< La maestrina degli operai
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XXI XXIII


XXII.


La Varetti non s’era mai risentita così vicina come quella sera al terrore che l’aveva messa a rischio di morire nella sua fanciullezza, quando era stata spettatrice di quella rissa sanguinosa degli operai minatori. Essa aveva sentito passar nell’aria il soffio d’un delitto. E le durò per tutta la notte un ribrezzo, un affanno angoscioso, che accumulò nei suoi sogni tutte le più spaventevoli immagini che l’avevano oppressa nel corso della vita, e si svegliò accasciata, piena di neri presentimenti, cercando ansiosamente, senza trovarlo, un mezzo d’impedire quello che stava per accadere. Tirò un gran respiro di consolazione vedendo apparir sull’uscio la maestra Mazzara.

Essa veniva così entusiasmata dei propri disegni che dimenticò lì per lì di chieder notizie della scuola serale e di Saltafinestra, ch’era ciò che l’aveva spinta fin là, nonostante il freddo intenso e la nebbia. Voleva far scrivere alla Baroffi un articolo sul cattivo nutrimento dei bambini degli Asili, dove si faceva un abuso di fagioli intollerabile; stava cercando aderenti per invocare una riforma dell’insegnamento del canto nelle scuole elementari, dove, con la illusione che i ragazzi imparassero la musica, li ammaestravano faticosamente a cantar dei cori senza ispirazione e senza vita, delle nenie funebri, che addormentavano cantori e uditori; voleva promuovere una sottoscrizione per fare un dono d’onore a una maestra cieca, bellissima, dell’Istituto d’Azeglio, un angelo di grazia e di bontà.... Infine, quando si fu sfogata, interrogò e stette a sentire con grande attenzione l’amica, che le disse minutamente tutto quello che era accaduto e che essa temeva.

Ma, ahimè! fosse per una cattiva disposizione segreta di lei, o per la natura pericolosa dell’argomento, la conversazione doveva durar poco e finir male.

Quand’ebbe inteso tutto, ella mise

fuori un consiglio, che la Varetti sospettò fosse preparato, da tanto che le venne pronto. — Mia cara — le disse, in tuono di sorella maggiore — il mio parere è questo: che la cosa si deve far finire a ogni costo, e che il farla finita sta in te. Tu non devi permettere che si commetta un delitto per causa tua. E c’è un mezzo solo. Tu devi valerti dell’“ascendente„ che hai su di lui, pigliarlo in disparte e ordinargli ri-so-lu-tamente di desistere da qualunque reazione o provocazione, di fare sacrifizio del suo orgoglio, di cedere e di rassegnarsi, per l’interesse tuo. In questo modo non accadrà nulla ed egli si muterà. Se gliel’ordini tu, t’obbedirà. Non c’è altra via. Tu lo devi far per coscienza. Questo è il mio sentimento.

— Ma perchè credi che m’obbedirà? — domandò la Varetti, non comprendendo ancora il suo pensiero.

La Mazzara esitò. Poi rispose con franchezza: — Sta a te farlo obbedire, alla fin dei conti.

— Oh mia cara! — esclamò l’amica con un sorriso altero, levandosi in piedi — per evitare una disgrazia son disposta a fare qualunque sacrifizio, fuor che quello d’avvilirmi.

La Mazzara fu punta, e sentì il suo sangue popolano rimescolarsi, pensando che la Varetti avrebbe dato la stessa risposta anche per uno dei suoi fratelli. E, frenando il dispetto, rispose con uri sorriso forzato: — Pregiudizi sociali.

— Pregiudizi sociali? — ribattè l’altra con vivacità. — Ma sono i pregiudizi della dignità e dell’onore! Arrossirei davanti al ritratto di mio padre se mi venisse solo il pensiero di mancarvi.

— Oh Dio mio! — esclamò la Mazzara, fremendo senza farsi scorgere. — Gli uomini di tutte le classi sociali si valgono, salvo che i loro vizi e le loro colpe hanno un diverso colore: i signori bevon del vino più fino, frequentano delle male donne meglio vestite, e danno dei colpi di sciabola invece che dei colpi di coltello.

La Varetti frenò un impeto d’indignazione, e le disse con alterezza: — Tu non sei in te. Mio padre s’è battuto in duello, e tu lo metteresti a paro con gli accoltellatori delle taverne?... E un obbrobrio!

— Un obbrobrio? ... — rispose quella, con la voce soffocata dalla collera — un obbrobrio?... Ebbene, io ti dico che mi vanto d’esser figliuola del popolo, che sono altera della mia famiglia, e che disprezzo i fumi dell’aristocrazia e non so che farmi delle amiche aristocratiche!

E detto questo, con le lacrime agli occhi, uscì a grandi passi. La Varetti le corse dietro, chiamandola per nome, pregandola di rientrare. Ma quella si voltò irritata, e le rispose: — Verrò un’altra volta: oggi non è aria! — E disparve.

La ragazza si lasciò andare sopra una seggiola, profondamente scoraggita. Anche la sua amica l’abbandonava quel giorno in cui aveva tanto bisogno di distrazione e di conforto. Non potendo regger sola, andò a cercar la compagnia della maestra Baroffi. La trovò a tavolino coi capelli scomposti, col suo largo viso scialbo di vecchia attrice, curva sopra una diecina di quaderni aperti, dov’ella trascriveva frasi e sentenze di letterati, di giornalisti e di conferenzieri, le quali, dopo un mese di stagionatura nel suo magazzino, diventavan sue, e le teneva così coscienziosamente per sue che, se le avveniva di rileggerle altrove, le credeva roba rubata a lei. La Varetti le disse le sue tristezze e le sue paure. — Ah benedetta creatura — le rispose quella con la voce grossa ed enfatica — che t’ostini a non darmi retta! Ma parla dunque, commovili. Leggi loro qualche bel brano commovente del Thouar o del Lambruschini, e te li vedrai mutare sott’occhio da così a così! Ah se ci fossi io! — Ma non ostante la tristezza della sua amica, non si trattenne in quel discorso. Era tutta eccitata dalla descrizione d’una solennità seguita all’Università di Londra, dove, nell’aula magna, in presenza del cancelliere, di tutto il corpo dei professori e d’una gran folla di studenti e d’altri cittadini, una giovine signora era stata insignita del grado di dottore in scienze. Quello sarebbe stato il sogno supremo della sua ambizione. — Figurati, mia cara — esclamò con entusiasmo — quella bella signora con l’assisa rossa e dorata di dottore, in quel luogo, davanti a tutta quella gente, in mezzo a quegli applausi, e Londra intera che ne parla! Io vorrei aver quella gloria e morire un’ora dopo!

La Varetti la lasciò ai suoi sogni, più triste di prima, e andò a cercare la Latti. La trovò che scriveva, davanti a una specie di altarino di ampolle e di scatolette di spezieria, e le cadevan le lacrime sul foglio. Essa non fece misteri. Sentiva da due giorni dei sintomi così sicuri della sua fine che s’era decisa a scrivere le sue disposizioni testamentarie. La Varetti sorrise allora per la prima volta nella giornata. Ma se il testamento era comico, la testatrice era spaventata e afflitta davvero, e la sua compagnia non le poteva giovare. Essa la lasciò e tornò nella propria camera, a contare il tempo quarto d’ora per quarto d’ora, ai rintocchi dell’orologio della chiesa.

Si riscosse verso le quattro e andò dal maestro Garallo per esporgli lo stato delle cose e domandargli se non credesse opportuno d’avvertire i carabinieri che passassero anche quella sera davanti alla scuola. Lo trovò che trincava tutto solo, un po’ eccitato, forse meno dal vino che da qualche buona notizia finanziaria del mondo scolastico. Egli non si mostrò del suo avviso.

Se noi — disse — diamo alla scolaresca l’abitudine di vedere i reali carabinieri alla porta, faremo indubbiamente seguire un disordine la prima volta che non verranno. E poi ne andrebbe del prestigio della scuola. Non bisogna mostrar diffidenza del popolo.

Però, non disconosceva la gravità

delle cose. E dopo cinque minuti d’incertezza, prese una risoluzione eroica.

— Questa sera — disse alzandosi, e piantandosi l’indice al petto — comparirò io.

E la maestra se n’andò, alquanto riconfortata.


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