Questo testo è stato riletto e controllato. |
La psiche degli animali 1.
La psicologia animale è un ramo abbastanza recente della psicologia. Certo la vita interiore degli animali è stata analizzata, descritta, fatta oggetto di problema in tutti i tempi: ma in generale si tratta o di teorie filosofiche (come p. es. in Cartesio) o di esposizioni popolari senza valore scientifico. Una vera analisi metodica della psiche animale è stata iniziata solo, si può dire, in questi ultimi anni: ma anche questi primi tentativi non hanno condotto ancora ad un vero accordo nell’indirizzo e nei metodi. Più forse che ogni altra parte della psicologia essa si risente ancora vivamente, nonostante l’apparente rigore scientifico, della concezione filosofica personale dei suoi cultori, anche se questa non è che una premessa rudimentale e quasi inconscia: ciò che esercita una deplorevole influenza non soltanto sopra le soluzioni, ma spesso anche sopra il modo stesso di porre i problemi.
Il primo punto importante della nuova disciplina è costituito dalle discussioni intorno al metodo: e qui, all’inizio, ci troviamo già di fronte ad uno di quei problemi che operano una netta separazione e rispetto a cui è necessario assumere subito una chiara posizione. Il problema del metodo si può formulare semplicemente così: vi è una psicologia animale? O più radicalmente ancora: vi è una psiche animale? La domanda ha l’aspetto d’un paradosso: e tuttavia non è tale. Nessuno vorrà credere che noi conosciamo direttamente ed obbiettivamente la psiche animale: ciascuno di noi conosce solo la propria coscienza. E, negli altri uomini come negli altri animali, argomenta solo la presenza di stati analoghi dalle manifestazioni esteriori. L’induzione è così rapida ed istintiva, che noi non ci avvediamo di farla: ma se riflettiamo, dobbiamo riconoscere che degli animali conosciamo solo le manifestazioni esteriori: che poi interpretiamo come segni di dolore, di paura, di affetto, ecc. È legittima questa interpretazione? Il pensiero comune dice di sì: ma fino dall’antichità non sono mancati dei filosofi a sostenere il contrario. Plutarco nel suo opuscolo sull’intelligenza d’animali (cap. III) dice che secondo alcuni naturalisti gli animali non provano in realtà sentimento alcuno: essi sono come delle macchine che hanno l’apparenza esteriore di sentire, ma che in realtà non sentono. Questa è stata, come è ben noto, anche una teoria della scuola cartesiana. Cartesio, avendo ridotto i principii sostanziali della realtà a due, lo spirito — sostanza immateriale, pensante, razionale, immortale e la materia, sostanza estesa, capace unicamente di quiete e di movimento, ed avendo soppresso tutti i principii intermediarii, non può ammettere nell’animale altro che un sistema di movimenti meccanici: non c’è nè anima vegetativa, nè forza vitale: l’unione del corpo e dell’anima e il loro accordo sono per Cartesio una specie di miracolo continuo. Negli animali non era possibile ammettere un principio senziente diverso dalla materia senza farne degli esseri razionali ed immortali: essendo ciò per Cartesio un assurdo, egli pensa gli animali come pure macchine. Supponiamo che un artefice fosse così abile da costruire una macchina perfettamente simile nel suo comportarsi ad una mosca: essa sarebbe una vera mosca. Di tutte le abilità degli animali non ve n’è alcuna che supponga necessariamente la coscienza: uno solo sarebbe il segno caratteristico della coscienza, il linguaggio: per persuadermi che un animale sente e pensa (dice un cartesiano) bisognerebbe che fosse esso stesso a dirmelo. A queste ragioni metafisiche si aggiungono anche, per Descartes, ragioni morali. Credere che gli animali sentono è dotarli d’un’anima simile alla nostra: ora se si pensa che l’anima degli animali sia mortale, che cosa vieta di credere che tale debba essere anche l’anima umana? E se la si pensa come immortale, si eguaglia l’animale all’uomo. Inoltre come si spiegherebbe il soffrire delle bestie? Lo stesso Malebranche riconosce che se le bestie soffrissero, Dio sarebbe ingiusto. «Essendo gli animali innocenti, come tutto il mondo riconosce, se fossero capaci di sentire, si avrebbe che sotto un Dio infinitamente potente e giusto, una creatura innocente soffrirebbe il dolore, che è sempre la pena di qualche peccato. Gli uomini non vedono abbastanza l’evidenza di questo assioma «sub justo Deo quisquis nisi mereatur, miser esse non potest» di cui si serve S. Agostino per provare il peccato originale»2. Nella scuola cartesiana l’automatismo degli animali diventò come un dogma che condusse anche praticamente all’indifferenza verso i maltrattamenti: che cosa sono i gridi e le convulsioni se non un rumore di ruote e di congegni che si spezzano? Essa però suscitò anche nel seno stesso della scuola vive dispute e contraddizioni: vi è ancora nel secolo XVIII tutta una letteratura pro e contro la coscienza degli animali: le Istituzioni filosofiche del Purchot nel 1785 difendono ancora l’automatismo.
Questa teoria ha trovato dei difensori ancora nel XIX secolo: la difende il Netter nel suo libro «L’uomo e l’animale dinanzi al metodo sperimentale» (1883). Però, come dal titolo stesso appare, essa non è più una teoria metafisica: è una teoria sperimentale e, come tale, ha avuto una larga fortuna verso il principio del nostro secolo con la ben nota teoria dei tropismi. La teoria dei tropismi è una teoria scientifica, non metafisica: essa riposa essenzialmente sopra ragioni di metodo ed è da considerarsi come una reazione contro la tendenza del pensiero comune ed anche della psicologia popolare ad interpretare troppo facilmente secondo il tipo umano la vita interiore degli animali. Le ragioni di metodo sono ben note. Nella stessa psicologia umana ha dominato un tempo la tendenza a considerare di preferenza i concomitanti fisiologici, a credere che si potesse descrivere scientificamente i processi mentali solo traducendoli nella concatenazione meccanica dei processi nervosi corrispondenti. Quale era il tipo del processo mentale? L’atto riflesso. Una stimolazione, una trasmissione ai centri, una reazione dei centri e trasmissione alla periferia, un movimento: ecco ciò che si considerava come il tipo su cui doveva modellarsi ogni processo psichico. Ad un atto più complicato corrisponde una più complicata elaborazione centrale: ma lo schema è sempre lo stesso. Quindi la tendenza a concepire l’atto mentale stesso come un processo meccanico: ed anzi, poichè l’aspetto mentale non è riducibile a tale schema, ad eliminarlo come una parvenza accessoria, sì da ridurre la psicologia ad un capitolo di fisiologia del sistema nervoso. Ora la stessa tendenza ha dominato da principio anche la psicologia animale. E qui l’eliminazione della coscienza è stata anche più facile. Negli animali inferiori la mancanza d’un sistema nervoso o d’un rigoroso accentramento degli elementi nervosi ha reso più accettabile il pensiero che in essi manchi una vera unità psichica, un io cosciente e che la vita si riduca ad una serie di reazioni meccaniche del tutto prive di coscienza. Questo è il concetto che già guidò le ricerche del Binet, che è precursore della teoria dei tropismi. Nei suoi studi sulla vita psichica dei microrganismi (del 1887) egli mostra come una gran parte dei movimenti degli infusori si possono spiegare come reazioni meccaniche, dovute all’azione fisico-chimica dell’ambiente, senza ricorrere per nulla alla volontà, alla scelta, alla coscienza. Come vero fondatore della teoria dei tropismi deve considerarsi il biologo americano Giacomo Loeb3, che i suoi accoliti celebrano come un rinnovatore della psicologia animale, come un moderno Galileo. Egli pubblicò verso il 1888 alcune memorie nelle quali è studiato il modo di comportarsi degli animali inferiori di fronte a certi stimoli come la luce, il calore ecc. Egli arriva alla conclusione che gli atti di questi animali non sono che effetti meccanici di queste forze, risultanti dall’azione fisico-chimica che esse esercitano sull’organismo: ad essi egli ha dato il nome di tropismi. Per esempio: in un acquario circondato di nero e ricevente la luce da una parte sola introduco alcuni spirografi, piccoli anellidi il cui corpo è come un piccolo tubo flessibile presentante all’una estremità il pennacchio cefalico. Essi si fissano ad una parete e si volgono con l’estremità libera verso la luce, come farebbe una pianta. Si muta la direzione della luce? Essi si piegano verso la nuova direzione. Questo è un esempio d’eliotropismo. Naturalmente non ogni tropismo è di natura così semplice. Sulla reazione influisce anche la costituzione dell’animale, sopratutto il fatto che l’animale è composto di due metà simmetriche. Se lo stimolo colpisce il corpo in modo da affettare egualmente le due metà — come avviene quando l’asse longitudinale del corpo coincide con la direzione dello stimolo, il corpo si muove semplicemente verso lo stimolo. Ma se lo stimolo colpisce l’animale obliquamente in modo da affettare più l’una metà che l’altra, allora il corpo si raddrizza prima e poi si muove verso lo stimolo. E se pensiamo che il corpo sia sottoposto a più sorgenti di eccitazione od a sorgenti di intensità e direzione variabile, il suo corpo si muove in modo da trovarsi il più che sia possibile in ogni istante in quella posizione, in cui le due metà ricevono un eccitamento uguale. Quindi può aversi un movimento molto vario, con le apparenze d’una direzione volontaria: in realtà è la risultante complicata dei tropismi che agiscono su di esso. Un altro fatto che concorre a rendere più vario il movimento è quello che Loeb chiama sensibilità differenziale: e che consiste in ciò, che un medesimo stimolo variando d’intensità può determinare un tropismo positivo o negativo. P. es. un insetto, l’Acanthia, fugge la luce: messo dinanzi ad una finestra, va nella direzione opposta. S’interpone una lampada ed ecco che l’insetto va verso la finestra. Il fototropismo negativo, per il variare dell’intensità dello stimolo si è convertito in fototropismo positivo. Si aggiunga ancora che uno stimolo dato può ridestare l’azione d’un altro stimolo passato: un fisiologo viennese ha chiamato questa reazione mnemotropismo: quando p. es. i pesci vanno verso un luogo dove erano stati abituati a trovar del cibo ciò non avviene per effetto di memoria od altro, ma perchè mossi da una forza meccanica, dal mnemotropismo. Già da questo si vede una delle tendenze essenziali di questa scuola: a pascersi di parole. La sua preoccupazione è di tradurre tutta la condotta animale in termini meccanici: l’essenziale è di dare una veste verbale appropriata anche a ciò che (come il mnemotropismo) meccanicamente non ha senso. Onde una terminologia spesso strana, mossa dalla sola preoccupazione di eliminare, nelle parole, tutto ciò che sa lontanamente di psichico. Quindi i sensi sono organi recettori; il naso è l’organo chemostiborecettore e l’occhio l’organo chemofotorecettore; come l’eredità è la cleronomia, i caratteri acquisiti sono caratteri embiontici, ecc. Gran parte degli atti animali sono quindi pure reazioni meccaniche prive di coscienza. Il Loeb non va, come Descartes, fino a negare la coscienza a tutti gli animali: la nega per gli animali inferiori ed anche per gli altri la limita di molto. L’unico segno della coscienza è la scelta, l’adattamento alle circostanze nuove: dappertutto dove non appare evidente questo carattere, abbiamo delle pure macchine fisico-chimiche.
Il difetto capitale di questa teoria sta nel suo semplicismo dogmatico: semplicismo, che si accontenta in gran parte di esplicazioni verbali, di schemi generici, i quali spiegano tutto e nulla. Il Claparède ha scherzato con spirito sopra queste spiegazioni troppo sempliciste. Supponiamo, egli dice, che un fisiologo di Sirio o di Saturno discenda sulla terra per completare i suoi studi e che, ignorando la nostra lingua, applichi a noi i metodi della nuova psicologia animale: nessun dubbio che ridurrà le nostre azioni più umane a dei volgari tropismi. È così che, p. es., segnalando i numerosi punti di attrazione, che, sotto forma di caffè o di osterie, attirano la folla degli uomini, egli creerebbe un enotropismo — che sarebbe il tropismo più diffuso, s’intende dopo l’eliotropismo. Descriverebbe un eliotropismo negativo per le varie specie di nottambuli; un nosotropismo per i medici ed un necrotropismo per i beccamorti; un fitotropismo per i giardinieri ed un bibliotropismo per gli studiosi... E non avrebbe del tutto torto, benchè non sia del tutto preciso il voler ridurre le nostre azioni, che sono il prodotto di fattori complicatissimi, a semplici reazioni provocate da stimoli altrettanti semplici, rivestendo poi il tutto con alcuni termini a pretese scientifiche.
Del resto numerosi ed abili osservatori della vita animale non hanno tardato a rilevare l’assoluta insufficienza della teoria dei tropismi. Il Bonnier esamina nell’Année psychol. (XIII, p. 25 ss.) la spiegazione tentata, per mezzo dei tropismi, delle principali attività delle api, che rivelano o sembrano rivelare un’intenzionalità: e mostra chiaramente che non ha alcun valore. Alla stessa conclusione giunge un altro eccellente conoscitore della vita delle api, H. v. Buttel-Reepen, in occasione del loro preteso cromotropismo: le api non possono essere concepite come delle macchine a riflessi: la loro condotta implica sempre, almeno in parte, una direzione volontaria4. Un altro osservatore ha esaminato dallo stesso punto di vista il volo degli insetti intorno alla luce delle lampade: ed è giunto alla conclusione che non obbediscono mai ad un tropismo nel senso voluto dal Loeb. Anche il Jennings, uno dei migliori conoscitori della vita dei microrganismi, è giunto al risultato che l’attività loro, quando venga osservata non nei riflessi momentanei, ma in una serie continuata d’una certa estensione, non può affatto venir esplicata secondo lo schema dei tropismi, ma implica sempre un tentativo, un fine, un adattamento, anzi una certa memoria, una esperienza e perciò una coscienza: e con il Jennings è d’accordo la grande maggioranza degli osservatori. La resistenza che alcuni cultori della psicologia animale (eccellenti fisiologi del resto) oppongono all’interpretazione psicologica5 non dà veramente altra impressione che di essere il risultato d’una scarsa cultura filosofica e psicologica e d’una prevenzione professionale invincibile.
Certo ben sappiamo anche noi che non abbiamo una conoscenza obbiettiva della coscienza animale: ma quando nell’attitudine e negli atti c’incontriamo in un complesso che presenta la più stretta analogia con la nostra condotta, noi siamo perfettamente autorizzati ad assumere, sia pure con tutte le cautele e riserve possibili, che essi rivelano una vita interiore analoga alla nostra. Ora chiunque abbia osservato da vicino il mondo degli animali inferiori od abbia seguito le esperienze di acuti e diligenti osservatori, come il Fabre, il Forel, il Wasmann, come potrà seriamente dubitare di trovarsi dinanzi a degli esseri coscienti? Non soltanto l’attività, ma gli stessi atteggiamenti, i gesti, la fisionomia tradiscono l’espressione d’una vita interiore: una vita forse estremamente diversa e lontana dalla nostra, ma che in ogni modo ha anch’essa i caratteri della coscienza e non può essere ridotta ad un semplice meccanismo fisiologico. «Che dall’uomo fino ai protozoi la coscienza sia una proprietà universale degli esseri viventi, non può venir messo in dubbio. Nei gradi più bassi di questa scala certo saranno le sensazioni contenute in limiti molto ristretti e la volontà determinata nel modo più semplice dagli stimoli organici più diffusi. Tuttavia le manifestazioni vitali anche dei più umili protozoi sono esplicabili solo col presupposto che ad esse stia a fondamento una coscienza, la quale è diversa dalla nostra solo per il grado del suo sviluppo»6. La manifestazione più universale e più sicura della vita interiore (dice il Mackenzie nel suo bel libro «Alle fonti della vita») è l’espressione: questo è il linguaggio più universale e più antico. Per esso noi leggiamo benissimo nella psiche degli animali superiori; per esso noi vediamo con certezza il bambino in tutti i piccoli sia del cane, sia del coniglio, sia della stalla, sia del pollaio: una parentela comune collega i giovani dei viventi più eterogenei. Anche negli insetti vi è una serie di espressioni, di gesti che rinvia con evidenza ad una corrispondente vita interiore: negli stessi esseri infimi, se noi li guardiamo senza preconcetti, troviamo la rivelazione d’una vita psichica più o meno analoga alla nostra. «E qui mi si affollano alla memoria gli innumerevoli spettacoli microcosmici, dai quali balzò palese per me questa intuizione della realtà. Rammento fra i molti quello offertomi da un’Astasia, specie di flagellato proteiforme che durante ore intere vidi lavorare per districarsi da un gruppo d’alghe. Tutte le vie vennero tentate, a tutti gli spiragli cercò di adattarsi il corpo elastico del microrganismo, assumendo all’uopo le più strane forme. E finalmente il successo le arrise...»7.
La severità del giudizio che dovremmo portare sulla teoria dei tropismi deve però essere attenuata da una considerazione: che essa è stata una reazione salutare contro le superficialità della psicologia animale volgare. Le raccolte ordinarie di psicologia animale e le miniere a cui esse attingono sono piene di ingenuità. Anzitutto si riferiscono molto spesso a testimonianze poco attendibili: poi mescolano senza spirito critico le interpretazioni più arbitrarie: simili in questo alle raccolte spiritiche, dove la più completa assenza di critica nuoce anche a ciò che vi è, nei fatti, di realmente attendibile. Questo difetto guasta anche ottimi libri: come p. es. la Vita degli animali del Brehms e la raccolta di fatti sull’intelligenza animale del Romanes. Quindi non è a stupire se la concezione antropomorfica della vita animale, che ispira queste relazioni, ha suscitato negli psicologi un senso di diffidenza e di giustificato scetticismo. Ma l’ammettere negli animali una coscienza analoga alla nostra non vuol dire che si debba senz’altro interpretare ogni loro atto con criterii umani. Bisogna saper osservare e far dire ai fatti solo quello che essi dicono: eccellenti modelli sono, sotto questo aspetto le note ricerche del Lubbock sulle api e sulle formiche8. Ora quante illusioni elimina un’osservazione precisa ed imparziale! Quante cose non s’è raccontato per esempio dell’intelligenza e della sociabilità delle formiche! L’osservazione esatta sfata molte di queste leggende9. Un osservatore francese riassume nella Revue des idées (1912) alcune sue interessanti esperienze (L’illusione dell’aiuto reciproco tra le formiche), da cui risulta che vi sono dei fatti sociali tra le formiche, ma molto meno di quello che si dice; e che sopratutto le formiche non sanno in molti casi coordinare i loro sforzi. Un seguace del Loeb, il Bethe, in un articolo dell’Archiv für die gesamte Physiologie (1898) si è proposto queste tre domande: Le formiche si riconoscono tra loro? Come si orientano le formiche? Possono le formiche comunicare fra loro? L’A. riferisce, specialmente in rapporto ai primi due punti, numerose esperienze e conclude naturalmente ad un’esplicazione per mezzo dei tropismi. Ma il risultato immediato delle sue esperienze è questo: che il comportarsi delle formiche è determinato sopratutto da stimoli olfattivi. Per es. se si introducono formiche di razze diverse in un formicaio, vengono subito uccise: ma se, pur essendo d’aspetto completamente differente, vengono prima lavate con alcool e poi immerse in una massa ottenuta schiacciando molte formiche del formicaio in cui vengono introdotte, vengono lasciate stare. Se vicino ad un formicaio si chiudono con un velo sottile in un vetro delle formiche straniere, quelle del formicaio cercano di penetrare attraverso il velo per ucciderle; se si chiudono delle formiche del formicaio, nessuno se ne cura ed esse muoiono di fame.
Almeno sotto questo rispetto il nuovo indirizzo è quindi stato utile: ma i suoi principii sono inaccettabili e questo spiega perchè, dopo un momento di moda, sia stato rapidamente oltrepassato. Riferirò soltanto il giudizio di due psicologi ben noti per il valore dell’opera loro, il Flournoy (Ginevra) ed il Forel (Zurigo). «Troppi scienziati moderni (scrive il Flournoy nell’Introduzione alla Psicologia animale del Checchia) credono ancora che i principii del metodo scientifico siano tali da obbligarli a considerare gli animali, alla maniera di Descartes, come pure macchine ed a negare loro ogni vita psichica propriamente detta ad onta delle evidenze del senso comune e delle esperienze quotidiane. Il rigore logico e la preferenza per le spiegazioni meccaniche e fisico-chimiche portano al pregiudizio e costituiscono degli ostacoli alla verità, quando ci impediscono di riconoscere i fatti più patenti, i quali ci mostrano come gli animali posseggano, press’a poco, le medesime facoltà che noi possediamo: il sentimento, la memoria, l’intelligenza, il ragionamento, la riflessione, forse anche la facoltà matematica e quella del linguaggio». Ed anche più severamente il Forel: «Il terrore della metafìsica e l’orrore della religione affettati dai nostri scienziati moderni cadono spesso nel feticismo dell’atomo materiale. Si potrebbe dire che sono affetti da filosofofobia e misoteismo. Queste tendenze costituiscono un curioso sintomo che si esplica e si scusa in parte per gli eccessi di sterile speculazione dell’antica metafisica e per gli orribili abusi della religione. Ma gli scienziati da parte loro cadono quasi regolarmente nell’assurdo, immaginandosi di vedere dei fatti nei prodotti della loro immaginazione e trascurando di studiare i principi filosofici fondamentali della conoscenza che ci insegnano a comprendere i fatti ed a far loro dire solo quello che possono dire. Essi perdono così la bussola della logica, fanno, senza saperlo, della metafisica materialista senza costrutto, discreditano le loro stesse ricerche e finiscono spesso per ricadere in quell’oscurantismo da cui credevano di essere usciti»10.
* * *
Gli animali hanno quindi una coscienza: la psicologia degli animali deve seguire gli stessi criteri e metodi della psicologia umana con questa riserva: che nel caso della psicologia animale l'interpretazione psicologica delle osservazioni obbiettive è molto più difficile e deve essere soggetta a molto maggiori cautele. Ma con questo non è ancora risoluta ogni questione metodica. Qui ci si presenta la stessa domanda, che si presenta all’inizio della psicologia umana e che dobbiamo qui prendere in esame per eliminare canoni metodici, che sono in realtà soltanto prevenzioni dogmatiche. Se è fuor di dubbio che l’animale ha una vita cosciente, come l’uomo, è anche fuor di dubbio che la sua (e la nostra) vita psichica si accompagna a fenomeni d’un altro ordine, è sostenuta ed accompagnata da trasformazioni organiche. Vi è tra i fatti dei due ordini una corrispondenza regolare: i meccanismi organici si svolgono a fianco della vita cosciente e l’influenza reciproca dimostra che vi è fra di essi uno stretto rapporto. Ora è vero che l’osservazione interna immediata sola può metterci a diretto contatto con i fenomeni psichici: onde pare che anche nella psicologia animale il metodo da seguire sarebbe quello dell’interpretazione e della ricostruzione psicologica. Ma l’osservazione diretta della vita interiore ha due gravi inconvenienti: anzitutto è una visione superficiale e limitata, che non ci fa conoscere gli antecedenti, le condizioni remote e profonde della nostra vita cosciente; inoltre essa non può, come vorrebbe il metodo scientifico, dar luogo a misure e rapporti quantitativi precisi. Questo ci spiega perchè la psicologia debba, nel concetto di molti, appoggiarsi alla fisiologia e specialmente alla fisiologia nervosa: qui solo possiamo stabilire con precisione nessi e rapporti causali e seguire la genesi del fatto psichico partendo dai fattori causali originarii. Quindi potrebbe darsi che, pur dovendosi ammettere in tutti gli animali una coscienza, l’unico metodo per lo studio di essa fosse la ricerca fisiologica, l’esame dei meccanismi organici, che condizionano ed accompagnano la coscienza. Questa diversità di metodo non è indifferente per i risultati. Se si cerca di esplicare la vita cosciente dall’osservazione del nostro interno e la si ricostruisce in base a quanto apprendiamo direttamente in noi, la vita psichica appare come una continua spontaneità, una creazione, una attività vivente. Se la si ricostruisce in base alle ricerche fisiologiche, bisogna pensarla su d’uno schema meccanico: ogni ricerca fisica, se vuole essere conseguente e rigorosamente scientifica, deve spiegare i fatti come prodotti necessari delle loro condizioni causali: anche la vita psichica deve essere pensata come una concatenazione meccanica, sul tipo del riflesso fisiologico. Ora quale di questi due metodi è da seguire?
Il punto essenziale della questione sta nel rapporto che vi è tra i fenomeni coscienti ed i fenomeni organici. Se è vero che vi è un parallelismo costante, non possiamo sottrarci alla conseguenza che il metodo fisiologico sia preferibile. Specialmente nella psicologia animale, dove non veniamo mai a contatto con la coscienza e le interpretazioni sono così malsicure, perchè non seguire la concatenazione della serie fisiologica, che ci è direttamente accessibile coi metodi scientifici, e ricostruire su di essa la serie psichica? Questa è invero la conclusione alla quale si accostano alcuni recenti cultori della psicologia animale; i quali senza negare resistenza della coscienza negli animali, trovano però che essa, oltre ad essere per sè non constatabile direttamente, si sottrae ad ogni esatta determinazione. Quindi bisogna lasciarla interamente da parte: inserire un fatto psichico nella catena dei fenomeni della vita animale è un andare contro alle regole del metodo scientifico. Non c’è pertanto una vera psicologia animale, ma solo una fisiologia animale; il solo metodo di studiare e descrivere scientificamente la vita psichica dell’animale è quello di ridurla tutta a meccanismi, a tropismi11.
A queste conseguenze sfuggono alcuni autorevoli studiosi di psicologia, il Claparède e il Forel per esempio, ma, a mio avviso, a prezzo d’un’inconseguenza. Il Forel parte da una specie di monismo psicofisico, secondo il quale anima e corpo sono i due aspetti d’un’unica cosa in sè inconoscibile. La coscienza non si accompagna in noi che ad una parte molto limitata dell’essere nostro: ma noi dobbiamo estenderla analogicamente a tutto l’essere. Quindi non soltanto sono coscienti i fenomeni cerebrali superiori, ma anche quelli degli altri centri nervosi, anzi quelli di tutto l’organismo: soltanto sono fenomeni coscienti inferiori che non si rivelano al nostro io superiore. Il subcosciente è costituito appunto da queste coscienze inferiori, che sono le sottostrutture della nostra coscienza d’ogni istante e che non vediamo per la stessa ragione che di giorno non vediamo le stelle. E così dobbiamo estendere analogicamente la coscienza a tutti gli esseri viventi. Se la concediamo ai nostri simili, dobbiamo concederla anche ai mammiferi superiori, ai pesci, agli insetti, agli inferiori: non c’è un punto nel quale possiamo logicamente arrestarci. Il Claparède invece ricusa questo fondamento filosofico e si tien pago al principio del parallelismo. Ma entrambi negano che si possa e si debba studiare scientificamente solo l’aspetto fisico. Essi dicono: bisogna studiare separatamente il meccanismo fisiologico e lo svolgimento psichico: poi chiarire l’uno con l’altro. E questo vale tanto per la psicologia umana quanto per la psicologia animale.
Ma noi possiamo lasciar da parte questa controversia metodica subordinata e portare il nostro esame sulla stessa ipotesi fondamentale del parallelismo. Questa è un’ipotesi di lavoro che si è adottata senza dimostrare nè verificare, giustificandola coi risultati: e fino ad un certo punto è stata un’ipotesi utile. Ma filosoficamente non è affatto un punto di vista accettabile. Essa contraddice all’esigenza dell’unità: come e perchè questi due mondi paralleli equivalenti? Di più questo parallelismo è del tutto fittizio. Nella coscienza vi è un elemento che la serie fisica non presenta e non può presentare: l’attività unificatrice. Il cervello, come ogni organo, può sommare le impressioni, modificare, adattare, potenziare: ma soltanto lo spirito può essere «l’unità vivente del molteplice». E ciò in fondo hanno riconosciuto i grandi metafisici del parallelismo: Spinoza e Fechner. Fechner in modo particolare, sebbene sia stato l’iniziatore del parallelismo psicologico, riconosce chiaramente questa incongruenza delle due serie: egli oppone al parallelismo monadologico il parallelismo sinecologico: vale a dire per lui l’aspetto psichico è l’unità, la sintesi della molteplicità di processi, che ci offre la serie fisica. Sotto un altro aspetto questo elemento è quello che noi apprendiamo nella coscienza come sforzo, come distinzione di valore. Si noti poi in fine che il parallelismo metafisico poteva essere sostenibile per Spinoza, non può più esserlo dopo Kant. Come possono il mio corpo e la mia coscienza costituire due serie parallele, dal momento che entrambe ad un esame accurato si rivelano come elementi d’un’unica serie fondamentale, della coscienza? Da un punto di vista superficiale vi sono in me due vite e come due parti, lo spirito e il corpo. Ma se io analizzo ciò che intendo per corpo, vedo che si riduce a gruppi di sensazioni: i quali mi rinviano sì ad una realtà che non è il mio io cosciente immediato, ma che si rivela a me soltanto in quanto si riflette nella mia coscienza. Vi è quindi, da un rigoroso punto di vista filosofico, una sola serie fondamentale, la coscienza: la quale contiene in certo modo in sè la propria preistoria, contiene elementi che io poi costruisco ed interpreto come procedenti da un sistema di processi condizionanti la mia vita spirituale presente, ossia da ciò che io considero come il mio corpo.
La serie fisica e la serie psichica non si debbono perciò considerare come due realtà parallele, ma come due piani diversi di realtà. Semplificando qui l’esposizione, possiamo dire: la vita cosciente di ogni essere è una creazione, una spontaneità viva, la quale riposa sopra meccanismi, processi fisici, che noi possiamo osservare e studiare secondo i metodi scientifici. Questi processi non sono in fondo nè d’una essenza, nè d’una natura diversa dai processi della coscienza; ma non appariscono più direttamente alla coscienza, quando essa riflette su di sè, e solo in parte si rivelano a noi, per mezzo dei sensi, come costituenti il nostro organismo corporeo. Trattandosi d’uno svolgimento unico, è naturale che questi due momenti o piani diversi dell’essere nostro agiscano l’uno sull’altro: modificando i meccanismi organici, io modifico anche la mia vita cosciente: modificata la coscienza, se ne risentono anche i meccanismi organici che l’alimentano e fanno con essa un tutto. Quindi lo studio dei processi fisiologici e dei meccanismi cerebrali è utilissimo come studio delle condizioni che sostengono e determinano la mia vita cosciente: ma non si deve credere di poter estendere gli schemi meccanici, e i metodi relativi, alla realtà psichica superiore. Quando studiamo i meccanismi fisiologici, dobbiamo studiarli come fatti fisici e spiegarli fisicamente: quando studiamo i fenomeni del piano superiore, i fatti coscienti, dobbiamo tener conto dei risultati delle ricerche fisiologiche e servircene per distinguere in essi ciò che è meccanismo psicologico e ciò che è creazione viva, ma non dobbiamo credere di poter ridurre qui tutto a meccanismo e sopratutto di fare intervenire qui una qualunque interpretazione fisiologica.
Questo ha importanza sopratutto per l’interpretazione filosofica del mondo: tuttavia anche per la psicologia animale non è senza conseguenze. Dobbiamo in seguito a ciò ritenere che la vita cosciente dell’animale è fondata anch’essa sopra meccanismi, che la fisiologia comparata fa benissimo a studiare, ma non è un meccanismo parallelo, non è un tropismo, nè un riflesso, nè un composto di riflessi. Essa è una vita spontanea, una creazione analoga a quella che si svolge in noi: ed in questo senso dobbiamo interpretarla. Ora fin dove si estende questa spontaneità creatrice? Quale grado raggiunge? È essa confinata nel senso o partecipa delle facoltà umane superiori? Queste domande pongono lo psicologo dinanzi al più grave e fondamentale problema della vita animale: problema di interpretazione, che deve essere affrontato senza prevenzioni, ma anche senza leggerezza, disciplinando l’osservazione secondo rigorosi principii metodici. Qui si deve ricordare anzitutto quello che la teoria dei tropismi ha insegnato: e cioè di non ricadere nelle banalità superficiali e false della psicologia animale volgare. Non si tratta di raccontare delle meraviglie; ma di osservare con precisione e con cautela, tenendo distinte le spiegazioni nostre dalle osservazioni ed evitando di ricorrere a facoltà ed attività superiori quando bastano attività più semplici (principio di Morgan). Questi sono i principii cardinali della nuova psicologia animale12.
* * *
Quando si parla della vita psichica degli animali, la prima parola che ricorre è l’istinto. La vita dell’uomo è (o dovrebbe essere) guidata dalla ragione: l’animale è guidato dall’istinto. È vero questo? Ed anzitutto: che cosa è l’istinto?
L’istinto è un meccanismo psicologico come l’atto riflesso e l’abitudine: se non nella sua definizione, nel suo concetto gli psicologi sono in fondo abbastanza d’accordo. Tutti sappiamo che cosa è un riflesso: dato uno stimolo sensoriale, l’organismo compie una reazione senza concorso della volontà e dell’attenzione, come per una risposta meccanica allo stimolo. Per esempio parlando, leggendo od anche dormendo, una mosca mi si posa sul viso: io la caccio senza nemmeno aver coscienza del mio atto: è un atto riflesso, è una reazione, che la ripetizione (nell’individuo o nella specie) ha reso stabile, convertendola in un meccanismo che reagisce da sè allo stimolo. Questi meccanismi sono in gran parte ereditati e fissati nell’organismo: possono anche essere acquisizioni individuali, come un gesto abituale che si compie senza più averne coscienza. Ma il loro carattere comune è questo: di essere del tutto o quasi del tutto fuori della coscienza viva: avvertito lo stimolo, la reazione si compie da sè come per un congegno meccanico. Gran parte della vita degli animali e dell’uomo è costituita di riflessi: guai se dovessimo riflettere ad ogni movimento che l’organismo nostro deve compiere! Il camminare, per es., è nella massima parte una composizione di atti riflessi. — L’abitudine invece non è più un semplice riflesso: è una serie di atti, che tendono a meccanizzarsi, ma non sono ancora così decisamente usciti dal campo della coscienza. Si capisce che la distinzione tra riflesso ed abitudine è una distinzione di grado, che non ha un limite preciso. Un atto riflesso è in genere un’acquisizione più antica e perciò più meccanica, invariabile, immancabile: l’abitudine tende invece solo a diventarlo; perciò l’individuo ha ancora una certa coscienza di quello che fa ed anzi può nutrire l’illusione di dirigersi in essa con la sua volontà. Di più l’abitudine è generalmente una reazione più complessa: una serie di atti che non può meccanizzarsi del tutto appunto perchè, per la sua complessità, può subire variazioni od esigere il concorso di altre attività. L’abitudine di fumare, p. es., per quanto violenta ed irresistibile sia, non può costituire un riflesso, perchè lo stimolo, il bisogno di fumare, non può essere soddisfatto con un atto semplice: è necessario una serie di atti (p. es. l’acquistare il sigaro, etc.) che esigono il concorso della coscienza. Quindi l’abitudine, per quanto meccanizzata, può sempre esigere il concorso della volontà: come quando, p. es., un morfinomane per soddisfare la sua passione ricorre ad astuzie od a mezzi complicati.
Ora l’istinto è un’abitudine fortemente meccanizzata ed ereditaria nella specie. Per il primo carattere esso partecipa dell’atto riflesso, di cui ha l’imperiosa necessità: è una reazione inevitabile. D’altra parte l’istinto non è una reazione semplice, come il riflesso, ma una serie di atti; che perciò, come l’abitudine, implica sempre ancora in parte il concorso della coscienza. Quindi ha generalmente per punto di partenza una rappresentazione chiara: e per raggiungere i suoi fini si vale della volontà e dell’intelligenza. Di più l’istinto non solo è un’abitudine fortemente meccanizzata, ma è un’abitudine ereditaria nella specie. Quindi, mentre nell’abitudine individuale il fine suo è generalmente ancora trasparente, qui l’individuo non ha più chiara notizia del fine vero ed ultimo, a cui l’abitudine mira.
Ciò che rende massimamente meraviglioso l’istinto è appunto questa sua direzione finale indipendente dall’esperienza personale. L’abitudine conferisce un’abilità che spesso ci meraviglia: ma sappiamo che è risultato di esperienze e di ripetizioni dello stesso atto. Invece nell’istinto abbiamo un agire che non dipende dall’esperienza personale. Se, dopo aver accarezzato un cane, mettiamo la mano in un cestino, dove sono dei gattini ancora ciechi, questi drizzano il pelo e soffiano in modo comico; dove hanno conosciuto il cane? Nell’esperienza della specie, in cui è ereditaria la reazione istintiva a quel certo odore. Le esperienze accumulate della specie possono dar luogo talora ad una saggezza, ad una complicazione così razionale di atti, che appare veramente inesplicabile. Si pensi, p. es., alla costruzione dei nidi, alla migrazione periodica degli uccelli, che è stata con ragione chiamata il più grande mistero della vita animale. Noi sappiamo di certe vespe, che nutrono le loro larve con dei ragni o degli insetti paralizzati in modo che restino immobili e vivi: del resto basta pensare alle formiche, che praticano, come noi, la pastorizia e l’agricoltura. Vi sono delle formiche americane (genere Atta), che ritagliano e preparano con cura certe foglie di piante tropicali per allevare su questi ritagli una specie di fungo, al quale fanno produrre per mezzo di metodi speciali un corpo farinoso di cui si nutrono. Quando una femmina fecondata va a fondare una nuova colonia, porta con sè nella mandibola un pezzo del prezioso fungo, non per cibarsene, ma per farne il germe della futura alimentazione della colonia. — Ma tutto questo, per quanto mirabile sembri, non esce dai limiti delle cause naturali. Pensiamo, nella sfera umana, a quella meravigliosa creazione che è il linguaggio: nessun uomo, per quanto intelligente, lo creerebbe; esso si è formato nella vita della specie. Vi è in questa una somma di sforzi che, sommati e trasmessi, si traducono in attività, le quali trascendono la capacità dell’individuo. Non è necessario ricorrere ad alcun fattore soprannaturale, ad alcuna visione lucida ereditaria: questa «visione lucida» è il risultato del concorso di attività iniziate ed esercitate da individui eccezionalmente intelligenti, in condizioni probabilmente diverse dalle attuali e col sussidio di facoltà diverse dalle nostre: attività trasmesse poi e fissate stabilmente attraverso un’infinità di secoli nei loro discendenti13.
Ma vi sono degli istinti che anche con l’esperienza della specie sembrano non potersi spiegare. La maggior parte degli insetti, p. es., muore dopo deposte le uova: quindi non vede nemmeno lo schiudersi della generazione seguente, che ha luogo l’anno dopo: come può aver acquistato per esperienza l’istinto di provvedere ad una prole che non ha mai conosciuto? Qui naturalmente i teologi fanno intervenire la provvidenza divina, qualche filosofo pensa alla natura, all’incosciente, all’anima universale; Darwin ricorre alla potenza del caso che avrebbe creato in alcuni individui tendenze favorevoli alla specie, le quali tendenze sarebbero poi state fissate dalla selezione naturale, in quanto solo gli individui che le possedono potevano assicurare la sopravvivenza della prole14. Io non credo che qui sia necessario ricorrere ad altri principii esplicativi: basta riflettere che l’acquisizione delle abitudini ha potuto svolgersi lentamente attraverso condizioni estremamente diverse dalle attuali: nel caso presente la spiegazione ci è offerta dalla preistoria geologica di queste specie di insetti15. Nelle remote età geologiche, in cui sorse il mondo degli insetti la terra non conosceva l’inverno e un ricchissimo mondo vegetale si svolgeva in mezzo ad una primavera perpetua: l’abbondanza dei vegetali dovette allora far nascere una pace relativa e trasformare molti carnivori in vegetariani. Tra gli altri le vespe, che, prima ardenti cacciatrici, si diedero alla raccolta del polline e del miele: ma, conforme alla legge generale, le larve loro conservarono il regime primitivo. Il lungo periodo di dolce temperatura, che si chiuse coll’inizio dell’era glaciale, fu per gli insetti la vera età dell’oro: essi raggiunsero dimensioni e longevità oggi sconosciute. Così nella calma d’una lunga vita gli insetti poterono compiere le operazioni mentali che oggi ci meravigliano: l’intelligenza individuale organizzò delle abitudini, che l’educazione e l’eredità trasmisero e che poco per volta si fissarono nell’organismo della specie. Quando mutarono le condizioni esteriori e venne l’avvicendarsi degli inverni, il freddo modificò profondamente il tenore di vita degli insetti. Il ciclo di vita si chiuse per la maggior parte di essi in una stagione ed ogni generazione fu separata dalle altre. Questo impedì ogni ulteriore progresso: ma i meccanismi creati in altri tempi continuarono a trasmettersi perchè erano organicamente fissati: essi sono gli istinti che oggi ci meravigliano. Solo alcuni insetti riuscirono a difendersi dall’inverno, costruendo dei ripari dove possono passare l’inverno dormendo: tali le api, le formiche e gli insetti sociali in genere. In queste specie la durata della vita rimase sufficiente per rendere possibile l’esperienza, l’osservazione e la trasmissione delle nuove acquisizioni: le operaie vivono da cinque a sette anni, le femmine più di dieci anni. Questo rese possibile un certo progresso individuale: perciò le api e le formiche non solo hanno istinti molto complessi, ma anche delle abitudini e presentano ancora una certa capacità d’intelligenza molto superiore a quella degli altri insetti16.
Questo concetto dell’istinto ci permette ora di giudicare che cosa valga la distinzione comune, secondo cui l’uomo segue la ragione e l’animale l’istinto. L’istinto è un meccanismo psicologico ereditario: ma nessuna vita è puramente meccanica, come nessuna è senza meccanismi. Anche l’uomo ha i suoi istinti: quanta parte della vita umana è retta da questi meccanismi! La ricerca dell’ornamento, il culto della moda, per es., sono atti istintivi: sono meccanismi coscienti, che l’individuo segue senza comprendere il fine al quale sono indirizzati. Quindi anche l’uomo è un essere istintivo. — D’altra parte l’animale non è puramente istintivo, la sua vita non è un semplice meccanismo d’istinti. Anzitutto una coscienza puramente meccanizzata non è concepibile: resta sempre, per quanto piccolo, un elemento di spontaneità, che è ciò appunto che mette in opera i meccanismi subordinati. In secondo luogo bisogna ricordare che anche la vita istintiva presente è la creazione dell’intelligenza. Sono gli atti intelligenti di individui vissuti in altre età geologiche, che hanno creato gli istinti: anche là hanno dovuto sorgere di tanto in tanto individui più intelligenti, le cui abitudini sono state imitate e trasmesse, indi perfezionate a lunghi intervalli da nuovi atti d’intelligenza: quindi tutta la saggezza dell’istinto è stata anch’essa intelligenza viva e creatrice. Noi vediamo ancora in certe specie gli stadii successivi, che hanno condotto a certi istinti meravigliosi: essi sono rappresentati da tante specie diverse. Il Perrier (l. c., p. 566-7) ha creduto anzi di poter enunciare questa legge: «Tutte le volte che si osserva presso un animale un istinto, che sembra miracoloso, si trova presso gli animali del medesimo gruppo una serie graduata d’istinti, prima molto semplici, da cui si può salire, per una serie di modificazioni continue e perfettamente spiegabili, fino all’istinto che sembrava meraviglioso quando era isolato». Citerò un esempio solo. Tutti conoscono il paguro bernardo, un granchio marino che, per difendere il molle addome, si serve d’una conchiglia vuota che cambia quando cresce. Ora vi sono altre specie affini, che si nascondono allo stesso scopo in buchi od in spugne vuote; altri che si scavano essi stessi questi buchi nella sabbia; altri si fanno un riparo con della sabbia agglutinata. Vi è infine una specie che vive nelle profondità marine (il catopagurus), dove ha pochi nemici e che alla punta della coda molle e carnosa porta una piccola conchiglia. Queste diverse specie ci offrono come la storia dell’istinto. I paguri, esposti a molti nemici e paurosi, hanno cominciato a nascondersi nei buchi, poi a scavarseli essi stessi; poi hanno trovato che era più comodo servirsi di ripari portatili e di saggio in saggio hanno imparato a servirsi delle conchiglie vuote; finchè, discesi negli abissi del mare, abbandonarono questi ripari, conservandone solo più la traccia col serbare per tutta la vita le piccole conchiglie in cui si nascondono da piccoli. Se i diversi gradi ci sono presentati da diverse specie, ciò vuol dire che gli istinti si sono modificati con estrema lentezza, nel contempo stesso che si andava successivamente modificando la specie.
Quindi è una favola la perfezione dell’istinto: l’istinto si forma e si trasforma e noi lo troviamo in tutti i gradi della sua perfezione successiva. Non è esatto, p. es., che il rinchite della betulla tagli sempre la foglia, per arrotondarla, secondo un difficile e preciso rapporto matematico; le vespe, che paralizzano la preda, spesso la pungono a caso senza alcuna precisione17. E così è una favola l’immutabilità dell’istinto. Vi sono istinti che sono rimasti immutati e ve ne sono di quelli che mutano. Certo l’istinto, come l’abitudine, è qualche cosa di fissato nell’organismo, che persiste con tenacia ed anzi continua spesso ad agire anche irrazionalmente in mezzo a condizioni mutate, che lo rendono inutile o dannoso; ma in determinati casi, sotto la pressione delle circostanze, anch’esso può trasformarsi18. Io accennerò solo ad una categoria di fatti: ai mutamenti che introduce negli istinti la domesticazione. P. es., l’abbaiare del cane è un risultato dell’addomesticamento: i cani selvatici o inselvatichiti non abbaiano. Certi uccelli del Sud America fanno adesso il loro nido con crini di cavallo: ora il cavallo prima di Colombo in America non esisteva; questi uccelli hanno imparato a sostituire il crine alle fibre vegetali flessibili: hanno modificato l’istinto. Il Romanes aveva dato a covare ad una gallina un uovo di pavone. Ora non solo la gallina lo covò una settimana di più come era necessario, ma continuò a curare il pavone come un pulcino per diciotto mesi, con un’affezione materna, quasi con orgoglio: mentre in altri casi altre galline abbandonavano i pulcini al tempo ordinario, lasciandoli così perire. Il caso, appunto perchè isolato, mostra come l’animale in certi casi vince e modifica a sua posta l’istinto.
Quindi non esseri guidati soltanto dalla spontaneità ed esseri guidati soltanto dall’istinto: tutti gli esseri animati hanno come noi una spontaneità cosciente, che con la ripetizione si fissa in abitudini e trasmette le abitudini fissate come istinti, come meccanismi psichici subordinati. La distinzione è piuttosto un’altra. Vi sono animali che presentano un sistema molto complesso di istinti fissi e specializzati, che l’individuo porta con sè dalla nascita e che lasciano una piccola parte alle variazioni, alle modificazioni intelligenti. Abbiamo la perfezione di questo tipo negli insetti sociali, le api e le formiche; essi rappresentano il grado più alto dello svolgimento dell’uno dei rami principali nei quali culmina il regno animale, gli articolati. Vi sono per contro animali dotati d’un piccolo numero di istinti generici, ai quali si accompagna una larga capacità di adattamento intelligente e di progresso: questo viene trasmesso nel primo periodo della vita, in cui sono protetti dai genitori. Questo tipo ci si presenta nell’altro ramo del regno animale, i vertebrati, e specialmente in quelli che stanno al vertice, nei mammiferi e nell’uomo. I primi rappresentano un passato oramai chiuso in sè ed incapace d’ulteriore progresso: gli altri incarnano, nel regno animale, lo svolgimento vivo e presente dell’intelligenza, che si protende verso l’avvenire. — Non vi è quindi nessuna contraddizione fra questi due fatti: che la formica ci presenta una serie di istinti sociali, il cui risultato ricorda analoghi prodotti della civiltà umana: l’agricoltura, la pastorizia, lo stato, la guerra, la schiavitù; e che, presa per sè sola, come individuo, è un animale semplice, incapace d’una riflessione un po’ complicata, infinitamente superiore, è vero, agli altri insetti, ma inferiore nel tempo stesso all’ultimo dei mammiferi. Anche la sua intelligenza automatica però è, bisogna ricordarlo, il frutto di innumerevoli sforzi intelligenti compiuti da individui e poi accumulati e fissati organicamente attraverso la lunghissima vita della specie, che risale alle prime età geologiche.
* * *
Non è dunque vero che tutta la vita dell’animale sia retta dagli istinti: ogni animale ha in maggiore o minor misura una certa spontaneità, un’intelligenza individuale, che del resto è stata l’origine prima degli istinti stessi. Tutti riconoscono dal più al meno questa verità: anche gli scolastici, come il p. Wasmann, che riducono tutta la vita animale all’istinto, intendono per istinto, come vedremo, un’altra cosa. La questione è ora di vedere di che cosa è capace questa spontaneità, quest’attività individuale della coscienza, che fa esperienze, reagisce, si adatta, e così modifica talora anche gli istinti. Le spontaneità dell’uomo si chiamano intelligenza e ragione; è capace l’animale di elevarsi fino a questo grado?
Se guardiamo alla storia della filosofia, vediamo disegnarsi due correnti. La maggior parte dei filosofi concedono all’animale una certa partecipazione all’intelligenza ed alla ragione: la psiche dell’animale differisce dalla nostra solo per il grado. Questa è l’opinione comune di tutti i filosofi antichi, a partire dai Pitagorici, e specialmente della scuola platonica19; eloquenti difensori di questa dottrina si sono fatti nell’antichità Plutarco, che in più scritti ha preso le difese dell’animale e del regime vegetariano20; Galeno, Gelso, l’avversario accanito del Cristianesimo, e Porfirio21. I filosofi del rinascimento sono in generale anch’essi favorevoli a questa tesi: ricordiamo fra essi Montaigne, che trova maggior differenza tra uomo e uomo che non fra l’uomo e l’animale22; Charron, Gassendi, Campanella, che nel De sensu rerum et magia dice: noi chiamiamo l’uomo ragionevole e non gli animali non perchè questi non ragionino, ma perchè ragionano meno: come chiamiamo l’animale essere sensibile a differenza della pianta non perchè questa non senta, ma perchè sente meno dell’animale. Degno di nota, almeno come curiosità, il libro d’un prelato del XVI secolo, Gerolamo Rorario, nunzio di Clemente VII, che scrisse verso il 1550 un libro col titolo: «Che gli animali sono più ragionevoli dell’uomo», — libro edito per la prima volta nel 1645 e spesso ristampato di poi; si veda per esso il dizionario di Bayle. — Il secolo XVII è in generale sotto l’influenza della concezione cartesiana; ma nel XVIII secolo, sotto l’influenza di Leibniz, riappare una visione più favorevole all’animale. Leibniz stabilisce in fondo unità di natura tra l’uomo e l’animale: vi sono fra l’uno e l’altro dei limiti fissi, ma anch’essi stabiliscono solo delle differenze di grado. Autore d’un libro sulla psiche animale è uno dei più noti discepoli di Wolf, G. F. Meier23; il quale definisce in esso con chiarezza le questioni relative. La intelligenza è la facoltà di avere rappresentazioni chiare e distinte: la ragione è la facoltà di conoscere i rapporti delle cose. Hanno gli animali la facoltà dell’intelligenza? Certo. Hanno la ragione? Qui il Meier fa una distinzione. Circa il primo grado, che è la conoscenza dei rapporti delle cose in concreto, lo afferma; quanto al secondo, che è la conoscenza dei rapporti astratti, dice: non possiamo saperlo. Un altro libro del tempo favorevole agli animali è quello di C. G. Leroy, un ispettore forestale, che ebbe campo di fare molte belle osservazioni e pubblicò, anonimo, nel 1764 alcune «lettere filosofiche sull’intelligenza e perfettibilità degli animali», che furono ripubblicate nel 1862 e, in traduzione inglese, nel 1870. Un libro di valore, che rivela anche un uomo di gran cuore, è pure quello del danese Smith, che ha per titolo: «Sistema della natura e del destino degli animali e dei doveri dell’uomo verso di essi» (1793); in esso l’autore insiste sul fatto che gli animali hanno in vero senso dei diritti, come l’uomo. — Anche la filosofia empirica del secolo XVIII è in genere favorevole all’animale: Hume, Lamettrie, Bonnet24, Condillac, che nel suo trattato degli animali attribuisce ad essi tutte le facoltà umane.
Per la tesi opposta, e cioè per l’esistenza, fra l’uomo e l’animale, di differenze essenziali e profonde, stanno Aristotile, gli stoici25 e gli scolastici; il libro del p. Wasmann sull’istinto e sull’intelligenza nel regno animale ha appunto per fine di dimostrare questa tesi26. Tra i filosofi moderni meritano d’essere ricordati S. Reimarus, autore d’un bellissimo libro sugli istinti degli animali (1760), Kant e Fichte, i quali considerano l’animale come una cosa, escludendolo dal campo del diritto e della morale.
In qual senso inclini il pensiero contemporaneo occorre appena dire: la dottrina della separazione assoluta, più che nell’esame spassionato dei fatti, ha la sua origine in preconcetti dogmatici ancora profondamente radicati nella mentalità tradizionale. Questo ci spiega perchè la scolastica contemporanea sia avversa, quasi dura verso l’animale: essa teme che, tolte le profonde barriere tra l’uomo e l’animale, se ne possano derivare, circa la loro comune natura ed origine, delle conseguenze, che essa giudica pericolose. Questa prevenzione astiosa, settaria, che ha già la decisione fissata a priori, congiunta col carattere di questa stessa filosofìa, che applica continuamente per diritto e per traverso le sue astrazioni rigide e legnose, le quali nascondono agli occhi suoi l’infinita varietà e continuità dei processi reali, introduce nelle sue trattazioni una leggera aria di malafede, sia pure involontaria, che, nel campo intellettuale, offende come una indegnità, con la quale non si viene a contatto senza una certa ripugnanza. Questo si vede per esempio dal profitto, che i difensori di questa tesi cercano di trarre dalle esagerazioni della zoologia volgare, che nessuno più prende sul serio: non meno che dall’assurdità ridicola di certe obbiezioni, che lasciano in dubbio sulla buona fede di chi le espone. Nel suo Corso di filosofia (voi. II, p. 234)27 il p. Lehmen scrive per esempio: Se si stabilisce la comunità di natura e perciò di origine tra l’uomo e l’animale, gli animali più vicini all’uomo, quelli da cui deriva, debbono essere i più intelligenti. Ora l’animale più intelligente è la formica: dunque l’uomo deriva dalla formica. Dinanzi ad argomentazioni di questo genere cade naturalmente ogni velleità di discutere e di rispondere.
La vita della coscienza è divisa dalla scolastica in due piani rigorosamente distinti, che sono la vita del senso e la vita dell’intelligenza. La prima abbraccia tutte le manifestazioni della conoscenza e dell’attività sensibile; la seconda comprende il conoscere concettuale, astratto e la volontà razionale, libera, che vi è connessa. Questo secondo grado solo merita il nome di spirito: quindi gli animali non hanno una vita spirituale. Il primo grado invece è chiamato complessivamente col nome d’istinto; una parola, a cui perciò il p. Wasmann dà due sensi: il primo è quello comune che si è detto; il secondo che è più ampio ed abbraccia tutta la vita sensibile nella sua spontaneità come nei suoi meccanismi. L’attività sensibile od istintiva comprende: i sensi esterni, il senso interno, che raccoglie le sensazioni in unità; la fantasia sensibile e la memoria sensibile, che riproducono le immagini del senso; ed infine la potenza estimativa, che giudica buone o cattive, piacevoli o spiacevoli le impressioni ricevute. Queste cinque attività non sono che cinque forme d’azione d’un’unica attività, che è il senso (o l’istinto). La parte superiore dello spirito comprende l’intelligenza e la ragione. La prima astrae dalla rappresentazione i concetti generali e coglie, per mezzo di essi le essenze intelligibili delle cose, la seconda è la facoltà del ragionamento: «intellectus cognoscit simplici intuitu, ratio vero discurrendo de uno in aliud». Praticamente la ragione è la facoltà di servirsi di mezzi per un fine. Intelligenza e ragione non sono però due facoltà diverse, ma due attività d’una sola facoltà, l’intelletto; quindi chi ha l’intelligenza ha anche la ragione: chi ha la ragione pratica, cioè agisce secondo fini, mostra dì avere intelligenza e ragione.
Io non sono naturalmente d’accordo con questa psicologia antiquata e grossolana. Lasciando da parte l’attività del senso, che nessuno nega all’animale, le funzioni superiori dello spirito, che unificano le immagini del senso in forme più alte di conoscere, sono essenzialmente due e corrispondono alle due forme o categorie unificatrici, la causa e la sostanza: noi possiamo benissimo conservare ad esse le denominazioni tradizionali di intelligenza e ragione. L’intelligenza è la facoltà dell’unificazione secondo il principio di causa. Un essere, il quale non possedesse che pure immagini sensibili, vedrebbe il loro fluire nel tempo senza collegarle altrimenti che secondo la loro coesistenza e successione. Quando la coscienza comincia a riconoscere un legame tra le immagini successive, per cui l’antecedente produce necessariamente il conseguente, comincia l’intelligenza. Questa ha naturalmente una lunga storia ed un lungo periodo: l’animale più semplice, che comincia vagamente a riconoscere la causa d’un’impressione dolorosa, e Spinoza, che pensa nel suo spirito il mondo come una grande, unica concatenazione causale, sono due punti estremi d’un unico svolgimento, che ammette infiniti gradi intermedi. — Così un essere, che apprendesse molte immagini simultanee senza riconoscere in esse nè somiglianza, nè differenza, nè parentela alcuna, sarebbe privo di ragione. La ragione comincia quando la coscienza apprende a discernere delle somiglianze, ossia delle parziali identità, dei caratteri comuni. Anche la ragione ha una storia lunghissima: il cane, che ha una vaga immagine generica della lepre, e il filosofo, che vede tutte le cose nell’unità e nell’identità d’un principio universale, sono due estremi d’una scala unica.
Posto questo concetto dell’intelligenza, se ci si chiede: l’animale ha intelligenza? dobbiamo rispondere: Senza dubbio alcuno. L’intelligenza comincia con i primi albori della vita animale. Io non ho qui che da rinviare a tutti i così detti atti di intelligenza animale: così detti appunto perchè rivelano una conoscenza ed un’utilizzazione della consecuzione causale dei fenomeni28. Riferirò, come caso tipico, solo un’esperienza personale del Romanes, anche perchè è un’esperienza negativa. Noi siamo così abituati alle consecuzioni causali famigliari, che, appena ci si presenta un’impressione nuova, subito l’inseriamo in questa concatenazione; e quando non riusciamo, cioè quando ci troviamo dinanzi ad un fatto, la cui causa ci sfugge (p. es. un rumore inspiegabile), ci inquietiamo con un senso di meraviglia e di paura. Ora lo stesso fa il cane nell’esempio che sto per riferire. «Il mio cane (scrive il Romanes) soleva, come tanti altri della sua specie, giocare con gli ossi che gettava in alto o dinanzi a sè, dando loro l’apparenza di cose vive, per aver poi l’immaginario piacere di azzannarle. Un giorno gli diedi a questo fine un osso, che però era attaccato ad un filo lungo e sottile. Dopo che egli lo ebbe gettato alcune volte in alto, io colsi l’occasione che esso era caduto un po’ lontano da lui per tirarlo via adagio col filo invisibile. Subito il cane mutò attitudine. L’osso, col quale egli si era comportato come se fosse cosa viva, diventò per lui realmente tale ed allora il suo stupore non ebbe limiti. Egli gli si avvicinò prima con grande precauzione; e poiché il lento movimento continuava ed egli fu certo che esso non derivava dall’impulso, che egli aveva dato all’osso, passò dalla meraviglia al terrore e corse via per nascondersi sotto un mobile ed osservare da lontano lo spettacolo, per lui inconcepibile, d’un osso diventato vivo» (1).
Come può la scolastica negare che il cane, p. es., comprenda la concatenazione causale delle cose? L’animale, dice il Lehmen, non ha la conoscenza della causa e dell’effetto, perchè non si sforza in alcun modo di cercare la causa delle sue impressioni moleste per rimuoverla. Ora questo è in alto grado inesatto: un animale, che si spulcia, cerca precisamente la causa dell’impressione molesta, etc. Ma l’animale, dice il Lehmen, non ha la conoscenza astratta della causa come tale. Questo è vero: ma l’obbiezione ha valore solo se si considera la facoltà della comprensione causale come data soltanto nella sua forma più alta ed astratta e non come un processo graduale, che comincia con collegamenti causali concreti, non riflessi. Allora però anche l’uomo volgare non sarebbe intelligente; perchè la sua conoscenza della concatenazione causale è molto rudimentale e non si eleva certamente alla concezione astratta della causa. La verità è che la facoltà della comprensione causale è una facoltà progressiva e comincia con il collegamento causale concreto, proprio anche dell’animale: la riflessione astratta nell’uomo può trasformare poi questo collegamento spontaneo e concreto in un atto logico riflessivo. Ma il fatto che l’animale non può superare certi limiti non toglie che vi sia identità ed unità di processo. Nè giova in questo caso ricorrere, per negare l’intelligenza, all’abusato concetto dell’associazione: l’associazione è un’abitudine, un meccanismo, che ha la sua origine nella spontaneità creatrice, per quanto umile essa sia: non vi è associazione senza appercezione, senza attività unificatrice.
Lo stesso dobbiamo dire della ragione. Gli animali, si dice, non hanno idee generali: oggetto delle idee generali è l’universale e solo l’uomo conosce l’universale. Invece l’animale conosce il solo particolare, quindi non ha idee, non ha ragione.
(1) 29 che qui si ha lo stesso procedimento: per ragione s’intende soltanto la ragione logica, astratta, perfetta. Se l’animale fosse capace di idee generali, dovrebbe essere capace di collegare i concetti, di fare dei sillogismi, dei sistemi filosofici. Ma l’animale non sillogizza; dunque, etc. Ad un oppositore, che gli obbiettava che gli animali possono forse giungere ai primi gradi dell’astrazione, il p. Wasmann risponde: il cane è capace forse di formarsi il concetto astratto di colore? No. Dunque non è capace nemmeno di giungere alle prime e più semplici astrazioni del verde, del rosso, etc. Qui l’errore è evidente. La scolastica opera come se vi fosse da una parte le nude rappresentazioni sensibili, concrete e strettamente individuali, dall’altra i concetti logici perfetti. Ora questo è inesatto: la ragione è uno svolgimento. Le prime identità non sono ancora concetti logici, ma semplici rappresentazioni generiche (per usare l’inesatto termine corrente). Il cane, che insegue la lepre o che abbaia all’uomo poveramente vestito, non ha ancora il concetto logico, ma qualche cosa di iniziale e di analogo. «Se non è lecito affermare (scrive F. De Sarlo) che l’universale negli animali si riveli alla coscienza, è lecito però sempre sostenere che esso è operativo nella loro psiche»30. Quello che si dice l’immagine generica non è in realtà un’immagine generale (che cosa potrebbe essere?), ma un’immagine particolare, che ha un carattere specialissimo: di essere associata con numerose altre immagini affini, che sono in essa potenzialmente presenti e costituiscono quella specie di aureola di generalità che la caratterizza. Anche il concetto non sussiste senza un’immagine (reale o simbolica), anzi è nell’uso concreto un’immagine: ciò che lo distingue è che in esso lo spirito fissa la sua attenzione più sull’aureola generale che sull’immagine particolare e si preoccupa di determinarla logicamente. È curioso vedere il trattamento che subiscono queste imbarazzanti rappresentazioni generiche da parte degli scolastici. Il p. Wasmann se ne libera col dire che non esistono: è vero, ma con una riserva. Tutti sappiamo che rappresentazioni generiche non esistono: ma vi sono rappresentazioni particolari così chiamate, perchè ci rinviano alla generalità: queste esistono. Il p. Lehmen dice che sono rappresentazioni confuse: p. es., il cane ha un’immagine vaga di questa o di quella lepre: perciò questa sua immagine si applica indifferentemente ad ogni lepre. Questa è una confusione intenzionale che non merita risposta.
Uno zoologo italiano, il prof. Emery di Bologna, recensendo il libro del Wasmann nel Biol. Centralblatt del 1893 (p. 150 ss.), ha riassunto con così chiara evidenza questo punto di vista, che sarebbe vano tentarne un’esposizione migliore. «Le esagerate descrizioni (egli scrive) dell’intelletto animale, l’antropomorfizzazione degli animali da parte del Büchner e di altri danno facile gioco al Wasmann di negare l’intelligenza animale; perchè i più degli atti intelligenti non meritano questo nome. La stessa cosa aveva già rilevato del resto il Forel. Ma non vi sono proprio fatti che provino l’intelligenza degli animali?... L’intelligenza si ha soltanto là, secondo il p. Wasmann, dove sono in gioco i concetti generali e la facoltà dell’astrazione. Ora solo l’uomo può astrarre; almeno noi non conosciamo alcun atto dell’animale che esiga, per essere spiegato, questa facoltà. Ciò che in generale si adduce come intelligenza animale è dal Wasmann considerato come una forma speciale d’istinto, che riposa sull’esperienza fatta dall’animale. La distinzione fra l’animale e l’uomo sta in ciò che il primo possiede solo impulsi innati o fondati su associazioni di immagini, il secondo invece ha la capacità di formare delle idee generali. — Ora noi chiediamo: Che cosa è l’associazione delle immagini sensibili e che cosa la facoltà di astrazione? In che si distinguono? Prendiamo un esempio. Gli uomini rozzi amano i colori vivi; nel linguaggio di certi primitivi rosso e bello sono la stessa parola; l’immagine «rosso» è collegata con l’impressione «bello». Tutto il processo è un’associazione di immagini; lì l’uomo agisce come un cane che ha associato l’idea della carne, il suo sapore, l’atto di addentarla. Ora io potrei anche esprimere questi collegamenti in sillogismi, coi concetti generali rosso, bello, etc. Questi concetti esistono quindi nello spirito dell’uomo come in quello del cane, se non espressamente, almeno in modo implicito. Essi possono dall’uomo venir espressi con parole e diventare così vere astrazioni. Ma in ciò solo sta la differenza: che è puramente formale... Non si può quindi negare all’animale una facoltà rudimentale di astrazione. Probabilmente questa facoltà non si eleva sopra le astrazioni di primo grado, quelle che sorgono dalle immagini sensibili e dai sentimenti, che esse destano. Gli animali superiori sono in grado di collegare queste astrazioni con le rappresentazioni presenti e con i ricordi in varia maniera: così operano, non in apparenza, ma in realtà, come esseri intelligenti. Se vi fosse un termometro dell’astrazione, potremmo forse fissarne il grado. Ma chi potrà dire fino a che grado un cane od una scimmia è capace di idee generali? Collegano essi i colori nel concetto del colore? gli esseri pennuti nel concetto di uccello? Noi non lo sappiamo e non lo sapremo probabilmente mai».
Anche per l’attività pratica la scolastica adotta gli stessi criteri: non è quindi necessario ripetersi. L’agire intelligente è quello che si propone dei fini: il proporsi dei fini è un atto che suppone l’astrazione: ma l’animale non astrae, quindi non agisce in modo intelligente. Perciò non ha senso del dovere, non ha diritti e così via. Perchè l’animale non è capace di pensare l’atto morale secondo la formula kantiana, non è morale. L’animale ha un principio di senso del dovere e di moralità: bisogna essere volontariamente ciechi per non vederlo. Vi sono innumerevoli esempi, riferiti da osservatori imparziali e perspicaci, che mostrano come vi siano animali capaci di affetti famigliari, di amicizia, di dedizione completa al gruppo di cui fanno parte: e questi sono fatti, che hanno innegabilmente un carattere ed un valore morale. Addurrò soltanto, come casi tipici, due osservazioni riferite da R. Semon nella relazione del suo viaggio «Nella boscaglia australiana»31: ed è da notarsi che in questa relazione stessa (p. 176) il Semon mette in guardia contro le superficiali interpretazioni antropomorfiche. La prima ci dà un esempio dello spirito di dedizione delle formiche alla collettività. «Vi era a cinquanta passi dal mio campo un grosso formicaio e gli industriosi insetti avevano battuto, fra la mia abitazione e la loro, una vera strada sempre popolata di formiche, che arrivavano vuote e tornavano cariche. Poiché questa vicinanza mi disturbava, cercai di cacciar via le povere bestie senza distruggerle e gettai sul formicaio una manata di grumi di naftalina, nella previsione che ciò avrebbe causato un esodo generale. I coraggiosi animaletti si gettarono con furore su questi grumi per essi così ripugnanti come pericolosi; li trasportavano lontano un pezzetto, poi li lasciavano cadere per repugnanza; allora veniva un’altra formica, che continuava l’opera cominciata ed era alla sua volta poco dopo sostituita; tanto che dopo meno di due ore anche il più piccolo pezzo di naftalina era allontanato dal nido e tutto poteva riprendere il corso di prima. Io allora decisi d’usare un mezzo più energico e gettai alcuni pezzetti di cianuro di potassio sul nido. Lo stesso spettacolo di prima: solo non era più possibile allontanare la pericolosa materia, le cui emanazioni erano funeste ed il cui contatto era letale. Tuttavia vidi molte formiche fare il tentativo, abbattersi e morire. Facendosi oscuro, non potei più continuare le osservazioni, ma mi aspettavo il mattino dopo di vedere il nido abbandonato. Con meraviglia invece vidi l’intera superficie del formicaio coperta di morti, come un campo di battaglia: ma il cianuro era scomparso. Più della metà del popolo aveva trovato la morte in questa lotta disperata: ma era riuscito al loro coraggio eroico, con sacrificio della loro vita, di allontanare dal loro nido la velenosa sostanza, trasportandola di millimetro in millimetro e seminando ad ogni passo un cadavere. Fuori del nido poi era stata coperta con foglie e pezzetti di legno, sepolta e così resa innocua. Nella giornata i cadaveri dei morti vennero portati via dai sopravissuti, cancellata ogni traccia e il popolo fortemente ridotto visse d’allora in poi nel pacifico possesso della patria così valorosamente difesa. Perchè l’eroismo di questi piccoli insetti, che sorpassa tutto quanto potrebbe qualsiasi altra creatura, compreso l’uomo, mostrare in punto di devozione patriottica, mi aveva fatto tale impressione, che, vinto, rinunziai al mio proposito e sopportai piuttosto qualche molestia dai miei vicini, anziché distruggere le valorose bestie, di cui non aveva potuto piegare il coraggio» (p. 164-165). Il secondo esempio si riferisce ad un singolare esempio di devozione coniugale in un pappagallo. «Dinanzi alla casa vi era una gabbia, in cui stava un bel pappagallo di color verde e dalle ali d’un magnifico colore rosso. Sopra la gabbia stava un altro uccello simile, ma d’un verde più uniforme, che al mio avvicinarsi volò via. La signora Webb mi disse che l’uccello della gabbia era stato preso da suo marito in vicinanza della casa e, non essendo ferito, messo in gabbia. La sua fedele compagna veniva regolarmente ogni mattino a trovarlo e stava alcune ore a fargli compagnia. Dopo un po’ di tempo volava nuovamente via; qualche volta era anche rimasta assente alcuni giorni, ma poi era tornata presso il suo vecchio compagno. Non è questo tratto di fedele attaccamento, in un uccello, realmente commovente?» (p. 292-3).
* * *
Un elemento affatto nuovo, anzi inatteso, è stato portato in questa controversia sull’intelligenza animale dalle esperienze sugli «animali pensanti» che ha trovato eco anche nei giornali quotidiani32. Basterà quindi accennare brevemente ai fatti principali. Le prime esperienze sono state quelle dei cavalli di Elberfeld: che erano stati educati a rispondere a delle domande fatte a voce o scritte, battendo dei colpi di zoccolo su d’una pedana secondo un alfabeto insegnato ad essi in anticipazione — come gli spiriti. Analoghe esperienze e con gli stessi risultati sono state fatte a Mannheim con un cane, Rolf, che rispondeva battendo la zampa su d’una cartella. Le esperienze più meravigliose sono quelle matematiche: i cavalli estraevano radici quadrate e cubiche con una prontezza degna dei calcolatori-prodigio. Ma anche le altre risposte, nella loro semplicità e rozzezza, sono certamente fatti che hanno del meraviglioso. — Mi sia lecito notare incidentalmente che i fatti non sono nuovi. G. B. Duhamel, un ecclesiastico vissuto a Parigi dal 1624 al 1706, che pubblicò nel 1678 un Corso di filosofìa, d’indirizzo eclettico33, nella sua Metafisica a p. 458, dopo d’aver cercato di provare contro Cartesio che gli animali sentono, scrive: «Mentre scriveva queste pagine, mi fu riferito che a Parigi si metteva in mostra un cavallo ammaestrato nel contare, che non solo conosceva le carte, ma segnava anche il numero dei punti e lo segnava battendo altrettante volte la terra col piede. Quando si presentano due carte, p. es. un otto ed un nove, il cavallo segna diciassette. Se gli mostri una moneta, ne indica il valore col piede. Non oserei dire che il cavallo non obbedisca a dei segni: quantunque non abbiamo potuto in nessun modo accorgercene».
Contro questi fatti accertati da osservatori competenti hanno naturalmente elevato proteste i seguaci dell’ortodossia, per cui questi fatti non sono e non possono, non debbono essere veri; e con essi un certo numero di scienziati, turbati evidentemente nelle loro idee consuetudinarie. Soltanto chi ha osservato e sperimentato può dire su questo punto una parola autorevole: ora, come fatti, vi hanno assistito e li hanno constatati uomini, della cui competenza ed imparzialità non è lecito dubitare: il Mackenzie e l’Assagioli in Italia, fuori d’Italia il Claparède, il Bohn, l’Edinger34. «Dal 3 al 4 settembre di quest’anno (1913) — scrive Maeterlinck — ho trascorso due mattinate ed un pomeriggio nella stalla dei cavalli d’Elberfeld. Quattro di essi (tra cui uno cieco) hanno a vicenda lavorato in mia presenza e risolto problemi che dalle più semplici somme giungevano fino all’estrazione di radici complicate. Ho lasciato Elberfeld convinto, quanto uno può esserlo, della realtà e dell’assoluta sincerità dei fatti meravigliosi ed inesplicabili veduti con i miei propri occhi»35.
Le ipotesi proposte per spiegare questi fatti sono molte; il dott. Assagioli ne enumera nove. Escludiamo subito le ipotesi del caso, dell’attività subcosciente del cavallo, dell’ipotesi medianica, ecc. Le più attendibili sarebbero quelle del trucco — esclusa perchè i cavalli hanno dato risposte giuste anche in presenza
di soli studiosi, in assenza del padrone e dei famigliari della telepatia (trasmissione incosciente dal subcosciente dell’uomo a quello del cavallo), che è esclusa dall’esperienza seguente: i cavalli hanno sommato dei numeri, che l’esperimentatore ha dato loro senza guardarli. Resta l’ipotesi dei segni incoscienti: alla quale si sono attaccati molti critici, tra cui il Pfungst in un libretto (1907), che è esaminato e confutato dal Mackenzie nel libro citato. Secondo questa ipotesi il cavallo obbedirebbe a dei segnali inconsci, che l’esperimentatore dà, alle piccole contrazioni muscolari del viso, che accompagnano ogni decisione interna. Alla stessa soluzione si riattacca lo Stumpf; e con qualche esitazione anche il Pieron, direttore del gabinetto di Psicologia della Sorbona. Ma i cavalli lavorano anche quando nessuno dei presenti può esser veduto da loro: uno di essi poi è completamente cieco. «So bene (scrive E. H. Ziegler, professore di zoologia a Stuttgart) che questo nuovo metodo incontra dubbi e diffidenze. Gli avversarii negano che le manifestazioni degli animali provengano dalla loro intelligenza e vogliono spiegarle con segni conscii o inconscii o con la trasmissione del pensiero. Io ho più volte esaminato i cavalli di Elberfeld e fatto molti esperimenti col cane di Mannheim ed altri cani addestrati a calcolare ed a leggere, anzi ho ammaestrato io stesso un cane in questo senso. Secondo il mio avviso le obbiezioni degli avversari non hanno fondamento»36.
Una decisione, in qualunque senso, sarebbe su questo punto temeraria e prematura. Siamo qui un poco come dinanzi alle manifestazioni spiritiche. I fatti sussistono: anche spogliandoli di tutte le esagerazioni e dei travestimenti fantastici, vi è un complesso di fatti, che non possiamo finora spiegare in modo sicuro. D’altra parte se la psicologia degli «animali pensanti» ha autorevoli sostenitori, essa ha contro di sè anche grandi autorità: Wundt, Stumpf, Flournoy, Semon, Forel, Jennings. L’unica conclusione ragionevole sembra per ora essere questa: non liquet; è necessario cercare ancora. Ad ogni modo però, qualunque sia l’ipotesi preferita, è indubbio che ci troviamo qui dinanzi ad un complesso di fatti, i quali, comunque interpretati, attestano esservi nella psiche animale facoltà spirituali latenti, che l’uomo può svolgere con la sua influenza, e rivelano una comunione ed un’affinità della coscienza animale con la nostra, finora insospettate: fin dove quest’influenza e questa comunione possano giungere, nessuno certamente può dire.
* * *
Gli animali partecipano dunque dell’intelligenza e della ragione, ossia della natura umana: sono esseri affini a noi e il presentimento pietoso non ci inganna quando nei loro occhi leggiamo l’unità profonda che ad essi ci lega. La questione della natura e del destino della psiche animale è naturalmente un semplice corollario dei problemi che abbiamo precedentemente trattato. Anche su questo punto ci troviamo in presenza di due indirizzi. In genere i filosofi, che concedono alla psiche animale un principio di ragione, concedono che essa sia una sostanza partecipe in qualche modo dell’immortalità: così hanno pensato p. es. Scoto Erigena, Lorenzo Valla, Paracelso, Enrico Moro, il medico Daniele Sennert. Nello stesso senso inclina anche Leibniz. Secondo Leibniz tutti gli esseri sono costituiti da monadi: ciò che diciamo l’anima non è che la monade centrale più elevata in coscienza. Ora le monadi sono indistruttibili: quindi anche le monadi che costituiscono le anime dei bruti non periscono per la morte, ma trapassano in altre esistenze. Veramente secondo Leibniz non vi è trasmigrazione: l’anima non è mai nuda d’un corpo: essa conserva sempre anche nella morte una specie di corpuscolo, un’organizzazione invisibile, che si ricostruisce l’involucro grossolano, pur trasformandosi anch’essa insensibilmente attraverso i suoi passaggi. Di più si noti che le monadi animali sono indistruttibili, non immortali: l’immortalità, che è anche persistenza della personalità e della memoria, è propria solo dell’uomo (Teod. § 89). Anzi le stesse anime umane sarebbero state in origine, prima della comparsa dell’uomo, anime di bruti, rimaste in questo stato fino al tempo della generazione dell’uomo cui dovevano appartenere: la creazione dell’anima umana (che Leibniz chiama transcreazione) sarebbe in realtà solo l’elevazione d’un’anima sensitiva al grado di anima razionale (Teod. § 91). Nello stesso senso si pronunciò il wolfiano G. F. Meier. «Le anime dei bruti pensano, quindi non sono materia: sono dunque esseri semplici ed incorruttibili. Una bestia muore: ma la sua anima resta: essa vive eternamente, salvo il caso che Dio l’annichilasse, il che non avrebbe ragione. Perchè Dio, che è buono e giusto, dovrebbe ripiombare nel nulla tanti esseri che sentono? Le anime delle bestie continuano dunque ad esistere: dopo aver lasciato il loro corpo esse si uniscono con nuovi corpi e diventano più perfetti e più felici o più imperfetti e miserabili». Così anche sotto l’influenza di Leibniz il naturalista e filosofo Carlo Bonnet di Ginevra nella sua Palingenesi filosofica o idee sullo stato presente e futuro degli esseri viventi (1769). Anch’egli pensa che uomini ed animali siano composti di tre parti: del corpo grossolano, d’un organismo etereo che comprende in piccolo tutti gli organi dell’animale futuro e trapassa di vita in vita, e dell’anima. Anche le piante hanno una coscienza: ed è probabile che la loro sensibilità si svolga e si affini in altri stati superiori. Le anime animali passano, dopo un lungo errare, nello stato umano: quindi esse sono rispetto a noi come in uno stato d’infanzia: sono anime che debbono ancora svolgersi attraverso più vite come l’anima del bambino, che è ancora in sè un poco animale, si svolge e perviene all’umanità nel corso della sua vita presente. Del resto il concetto dell’immortalità dell’anima degli animali era una dottrina corrente nel secolo XVIII: esso si connette con la teoria della trasmigrazione, che troviamo anche in Lessing, Sulzer, Hume, Schlosser, Lichtenberg ed altri37.
Gli scolastici invece pongono tra l’anima umana e l’animale una differenza essenziale: l’anima del bruto perisce totalmente con il corpo. L’anima è una forma sostanziale materiale, non sussistente per sè: vale a dire è un principio che forma, plasma e anima la materia, ma che deriva dalla materia stessa (educitur e potentia materiae) e che non può nè sussistere, nè agire senza la materia che esso anima. Quindi alla morte dell’ animale anch’esso perisce. Per contro l’anima umana è una forma sostanziale per sè sussistente: la quale quindi, anche abbandonata dal corpo, può continuare a sussistere. La ragione che si dà della differenza è questa: che l’anima del bruto non può sentire senza la materia: invece l’anima umana può pensare ed esercitare l’intelligenza anche senza il concorso della materia. Si è disputato anche nella scolastica se l’anima animale sia unica o no. S. Tommaso ritiene che le anime degli animali più perfetti siano semplici e indivisibili: Suarez, dopo aver sostenuto nel De anima l’opinione di S. Tommaso, nelle opere posteriori si converte e adotta l’opinione comune, secondo la quale l’anima di tutti i bruti è composta e divisibile. Non manca però tra i recenti qualche neoscolastico, che considera le anime dei bruti come sostanze semplici e indivisibili, create da Dio, che dipendono quanto all’operazione, non quanto all’essere, dal corpo: alla morte Dio le annichila.
Non è necessario rifare qui la critica, tante volte ripetuta, di questa concezione: veda, chi lo desidera, la critica sottile, che fa del concetto scolastico dell’anima Pietro Bayle nel suo Dizionario all’articolo Rorarius. Il torto suo capitale è anche in questo punto di introdurre distinzioni recise ed assolute, d’un semplicismo radicale, là dove la realtà ha invece probabilmente gradazioni e separazioni infinitamente più recondite e complicate: il cui mistero non diventerà mai un sapere determinato se non per l’intelletto dei semplici. Così è che, messa da una parte l’anima dell’uomo,- razionale ed immortale per natura, le si è contrapposto dall’altra l’anima dei bruti, legata alla materia e mortale: introducendo così un ente contraddittorio, che da una parte è un principio di coscienza, senziente e conoscente, dall’altra è una pura funzione della sostanza materiale, da cui dipende anche quanto all’essere. Ora è possibile fino ad un certo punto considerare ogni manifestazione spirituale come legata alla materia in modo essenziale: ma allora bisogna estendere questo principio anche allo spirito umano: è la tesi del materialismo metafisico, che è discutibile senza dubbio, ma logicamente coerente. Ma una volta stabilito il concetto dello spirito come d’una realtà per sè stante, non è possibile, senza contraddizione, distinguere la gradazione delle vite spirituali in due parti, di cui l’inferiore è ancora legata, quanto all’essere, alla materia: ciò equivale ad introdurre una comunione di natura, che annulla la distinzione recisa prima stabilita. Lasciando da parte del resto queste distinzioni che hanno tutte un vizio d’origine nella posizione d’una sostanza materiale per sè stante, è indiscutibile che l’anima dell’animale, comunque concepita, è un principio formale, una realtà: ora come può questa realtà tornare nel nulla? E come si può pensare che Dio produca continuamente un numero infinito di questi principii per precipitarli subito dopo nel nulla, sebbene essi abbiano qualche cosa di ben più nobile che la materia, la quale non perde mai l’essere suo? Questo si connette anche con una difficoltà dell’ordine morale. Dio avrebbe creato degli essere capaci di sentire e di conoscere, senza costringerli a conoscerlo ed amarlo: egli li avrebbe creati per vivere perennemente nello stato di peccato — che è il non conoscere Dio e l’arrestarsi nelle creature come in un ultimo fine. Ciò appare anche più grave, se formuliamo questa difficoltà così come era stata proposta dai cartesiani. Se le bestie sentono, come si giustifica il loro soffrire? Non vi è nulla che gridi così altamente contro la bontà e la giustizia divina come il dolore animale. Le ragioni, con cui si tenta giustificarlo, non hanno nessun valore: sono sofismi ridicoli e crudeli. Il dolore che innumerevoli poveri esseri innocenti soffrono sulla terra senza speranza e senza ragione è tale iniquità, che dovrebbe oscurare anche la beatitudine eterna del cielo.
A questa critica si risponde con una pretesa riduzione all’assurdo: dunque vorrete, si dice, fare dei bruti tanti esseri immortali? Mi sia lecito opporre a questa un’altra domanda: è forse meno assurdo il fare di tutti gli uomini altrettanti spiriti immortali? Tanto è difficile il credere che tutti i bruti siano essere immortali, quanto l’ammettere che lo siano tutti gli uomini. Questo solo possiamo con sicurezza sapere: che in tutti gli esseri, negli uomini come negli animali, vi è qualche cosa di eterno. Ma l’immortalità, la vita nell’eterno, non è il privilegio di nessuna natura, nemmeno dell’umana: essa è al più, se l’alta speranza non mentisce, una lunga e faticosa conquista, alla quale pochi giungono, ma alla quale tutti gli esseri tendono attraverso esistenze e dolori innumerevoli.* * *
A questo punto potrà a qualcuno parere che io abbia, nel delinearne la natura, troppo avvicinato l’animale all’uomo e sia caduto così nell’errore, che si rimprovera alla psicologia animale popolare, di umanizzare troppo l’animale. Ma questo sarebbe un ingiusto rimprovero. Dire che l’animale è un essere, che ha comuni con noi la natura e il destino, non è ancora un volerne aprire a noi l’anima; essa ci apparirà anzi, dopo quanto si è detto, qualche cosa di ignoto e di misterioso assai più di prima. Del resto anche gli uomini sono esseri simili a noi e con essi ci collega un’infinità di rapporti: ma possiamo veramente dire che li conosciamo? Noi abbiamo l’illusione di conoscerli, di venire a contatto con l’anima loro: ma questo, se pure avviene, quanto raramente avviene! Anche facendo astrazione dalla dissimulazione volontaria, ciò che ci separa più profondamente dai nostri simili è l’impossibilità di penetrarli, di vivere la loro vita dal loro punto di vista: noi operiamo quasi sempre inconsciamente la trasposizione dal nostro punto di vista e così viviamo nell’illusione di conoscere chi spesso è separato da noi da un abisso. Non parlo delle impossibilità create da differenze di razza e di cultura, nè delle disparità causate da diversità d’abitudini, di vita e di educazione: ma anche la conoscenza dei più vicini e degli intimi come è superficiale! Come ci compenetriamo in realtà poco anche con coloro che amiamo! Noi ne conosciamo, come della luna, la faccia rivolta a noi e la conosciamo alla luce della nostra coscienza: il resto rimane impenetrabile: ognuno in fondo conosce soltanto ciò che vive, sè stesso. Quanto più dobbiamo dire questo degli animali, che sono così lontani da noi! Noi ce li ricostruiamo con l’aiuto di vaghe analogie, in base ad alcune regole astratte: ma in realtà possiamo così poco pretendere di conoscerli, come essi di conoscere noi. Pensiamo poi che qui intervengono anche differenze profonde nella struttura e negli elementi. La nostra coscienza è determinata nell’essere suo dagli elementi, dalle sensazioni: se avessimo altri organi di senso, il nostro mondo e il nostro io avrebbero un altro aspetto. Ora l’animale è diverso da noi anche sotto questo rispetto. Già in molti vertebrati i sensi hanno un valore diverso da quello che hanno in noi: le sensazioni di colore, per esempio, hanno una ben più scarsa influenza e probabilmente sono più povere che da noi: e in ogni modo essi apprendono i colori in modo diverso da noi38. Di più essi sono probabilmente sensibili a stimoli, che per noi non esistono: le formiche, p. es., secondo Lubbock e Forel, sono sensibili ai raggi ultravioletti, che sono per noi invisibili39. Ed anche le forme degli oggetti quanto devono apparire diverse a sensi organizzati così diversamente! Come appariscono p. es. gli oggetti agli occhi faccettati degli insetti? Non lo sappiamo e non lo sapremo mai. Ed a che servono gli occhi semplici, che li accompagnano? Un zoologo nel 1912 annoverava già undici ipotesi diverse: il che vuol dire che non sappiamo nulla affatto. Si pensi ancora al misterioso senso di orientamento, che dirige molti animali; si pensi all’olfatto degli insetti, che risiede nelle loro antenne e che, esercitandosi a contatto degli oggetti odoranti e potendo per la mobilità delle antenne costituire delle relazioni spaziali (Forel), deve dar loro una visione spaziale delle cose, in cui l’olfatto ha senza dubbio una parte essenziale! Se riflettiamo a tutto questo, comprenderemo facilmente che il mondo, in cui vivono gli animali, non è il nostro: ogni specie animale, come ha la sua anima, ha il suo mondo. Quanto più scendiamo nella scala animale, il nostro mondo ricco di suoni, di forme e di colori si impoverisce e si trasforma in un mondo di odori e di resistenze meccaniche: finché in basso, negli esseri infimi, non è forse più che una successione di stimoli, da cui è scomparso anche il carattere spaziale. Noi li vediamo nel nostro mondo e collochiamo il loro mondo nel nostro come una variazione o una riduzione del nostro mondo, del vero mondo, in cui essi e noi viviamo. Ma è questo il vero mondo? Anche noi uomini abbiamo ciascuno il nostro mondo: e i mondi nostri si dispongono nella stessa gradazione, in cui sono le intelligenze che li apprendono. I grandi spiriti vedono un mondo che il volgare non vede: un mondo più vasto, più ricco e più vero. Essi vedono noi nel nostro mondo, come noi vediamo gli animali, e dicono di noi, come noi diciamo di questi: «Vi sono nel mondo questi e questi altri aspetti per cui il loro occhio è cieco e la loro coscienza è chiusa».
Queste considerazioni se ci tolgono l’illusione di conoscere gli animali — misteriosi esseri che come noi qui vivono, soffrono e si elevano — ci consolano anche della nostra ignoranza. Se andiamo a fondo delle cose, che cosa vi è che possiamo dire di conoscere? La sicurezza e la chiarezza sono soltanto alla superficie delle cose. E tuttavia questo non è uno scetticismo desolante. Noi diciamo di non conoscere, perchè da ogni parte la verità ultima ci sfugge: e nondimeno sentiamo che il processo del conoscere non è un tentativo irragionevole e disperato, ma un tendere infinito, che ha la sua ragione nei compiti più gravi della nostra natura. Ogni grado del conoscere non è per sè, ma per elevarci verso un grado più alto: e questa elevazione è possibile solo per una trasformazione di tutto l’essere nostro. Il conoscere non è solo un processo quantitativo di accrescimento, ma una continua trasformazione del soggetto stesso: come la fenice, il conoscere arde, traducendosi in una nuova personalità ed in una nuova vita, da cui continuamente risorge rinnovato ed elevato.
La conoscenza è unificazione: per la conoscenza lo spirito individuale fa sè centro del mondo e da questo centro si appropria le imagini delle cose, estende il suo dominio teoretico, fa del mondo la sua coscienza. Ma questa estensione del conoscere non è soltanto un’appropriazione esteriore e superficiale — sempre imperfetta — , bensì anche una penetrazione pratica, un riconoscimento progressivo dell’identità di natura che collega le cose col nostro spirito; un’estensione della nostra vita verso quell’unità essenziale e profonda, che stringe in una vita sola tutti gli esseri del mondo. Questa estensione, che si traduce per la coscienza individuale in un senso di armonia con le cose, di simpatia interiore e di carità, ha cominciato prima dall’uomo all’uomo ed anche in una sfera molto limitata: il movimento, che ha stretto in unità tutto il genere umano ed assicurato a tutti gli uomini i diritti sacri dell’umanità, è stato sotto l’aspetto teoretico, un ravvicinamento delle coscienze, un progressivo approfondimento interiore del concetto vago di umanità, che ha fatto sentire all’uomo, al di là delle differenze superficiali di stato e di classe, l’identità della natura più profonda in tutti gli uomini. Giova perciò sperare che, quando penetrerà in noi un più vero concetto della natura dell’animale e dei suoi rapporti con noi, esso aprirà anche al nostro occhio spirituale un regno dello spirito più vasto che il regno umano: allora gli uomini riconosceranno che vi è fra tutte le creature un rapporto ed un’obbligazione vicendevole ed estenderanno, senza sforzo, a tutti gli esseri viventi quei sensi di carità e di giustizia, che ora considerano come dovuti soltanto agli uomini.
- ↑ Conferenze tenute nel 1920 alla Società milanese di studi filosofici e religiosi.
- ↑ Recherche de la veritè, III, 2.
- ↑ Si veda di lui specialmente la Fisiologia comparata del cervello e psicologia comparata (tr. it.), 1907.
- ↑ H. v. Buttel-Reepen, Sind die Bienen Reflexmaschinen?, 1906 Leben und Wesen der Bienen, 1915.
- ↑ V. p. es. H. E. Ziegler, Der Begriff des Instinktes einst und jetzt ³, 1920, p. 110, ss.
- ↑ W. Wundt, Grundz. d. physiol, Psychol.³, 1887, I, p. 23.
- ↑ W. Mackenzie, Alle fonti della vita, 1912, p. 185.
- ↑ I. Lubbock, Fourmis, abeilles et guêpes, (tr. fr.), 1883.
- ↑ Se ne vedano esempi in Wundt, Vorles. über die Menschen-und Tieseele 6, 1919, p. 397, ss.
- ↑ A. Forel, Un aperçu de psychologie comparée in «Année psychol., II, p. 19-20.
- ↑ Zur Strassen, Die neuere Tierpsychologie, 1907; v. Uexküll Umwelt und Innenwelt des Tiere, 1907.
- ↑ Come un eccellente esempio di questa nuova psicologia può essere considerata l’opera classica dì Jennings sulla psicologia dei microrganismi (Jennings, Die niederen Organismen, ihre Reflexphysiologie und Psychologie, (trad. ted.), 1914).
- ↑ Così anche Darwin spiega l’istinto per cui alcune vespe (Sfhex) sanno paralizzare la loro preda. Si veda la lettera di Darwin in Romanes, Die geitige Entwicklung im Tierreich (tr. ted.) 1885. p. 332-334.
- ↑ Si veda la memoria sull’istinto pubbl. dal Romanes in appendice al suo libro citato, p. 393. ss. Il Romanes associa i due principii: il principio darwiniano della selezione e il principio (lamarckiano) della trasmissione delle abitudini acquisite; si veda il cap. sull’origine e svolgimento dell’istinto; ib., pag. 190-216.
- ↑ E. Perrier, L’instinct, in Année psychol., VIII, 1902, p. 561 ss.
- ↑ Si cfr. la spiegazione che, nello stesso verso, dà delle migrazioni dei lemmings in Norvegia il Crotch in Romanes, ib., p. 312. E per le migrazioni degli uccelli v. K. Graeser, Der Zug der Vögel, eine entwicklungsgeschichtliche Studie, 1905.
- ↑ H. Pieron, L’istinct, nel Bulletin de la Soc. fr. de philosophie, 1914, p. 309.
- ↑ Se ne vedano esempi in H. E. Ziegler, Der Begriff des Instinktes einst und jetzt³, 1920, p. 107 ss. Il Romanes ha un intero capitolo dedicato alle mutazioni che avvengono negli istinti: cfr. o. c., p. 230 ss.
- ↑ Bredif, De anima brutorum quid senserint praecipui, apud veteres, philosophi, 1863.
- ↑ Dyroff, Die Tierpsychologie des Plutarchus von Chäronea, 1897.
- ↑ Purpus, Die Anschauungen des Porphyrius über die Tierseele, Diss. 1899.
- ↑ Gerdemann, Das Tier in der Philosophie Montaignes, Diss., 1897.
- ↑ G. F. Meier, Versuch e. neuen Lehrgebäudes von d. Seelen der Tiere, 1749; (tr. fr.), 1750. Sotto l’influenza di Leibniz stanno parimenti le interessantissime pubblicazioni d’una società di psicologia animale, raccolte da un altro wolfiano, I. H. Winkler ed edite a Lipsia dal 1742 al 1745. Esse si occupano dell’esistenza della psiche animale, dell’intelligenza negli animali, della ragione negli animali, della incorporeità e dell’immortalità della psiche animale: comprendono sei fascicoli di circa 96 p. ciascuno.
- ↑ Cfr. E. Claparède, La psychologie animale de Ch. Bonnet, 1910.
- ↑ Cfr. Dyroff, Zur stoischen Tierpsychologie, 1897.
- ↑ F. Wasmann, Instinkt und Intelligenz im Tierreich ³, 1905.
- ↑ A Lehmen, S. I., Lehrbuch d. Philosophie 2, 1904-6.
- ↑ Non interessa naturalmente qui ricercare dove cominci, nella scala animale, la manifestazione indiscutibile dell’apprensione causale: basta qui riferirsi alle osservazioni più incontestabili. Per gli insetti superiori si veda, oltre ai lavori di Forel, di Wasmann e di altri, O. M. Reuter, Die Seele der Tiere, 1908, p. 28 ss. Si vedano anche le esperienze sulle scimmie antropoidi di W. Köhler, prof, di psicologia alla Un. di Berlino (Intelligenzprüfungen an Menschenaffen2, 1921). Questi antropoidi (così conclude il Köhler) non si staccano solo per molteplici caratteri morfologici e fisiologici dal resto del mondo animale avvicinandosi alla razza umana, ma esplicano un modo d’agire, che è quello che noi consideriamo come specificamente umano.
- ↑ Romanes, Die geistige Entwicklung im Tierreich (tr. ted.), 1885, p. 185 ss. Vedi ivi, p. 165-167, altre sue interessantissime osservazioni sullo stesso argomento.
- ↑ F. De Sarlo, La psiche degli animali, in Psiche, I, 1911, 6.
- ↑ R. Semon, Ins australischen Busch und an den Küsten des Korallenmeeres. Reiseerlebnisse und Beobachtungen eines Naturforschers², 1903.
- ↑ Si veda per tutto questo l’ottimo libro del Mackenzie, Nuove rivelazioni sulla psiche animale, 1914; come pure gli articoli apparsi in Scientia (1913), in Psyche (1913-14), nel Bollettino della Società filosofica di Parigi (1912) e nella Mitteilungen der Gesellschaft fiir Tierpsychologie (1913 ss.).
- ↑ Duhamel, Philosophia vetus et nova, Yen. 1730, 6 vol.
- ↑ Le dichiarazioni sono raccolte nella relazione edita dalla Società berlinese di psicologia animale: Die Seele des Tieres, Berichte, etc., 1916.
- ↑ M. Maeterlinck, Die Pferde von Elberfeld nella Neue Rundschau, 1914, 6.
- ↑ H. Ziegler, Tierpsychologie, 1921.
- ↑ Cfr. R. Unger. Zur Geschichte d. Palingenesiegedankens im XVIII Iahrh.in Deutsche Vierteljahr. f. Literaturwiss. u. Geistesgeschichte, Bd. Il, 2.
- ↑ v. Hess, Die Entwicklung vom Lichtsinn und Farbensinn im Tierreiche, 1914.
- ↑ Lubbock, Fourmìs, abeilles et guêpes, 1883, 1, p. 164-181. «È probabile che i raggi ultravioletti producono nelle formiche la sensazione d’un colore distinto (del quale non possiamo farci alcuna idea): colore tanto differente dagli altri quanto il rosso dal giallo o il verde dal violetto» (p. 181).