montaner, cap. 73, 77, 78.
    • Questo diploma leggesi nel citato Elenco delle pergamene del r. archivio di Napoli, tom. I, pag. 248.
    • Montaner, cap. 73.
    • D’Esclot, cap. 100.
    • Saba Malaspina, cont., pag. 395.
  26. Bart. de Neocastro, cap. 54. Questi porta la partenza di re Carlo a 2 novembre, ch’è manifesto errore secondo gli allegati diplomi. Pur non è da toglier fede nelle altre cose al Neocastro, il quale, come in paese nemico, potea ben errare in qualche particolare, e conoscere appieno gli altri fatti.
  27. Bart. de Neocastro, cap. 57.

    Saba Malaspina, cont., pag. 391. Il consiglio dei principi e capitani nominati di sopra, si scorge dal diploma citato qui innanzi a pag. 213, al proposito del conte d’Alençon.
  28. Nic. Speciale, lib. 1, cap. 21.
  29. Neocastro, Speciale, Malaspina ne’ luoghi citati. Il primo porta questo permesso come dato dal principe di Salerno.

    La ritirata del principe di Salerno al pian di Santo Martino leggesi anco in d’Esclot, cap. 102.
  30. Nic. Speciale, lib. 1, cap. 20.
    • Nic. Speciale, lib. 1, cap. 21.
    • Saba Malaspina, cont., pag. 391.
    • Bart. de Neocastro, cap. 59.
    • Montaner, cap. 75.
  31. Bart. de Neocastro, cap. 61.
  32. * Saba Malaspina, cont., pag. 390, 391, 396.
    • D’Esclot, cap. 67, 79, 103.
    • Montaner, cap. 62, 64. Da questi autori si vede che almugaveri non era nome di nazione, ma sì di milizia, come oggidì si direbbe: granatieri, cacciatori, ec.
      I particolari della sussistenza e ordinamento irregolare di questi almugaveri si scorgono da Montaner, cap. 70, e da due diplomi del 7 marzo e 4 aprile 1299, docum. XXVI e XXVII, nel primo dei quali si vede la distinzione tra stipendiarii, almugaveri, et malandrini; nel secondo leggesi la divisione della preda inter se, juxta eorum consuetudinem atque usum. Nell’uno e nell’altro i cognomi ben mostrano che queste masnade fossero mischiate di Spagnuoli e Siciliani.
    • L’altro diploma del 27 dicembre, quarta Ind. (1290), docum. XXV, mostra la niuna disciplina degli almugaveri; per la quale il re di Sicilia espressamente li avea eccettuato dalla tregua fermata col nemico, non promettendosi che ubbidissero. In somma il modo lor di combattere era il medesimo delle bande o guerrillas, segnalatesi nelle moderne guerre di Spagna, e la disciplina assai peggiore.
  33. Bart. de Neocastro, cap. 59.

    Saba Malaspina, cont., pag. 391.
  34. Bart. de Neocastro, cap. 60.

    Saba Malaspina, cont., pag. 395.
  35. Nic. Speciale, lib. 1, cap. 21.
  36. * Saba Malaspina, cont., pag. 395, 396.
    • Nic. Speciale, lib. 1, cap. 22.
    • Bart. de Neocastro, cap. 61. * E con meno particolarità, d’Esclot, cap. 102.
  37. Saba Malaspina, cont., pag 395, 397.
  38. Montaner, cap. 70, 75.
    Il quale scrittore porta con molta confusione e inesattezza questa prima guerra di Calabria, talchè inutile opera sarebbe a notar d’uno in uno i suoi errori.
    Il d’Esclot, più accurato sempre, non dice che la fazion di Seminara. Ei passa sotto silenzio la cagione del sollecito ritorno di Pietro in Sicilia.
    È da notare che, raccontando come gli almugaveri nell’infestar le Calabrie spingeansi fino agli alloggiamenti nemici, d’Esclot, a cap. 103, porta il seguente fatto. Preso da’ nimici un almugavero, e portato al principe di Salerno, questi vedendol piccino, male in arnese, e orrido d’aspetto, sclamò che gente sì cattiva e selvatica non potea aver cuore. E l’almugavero replicava: ch’egli era l’ultimo di sua gente, ma pur si proverebbe col miglior cavaliere francese, a patto che vinto rimanesse a discrezione, vincitore avesse la libertà. Nella bizzarria dei tempi il principe assentiva. Talchè rese all’almugavero le sue armi, e fatto venire un valente cavalier francese, fuor le trincee si die’ luogo al duello. Il cavaliero preso del campo si serra sull’almugavero; il quale schivando d’un salto la lancia, trasse al cavallo un fermo colpo di giavellotto alla spalla; e, abbattutolo, vien addosso al cavaliero, tagliali i lacci dell’elmo, e con la coltella già l’uccidea. Allora il principe donatagli una veste, libero il rimandò a Messina. E Pietro gareggiando in cortesia, rendea al Francese dieci prigioni anco vestiti, dicendo che così sempre darebbe dieci per un de’ suoi.
  39. Saba Malaspina, cont., pag. 397.

    Bart. de Neocastro, cap. 55 e 61.
  40. * Bart. de Neocastro, cap. 62.
    • Anon. chron. sic., cap. 42.
    • Nic. Speciale, lib. 1, cap. 25.
    • D’Esclot, cap. 103, dice anche venuta la regina Costanza in aprile.
  41. Saba Malaspina, cont., pag. 397.

    Montaner, cap. 59 e 99, il quale portando questo fatto dopo il giorno del duello, scordò certo il tempo del viaggio della regina per Sicilia, ma rammentava bene tutte le minuzie personali, e dice venuti con essa Giovanni di Procida e Corrado Lanza. Il Montaner fa menzione al cap. 97 e al 99, al proposito di questa venuta della regina Costanza in Palermo, di due nostri notissimi monumenti nazionali; la cappella del real palagio di Palermo, che esiste ancora in tutta la sua bellezza, ed era, dice il Montaner, una delle più ricche cappelle del mondo; e la sala verde dello stesso palagio ove teneansi i parlamenti.
    Quivi, continua il Montaner, s’adunò un parlamento per la venuta della regina, ove Giovanni di Procida parlò per lei, e Matteo da Termini rispose a nome del parlamento: ma agli altri particolari non è da attendersi, scrivendo Montaner nel falsissimo supposto che ciò fosse stato dopo la partenza di Pietro, e dopo il duello.
  42. Si vedrà nel progresso di questo lavoro come la costituzione di Guglielmo il Buono fu la stella polare de’ popoli di Sicilia e di que’ di Puglia in quel tempo; e come i Napoletani l’ottennero nei capitoli di papa Onorio; i Siciliani in que’ di re Giacomo.
  43. Bart. de Neocastro, cap. 61.
  44. Saba Malaspina, cont., pag. 397.
    Palmiero Abbate nel 1272 fu castellano del castel di Favignana per Carlo I, come si vede in un diploma pubblicato dall’er. Michele Schiavo, Memorie per la istoria letteraria di Sicilia, tom. I, par. 3, pag. 49 e seg.
    Tutti gli scrittori Trapanesi voglion Palmiero lor concittadino, i Palermitani lo contendon loro; gli uni e gli altri senza provarlo abbastanza. Nel testo io ho trascritto le parole di Saba Malaspina, senza tener punto nè poco alla cittadinanza palermitana di Palmiero Abbate; perchè la Sicilia è la mia patria, non questo o quell’altro muro, in cui infelicemente i Siciliani per l’addietro chiudeano i loro affetti nazionali.
  45. Bart. de Neocastro, cap. 62.
  46. Bart. de Neocastro, cap. 62.

    D’Esclot, cap. 103 e 104, si riscontra appunto con queste date.
  47. Bart. de Neocastro, cap. 63, riferisce in questi sensi l’orazione di re Pietro al parlamento.
  48. Così il Neocastro e lo Speciale.
    Ma forse Alaimo era stato eletto prima Maestro Giustiziere, perchè con questo titolo è sottoscritto nel diploma del 30 dicembre 1282, citato da noi a pag. 211.
  49. Diploma di re Pietro dato di Messina a 20 aprile 1283, pel quale Ruggier Loria è eletto ammiraglio di Catalogna e di Sicilia, pubblicato dal Quintana, Vidas de Españoles celebres, tom. II, pag. 176.
    La data di questo diploma corrisponde bene a quelle portate dal Neocastro e dal d’Esclot, diligenti cronisti, i cui detti riscontrati co’ documenti acquistano sempre maggior fede. Sembra per altro che il re prima di partire, abbia accordato solennemente e permanentemente i primi ufici dello stato a coloro cui li avea già affidato. Loria era stato già incaricato del comando della flotta, veg. p. 216, e forse Alaimo esercitava nello stesso modo l’autorità di gran giustiziere.
  50. * Bart. de Neocastro,cap. 62, 63.
    • Nic. Speciale, lib. 1, cap. 25.
    • Montaner, cap. 75, 76, 99, 100.
    • D’Esclot, cap. 104, il quale dice che Pietro pria di partire nominò i suoi ministri e vicari per tutta l’isola, che ubbidissero alla reina e a Giacomo; e che raccomandò la moglie e i figli a’ Siciliani, e in particolare a’ Messinesi. Perchè questi ordinamenti di Pietro non son riferiti da tutti gli storici nella stessa guisa, io mi son tenuto al Neocastro, che forse si trovò presente e tra gli affari pubblici, e narra la cosa in quel modo ch’era necessario tenersi da re Pietro. Altri particolari ho cavato da Speciale e Montaner, l’ultimo de’ quali porta le circostanze essenziali, sbagliando nel tempo e nel modo. Questi due scrittori dicon poi lasciato il regno di Sicilia a Giacomo per testamento del padre. Ma come nel testamento che noi abbiamo, e che d’Esclot anche riferisce con estrema diligenza, non si fa menzione del regno di Sicilia, così è mestieri che Pietro avesse fatto riconoscere Giacomo dal parlamento, nel modo che appunto riferisce il Neocastro, e accenna lo stesso Montaner.
    Certo egli è che infino alla morte di Pietro l’autorità regia in Sicilia fu esercitata dalla regina Costanza, aiutandosi costei dell’opera di Giacomo, riconosciuto successore al trono. In fatti nel capitolo 2 delle leggi di Federigo II di Sicilia, è fatta menzione di concessioni della regina Costanza; e vari diplomi ci restan di lei, l’un de’ quali dato di Palermo a 25 febbraio duodecima Ind. 1283 (1284 secondo il computo comune), si legge a pag. 87 nel Tabulario della cappella del reale palagio di Palermo, Palermo 1835. Il titolo è: «Constantia D. G. Aragonum et Siciliæ Regina.» Questa forma di governo finalmente si prova con un atto politico del tempo. Nel trattato fermato in giugno 1286, tra Pietro di Aragona e il re di Tunis, che è pubblicato dal Capmany, Memorias historicas del comercio de Barcelona, tom. IV, docum. 6, allo art. 40, si legge: «La qual pace noi Pietro per la grazia di Dio re d’Aragona e di Sicilia sopraddetto, accordiamo pel regno di Sicilia, per noi e per la nobile regina nostra moglie e per l’infante Giacomo nostro figlio, che dev'essere erede dopo di noi nel detto regno, dai quali la faremo fermare e accordare; e pe’ regni nostri d’Aragona, di Valenza e di Catalogna, per noi e per l’infante don Alonzo nostro primogenito, erede dopo di noi ne’ detti regni, ec.»
  51. Bart. de Neocastro, cap. 64.
  52. Bart. de Neocastro, cap. 65.
  53. Son riferite a un di presso queste parole da Bartolomeo de Neocastro.
  54. Bart. de Neocastro, cap. 66.
  55. * Bart. de Neocastro, cap. 67.
    • Nic. Speciale, lib. 1, cap. 25.
    • Saba Malaspina, cont., pag. 398.
    • Della partenza di Pietro da Trapani fanno seccamente menzione il d’Esclot, cap. 104, e il Montaner, cap. 76.

Note

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