< La palermitana < Libro secondo
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Libro secondo - Canto II
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CANTO II

Parlamento del Fanciullo alla malvagia Babilonia.
Cosa d’alto stupori un molle infante,
nasciuto di tre di, non atto ancora
dir «tata» e «mamma» e starsi sulle piante,
ecco si scuote dalle fasce fuora,
5cavalca l’asinelio, e a gran giornate
va pel deserto e mai non si dimora.
Giunge alla gran cittá fra Tigri e Eufrate,
c’ha colmo il sacco e tien le sante chiavi;
io cércavi piazze, colli e lunghe strate.
Concorron tutti, avvenga ch’abbian travi
grossi negli occhi, a quel Fanciul mirare;
ma raro è chi d’un stecco tal si sgravi.
Esso qui trova dilargarsi un mare
15d’alte delicie, ma di scogli pieno,
sopra il cui lido cominciò a gridare:
— Io mai non scesi dal mio ciel sereno
qui ad esser uomo e, di monarca tanto,
nascer in grembo a povertá sul feno,
20perché, Babel, tu, scelta al maggior manto,
al maggior scanno d’Aròn e di Mòse,
Sodoma fossi (e avesti nome santo!);
non perché, tolta dalle mamme untose
di lupa ingorda e al sommo grado assunta,
25non t’acchinassi meco a basse cose.
S’io, delle grandi essendo colmo e punta,
or son pivi basso di bassezza e vermo,
acciò stii meco del tuo error compunta,
perché va pur deliberato e fermo
30il tuo voler ov’io non voglio, al grado
dal qual trabocchi e caggia senza schermo?

Ijc cose mie non ostro, non zendado,
non gonfie toghe son, non lunghe caude,
non cortigiani avvezzi al paggio, al dado.
Le cose mie non sono in bocca laude
ed inni al Padre mio, nel cuor biastemme,
odiar il vero, amar chi falso applaude.
Le cose mie non son l’oro e le gemme,
non elevate stanze in su colonne,
tolte dal mondo all’ultime maremme.
Le cose mie non son porporee gonne
e trasparenti sotto a bianchi lini,
non cani, augei, non mule, paggi e donne.
Le cose mie non son confetti e vini,
recati d’alto mare alla tua gola,
non perle in oro, argenti e vetri fini.
Le cose mie non sono aver la scola
de’ dotti a mensa, acciò ch’ipocrisia
vergine appaia in candidetta stola.
Le cose mie non sono simonia,
non avarizia ed inconcessi acquisti
per far grandezza e gire a tirannia.
Vien’, cittá santa, vieni; e quegli Egisti,
quei tuoi Sardanapali e Deci lascia,
quei scribi e farisei, quegli anticristi.
Vieni a veder se Chi d’un’ampia fascia
stellata cinge il globo della terra
fígliuol s’è fatto d’uom che vive all’ascia.
Vieni a veder Chi il mar e i fiumi serra,
l’un d’ampi lidi, gli altri d’alte prode,
se freddo, fame e inopia gli fan guerra.
Vieni a veder Chi le montagne sode
muove dal fondo, le urta e fa cadere,
s’or sul fien fra duo bruti per te gode.
Vieni a veder Chi pesci al mar, Chi fiere
die’ a’ boschi, augelli all’aria, al ciel le stelle,
s’ha contro il tempo donde aiuto spere.
Foi-KNGO, Opere italiane - in.

Vieni a veder Chi stipa d’ombre felle
il cavo centro, e d’indi giá ti scosse,
s’hai qui con teco, pessima Babelle.
70Credi aver fatto assai, perché riscosse
hai tu di sotto terra e poste a luce
in piú d’un tempio de’ miei santi Tosse?
perché nei di solenni miei riluce
la ròcca tua di fiamme, zolfi e bombi,
75e il volgo i baccanali circonduce?
perché per lor s’imprimon cere e piombi,
mandando l’alme al ciel, senza ch’uom pravo
pianga in cilicio e stringa in ferro i lombi?
Ed io ti dico che le man mi lavo
80di queste cosi fatte tue festacce,
eh’è un gran casson, ma dentro bugio e cavo.
Anzi, se vuoi ch’io caramente abbracce
verun piacer di te, fa’, mentre dormo
nel feno mio, che il sonno non mi scacce.
85Con quelle trombe tue, con quel tuo stormo
di cantator, con corna e con richiami
di cacce ed uccellar non mi conformo.
M’introni il capo, dico, ed i legami
del sonno rompo al grido d’ubbriachi
90Sdegno tai cose; lasciale, se m’ami!
Ver è, s’a riconoscer prendi e vachi,
e vedi te non fra grandezze e pompe,
ma tigri a’ fianchi aver, leoni e drachi,
io ti so dir che il marmo ti si rompe
95del cuor e il grosso tronco c’hai negli occhi,
e fuor di quei lo tuo Eufrate erompe.
Oh dolce suon, se queste corde tocchi,
e musica gentile alle mie orecchie!
e certo strai, se cosi l’arco scocchi!
100Vòltati un poco a ripensar le vecchie
e sante prove dell’antica Roma:
felice ogni cittá, eh’in lei si specchie!

Come fu pronta mietersi la chioma,
nudar i piedi, e in sacco ed in cilicio
105tór della croce l’onorata soma!
Quanto per me sudor, quanto supplicio
sempre fedel portò, constante e forte
contro tiranni e lor crudel giudicio!
Or tienti a lei, che chiuse tien le porte
no a frodi, furti, agguati e tirannie
e a tutti i mal del popol della morte.
Lascia le putte, i paggi e le pazzie,
dannose si, che a me siccome furie
vibran ceraste ed idre l’eresie.
115Le tue sfrenate e prodighe lussurie
piú ch’a me dietro stigan cani e lupi,
piú aumenti al Padre mio proterve ingiurie.
Ecco dall’iperboree alpestre rupi
s’apre ogni mal per minarti addosso,
120mentre che in ozio e vanitá ti occúpi.
Quinci ti vien da rodere dur’osso,
ch’a te disrompa i denti; a me li cani
per tua cagione fabrichin sul dosso. —
Cosi parlò il Fantino, e, monti e piani
125lasciando a spalle, al suo tugurio torna.
La Madre ancor gli fascia i piè e le mani.
Giá Febo a noi le luminose corna
lasciato avea della gelata sore
e in le contrade a noi diverse aggiorna.
130Io mi sottraggo della grotta fuore,
indegno starvi dentro, e guardia fida
mi faccio tutta notte al Fondatore
dell’universo, che sul fien si annida.

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