< La palermitana < Libro primo
Questo testo è incompleto.
Libro primo - Canto II
Libro primo - Canto I Libro primo - Canto III

CANTO II

Peregrinaggio dell’autore — Palermo pastore — Narrazione

Giá l’orizzonte ardea verso ponente,
ove il maggior pianeta i crini accolse,
chiudendo il giorno all’affannata gente.
Io, stanco peregrin, come Dio vòlse,
5tolto d’Egitto venni a Palestina,
quando il ver lume agli occhi miei si sciolse.
Era quella stagion che in fredda brina
vedesi il verde e i fior voltati in ghiaccio,
biancheggiar l’Alpe e fremer la marina;
10quand’io dall’alto Libano m’affaccio
sopra una lunga e spaziosa valle,
che tra piú rivi ha il bel Giordano in braccio.
Laggiú m’invio per tortuoso calle,
ove piú mandre di pastori trovo,
15ché queti stanno ne’ loro antri e stalle.
Chiamo di fuor, né piú oltre il passo muovo,
si per l’aspro abbaiar d’audaci cani,
si per lo loco a me sospetto e nuovo.
Ma quei, non men cortesi, dolci, umani
20di quanto esser dovrian chi in bei palagi
e corti stan con le guantate mani,
nelle lor basse case ed umil’agi
m’accolser via piú fidi che sian entro
le clamose cittá tetti malvagi.
25Di così orrevol’ospili sott’entro
una di piú capanne, ove la mensa
delle vivande lor giacea nel centro.
Oh viva pace, o fedeltade immensa,
oh vita fra’ mortai piú che felice
30ove senz’astio il tempo si dispensa!

D’una squilletta, posta a la pendice,
del vicin monte, liscia piacevol suono,
eh’esser la cena in pronto al volgo dice.
Vengon da varie imprese quanti sono,
35e, postisi a seder, tenean quel modo
che tien de’ frati l’ordin raro e buono.
Strepito alcun soverchio ivi non odo:
taciti a capo chin s’assidon lutti,
ch’io rimembrando ancor m’allegro e godo.
40Cibi di latte e riserbati frutti,
come ghiande, castagne, fichi e pome,
dall’onesto desio si fur destrutti.
Un padre lor dalle canute chiome
dell’ordine tien cura e della pace:
45il liberal Palermo fu il suo nome.
A lui quell’ampia valle sotto giace:
uomo severo, accorto, antiveduto,
a cui qual peste ogni atto rio dispiace:
era nell’ardue cose resoluto;
50trattava il servo a paro col figliuolo,
via piú da tutti amato che temuto.
Mentre fra tanta pace io mi consolo,
levaronsi le mense a un cenno d’occhio;
tutti van fuora, ed io rimango solo.
55Sol io con un stecchetto di finocchio
mi bevo il dente, e pien di meraviglia,
se alcun rientri a me, sovente adocchio.
Alfin quel padre antico di famiglia
poi lunga pezza in lieto volto riede
60e con atto gentile a man mi piglia.
— Peregrin — disse, — da pensar vi diede
di questi miei la subita partenza,
qual sia l’albergo dei pastori e fede.
Ci avete a perdonar, se all’accoglienza
65prima aveste vivande rusticane:
siam delle urbane e delicate senza.

Sappiate poi che fino alla dimane
vegghiar dobbiamo in questa sacra notte,
come fu vecchia usanza e pur rimane. —
Parmi che le piú gravi teste e dotte
di questi padri ebrei nel tempo antico
si furo un giorno insieme ricondotte.
D’Abram, Isaac, Iacob e del pudico
loseppe ragionando, alfin si venne
agli atti del gran Mòse, di Dio amico:
come d’un popol rio sempr’ei sostenne
l’empia durezza e con fiammati prieghi
al meritato strazio lor sovvenne.
Ma non fia mai che facilmente pieghi
l’indurato pensier chi mal s’avvezza,
né vuol d’un laccio tal eh’alcun lo sleghi.
Però chi Dio superbamente sprezza
sprezzato e risospinto vien da Lui,
e tratto al fondo il collo vi si spezza.
Or un tra loro agli altri disse: — Nui,
popol eletto, non piú eletti siamo,
stretti per boria nostra in pugno altrui!
Giustizia vuol che noi, del fido Abramo
perfidi figli, a Dio rubelli, ingrati
di mal in peggio sempre piú n’andiamo:
servi d’Egitto prima siamo stati,
di Babilonia poi molt’anni e molti;
or piú che mai ci tien Roma legati.
Pur hanno ad esser liberati e sciolti
non piú gli ebrei che gli universi vivi,
or vivi in carne, in spirito sepolti.
Dicono i santi oracoli che privi
del ciel morimo ed all’inferno vassi
da che il prim’uom di morte aperse i rivi.
Però giú d’alto in questi luoghi bassi
vien esso Dio, non angel manda od uomo;
e muover fia veduto in carne i passi.

Sciorrá le colpe in sé del fatai pomo,
morrá con morte, ma sol Egli surto
105su fará un salto, e giú Pluton un tomo.
Si che pensar dobbiamo in tempo curto
esso venir, ma occulto, com’è scritto,
in guisa d’alcun ladro intento al furto.
Verrá non in Fenicia ovver Egitto;
no non in la gran cittá Gerusalemme
né a Roma il Re del ciel fará tragitto.
Nel borgo sol dell’umile Betlemme
povero nasce, non qual duca o donno
nelle superbe cune in oro e gemme. —
115Cosi quel savio disse: e scosse il sonno
degli altrui sensi foschi per costume,
c’han gli occhi si, ma ben veder non ponno.
Noi dunque in questa notte, lungo al fiume,
solemo in un capace ed ampio loco
120tener degli occhi nostri aperto il lume.
Di palme ed odorati cedri foco
árdevi sempre, e intorno ancor piú d’uno
doppierò avvampa e allumavi non poco.
Qui di pastori un popol grande aduno
125di quanto Palestina abbraccia e cinge,
e di Sidonia, Egitto, Arabia alcuno.
Ivi qualch’atto di virtú si finge,
non come s’ha del favoloso greco
che di menzogne il primo grado attinge.
130Di che, piacendo a voi, verrete meco
a cosa contemplar, eh’è di ver piena
e che piacere ed ut il porta seco. —
Parlò cosi Palermo. Ed io, che appena
lasciai ch’egli finisse, al grato invito
135andai con esso a man ove la scena
e pastoral teatro era sul lito.

Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.