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XI. De l’anema contrita de l’offesa di Dio
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De l’anema contrita de l’offesa di Dio.          .xi.


     SIgnore, damme la morte       nante ch’io più te offenda;
     et lo cor me se fenda       ch’en mal perseuerando.
Signor, non t’è giouato       mostrarme cortesìa;
     tanto so stato engrato,       pieno di uillanìa!4
     pun fin a la uita mia       ch’è gita te contrastando.

Megli’ è che tu m’occidi,       che tu, Signor, sie offeso;
     ché non m’emendo, già l uidi;       nante a far mal so acceso;
     condanna ormai l’appeso,       ché caduto è nel bando.8
Comenza far lo iudicio,       a tollerme la santade,
     al corpo tolli l’officio       che non agia più libertade;
     perché prosperitade       gita l’à mal usando.
A la gente tolli l’affecto,       che nul agi de me piatanza;12
     per ch’io non so stato derecto       hauer a l’inferme amistanza;
     & toglieme la baldanza       ch’io non ne uada cantando.
Adunense le creature       a far de me la uendecta;
     ché mal ho usate a tutture       contra la legge derecta;16
     ciascuna la pena en me mecta       per te, Segnor, uendecando.
Non è per tempo el corotto       ch’io per te deggo fare;
     piangendo continuo el botto       douendome de te priuare,
     o cor, co l poi pensare,       che non te uai consumando?20
O cor, co l poi pensare       de lassar turbato amore,
     facendol de te priuare       ó pateo tanto labore?
     or piagne l suo descionore       & de te non gir curando.

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