< La guerra del vespro siciliano
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Capitolo VII Capitolo IX



Cagione della debolezza del governo preso nella rivoluzione. Si pensa a Pier d’Aragona. Sua partenza di Catalogna per Affrica; fatti militari; ambasceria a Roma. Parlamento in Palermo, che sceglie Pietro a re. Com’ei guadagna gli animi de’ suoi, e accetta la corona. Viene a Trapani. È gridato re in Palermo. Disposizioni per soccorrer Messina; oratori di Pietro a Carlo; ultimi fatti d’arme nell’assedio. Carlo sen ritrae con perdita e onta. Giugno a settembre 1282.


Degno argomento è di considerazione come venendo re Carlo sopra la Sicilia, debolmente qui si reggesse lo stato, poco appresso rivoluzione sì violenta, e mentre le municipalità vigorosamente operavano. Perciocchè in queste gli uomini, vedendosi in viso, s’intendean tra loro molto vivamente ne’ bisogni comuni; e i capitani e i consigli di popolo lor forze drizzavano a pronti fatti. Ma nella nazione, i parlamenti gridando il nome della Chiesa s’eran rimasti dal creare una signoria, o, come oggidì suona, potere esecutivo; e indi mancava nel maggior uopo la virtù del comando. Non ebbela il parlamento, perchè non si fe’ permanente; e perchè d’altronde la riputazion dello stato, passando in questo tempo dai popolani ne’ nobili, nell’atto del mutamento non era forte in alcuno. Dapprima, il dicemmo, tutto fu brio di repubblica, e ordini democratici. Poi, dileguandosi quella spinta, la parte baronale preponderò, per l’avvantaggio delle sostanze, e le consuetudini degli uomini; e perchè all’ostil contegno di Roma, agli armamenti di re Carlo, il popolo non pensò più a tenere il governo dello stato, ma soltanto a fuggir l’empio giogo; onde affidossi a coloro che sopra ogni altro parean savi e possenti. Perciò al primo capitan di Messina succedea Alaimo, e chiamavanlo allo stesso uficio tutte le terre per gran tratto delle costiere di settentrione e levante; perciò Macalda, moglie d’Alaimo, ne tenea le veci in Catania1; perciò se nei primi parlamenti leggiam solo di sindichi e capitani di popolo, vanta Speciale in cotesti successivi la frequenza degli adunati nobili e savi personaggi2. La quale mutazione condusse a un’altra maggiore. Degli ottimati, alcuni per le pratiche anteriori tenean forse a Pietro: riconosceano i più il dritto della Costanza: tutti la monarchia più che la repubblica amavano; nè vedeano in tanto pericolo altro migliore partito che ubbidire ad un solo. A chiamarlo intesero dunque; e in ciò affidati si rimaser da tutt’altro generoso imprendimento, mentre Messina fortuneggiava, e con lei la comun libertà. Solo con le forze che vi s’eran chiuse, e con quegli spessi ardimenti di trafugarvi armati e vivanda3, soccorreanla, chè tenesse contro l’esercito nemico infino all’avvenimento del re d’Aragona.

Questi diversi umori de’ popolani e de’ nobili, questo mutamento dello stato da’ primi ne’ secondi, richiedendo e tempo e opportune circostanze al pien loro effetto, ne seguì che irresoluti e divisi ondeggiarono i Siciliani a lungo sul partito di chiamar l’Aragonese. Le pratiche s’incominciaron private ed occulte da’ partigiani, non in modo pubblico dalle città. Indi vaghe notizie abbiamo del primo appicco di quelle; che i diversi scrittori diversamente narrano, perchè pochi potean saperne, o amavano a dirne il vero4. Ma certo e’ pare che Pietro dopo la rivoluzione caldamente si fece a brigar qui coi suoi partigiani per usarla a suo pro; e ch’ei della Sicilia avea brama assai più ardente, che non la Sicilia di lui.

S’armava e tacea tuttavolta il re d’Aragona, quando l’isola si sollevò; restando sepolti per sempre in quel cupo animo i primitivi disegni; che tal non sembra la finta guerra d’Affrica, perch’ei non avrebbe operato da savio a tacerla sì pertinace al papa e a re Filippo, con certezza di fomentare i sospetti. Ritraesi inoltre, che segretissime pratiche avesse ei tenuto col principe di Costantina; il quale minacciato dal re di Tunisi, gittavasi a implorar cristiani aiuti, e a Pietro5, profferia riconoscerlo per signore, e aprirgli la via a larghi acquisti in Affrica, dove alle armi d’Aragona si sarebber voltati i moltissimi cristiani che a’ soldi di Tunisi militavano6. Sia dunque che Pietro tentasse doppio gioco, d’Affrica e di Sicilia, o che macchinasse quella impresa come scala a quest’altra, cominciò a scoprirsi alquanto con mandare un oratore a chieder al papa aiuti per guerra contro Saraceni: a che non rispondendo Martino7, l’Aragonese in fin di primavera, quando gli erano pervenuti senza dubbio gli avvisi de’ fatti di Sicilia, affrettò ogni suo apparecchiamento alla guerra. L’opra d’un mese, dice Montaner, in otto dì fornivasi sotto gli occhi del re. Adunossi picciola forza di cavalli, e molta di eletti fanti leggieri8: la più parte dell’oste si trovò a porto Fangos presso Tortosa il dì venti maggio9: e allor Pietro con estrema cura ogni cosa ordinò all’assetto della regia casa e del regno. Accelera il matrimonio d’Alfonso suo con Eleonora figliuola d’Eduardo I d’Inghilterra; deputando i vescovi di Tarragona e di Valenza a dare per lui il paterno assentimento10. Destina a reggenti dello stato il medesimo Alfonso e la regina Costanza. Fa testamento, con istituire Alfonso erede de’ reami d’Aragona e Valenza e del contado di Barcellona: e leggiamo ancora che di presente ne cedea la sovranità al figliuolo, chiamando in gran segreto testimoni alla rinunzia, Pietro Queralto, Gilaberto de Cruyllas, Giovanni di Procida, Blasco Perez de Azlor, e Bernardo de Mopahon; atto consigliato da antiveggenza dì ciò che avrebbe fatto contro di lui la corte di Roma, o piuttosto finto dopo la deposizione, per eluderla nelle forme, e mostrar ceduta la corona al figliuolo, innanzi che il papa si avvisasse strapparla al padre11. Il tre giugno infine12, accomiatatosi dalla reina, e benedetti con molta tenerezza i figliuoli, salpa con l’armata: ed era tuttavia segreta l’impresa. Discosto che fu venti miglia, l’ammiraglio percorrendo sur un battello tutte le navi, fè volgere a porto Maone; diè ad ogni capitano un plico suggellato da aprirsi poi all’uscir da quel porto. Stettervi pochi dì finché, avuti avvisi da Costantina, Pietro comandò di far vela: e allora l’almossariffo di Minorca, saracino e minacciato sempre dalle armi d’Aragona, appostosi al vero disegno dal corso delle navi e altri indizi, ne mandò avviso in Affrica per una saettia, che passò inosservata oltre la flotta catalana13. Arrivò questa il ventotto di giugno14, con dieci o dodici migliaia tra fanti e cavalli15, al porto di Collo16 nella provincia di Costantina.


Trovò Pietro mutata quivi ogni cosa per l’annunzio precorso, o loquacità del Saraceno alleato, o tradimento altrui. Abbandonato era in Collo il porto, e la città: e da mercatanti pisani seppe indi a poco, ucciso il signore, e Costantina in man dei nemici: ma quanto più perduta parea l’impresa, tanto più per grand’osare e gran vedere ei rifulse innanti i Catalani, e con la gloria si cattivò quegli indipendenti animi. Al veder solinga e muta la spiaggia, il soldato temea frode de’ barbari; esitava fino al predare; e negava entrar nella terra, se non era pel re. Tutto solo con un compagno si fa egli alle porte; smonta di cavallo, mette l’orecchio a fior di terreno per coglier qualche leggiero rimbombo: e fatto certo che persona viva non v’ha, rassicurando i suoi, entra egli primo. Solo indi, o con pochi, cavalcava a riconoscere il paese; con pronte arti rafforzava il campo; guardava i passi; spiava ogni movimento dei nemici: e venendosi alle mani, tra i più feroci quasi temerario pugnava. Le geste non ci faremo a narrare, scorgendone le memorie maravigliose tutte, e diverse tra loro; perchè gli ambasciadori mandati al papa, o i soldati che raccontaronle o scrisserle, ingrandian favoleggiando le migliaia di migliaia di barbari; gli spaventevoli scontri; il macello; la virtù dei fedeli; i memorabili fatti de’ baroni dell’oste. La somma è, che da religione e abborrimento di violenza straniera, le torme de’ cavalli arabi piombaron su i Catalani, che li avanzavano d’arte e d’animo e li respinser indi con molta uccisione. Ma non bastavan essi nè ad espugnar Costantina, nè ad innoltrarsi altrimenti nel nimico paese17.


Dopo questi fatti d’arme, nuov’arte, suggerita da Loria e dagli altri usciti italiani, divisava il re ad aggirar le genti sue; e insieme tener a bada il papa, che non vibrasse anzi tempo i suoi colpi; onestare appo gli altri potentati la meditata impresa; vincer le ultime dubbiezze in Sicilia. Chiamati i principali dello esercito, di loro assentimento inviò al papa con due galee Guglielmo di Castelnuovo e Pietro Queralto, che sponessero la sconfitta degli infedeli, e chiedessero i favori soliti in tali guerre: legato apostolico; bando della croce; protezion della Chiesa sulle terre del re e de’ suoi in Ispagna; e le decime ecclesiastiche, raccolte già e serbate. Queste grazie, ei pensava, consentite renderebbel sì forte da potersi scoprir senza pericolo, negate darebber pretesto a volgersi ad altra impresa18. Ma gli oratori navigando d’Affrica a Montefiascone, ove papa Martino fuggiva il caldo della state, o i romori già surti in Italia contro parte guelfa19, approdarono, come se sforzati da’ venti, in Palermo; mentre i baroni e i sindichi delle città ragunati a parlamento, in gravissima cura si travagliavano20.

Nella chiesa di Santa Maria dell’Ammiraglio, bel monumento de’ tempi normanni, ch’or addimandasi della Martorana, sedeva il parlamento costernato e ansioso per l’assedio di Messina, trovando scarsi tutti i partiti, e dall’uno correndo all’altro, com’avviene negli estremi pericoli. E parlava alcun già da disperato di fuggir dalla misera patria, quando il Queralto, testè arrivato, appresentossi in parlamento a mostrare una via di salvezza: chiamassero al regno Pier d’Aragona, principe di gran mente, di gran valore, vicino con gente agguerrita, spalleggiato da indisputabili dritti alla corona. Messo questo partito dunque tra i consapevoli e gli sbigottiti, d’un subito fu vinto; deliberandosi d’offrire a Pietro la corona, a patto ch’osservasse tutte leggi, franchige, e costumi del tempo di Guglielmo il Buono, e soccorresse la Sicilia con le sue forze fino a scacciarne i nimici21: del quale messaggio mandavansi apportatori in Affrica con lettere e pien mandato di tutte le siciliane città, Niccolò Coppola da Palermo e Pain Porcella catalano22. Bartolomeo de Neocastro aggiugne fede alle sollecitazioni del re d’Aragona e alle disposizioni degli animi nel parlamento, col narrar semplicemente23, che Giovanni Guercio cavaliere, il giudice Francesco Longobardo professor di dritto, e il giudice Rinaldo de’ Limogi, inviati già prima da Messina a Palermo per trattar la chiamata di Pietro, avvenutisi in Palermo con gli oratori del re, speditamente il negozio ultimavano. Mentr’ei così scrive, il semplice Anonimo porta il Queralto approdato per caso in Palermo; e il cortigiano Speciale o favoleggia o simboleggia d’un vecchio ispirato, fattosi di repente nel costernato parlamento ad arringare. Ma niuno non vede che nè fortuito caso fu, nè miracolo questo meditato colpo di scena, sviluppo delle pratiche de’ nostri ottimati con re Pietro. Se tramaron essi fin dai tempi di Niccolò III, se v’ha parte di vero ne’ maneggi del Procida in Sicilia, trionfava in questo parlamento, non già nel vespro, l’antica congiura.

Giunti Castelnuovo e Queralto a Montefiascone, lietamente li udì il papa; per vero credendo rivolto addosso a’ Mori quel sospettato armamento del re; ma non assentia di leggieri le inchieste, avvolgendosi negli indugi della romana curia; e dicea le decime ecclesiastiche servire a’ soli luoghi santi, non a tutta guerra contro Saracini: tanto che gli ambasciadori, sdegnati o infingendosi, tolto commiato appena, tornavansi in Affrica24, ammoniti forse da cardinali nimici a parte francese, che Pietro nulla sperasse da papa Martino, ma pensasse egli a’ suoi fatti25. E in Affrica già aveano gli oratori siciliani con accomodate parole offerto a Pietro il trono26; ed ei sceneggiando avea replicato: gradire questa lealtà al sangue svevo: stargli a cuore la Sicilia: pure gli desser tempo a risolversi su partito sì grave. Rappresental tosto, dissimulando quel suo ardentissimo desiderio, agli adunati baroni e notabili dello esercito; tra’ quali chi consigliava l’andata al bello e facile acquisto, e chi dissuadeala, mostrando: provocherebbe sul reame d’Aragona l’ira del papa, le armi di Francia; per ambizione di novella corona metterebbesi a repentaglio l’antica; essere Carlo potente troppo; e le genti di Aragona use a battagliar co’ Mori, non contro cavalleria sì forte; rifinite chieder la patria e il riposo; ripugnare a una aggression sopra cristiani: e d’altronde come prenderebbesi guerra sì grande senza la sovrana autorità delle corti di Catalogna e Aragona? A quegli ostacoli tacque parecchi dì Pietro, nè fiatò perchè molti, senza tor pure commiato, facean ritorno in patria27: ma lavorando occulto, prese a poco a poco gli animi de’ principali dell’oste. Quando ne fu sicurato, rispondeva agli oratori di Sicilia: accettar la corona secondo gli ordini del buon Guglielmo, e promettere la difesa28; scrivea al re d’Inghilterra, e forse anco ad altri potentati, lasciare pe’ nieghi del papa la guerra sopra infedeli, e chiamato in questo dalle città di Sicilia, andarvi a rivendicare i dritti della Costanza e dei suoi figli29. Risolutamente poi comanda la partenza, con ciò che libero sia ciascuno a rimanersi; che se i compagni d’arme l’abbandonino, ei solo andrà. Per queste arti, seguito da’ più, con ventidue galee, una nave, e altri legni minori, e poche forze di terra diè ai venti le vele30.

Il dì penultimo d’agosto, dopo cinque di viaggio, prese terra a Trapani, con giubilo grande del popolo, e maggiore de’ nobili, affaccendati a gara nelle cerimonie della corte che quel dì risorgeano in Sicilia: e baroni montarono sulla nave del re, lo addussero a città, resser su quattro lance il pallio di seta e d’oro sotto il quale egli incedeva; e fu più lieto chi tenne le redini del destriero; gli altri a piè seguianlo, e con essi giovanetti e donzelle, danzando e cantando al suon di stromenti; il popolo a gran voce: «Benvenuto, gridava, il suo re, mandato dal Cielo a liberarlo dall’atroce nemico.» In queste prime allegrezze Palmiero Abate il presenta di ricchi doni, e largamente dispensa grano alle soldatesche. Pietro cavalcò il quattro settembre alla volta della capitale: mandovvi con l’armata e le bagaglie Ramondo Marquet. E quivi a maggiori dimostrazioni s’abbandonò il popolo, più frequente, e stato primo nella rivoluzione, onde peggiore aspettavasi la vendetta angioina. Per ben sei miglia si fece incontro al principe, il menò a trionfo, e all’entrare in città sì forte surse il plauso della moltitudine, il grido de’ soldati, e lo squillo delle trombe, che rintronò, scrive Saba Malaspina, fin a Morreale, città a quattro miglia in sul poggio a libeccio di Palermo. Con tal gioia andò Pietro in palagio; ebber le sue genti larga ospitalità per le case de’ cittadini31.

Ma da’ festeggiamenti, le luminarie, le ferie de’ lavorieri, e i presenti di danaro, che Montaner dice ricusati dal re, si venne a solennità più augusta. Al terzo dì, scrive d’Esclot, adunavasi in Palermo il parlamento de’ baroni, cavalieri, e rappresentanti delle città e ville. Ai quali Pietro domandava, se per vero deliberato avessero la profferta della corona fattagli in Affrica dagli ambasciadori: e un cavaliero rispondea di sì; e poichè tutto il parlamento a una voce l’assentì: «Degnisi ora il re, ripigliava quel cavaliero, accordar le franchige de’ tempi del buon re Guglielmo, e lascerà memoria di sè gratissima, eterna, e cattiverà i Siciliani a ogni voler suo.» Pietro accordolle; e ne promesse i diplomi. Allora tutti i parlamentari levandosi in piè, gli giuravano fedeltà; un gran banchetto imbandivasi al re e a’ cavalieri32. Ma non credo vero, com’altri scrive, che indi si cingesse a Pietro la corona dei re di Sicilia, e che tal cerimonia fornisse il vescovo di Cefalù33. Allora a nome della Sicilia indirizzossi al papa un altro nobile scritto, più misurato della prima rimostranza; come portava il novello governo regio e baronale. In esso, replicate a lungo le enormezze della tirannide straniera, toccossi della signoria profferta dopo il vespro al sommo pontefice, e ricusata; onde la nazione s’era volta ad altro principe; e il sommo Iddio, in luogo del vicario di san Pietro, un altro Pietro, scherza così lo scritto, aveale mandato. Con ciò ricordarono a Martino severamente, ch’ei francese, sulla cattedra dell’apostolo dovea ascoltare la verità, non le passioni di parte; nè a dritta piegar nè a manca; nè proceder contro i Siciliani sì tempestosamente34.


Ristretti in questo mezzo col re i più intinti nella rivoluzione, e tutti gli esuli del regno di Puglia, affollantisi pieni di speranza alla nuova corte, deliberavan sulle fazioni da imprendere contro il nemico35. Del che eran tanto più solleciti, quanto ne’ privati ragionari si mormorava già la trista sembianza della gente catalana; male in arnese; lacera e abbronzata ne’ travagli d’Affrica; ondechè i nostri poc’aiuto la estimaron dapprima contro i cavalier francesi, nè se ne sgannarono che ai fatti36. E però avvisatisi di far assegnamento sulle lor sole braccia, e su’ militari consigli del re, ansiosamente chiedeano i Siciliani d’esser condotti a Messina; che a tutti tardava liberar la generosa città37. Pietro usando questo ardore, allor mandò intorno la grida: che tutt’uomo da’ quindici anni a’ sessanta si trovasse in Palermo entro un mese, armato, e con vivanda per trenta dì38. Ed ei con molta prestezza con le milizie più spedite mosse per la strada di Nicosia e Randazzo; seguendolo, ciascuna come potea, le altre schiere che s’ivano adunando: e fece veleggiare il navilio alla volta del Faro. Manifesto disegno era dunque affamar Carlo nel campo, tagliandogli per mare le comunicazioni con la Calabria, e su pei monti ogni via a foraggiare nell’isola; il qual consiglio appone a Giovanni di Procida chi il fa protagonista della tragedia del vespro. Con certezza istorica si sa che Pietro, disposte così le forze, bandiva solennemente la guerra; e a Carlo a quest’effetto spacciava Pietro Queralto, Ruy Ximenes de Luna, e Guglielmo Aymerich, giudice di Barcellona, con giusta scorta d’armati39.

Per due frati carmelitani domandaron costoro salvocondotto a re Carlo40; il quale sognando potere in brev’ora parlar da vincitore, ai frati rispondea darebbelo a capo a due dì; e comandava quel generale assalto del quattordici settembre, che gli tornò sì funesto. Al secondo dì dalla battaglia, ancorchè giacesse in letto, tutto rappigliato, spossato, affranto, arso d’infermità e peggio di rabbia41, assentì a veder gli ambasciatori, che già venuti al campo, e cortesemente raccolti con grossiera ospitalità, sotto guardia strettissima aspettavano42. Ammesso Queralto dinanzi al re sedente in letto su ricchissimi drappi di seta, presentò le credenziali; e Carlo a lui, troncando le cerimonie: «Alla buon ora di’ su;» e datagli un’altra lettera di Pietro, senza guardarla, gittavala sulle coltri; ardea tutto d’impazienza aspettando il dir del Catalano. Perciò questi brevemente si fe’ ad esporre l’ambasciata del suo signore, richiedente il conte d’Angiò e di Provenza che lasciasse la terra di Sicilia, a torto occupata, atrocemente manomessa, in cui aiuto il re d’Aragona s’era mosso come signor naturale, pel diritto dei suoi figliuoli. A queste parole, i brividi della febbre preser l’antico monarca; convulso ammutolì. Poi rosicando il bastone, com’ei solea per soperchio furore, interrotto e minaccioso rispondea: non esser la Sicilia nè sua, nè di Pietro d’Aragona, ma della santa romana Chiesa; ei difendeala, e saprebbe far pentire il temerario occupatore. Queste ed altre superbissime parole, secondo altri cronisti, scrisse a Pietro43. E intanto per far sembiante di non curare, o per ingannar loro e i Messinesi, lasciò andar alla città gli ambasciadori stessi a profferir tregua d’otto dì. Fu vano, perch’Alaimo non conoscendo i legati, li ributtava; ond’eglino tornavano al campo francese, ed eranvi senza risposta intrattenuti finchè il campo si levò. I Messinesi poi, che non avean creduto a Queralto l’avvenimento del re d’Aragona44, n’ebber certezza entro pochi dì per Niccolò de’ Palizzi messinese e Andrea di Procida, entrambi nobili usciti, mandati dal re in lor soccorso con cinquecento balestrieri delle isole Baleari. Costoro, valicati per tragetti e alpestri sentieri i monti a ridosso alla città, da quella banda non istretta per anco da’ nemici, di notte appresentaronsi alla Capperrina; e riconosciuti i condottieri, e con grande allegrezza raccolti, spiegavan su i muri lo stendardo reale d’Aragona45.

Già fin dal primo arrivo degli ambasciadori, teneano i nemici novello consiglio, a disputare non più dell’assalto o blocco della città, ma della lor propria salvezza. Perciocchè sapendo per sicura spia uscite dal porto di Palermo molte galee sottili armate di Catalani e Siciliani, Arrighin de’ Mari, ammiraglio di Carlo, rimostravagli vivamente non potersi difendere; in tre dì sarebbegli addosso il nemico ad affondare e bruciare i trasporti46. Quant’aspro il caso, apparvero diverse allora le menti. Affrontar la flotta ad un tempo, e correr sopra il re d’Aragona: accamparsi in alcun forte sito presso la città co’ balestrieri mercenari, accomiatando le milizie feudali: prender pria de’ nemici i passi de’ monti: star all’assedio tuttavia con l’esercito intero, finchè consumasser la vivanda, che n’avean anco per due mesi; tra disegni sì fatti vagavano i parlatori più feroci. Pandolfo conte d’Acerra, e molti con lui, mostran all’incontro dileguata ogni speranza di ridur la città con quell’esercito scoraggiato, stracco, assottigliato per morbi e partenza di gran gente ch’avea fornito il servigio feudale: ma le genti nemiche inanimirsi, ingrossare per la riputazion del re d’Aragona: ben costui saprebbe adoprare i Siciliani su le montagne: e il mare, il mare tra le autunnali tempeste il terrebbero i nimici, padroni di sicurissimo porto: romperebbero i legni napoletani su quelle aperte spiagge: e intanto chi raffrenerebbe Reggio, invasa già dagli umori della ribellione? E come ritrarsi poi se la estrema Calabria tumultuasse? Esausta aggiugnean la Calabria di viveri: il paese intorno Messina, fatto da loro stessi un deserto: per fame e avvisaglie perirebbe l’esercito, assediato alla sua volta tra ’l mare, i monti, e quella indomabile Messina. Per tali ragioni, dietro dibatter lungo, deliberossi il ritorno47; ma per allora si tacque.

E Carlo sfogò il dispetto con atti disperati ed assurdi. Sguinzaglia i suoi a un ultimo sterminio delle campagne; che cadde su i luoghi sacri, poich’altro non rimaneva men guasto; e andò sì oltre, che fin le colonne e le travi strascinarono al campo; e nel monistero di nostra Donna delle Scale spogliarono gli altari, e ruppero e contaminarono ogni cosa. Poi il re saltando all’estremo opposto, offre ai Messinesi di rimetter tutte lor colpe, consentir tutte inchieste, sol che tornino sotto il suo nome: ed essi con onta e scherno rifiutano48. I tradimenti anco tentò, praticando col giudice Arrigo de Parisio, il notaio Simone del Tempio, Giovanni Schaldapidochu, e un Romano, che di furto mettesser in città le sue genti; i quali furono scoperti e puniti nel capo. L’insospettito popolo di Messina allora, tumultuando chiamava al supplizio Federigo di Falcone, che forse avea consigliato la resa, brontolando «il mal fatto ne basti;» e minacciava anco Baldovin Mussone, il deposto capitano, che intendendo la venuta di Pietro, occultamente era uscito dalla città per andarne al re; ma i contadini di Monforte, credendol indettato coi nemici, l’avean preso e condotto a Messina. Alaimo salvò entrambi, imprigionandoli nel castel di Matagrifone49.

Soprastato in questi vani pensieri alcun dì, intese Carlo con maggiore rammarico l’esser della città da un Morello, ch’uscito in sembianza di paltoniere, e preso da’ soldati, affermava il tenacissimo proponimento alla difesa; e aggiugnea sue favole di sterminate provvedigioni di vittuaglie; bande novellamente scritte; disegni contro la vita del re, imminenti, atroci, ordinati con cinquecento cavalieri spagnuoli e duemila pedoni messinesi, che giurato avvessero al comune d’irrompere disperatamente nelle regie tende in una improvvisa sortita de’ cittadini, nella quale il grido di guerra sarebbe «al campo, al campo50.» Fosse arte o caso, questo dir del prigione che parve cominciato ad avverarsi in pochi giorni, diede la pinta al re; il quale ripugnando a partirsi, aspettava e differiva.

A toglier ch’altri stuoli entrassero in città sull’orme di Palizzi e d’Andrea Procida, il dì ventiquattro settembre re Carlo avea fatto occupare il palagio dell’arcivescovo, poco lungi dalle mura. Un de’ suoi più fidati mandovvi con dugento soldati, che muniti di steccato e fosso nello edifizio per sè fortissimo, teneano il passo della via di Sant’Agostino a ponente della città. Ma Alaimo incontanente divisa un bel colpo. Di suo comando, Leucio e altri condottieri arrisicatissimi, in gran segreto con iscelte bande di giovani, usciti a notte da Messina, per vie diverse giungono intorno al palagio; e tre da tre lati si appressarono; Leucio dall’altra banda, tenutosi indietro, in un uliveto imboscossi. Come il disco della luna spuntò dai monti di Calabria, ch’era il segno prefisso da Alaimo, i primi mettendo altissimo un grido «Cristo già vince,» dan dentro ferocemente ne’ ripari; tagliano a pezzi il presidio; il capitano colto nel suo letto stesso, vergheggiano a morte. Quanti di lor mani fuggono all’uliveto, son dalle genti di Leucio ammazzati. E repente da’ silenzi della città uno scoppio di voci «Al campo, al campo,» uno stormeggiar di campane, un dar nelle conche e nelle trombe, un percuotere caldaie e panche, rintronano orrendamente: schiuse le porte, accanite turbe prorompono. Sorse atroce scompiglio nell’oste. Senz’ascoltar comando o rampogna, mezz’ignudi fuggian qua e là per gli alloggiamenti; e chi ai poggi, e alla marina i più, sentendosi già sul collo il formidato re d’Aragona. Saltando dal sonno, Carlo corse gran tratto con gli altri al mare, percosso dal presagito grido: «Al campo, al campo;» finchè tornato a sè stesso, vergognando sostò, e si fece a racchetare il tumulto. Carichi di preda rientrano i Messinesi in città: e raggiornando, ostentano su per le mura il tronco braccio del capitano del ridotto, con villanie appellando Carlo coi suoi tutti che vengano a rimirarlo51.


Allor Carlo non più soprattenne la levata dell’assedio, che divulgata non ostante il segreto, finì di rovinare i soldati; al segno che nè onta de’ nimici li raccendea, nè per militare orgoglio almeno serbavan contegno. Al primo dì valicò la regina, venuta a questo campo come a teatro: e le macchine da guerra e’ lavorieri fur traghettati, tanto o quanto posatamente. Ma imbarcatosi il re52, nei due giorni appresso le altre genti si precipitarono al passaggio con tal pressa, e confusi ordini, e obblio di lor cose e di sè stessi, che rassembrava sconfitta. Un andare e tornar di vele per lo stretto, un abbaruffarsi intorno le barche, un bestemmiar gli avari marinai, e lor noli eccedenti il pregio delle cose; e abbandonati come portava il caso, per gli alloggiamenti, per la marina, cavalli disciolti o uccisi dai propri padroni, e arnesi, e robe, e botti di vini, legnami da macchine, grani, vittuaglie accatastati o mezzo arsi per pressa, attestavan la condizione di quel dianzi fioritissimo esercito. I nostri martellaronlo nella ritirata con impetuose sortite; talchè a protegger l’imbarco si costruì alla meglio un riparo, e ordinovvisi forte banda di cavalli sotto il conte di Borgogna. Con tutto ciò da cinquecento uomini furon trucidati, e salmeria grandissima di preda riportata in città53. Recarono tra le altre spoglie il padiglion grande del comune di Firenze, nella cieca fuga mal difeso o gittato; e l’appendeano in voto nel maggior tempio54.

Ebbe questo memorabil esito l’assedio di Messina. Tra le gare, fanciullesche sì ma parricide, onde la patria nostra cadde lacera e schiava, splende indivisa la gloria delle due maggiori città nella rivoluzione del vespro. Ne levò l’insegna Palermo; rapì seco la Sicilia intera al gran fatto: non assestato il reame per anco, e minacciato da tant’oste, Messina il salvò con quella eroica difesa. Indi la fama a celebrar di Messina il capitano, i cittadini, le donne; e di codeste animose e gentili cantava la rinascente musa d’Italia; e le altre siciliane spose e donzelle, come da ammirazione si fa, prendeano ad imitare il lusso di lor fogge e ornamenti; che dileguato il pericolo, ripigliossi ogni dilicato vivere tra i commerci, le industrie, le ricchezze della valente città55. Di stranieri non pugnavano per lei nello assedio che sessanta Spagnuoli: v’eran da cento Genovesi, Viniziani, Anconitani, Pisani56. Del resto nè cittadini esercitati all’arme pria dell’assedio, nè avea fortificazioni, se non che rovinose, e slegate tra loro57: onde in molte parti fu mestieri supplirvi con le barrate; e pressochè senz’avvantaggio di luogo molti affronti si combatterono. Diversa in vero da quella dei nostri dì, e men dura agli oppugnati, l’arte degli assedi allor era; men destre e compatte che i nostri stanziali quelle antiche milizie; ma quant’arte di guerra fiorì in quei guerrieri tempi, l’avea esercitato, può dirsi fin da fanciullo, tra il sangue delle battaglie, il vincitor di Manfredi; sperimentati i suoi capitani; ferocissimi quegli oltramontani avventurieri; i soldati d’Italia nè inesperti in quella età nè inviliti. Provveduti di tutte macchine, obbedienti, ordinati, sommavano a un di presso a settantamila al cominciar dell’assedio: nè a tanto numero forse giugneano, presi tutti insieme d’ogni sesso coi poppanti e i decrepiti, quanti umani rinserrava la città. Per sessantaquattro giorni la campeggiò tanto esercito, venuto in sua baldanza, che copriva il mare; e tornossi sgomenato, mutilo, a fronte bassa, ingozzando oltraggi, poco men ch’a dirotta fuggendo. Altri dirà che nell’assedio della città, che ne’ disegni della guerra contro l’isola, fallava in molte parti re Carlo; ma posto pur ciò, non son da supporre sì grossolani gli errori, nè che ei non sapesse ripararli: e certo è che molti assalti diede con tutte le forze di mare e di terra, ne’ quali la virtù de’ cittadini fu che il rispinse. A questa dunque si dia la vittoria dell’assedio. Alla vittoria di Messina, alle difficoltà de’ monti e del mare, al cuor degli altri Siciliani, e alle forze ormai concentrate per la riputazione di Pietro si dia, che null’altro danno tornasse al rimanente dell’isola da tanta mole di guerra, e primo furor di vendetta58.

  1. Bart. de Neocastro, cap. 43.
  2. Lib. 1, cap. 8 e 9.
  3. Questi aiuti, che il Neocastro dissimula un poco, sono accennati da Speciale, lib. 1, cap. 7 e 16.
  4. Non merita piena fede Bartolomeo de Neocastro, che le attribuisce (cap. 21) ai Palermitani, narrando come sbigottiti a veder nimico il papa, e Messina leale ancora a casa d’Angiò, deliberassero, persuasi da un Ugone Talach, di gittarsi in braccio all’Aragonese, con tanta prestezza, che Niccolò Coppola orator loro, sciogliea per Catalogna il dì 27 aprile. Il Neocastro incespa nel computo del tempo, con dir che giunto Niccolò in otto giorni alle Baleari, una fortuna di mare spingealo sulle spiagge d’Affrica; dove s’avvenne in re Pietro, che egli medesimo afferma partito di Spagna il 17 maggio, e per più autorevole testimonianza si sa approdato in Affrica il 28 giugno. Segue a intessere il suo racconto: che non volendo il re entrare in quella impresa senza intender l’animo dei Messinesi, rispondea manderebbe a ciò suoi fidati, ma nulla prometteva intanto. Così dà tempo e sembianze a questa pratica, a maggior vanto di Messina sua; senza pure accorgersi che Messina splendea di tanta gloria verace, da doversi sdegnar l’accattata.

    Lo Speciale, il d’Esclot, il Montaner, e Saba Malaspina non parlan d’altro, che dell’ambasceria pubblica, della quale ora diremo.

    I racconti del Villani, lib. 7, cap. 69, e della Cronaca anonima della cospirazione son sì lontani da tutte queste testimonianze istoriche, da nemmeno farsene parola. Essi non mancano di mandare orator dei Siciliani a Pietro il loro protagonista Giovanni di Procida.
  5. Saba Malaspina, cont., pag. 361.

    Cron. S. Bert., in Martene e Durand, Thes. Nov. An., t. III, p.762.
  6. Montaner, cap. 44.

    D’Esclot cap. 77 e 78.
  7. Diploma di Pier d’Aragona del 19 (agosto?) 1282; Docum. VIII.
  8. D’Esclot, cap. 77 e 78.

    Montaner, cap. 46, 4º.
  9. Surita, Ann. d’Aragona, lib. 4, cap. 13.

    Veg. anche Geste de’ conti di Barcellona, cap. 28, nella Marca Hispanica del Baluzio.
  10. Diploma dato di Port Sangos o Fangos il 1 giugno 1282, in Rymer, atti pubblici d’Inghilterra, tom. II, pag. 210.
  11. Surita, Ann. d’Aragona, lib. 4, cap. 19 e 20.

    Parecchi documenti confermano l’esistenza di questa donazione segreta; lasciandoci sempre nel dubbio, se il re l’avesse fatto veramente in giugno 1282, o finto nel 1283. Sono essi:
    1. Un breve di Martino IV a Filippo l’Ardito, d’Orvieto 10 settembre 1283, negli archivi del reame di Francia, J. 714, 5. Il re avea mandato due ambasciatori per sapere se la concessione del regno d’Aragona ad uno de’ suoi figliuoli, che allor si trattava, potesse incontrare ostacolo nella rinunzia di Pietro in favor d’Alfonso. Il papa rispondea che non s’era allegata questa eccezione, ma che in ogni modo egli e ’l collegio de’ cardinali, la teneano come futilissima e di niun valore.
    2. Una rimostranza degli arcivescovi, vescovi e altri prelati, de’ maestri de’ Templari, Ospedalieri e altri ordini religiosi militari, de’ conti, visconti, baroni, delle università di città e ville e di tutti i popoli infine de’ reami d’Aragona e Valenza e della contea di Barcellona, indirizzata a papa Onorio IV, e a tutto il collegio de’ cardinali, scritta in carta bombicina, con la nota d’essersi copiata in quatuor foliis papiri, e mandata alla corte romana; negli archivi del reame di Francia J. 588. 27. La nazione Aragonese e Catalana chiedea la rivocazione della concessione, che Martino ingannato avea fatto a favore di Carlo di Valois; e pregava il papa che non la sottomettesse alla dominazione francese, ma lasciasse pacificamente regnare Alfonso. Tolta la rettorica, le ragioni erano: che Giacomo il Conquistatore, con assentimento di Pietro suo figliuolo allora infermo, avea fatto donazione de’ regni al nipote Alfonso: che il dì della coronazione di Pietro in Saragozza, tutti i baroni aveano giurato di ubbidire dopo la sua morte ad Alfonso: che Pietro, secondo gli usi di Spagna, donò inter vivos i suoi stati al figliuolo, e dichiarò che li terrebbe da lui in usufrutto durante la propria vita: che infine li avea lasciato per testamento al medesimo Alfonso: e che tutti questi atti erano antecedenti all’impresa di Sicilia, e a qualsiasi altra offesa che Pietro avesse recato alla santa sede. Sostenuto così il dritto perfetto d’Alfonso, si allega ch’egli non n’era punto decaduto, perchè non avea avuto alcuna parte all’impresa di Sicilia. S’aggiugne che la nazione anche ignorava questa impresa, e di buona fede credea preparato l’armamento contro i nemici del nome cristiano; maxime cum hoc idem Dominus P. (Petrus) aperte diceret se facturus, ac se hoc velle facere ipso facto probaret, dum ad partes Sarracenorum, cum decenti bellatorum societate se contulit, et pro debellandis inimicis fidei, romane Ecclesie auxilium postulavit.
    3. Finalmente si fa parola della donazione ad Alfonso nella bolla di Bonifazio VIII, data il 21 giugno 1295, per la quale furon resi a Giacomo i regni, come li tenea Pietro, antequam Ecclesiam offendisset in aliquo, et de predictis regnis et comitatus in quondam Alphonsum primogenitum ejus, donationem, ut dicitur, contulisset. Raynald, Ann. ecc., 1295.
  12. Surita, Ann. d’Aragona, lib. 4, cap. 19 e 20.
    Per le date ho seguito, ancorchè non contemporaneo, questo autore, che potè correggerle compilando gli annali su i contemporanei e i diplomi.
    • Montaner, cap. 49, 50.
    • D’Esclot, cap. 79, 80.
    • Surita, Ann. d’Aragona, lib. 4, cap. 19 e 20. Almossariffo era il titolo del feudatario, o principe saraceno di Minorca; forse da un vocabolo arabo che suonerebbe in italiano: nobile, esaltato, salito a dignità.
  13. Annali genovesi, in Muratori, R. I. S., tom. VI, pag. 576, e Geste dei conti di Barcellona, cap. 28, loc. cit., i quali ho creduto seguire piuttosto che Neocastro, che porta la partenza di Spagna il 17 maggio, e Villani, lib. 7, cap. 69, il quale seguendo Giachetto Malespini, la differisce infino a luglio.

    All’autorità degli Annali genovesi e del contemporaneo catalano per queste date, aggiungon fede il testè citato diploma del 1 giugno 1282, e il testamento di re Pietro, del quale è una copia tra i Mss. della Biblioteca comunale di Palermo Q. q. G. 1, fog. 119, dato di porto Fangos il 2 giugno.
  14. Gli Annali genovesi, in Muratori, R. I. S., tom. VI, pag. 576, dicono 10,000 fanti, 350 cavalli, 19 galee, 4 navi, ed 8 teride. Saba Malaspina, cont., pag. 364. allegando per questa impresa d’Affrica una relazione presentata al papa, porta 1,400 cavalli, e 8,000 fanti con le picche, oltre i balestrieri. Giovanni Villani, lib. 7, cap. 69, dà a Pietro 50 galee, molti legni di carico, e 800 cavalli. Bartolomeo de Neocastro, ch’è sempre in sull’ingrandire, dice 900 cavalli, 30,000 fanti, 24 galee, 10 navi, e 10 vascelli a remi. D’Esclot 800 cavalli, 15,000 fanti, e 140 vele. Montaner 20,000 fanti, 8,000 balestrieri, oltre i cavalli, e 150 vele. A me è parso tenermi piuttosto agli Annali di Genova, ch’han maggiore autorità, s’accostano a d’Esclot, e portano il numero più credibile.
  15. Il nome di questa terra è storpiato diversamente ne’ diversi ricordi de’ tempi; de’ quali un la dice Ancalle, uno Antola, altri Altoy; i più esatti Alcoyl o Alcolla, che è il giusto nome preceduto dall’articolo arabico al.
    • Saba Malaspina, cont., pag. 361 e 367.
    • Bart. de Neocastro, cap. 17.
    • D’Esclot, cap. 80, 83, 89.
    • Montaner, cap. 51, 53, 55, 85.
    • Saba Malaspina, cont., pag. 375.
    • Montaner, cap. 52.
    • D’Esclot, cap. 84, 85.
    • Geste de’ conti di Barcellona, cap. 28, loc. cit.
    • Diploma di Pier d’Aragona, in Rymer, Atti pubblici d’Inghilterra, tom. II, pag. 208.
    • Surita, lib. 4, cap. 21.
    Il Montaner e il d’Esclot portan come sincera e schietta questa missione al papa.
  16. Saba Malaspina, cont., pag. 376.
  17. Anon. chron. sic., cap. 40.

    Queste sollecitazioni a’ Siciliani sono apposte a Pietro dal Nangis, in Duchesne, Hist. franc. script., tom. V, pag. 539; e sì da papa Martino nel processo, che leggesi appo Raynald, Ann. ecc., 1283, §. 21.
  18. Queste condizioni, taciute dagli altri, e pur necessarie, son riferite dal d’Esclot, cap. 90, 91.
    • Anon. chron. sic., cap. 40.
    • Nic. Speciale, lib. 1, cap. 8 e 9.
    • Saba Malaspina, cont., pag. 373, 374.
    • Ann. genovesi, in Muratori, R. I. S., tom. VI, pag. 576.
    • Pao. di Pietro, in Muratori, R. I. S., tom. XXVI, agg. pag. 37.
    • D’Esclot, cap. 87.
    • Montaner, cap. 54.
    • Giach. Malespini, cap. 212.
    • Gio. Villani, lib. 7, cap. 69.
    • Cron. della cospirazione di Procida, loc. cit., pag. 269.
    Questi tre ultimi, in loro errore, portano Giovanni di Procida ito ambasciador de’ Siciliani a re Pietro.

    Lasciando da parte il Montaner, che nulla dice della deliberazione del parlamento siciliano, e racconta l’ambasciata in modo assai strano, è notevole che il d’Esclot porta espressamente questo parlamento in Palermo nel tempo dell’assedio di Messina, e lo accordo generale nella esaltazione di Pietro, a proposta del capitano del popolo. Non dice la persona, nè indica l’uficio di costui in modo più particolare. Potrebbe indi supporsi che presedesse in quell’incontro al parlamento, il primo de’ capitani del popolo di Palermo, Ruggiero Mastrangelo, che alla esaltazione di re Pietro ebbe, forse in merito di tal servigio, la carica di giustiziere ne’ territori di Geraci, Cefalù, e Termini. Diploma dell’8 febbraio 1283, ne’ Mss. della Bibl. com. di Palermo, Q. q. G. 12.
  19. Cap. 44.
    • Saba Malaspina, cont., pag. 378, 379.
    • Montaner, cap. 56.
    • D’Esclot, cap. 86.
  20. D’Esclot, loc. cit.
  21. Geste de’ conti di Barcellona, cap. 28, loc. cit.

    Montaner, cap. 54 e 57, narra assai goffamente questa ambasceria de’ Siciliani, che fa venir con vele negre alle navi, in vesti negre, e dirottamente piangendo ai piè dello Aragonese, implorarlo con parole di paura e servitù. Non s’addicean certo queste abbiette dimostrazioni ai Siciliani del vespro, venuti ad offrire a Pietro una sovranità assai limitata. In fatti D’Esclot, cap. 88, presenta in ben altre sembianze gli ambasciadori, e riferisce i patti della esaltazione. Le testimonianze degli altri istorici portano anche a questo.
    • Bart. de Neocastro, cap. 23.
    • Nic. Speciale, lib. 1, cap. 12 e 13.
    • Surita lib. 4, cap. 22.
    • Montaner, cap. 57, e d’Esclot, cap. 88, da partigiani del re, tacendo i dispareri, dicon presa la guerra di Sicilia con grande accordo e gioia di tutta l’oste, che fu a un di presso l’esito della faccenda.
  22. D’Esclot, cap. 90.
  23. Docum. VI.
    • Bart. de Neocastro, cap. 23 e 46.
    • Saba Malaspina, cont., pag. 379.
    • Anon. chron. sic., cap. 40.
    • Nic. Speciale, lib. 1, cap. 13.
    • Giachetto Malespini, cap. 212.
    • Gio. Villani, lib. 7, cap. 69.
    • Veggansi anche Montaner, cap. 58, e d’Esclot, cap. 90.
  24. Bart. de Neocastro, cap. 45.
    Nic. Speciale, lib. 1, cap. 13.
    Saba Malaspina, cont., pag. 379.
    D’Esclot, cap. 90 e 91.
    Montaner, cap. 60.
    Gio. Villani, e Giachetto Malespini, loc. cit., Cron. della cospirazione di Procida, pag. 270.
    I particolari non leggonsi tutti a un modo, in ciascuna di queste cronache.
  25. D’Esclot, cap. 91.
    Del parlamento fa cenno il Montaner, cap. 60.
    E più distintamente lo scrittore delle Geste dei conti di Barcellona, le cui parole, cap. 28, loc. cit., son queste: Apud Palermum cum regnicolis omnibus in genere celebre curiam celebravit, in qua omnibus pristinis libertatibus siculis restitutis, ac de thesauro regio muneribus elargitis, etc.
  26. Afferman la coronazione Giachetto Malespini, cap. 212, e Giovanni Villani, lib. 7, cap. 69, che copia il Malespini.

    Montaner, cap. 63, la scrive anche, senza espressare qual vescovo l’avesse fatto.

    Finalmente ne darebbe testimonianza una dipintura a fresco, che sbiadata e guasta si vede tuttavia nel muro a rimpetto il lato occidentale della cattedral di Palermo, in quell’antico edifizio ov’era la cappella di Santa Maria Incoronata, detta così perchè vi s’incoronavano i nostri antichi re. Di questa dipintura e de’ versi che vi sono scritti, fece una descrizione sul cominciamento del secol passato il chiarissimo canonico Mongitore; la quale si legge tra i suoi Mss. nella Biblioteca di Palermo, e io la pubblico al docum. XLV.

    Con tutto ciò ho dubbi validissimi intorno la coronazione di Pietro d’Aragona. E il primo è il silenzio di Niccolò Speciale, Saba Malaspina e Bernardo d’Esclot, che trattan tutti i particolari dell’avvenimento di re Pietro in Palermo; e il d’Esclot, cap. 91, dice del parlamento, e dell’omaggio fatto al re, e del banchetto che seguì; ma non fa parola nè punto nè poco del coronamento, che in que’ tempi, come sa ognuno, era tenuto essenziale e impreteribile.

    Aumentano il sospetto l’Anon. chron. sic., cap. 40, parlando del titolo di re di Sicilia preso da Pietro il 30 agosto 1282, e non già del coronamento; e Bartolomeo de Neocastro, cap. 45, scrivendo che Pietro in Palermo, novi diadematis titulo coronatur; la quale circollocuzione sarebbe assurda per riferire il coronamento, ma è un’ambage non straniera al Neocastro, nel supposto che ci volesse significare come, senza la material cerimonia dell’imposizione del diadema, il re fu abbastanza esaltato con quel titolo che gli dava il voler della nazione.

    La Cronaca siciliana, in Gregorio, Bibl. aragon., tom. I, pag. 270, dice espressamente che, per l’assenza degli arcivescovi di Palermo e Morreale, Pietro non fu coronatu si non chiamatu di lu populu.

    E quanto alla dipintura della cappella di Santa Maria l’Incoronata, oltre che lo stile, per quanto io ne sappia vedere, non è del secolo XIII, e molto meno appartiene a quel tempo la forma de’ caratteri, mi par manifesto che essa sia piuttosto rappresentazione simbolica, che di un fatto vero e reale. Perchè son dipinti nell’alto dell’incoronazione Pietro e Costanza; quando si sa dalla Istoria, che Costanza venne in Sicilia nel 1283, mentre Pietro era in Calabria; e che queste due persone reali non si trovaron giammai insieme in Palermo. Di più, in cima del dipinto si vede l’addogato giallo e rosso di casa d’Aragona inquartato colle aquile sveve, che fu la divisa di Federigo II, re di Sicilia, ma non mai di Pietro suo genitore. Per queste ragioni io credo l’affresco fattura degli ultimi del secol XIV; e che forse si volle con esso figurare il coronamento di Pietro e di Costanza, perchè realmente non era stato giammai, e parea bene riparare questa interruzione e mancanza nella serie dei re legittimi coronati in quella cappella. Certo egli è che questo dipinto, non contemporaneo e con due anacronismi, non è tal monumento da aggiugner fede al fatto taciuto o negato dai cronisti nazionali e dal d’Esclot.

    D’altronde è naturale che Pietro cominciando a camminare con molto riguardo verso la corte di Roma, si rimanesse dall’aizzarla con questa altra cerimonia, che si potea volgere a carico di lui in sacrilegio. E per vero il papa ne’ suoi processi contro Pietro, ricordando di avergli vietato di nominarsi re di Sicilia e di servirsi del suggello reale con tal nome, e accagionandolo fin delle più minute colpe, non toccò mai del coronamento; nè abbiamo memorie di scomunica al vescovo che il coronò, quando ci restano quelle fulminate contro i prelati che fornirono tal cerimonia con Giacomo e Federigo.

    Ognun vede che dopo questa disamina su i contemporanei e i monumenti, non mi trattengo a parlare di ciò che scrivono del coronamento di re Pietro il Surita, il Pirri, il Fazzello, il Maurolico, e gli altri moderni.
  27. Si legge questo documento nell’Anon. chron. sic., cap. 40, e altrove; ed è accennato in Raynald, Ann. ecc. 1282, §. 19.

    Il Pirri, tom. I, pag. 150, non saprei su quale autorità, dice mandata la lettera con Pietro Santafede arcivescovo di Palermo. Per lo contrario io crederei piuttosto che quell’arcivescovo fosse stato tutto di parte angioina. È valido argomento a supporlo dimorante in Napoli in questo tempo, un diploma dato di Napoli a 2 maggio duodecima Ind. (1284), in quel r. archivio, reg. seg. 1288, A, fog. 117, dal quale si vede che tra gli altri danari tolti in prestito dalla corte angioina, v’ebbero once 200 dagli esecutori del testamento venerabilis patris quondam Petri Panormitani archiepiscopi.
  28. Saba Malaspina, cont., pag. 379.
  29. D’Esclot, cap. 91.

    Montaner, cap. 64, dicon ciò; il primo de’ Palermitani, il secondo de’ Messinesi.
  30. Nic. Speciale, lib. 1, cap. 16.
  31. Montaner, cap. 62.

    D’Esclot, cap. 92, dice data la posta a Randazzo.
    • Nic. Speciale, lib. 1, cap. 16 e 17.
    • Bart. de Neocastro, cap. 45.
    • Anon. chron. sic., cap. 41.
    • Saba Malaspina, cont., pag. 379.
    • D’Esclot, cap. 92.
    • Montaner, cap. 61 e 63.
    • Giachetto Malespini, cap. 212.
    • Gio. Villani, lib. 7, cap. 70.
    • Cron. della cospirazione di Procida, pag. 271.
    Ho scritto secondo il d’Esclot i nomi degli ambasciadori, de’ quali alcuno è diverso in altri autori de’ citati di sopra.
    Il consiglio di affamar Carlo mandando la flotta aragonese, è dato a Giovanni di Procida dal Malespini, dal Villani, e dalla Cronaca della cospirazione.
  32. D’Esclot, cap. 92.

    Bart. de Neocastro, cap. 45.
  33. Bart. de Neocastro, ibid.

    Saba Malaspina, cont., pag. 380.
  34. D’Esclot, loc. cit., descrive l’albergo dato in una chiesa, senza letti, nè coltri, se non che trovaron fieno a ufo; e la imbandigione di sei pani bruni, due fiaschi di vino, due maiali arrosto, e un caldaio di minestra.
  35. Questa prima ambasceria è rapportata dagli scrittori contemporanei in vario modo, ma tutti tornano a questo: che stando Carlo d’Angiò all’assedio di Messina, Pier d’Aragona, già salutato in Palermo re di Sicilia, mandava a ingiungerli che subito si partisse dall’isola; e Carlo fremente per dispetto, ritorcea su lui questa intimazione con molte minacce.

    Niccolò Speciale, lib. 1, cap. 17, Bartolomeo de Neocastro, cap. 45 e 49, Montaner, cap. 61, Bernardo d’Esclot, cap. 92 e 93, dicon di sola ambasciata, senza riferire le lettere. Secondo essi la somma delle ragioni di Pietro era: il dritto della moglie e de’ figli, e la elezione de’ Siciliani; onde a lui appartenendo il reame, facea avvertito Carlo a sgombrarlo, e levarsi dalle offese di Messina. Poco scrivon della risposta di Carlo; forse non amando a ripetere ingiurie contro il re di Aragona.

    Saba Malaspina, cont., pag. 379 a 381, porta una epistola, ch’ei dice breve e non è. Al magnifico uomo Carlo re di Gerusalemme e conte di Provenza, Pietro d’Aragona e di Sicilia re. Trovandone in Barbaria a guerreggiar contro infedeli, vennero oratori di Sicilia ad esporre la tirannide che li opprimea. Perchè questo reame appartiene alla consorte e a’ figli nostri, non potemmo ricusare il nostro aiuto alla Sicilia. Qui saputo l’assedio di Messina, mandiamo a richiedervi che lo sciogliate; e, indugiando, muoveremo con le nostre forze. Questo è il compendio dell’epistola. Somiglianti parole mettonsi in bocca agli ambasciadori. Carlo risponde loro a voce: maravigliarsi della non provocata offesa del re d’Aragona; a sè appartenere il reame per concession della Chiesa; Pietro usurpane il titolo per false ragioni; ma troppo ei si affida in sè e in sua gente, se viene in arme contro a noi. Mostreremgli adesso com’ei s’è gittato a impresa da stolto.

    Nella cronaca del monastero di San Bertino, Martene e Durand, Thes. Nov. Anec., tom. III, pag. 763, a un di presso è riportata nell’istessa guisa la lettera di Pietro; se non che s’aggiugne la circostanza, che a lui guerreggiante in Barberia, la corte romana negò ogni aiuto; sulla qual ragione, come si ritrae da diverse memorie, egli facea molto assegnamento. La risposta di re Carlo fu aspra e villana; e conchiudea, che se Pietro avesse voluto conservare ombra di riputazione, non avrebbe dovuto cacciar fuori il capo dalla sua spelonca. Vedrebbesi al fatto, se questo giovane sarebbe tanto audace da sostener i prodi Francesi pronti a combatterlo.

    In sensi non molto diversi, ma in tenore più breve, si leggono le due epistole nella Cronica di Rouen, presso Labbe, Bibl. manuscripta, tom. I, p. 380.

    Nell’Anon. chron. sic., cap. 40, si legge al contrario una epistola di Carlo a Piero, e la risposta: lunghe oltremodo, intessute di frasi bibliche, e di ingiurie, tra le quali nuotano le reciproche ragioni, che sono a un di presso quelle accennate dianzi. Le stesse due epistole son trascritte da Francesco Pipino nella sua Cronaca, lib. 3, cap. 15 e 16, in Muratori, R. I. S., tom. IX.

    Ma in Giachetto Malespini, cap. 212, Giovanni Villani, lib.7, cap. 71 e 73, e nella Cronica della cospirazione di Procida, pag. 271 e 272, trovansi in forma assai diversa le due lettere: intorno le quali poco io m’affaticherei, per la poca fede che do a quegli scrittori, se non fosse che leggonsi con alcune varianti nella raccolta degli atti pubblici d’Inghilterra per Rymer, tom. II, pag. 225, senza data.

    La lezione del Rymer è questa; nella quale noterò le varianti del Malespini e del Villani, e quelle della Cronica siciliana che non si limitino alla diversità del dialetto:
    Piero d’Araona e di Cicilia re (Piero di Raona re di Cicilia--_Malespini_), a te Carlo re di Jerusalem et di Proenza conte.
    Significando (Significhiamo--_Malesp. Villani_) a te il nostro advenimento nell’isola de Cicilia sì come nostro giudicato a me per autorità di Santa Chiesa e di messer lo papa (papa Niccolaio e dei suoi frati cardinali--_Malesp._ e di lu santu apostolicu papa Nicola terzu--_Cron. sic. della cospirazione_) et de’ venerabili Cardinali;
    Et poi (però--_Malesp. Villani_) comandiamo a te che veduta questa lettera ti debbi levare dall’isola con tutto tuo podere et gente:
    Sappiendo che se nol facesti (altramente--_Malesp._) i nostri cavalieri et fideli vedresti di presente in tuo dannaggio offendendo la tua persona e la tua gente.
    Carolo per la Dio gratia di Jerusalem et di Cicilia re prence di Capoa, d’Angiò et di Folcachier et di Proenza conte, a te Piero d’Araona re et (conti di Barcellona--_Cron. sic._) di Valenza conte.
    Maravigliamoci molto come fosti ardito di venire in sul reame di Cicilia giudicato nostro per autorità di Santa Chiesa Romana;
    Et però ti comandiamo (e perzò ti cummannamu per l’autorità di nostru cummannamentu chi immantinenti viduti, _Cron. sic._) che veduta nostra lettera ti debbi partire dal reame nostro di Cicilia sì come malvagio traditore (tradituri o di presenti vidirriti lu meu adventu e di li nostri cavaleri li quali disianu trovarsi cu la tua genti--_Cron. sic._) di Dio et Santa Chiesa Romana:
    Et se nol facessi (E se ciò non farai ti disfidiamo, e di presente ci vedrete in vostro dannagio--_Malesp._) diffidiamti come nostro inimico et traditore; et di presente ci vedrete venire in vostro dannaggio però che molto desideriamo di vedere (voi e la vostra gente--_Villani_) noi et la nostra gente con le forze nostre.
    Or sulla prima di queste epistole è da notare che Pietro allega la sola fallace e ignota ragione della concessione di papa Niccolò terzo, non accennata da lui nel manifesto scritto d’Affrica a Eduardo, docum. VIII, nè ricordata da alcun documento, o memoria degna di fede; e che per lo contrario tace le buone e solide ragioni del dritto della regina Costanza, e della elezione dei Siciliani, e l’altra, ch’ei tanto metteva innanzi, dei denegati aiuti del papa contro gl’infedeli; le quali ragioni leggonsi nel detto manifesto, in Saba Malaspina, nella Cron. di S. Bert., e negli istorici siciliani e catalani più informati del linguaggio della corte aragonese in quest’incontro. Questa circostanza sola basta a mostrare apocrifa la lettera. È impossibile che Pietro passando sotto silenzio i veri suoi dritti si fondasse tutto in su quella vaga asserzione; e ciò contro il detto ai potentati d’Europa; e ciò nel primo atto in buona forma ch’ei mandava allo usurpatore; e ciò mentre papa Martino solennemente favoreggiava e sostenea costui, onde sarebbe tornata vana qualunque anteriore concessione di Niccolò III. Aggiungasi che se fosse stata vera questa lettera di Pietro, la corte di Roma non avrebbe lasciato di smentirlo; e che egli all’incontro, quando fu deposto dal reame d’Aragona appunto pel fatto di Sicilia, avrebbe protestato di certo, pubblicando la concessione di Niccolò III.

    Tradiscon di più la risposta di re Carlo, quelle parole «malvagio traditore di Dio,» nostro inimico e traditore. Si ponga mente in prima, che nei diplomi autentici del duello dei due re, questi gravi sfregi non si leggono, ma che Piero fosse entrato nel regno di Sicilia contro ragione e in mal modo. E quando, fallito il duello, Carlo rinfacciava al nimico le ingozzate offese (diploma in Muratori, Ant. ital., tom. III, Dissertazione 39), faceasi con molta cura a spiegare, che per quelle parole «contro ragione e in mal modo» avesse voluto significare, il più cortesemente che si poteva in carteggio di re, l’accusa di traditore; che Pietro d’altronde avea compreso benissimo, e dettolo agli araldi che gli portaron la sfida. Egli è evidente che re Carlo, se avea già scritto letteralmente «malvagio traditore» in quella prima epistola, ricordava adesso queste parole, e non silloggizzava di averle adombrato in quel composto e misurato linguaggio.

    A ciò s’aggiunga, che le due epistole son rese d’altronde sospette dalle varianti tra i testi di Rymer, Malespini, Villani, e della Cronica della cospirazione; e che a stento crederebbesi che due principi, l’uno francese, l’altro catalano, le scrivessero in volgare d’Italia; quando il carteggio tra’ grandi, e gli atti pubblici dettavansi di quel tempo in latino, e si sa essere stati scritti in latino appunto e in francese i diplomi ne’ quali fermossi poscia il duello. Per queste ragioni le tengo apocrife, come giudicarono il Raynald, Ann. ecc., 1283, §. 5, e il Muratori, Ann. d’Italia, 1282, che le disse fatture de’ novellisti d’allora; l’uno e l’altro anche senza avere per le mani il manifesto di Pietro, nè la continuazione dell’istoria di Saba Malaspina. Nè importa che trovinsi nella collezione degli atti pubblici d’Inghilterra, quando nè erano scritte da quella corte, nè ad essa drizzate; onde ben potè avvenire, che per via degli ambasciadori mandati poi da Eduardo ai due re, o altrimenti, fosser capitate a corte d’Inghilterra le copie che giravano per l’Italia di que’ supposti diplomi, ne’ quali chiara si scorge l’impronta di mano guelfa.

    Io penso che, se lettere si scrissero in quell’incontro, fossero ne’ sensi riferiti da Saba Malaspina e dalla Cron. di S. Bert., che più si avvicinino a que’ degli altri contemporanei, e ben ritraggono del manifesto di re Pietro ad Eduardo d’Inghilterra più volte ricordato di sopra.

    Nei particolari dell’ambasceria di Pietro a Carlo ho seguito a preferenza il d’Esclot, che vien raccontandoli assai minutamente, in guisa da mostrarsene informato da vicino.
  36. D’Esclot, cap. 93.

    Bart. de Neocastro, cap. 45 e 50.
  37. Nic. Speciale, lib. 1, cap. 17.

    Montaner, cap. 62, il quale dice mandati in Messina dal re 2,000 almugaveri. Di questa milizia farem parola nel cap. IX.
  38. Gio. Villani, lib. 7, cap. 74, seguendo Giachetto Malespini, cap. 212, e portando com’esso il numero delle galee siciliane e aragonesi a sessanta. Questo è manifestamente esagerato secondo gli umori guelfi di que’ cronisti; perchè si vedrà nel capitolo seguente come Pietro, dopo ch’ebbe armato le galee di Messina, non potè mettere in mare che cinquantadue galee.

    Cron. della cospirazione di Procida, pag. 272, 273, con l’errore, che Loria fosse l’ammiraglio aragonese, e che Arrighino mostrasse non aver tanti legni da fronteggiare il nemico. Egli avrebbe detto una evidente bugia, essendo di gran lunga più forte l’armata di re Carlo, come si ritrae bene dal capitolo seguente.
    • Saba Malaspina. cont., pag. 381 a 383.
    • Bart. de Neocastro, cap. 46.
    • Gio. Villani, lib. 7, cap. 75.
    • Cron. della cospirazione di Procida, pag. 273.
    • Fra Tolomeo da Lucca, Hist. ecc., lib. 24, cap. 6, in Muratori, R. I. S, tom. XI, pag. 1188.
    • Vita di Martino IV, in Muratori, R. I. S., tom. III, parte 1, pag. 608.
    • Il d’Esclot, cap. 93 e 94, accenna solo questo consiglio. Il Montaner, cap. 65 e 66, dice anco del timore di movimenti in Calabria, e forse nello stesso esercito angioino.
  39. Bart. de Neocastro, cap. 49.
  40. Bart. de Neocastro, cap. 47, 48.
  41. Bart. de Neocastro, cap. 49.
    • Bart. de Neocastro, cap. 50.
    • Nic. Speciale, lib. 1, cap. 14.
    Questi porta la fazione dell’arcivescovado pria dell’assalto generale; ma m’è paruto seguir piuttosto il Neocastro, che in ciò non avrebbe ragione ad alterare il vero.
    • Il Montaner, cap. 64, dice d’una sortita gloriosa degli almugaveri mandati dal re. Forse fu questa; ed ei tace la virtù de’ Messinesi, come il Neocastro quella degli ausiliari.
  42. Le date del Neocastro si riscontran perfettamente con quella che si scorge da un diploma del 29 settembre 1282 (Docum. IX), dove Carlo attesta essersi ritirato da Messina il 26 settembre.
    • Bart. de Neocastro, cap. 50.
    • Nic. Speciale, lib. 1, cap. 17.
    • Anon. chron. sic., cap. 41.
    • Saba Malaspina, cont., pag. 383, 384.
    • D’Esclot, cap. 94.
    • Montaner, cap. 65, 66.
    • Pao. di Pietro, in Muratori, R. I. S. Agg., tom. XXVI, pag. 8.
    • Giachetto Malespini, cap. 212.
    • Gio. Villani. lib. 7, cap. 75.
    • Cron. della cospirazione di Procida, pag. 273.
    Questi due ultimi dicon lasciato da Carlo un grosso di genti in agguato per ferir ne’ Messinesi che uscisser sicuri; di che essi accorgendosi, bandian pena del capo a chi andasse fuori della città. Il tacciono gli altri; anzi Malaspina, d’Esclot e Montaner dicono degli assalti dati alla coda dell’esercito che ripassava il mare; e ’l Neocastro aggiugne, che facean battere i contorni temendo appunto quell’insidia, ma non trovavano alcuno.
    I particolari della ritirata non son tutti rapportati da tutti questi scrittori.
  43. Gio. Villani, lib. 7, cap. 64.
  44. Nic. Speciale, lib. 1, cap. 15.
  45. Bart. de Neocastro, cap 50.
  46. Montaner, cap. 43, dice che Messina non era allor murata; e si vede anche dagli altri fatti riferiti da noi al principio del cap. VII.
  47. Veggasi il giudizio delle operazioni militari di re Carlo, che fa Montaner a cap. 66 e 71, che io non ho seguito del tutto, perchè ridonda di preoccupazioni nazionali. Nondimeno è da attendere alla conchiusione del Montaner, che Carlo si portò con molta saviezza, nè potea fare altrimenti. Montaner era condottiero sperimentato; e la sua cronaca è piena di precetti militari, com’io credo, non ispregevoli.

Note

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