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Questo testo fa parte della raccolta Sonetti romaneschi/Sonetti del 1834
LA LEZZIONE DER PADRONCINO
Mó hanno messo er più fijjo granniscello1
A la lingua itajjana. Oh ddi’, Bbastiano,
Si2 nun ze chiama avé pperzo er cervello
D’imparà l’itajjano a un itajjano.
Lo sento sempre co’ un libbraccio in mano
Dì: er fraggello, ar fraggello, cór fraggello,
Der zovrano, er zovrano, dar zovrano:
E ’ggnisempre3 sta storia, poverello!
Sarà una bella cosa, e cquer che vvòi;
Ma a mmé me pare a mmé cche ste parole
Sò cquell’istesse che ddiscémo4 noi.
Si ffussino indiffiscile5 uguarmente
Come che ll’antri6 studi de le scòle,
Io nu ne capirebbe7 un accidente.8
8 aprile 1834
- ↑ Il figlio più grandicello.
- ↑ Se.
- ↑ Ogni sempre: sempre.
- ↑ Diciamo.
- ↑ Se fossero difficili. E qui notisi che nomi femminili che nel singolare escono in e, ritengono la medesima desinenza nel plurale, quasi che la naturale ideologia de’ Romaneschi temesse di cambiar sesso alle cose, dove accettasse la desinenza in i.
- ↑ Gli altri.
- ↑ Capirei.
- ↑ Un accidente: equivale a “nulla.„
Note
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