< Le Novelle Indiane di Visnusarma
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Anonimo - Le Novelle Indiane di Visnusarma (Antichità)
Traduzione dal sanscrito di Italo Pizzi (1896)
Libro Quarto
Libro Terzo Libro Quinto


LIBRO QUARTO


Ora s’incomincia il quarto libro che ha per soggetto la perdita di ciò che si è acquistato, e di cui questi sono i primi versi:


Chi non perde sua saggezza
In alcun nuovo accidente,
Ogni ostacolo più reo


Passa e vince allegramente,
Come un giorno il scimio fe’
Che nell’acqua discendè1.


Così, intanto, s’ode raccontare:

C’era una volta in una regione vicina al mare un grande albero di pomi rosati che sempre aveva frutti. Là abitava anche un scimio di nome Ractamuca. Sotto quell’albero, uscendo dalle acque del mare, un giorno venne anche a posarsi sul’estrema sponda ricoperta di sabbia finissima un delfino di nome Vicaralamuca. Allora Ractamuca gli disse: Tu mi sei un ospite mo’ venuto. Perciò mangia tu di questi pomi rosati che ora ti darò, simili in tutto all’ambrosia. Perchè è stato detto:


O sia amico o sia nemico,
Sapïente o mentecatto,
Sempre l’ospite che giunge
Quando il sacrificio è fatto
Ai Celesti, guida al ciel
T’è quell’ospite fedel.
Ad ospite che giunge in sulla fine
D’un sacrificio a tutti Dei celesti

O a un banchetto funeral, nessuno
La vita o il nome a dimandar s’appresti,
Non la famiglia, non ciò ch’egli sa;
Tra quei di Mànu questo detto sta.

Giunge ad altissimo
Grado colui


Che onora un ospite
Venuto a lui,
Dal lungo correre
Affaticato,
Quando l’ufficio2
Fatto agli Dei
È terminato.
A’ vecchi padri3 insieme
Escon gli Dei crucciati
Dalla magion di tale
Che lascia innamorati
Dalla sua casa uscir
Gli ospiti fra i sospir. —


Così avendo parlato, gli diede di quei pomi rosati, e il delfino, come ne ebbe mangito, goduto lungo tempo col scimio la felicità di stare insieme, ritornò a casa sua. Così poi sempre egli e il delfino, venendo all’ombra del pomo rosato, solevano trattenersi con piacere passando il tempo in quella lor buona compagnia. Ora, il delfino, tornando a casa, porgeva alla sua mogliera alcuni di quei pomi rosati che gli erano restati da mangiare. Un giorno, costei gli domandò: Dove mai, marito mio, trovi tu questi pomi che sono eguali all’ambrosia? — Il delfino rispose: Cara mia, io ho un scimio di nome Ractamuca che mi è amico carissimo. Egli, per l’amor che mi porta, mi dà di questi frutti. — Quella allora disse: Chi mangia di questi frutti che in tutto somigliano all’ambrosia, deve avere il cuore tutto ambrosia. E però, se tu hai alcuna utilità della moglie tua, fammi avere il cuore di colui, mangiando del quale io, sciolta da vecchiezza e da morte, possa godermi con te d’ogni godimento. — Il delfino disse: Non parlar così, mia cara! Egli è ornai come un nostro fratello. Con questo, non è lecito ammazzare chi ci dà di tali fruiti. Però lascia tu questo tuo vano divisamente. Perchè è stato detto:


Un fratel ti dà la madre,
Un fratel la tua parola4;
Ma più caro han detto i saggi


Esser quel che dalla sola
Voce tua ti venne, quale
Un fratello tuo carnale. —


La delfina allora disse: Altre volte tu non hai mai fatto in modo diverso da quel che t’ho detto. Ma quella dev’essere certamente una scimia! perchè sol per amore tu puoi passar là tutta la tua giornata. Oh! io t’ho già conosciuto! Perchè è stato detto:


Tu a me con grazia
Non parli mai;
Ciò ch’io più voglio
Darmi non sai;
Spesso di notte
Forte sospiri
Come una fiamma
Che alta s’aggiri;


Se tu mi abbracci
Al collo e baci,
Freddo ti mostri
Nè te ne piaci.
Oh! scellerato!
Altra beltà
Di me più cara
In cor ti sta! —


Egli allora, abbracciando i piedi della consorte, disse con dolore:


Mentr’io cado a’ piedi tuoi,
Mentre al tuo servigio io son,


Tu ti sdegni, o bella irosa,
E non ne hai giusta ragion. —


Ma quella, udendo cotesto, col viso tutto bagnato di lagrime, rispose:


Con suoi cento vezzi e scede,
Dolce a te in sua falsità,
La tua bella, o scellerato,
Sempre e sempre in cor ti sta.


Ma per noi loco non resta
Nel tuo cor; però di te
Di finzion opra è cotesto
Tuo cadermi innanzi al piè.


Inoltre, se colei non è la tua amante, perchè, vinto alle preghiere mie, non la uccidi tu? Ma se veramente è un scimio, che è mai cotesto tuo amore per lui? E poi, a che tante parole? Se tu non mi fai mangiar del cuore di colui, io, non toccando mai più alcun cibo, mi lascierò morire in tua presenza. — Il delfino allora, avendo così saputo del divisamente suo, col cuore turbato da molti pensieri, disse: Oh! quanto giustamente si suol dire:
Del pantan, delle donne e degli stolidi,
Del canchero, dell’indaco, dei pesci,
Degli ubriachi, è tutto un solo prendere5.


Ora come farò io? Come potrò io uccidere colui? — Così avendo pensato, se n’andò presso il scimio, e il scimio che l’ebbe veduto venire in ora tarda e tutto concitato, gli gridò: Oh! perché mai, amico mio, sei oggi venuto ad ora così tarda? Perché non mi dici tu nulla di gentile? perché non mi volgi alcuna bella parola? — Il delfino rispose: Amico mio, oggi io da tua cognata6 sono stato assalito con dure parole. «Oh! ingrato! diceva, non venirmi mai più dinanzi! Tu ogni giorno vivi alle spalle del tuo amico, e intanto non l’hai punto ricambiato nemmeno col fargli vedere la porta di casa nostra. Via! non c’è modo di espiazione per te. Perchè è stato detto:

Han decretato i saggi che sia redenzïone
Per chi dà morte a un prete, di sidro pel beone,

Per chi suoi voti infrange, per ogni scellerato,

Ma non per chi si mostra a’ benefizi ingrato.


Tu però oggi, almeno per ricompensarlo, fa di menarmi a casa mio cognato7; seno, tu mi rivedrai soltanto all’altro mondo». Io adunque, così sollecitato da lei, son venuto da te, e per questo appunto oggi, mentre io per te disputava con lei, mi è passata tanta parte di tempo. Ma tu vieni a casa mia. Tua cognata, adorna de’ gioielli che suol portare, fra cui smaniglie, perle, vesti in diversa maniera acconciate e ordinate, con la porta di casa tutta a ghirlande intrecciate insieme, si sta ad aspettarti con desiderio. — Il scimio disse: Amico mio, mia cognata ha parlato egregiamente. Perchè è stato detto:


Amico che per troppa cupidigia
A te sempre si volge con la faccia

Come fa per costume il tessitore8,
L’uom ch’è prudente, di lasciar procaccia.

Dare e ricevere,
Ogni secreto


Narrare e chiedere,
Godersi lieto
E far che godasi9,
Sei manifesti
Dell’amicizia
Segni son questi.


Ma noi abitiamo le selve mentre la casa vostra è al fondo delle acque. Come adunque si può andar fin là? Tu piuttosto conduci qui mia cognata perchè, mentre la inchinerò, io ne riceva la benedizione. — Il delfino disse: Amico, la nostra casa sta in una isoletta dilettosa al confine dell’oceano. Tu però montami sul dorso e senz’alcun timore vieni meco felicemente. — L’altro, udendo ciò, rispose con gioia: Amico, se è cosi, allora affrettiamoci. A che indugiarci? Ecco che già io ti son montato sulla schiena! — Fatto cotesto, il scimio, al vedere il delfino andar per il mare profondo, tutto spaventato della mente, gridò: Andiamo adagio adagio, o fratello! Il corpo mio già si sommerge nelle onde! — Udendo ciò, il delfino pensò: Costui, capitato confò in quest’acque profonde, è in mio potere. Egli ornai non si può più allontanare d’un grano di sesamo da che m’è salito sulla schiena. Io perciò gli dirò ora qual sia il mio divisamente perché egli si raccomandi al suo dio protettore. — Poi disse ad alta voce: Amico mio, sappi che, dopo che ho acquistato la tua fiducia, ecco che io, per sollecitazion di mia moglie, ti meno alla morte. Perciò, raccomandati ora al tuo dio proiettore. — Il scimio disse: 0 fratello, quale offesa ho fatta io a te o a lei perché tu abbi pensato al modo di uccidermi? — Il delfino disse: Ecco, le è venuta voglia, essendo gravida, di mangiar del tuo cuore che dev’essere dolce a gustare come il succo di quei frutti d’ambrosia. Perciò appunto è accaduto tutto questo. — Allora, con mente pronta alla risposta, il scimio disse: Oh! se è così, amico mio, allora perché non m’hai detto là tutto ciò intanto che io sempre tengo il cuor mio ben nascosto in un buco dell’albero dei pomi rosati? Certo! che io lo porterò a mia cognata! Ma tu perché mi vuoi menare là privo di cuore come sono? — Udendo questo, il delfino tutto allegro disse: Amico, se così è, fammi tu avere il tuo cuore perché quella povera moglie mia, mangiandone, si levi dal lungo digiunare! Io intanto ti ricondurrò sotto l’albero dei pomi rosati. — Così avendo detto, voltatosi indietro, se ne venne ai piedi dell’albero dei pomi rosati. Il scimio allora, come ebbe mormorato alcune parole di preghiera e di adorazione agli Dei, afferrò la sponda, indi, balzato con un lungo salto sull’albero dei pomi rosati, pensò fra sé: Intanto, io ho salvato la mia vita. Però giustamente si suol dire:


Di tal che non si fida,
Non ti fidar tu mai;
Anche in tal che si fida,
Tu fede non porrai.


Timor che da fiducia
D’un tratto germogliò,
Alla fè le radici
D’un subito troncò.


Davvero! che questo dì è il giorno del mio tornare alla vita! — Mentre egli così pensava, il delfino disse: Amico, dammi adunque il cuore perché tua cognata, mangiandone, si levi dal suo lungo digiuno. — Ma il scimio ridendo e facendosi beffe di lui, rispose: Cibò! oibò! sciocco e traditor della fede! E chi è mai che abbia due cuori? Vattene via adunque sùbito di sotto da quest’albero e non tornarvi mai più. Perchè è stato detto:


Quei che riconciliarsi anche tentò
Amico che una volta si crucciò,


Come mula che osava concepir,
Merita in issofatto di morir. —


Udendo cotesto, il delfino, tutto vergognoso, pensò fra sè: Oh! perché mai io, sciocco! gli ho fatto sapere il mio disegno? Oh! se almeno per oggi ancora potrò indurlo a fidarsi di me, io anche più farò di crescergli la fiducia! — Allora disse: Amico, colei, veramente, non sa che farsi del tuo cuore, e io t’ho parlato così per ischerzo, come per far prova delle nazioni dell’animo tuo. Ora però vieni a casa nostra secondo il costume degli ospiti. Tua cognata con molto desiderio ti sta ad aspettare. — Ma il scimio rispose: Oh! scellerato, vattene sùbito via di qua! Certo io non verrò con te. Perchè è stato detto:


Qual rea cosa non fa l’uom ch’è affamato?
Pietà non sente l’uom ch’è rovinato.


A Priadarsana, amica, tu dirai:
«Gangadatta da te non verrà mai». —


Il delfino disse: Come ciò? — E l’altro disse:

Racconto. — Una volta abitava in una cisterna un re delle rane di nome Gangadatta, il quale, un giorno, vessato da’ suoi congiunti, cacciatosi nella secchia da attinger acqua, d’un salto balzò fuori dalla cisterna. Allora egli pensò: Come mai potrò io recar qualche malanno a que’ miei congiunti? Perchè è stato detto:


Quei che mal fe’ a questi dui,
A chi in giorno di malanni
Potè ridere di lui
E a chi diègli offese e danni


Quando incesegli sventura,
Credo e penso ch’egli è tale
Ch’è rinato addirittura10. —


Mentre egli così lungamente andava pensando, vide un nero serpente di nome Priyadarsana che entrava nella sua tana. Al vederlo, egli pensò anche questo: Ecco! se io menerò nella cisterna quel nero serpente, farò macello di tutti i miei congiunti. Perchè è stato detto:


Ad un nemico aggiungasi un nemico,
Ad un ch’è forte, aggiungasi un più forte,


Chè all’opra nostra non verrà iattura
Se questo vassi, ovver quell’altro, a morte.


E poi:


Atterri il saggio
Nemico altero
Con un nemico
Anche più fiero,


Come, lo spasimo
Per far cessare,
Suole una spina
L’altra cavare. —


Così adunque avendo divisato, andatosene all’entrata della tana, cominciò a chiamarlo: Vieni! vieni, o Priyadarsana! vieni! — Udendo ciò, il serpente si mise a pensare: Costui che mi chiama, non è della gente mia, perchè questa non è voce di serpente, nè io ho alleanza alcuna con alcun altro nel mondo degli uomini. Io pertanto, stando pur qui nella mia tana, voglio sapere chi mai sarà costui. Perchè è stato detto:

Alleanza con tale non farai,
Brihàspati dicea, di cui l’ingegno,
L’opere, la famiglia, tu non sai.


Forse alcun incantatore o qualche pratico d’erbe, chiamandomi, vuol farmi prigioniero; o forse alcun altro, essendo venuto in qualche inimicizia, mi chiama per avvelenare il suo nemico. — Allora disse ad alta voce: Oh! chi sei tu? — L’altro disse: Io sono il re delle rane Gangadatta venuto a te per amicizia. — Udendo ciò, il serpente rispose: Oh! questa è ben cosa incredibile? Come può esserci amichevole convegno tra la paglia e il fuoco? Perchè è stato detto:

Nemmeno in sogno vuolsi andare accanto

A lai di cui slam vittime in natura11.

A che dunque a ciarlar ti sbracci tanto’? —


Gangadatta disse: Oh! ciò è pur vero. Per tua propria natura tu sei il nemico di tutti noi. Tuttavia, soltanto per offese ricevute, io son venuto da te. Perchè è stato detto:


Quando ogni cosa
Sen va in malora
E c’è pericolo
Di vita ancora,


Anche a un nemico
Si fan carezze,
Pur che si salvino
Vita e ricchezze. —


Il serpente disse: Dimmi allora da chi t’è venuta l’offesa. — E l’altro disse: Dai miei congiunti. — Il serpente disse: Ma dove stai tu di casa? in uno stagno? in una cisterna? in un lago? in un pantano? Dimmi, suvvia! la tua abitazione. — Disse: In una cisterna tutta fabbricata di pietre. — Disse il serpente: Noi non abbiamo piedi, e io non posso entrar fin laggiù; e quando ci fossi entrato, non ci sarebbe luogo dove stando io, potessi ammazzare i tuoi congiunti. Vattene adunque. Perchè è stato detto:


Ogni erba ch’è possibile a mangiare,
E mangiata si possa digerire,


E digerita possa anche giovare,
Mangi chi vuole in alto pervenire. —


Gangadatta disse: Oh! vieni con me! Io con un modo molto acconcio farò che tu possa entrare fin laggiù. Là dentro e proprio all’orlo dell’acqua è una cavità molto comoda. Standovi dentro tu potrai, come per tuo trastullo, afferrare i miei congiunti. — Udendo cotesto, il serpe pensò fra sé: lo ormai son maturo d’età e soltanto a stento posso qualche volta arrivare qualche topo, e qualche volta non posso; però è per me spediente felicissimo di vivere questo che m’è stato mostrato da costui, tizzone divoratore delle sua propria stirpe. Io adunque andrò e mi mangeró le rane. Intanto, si suol dire giustamente:


Quei ch’è al termin di sua vita,
Da ogni sozio abbandonato,


Saggio egli è se per campare
Ogni metodo ha operato. —


Così adunque avendo divisato, rispose a Gangadatta: O Gangadatta, se così è, entrami innanzi perché tutt’e due possiamo andar fin là. — Gangadatta disse: O Privadarsana, io ti menerò fin là nel modo migliore; anzi ti farò vedere il posto dove starai. Tu però mi devi risparmiare quelli del mio sèguito. Soltanto quelli che io ti mostrerò, tu dovrai divorare. — Il serpente disse: Ora tu sei l’amico mio; perciò non temere. Secondo quello che m’hai detto, io divorerò soltanto i tuoi congiunti. — Come ebbe parlato così. uscì dalla tana, abbracciò Gangadatta e s’incamminò con lui. Come poi per la via della secchia da attinger acqua ebbe raggiunto il fondo della cisterna, fu menato da Gangadatta in persona alla sua propria casa, e Gangadatta, come l’ebbe allogato in quella cavità, gli mostrò i suoi congiunti, i quali a poco a poco furono tutti divorati daini. Quando mancarono le rane, il serpente disse: Amico, non è restato alcun nemico tuo. Dammi adunque qualche altra cosa da mangiare poiché son stato menato qui da te. — Gangadatta disse: Tu hai fatto ciò che si doveva fare da un amico. Ora però tu te ne puoi andare per la via della secchia dell’attingere acqua. — Il serpente disse: O Gangadatta, tu non hai parlato giustamente. Come potrei io andar fin là? La tana mia ora è occupata da qualchedun altro. Perciò, poiché io starò qui, dammi tu ad una ad una alcuna delle rane della tua gente; se no, io le divorerò tutte. — Udendo questo, Gangadatta con mente turbata si mise a pensare: Oh! perché mai ho fatto io di menar qui questo serpente? Se io ora non posso impedirlo, egli divorerà tutte le rane. Intanto si suol dire bene a proposito:


Quei che nemico fassi chi gli è amico
E il supera in grandezza ed in poter,


Dubbio alcuno non è che per sé stesso
Un veleno mortifero vuol ber.


Perciò io gli darò ogni giorno una rana, anche sia essa de’ miei amici. Perchè è stato detto:


Sogliono i sapïenti con doni pochi e scarsi
Tener queto un nemico capace di portarsi

Ogni lor cosa e avere, così come fa il mare
Che il fuoco dell’inferno pur seguita a domare12


Il debol che da un forte dimandato
Nè gli dà un po’ di crusca per amore,

Nè gli dà ciò che quei bramava in core,
Più tardi un moggio glien darà colmato.


E poi:


Come rovina capiti totale,
Ne lascia una metà l’uom sapïente

E adopra l’altra in le faccende sue,
Chè rovina total troppo è dolente.

Per quel ch’è poco,
Non perda il molto


L’uom sapïente.
Allor che il molto
Con quel ch’è poco,
Si può salvare,
È saggio oprare. —


Com’ebbe così divisato, gli abbandonava di consueto or questa or quella rana. Ma il serpente, come l’aveva divorata, se ne mangiava un’altra di nascosto di Gangadatta. Pertanto, assai bene si suol dire:


Come con vesti lorde ciascun può
Entrar là dove il mena la ventura13,


Così quei che l’aver dilapidò,
Di ciò che gli restò, non si dà cura.


Ma un giorno, poiché tutte le altre rane erano state divorate, fu divorato anche il figlio di Gangadatta che aveva nome Yamunadatta, e Gangadatta, quando lo seppe, lamentandosi ad alta voce: Ahimè! ahimè! — in nessun modo poteva cessar di piangere. Allora la moglie sua gli disse:


A che piangi, o piagnoloso,
Che la morte dèsti a’ tuoi?


Poi che i tuoi son tutti morti,
Protettor chi ha di noi?


Si pensi piuttosto oggi qualche modo per uscir di qui, ovvero qualche spediente per ammazzare il serpe. — Intanto, con l’andar del tempo, tutta quanta la famiglia delle rane fu trangugiata e rimase il solo Gangadatta. Priyadarsana allora disse: Amico Gangadatta, io ho fame, e non resta più alcuna rana. Tu solo resti. Dàmmi tu adunque alcuna cosa da mangiare, poiché tu mi hai menato qui. — L’altro disse: Amico mio, tu non puoi pensare a nulla finché io resto qui. Ma se tu mi lascierai andare, io, come le avrò persuase, ti menerò qui le rane che ora si stanno in altra cisterna. — Il serpente disse: Mentre tu non puoi essere divorato da me perché mi sei in luogo di fratello, se oggi così farai, mi sarai in luogo di padre. Cosi adunque si faccia! — Gangadatta allora, come ebbe inteso, messosi per la via della secchia da attinger acqua, dopo ch’ebbe supplicato e fatto onore a molti Dei, balzò fuori della cisterna, intanto che Priyadarsana, col desiderio ch’egli si ritornasse, là si stava ad aspettare. Ma perché Gangadatta, passato un lungo tempo, non ritornava, Priyadarsana così si fece a dire a una testuggine che abitava in un’altra cavità della cisterna: Amica, dàmmi un po’ d’aiuto! Poiché Gangadalta è un’antica tua conoscenza, così andando da lui, come l’avrai trovato in qualche stagno d’acque, gli dirai queste mie parole: «Almeno vieni presto tu solo se le.altre rane non vogliono venire. Io non posso starmi qui senza di te. Che se mai io preparassi contro di te qualche macchina, ti sarà in pegno la vita mia». — La testuggine, a quelle parole, come tosto ebbe cercato di Gangadatta, gli disse: Amico Gangadatta, l’amico Priyadarsana sta ad aspettare il tuo ritorno. Vieni adunque sollecitamente. Del resto, quand’egli ti volesse far qualche sconcezza, la vita sua ti si dà in pegno. Vieni adunque con animo tranquillo. — Ma Gangadatta, come ebbe udito, rispose:


Qual rea cosa non fa l’uom ch’è affamato?
Pietà non sente l’uom ch’è rovinato.


A Priadarsana, amica, tu dirai:
«Gangadatta ila te non verrà mai».


E così la licenziò. Perciò io, o malvagia bestia acquatica, come Gangadatta non tornerò mai più alla tua casa. — Il delfino, quand’ebbe inteso, rispose: Amico mio, non è bello per te il far così. Toglimi piuttosto, col venire a casa mia, ogni accusa d’ingratitudine, altrimenti io per te mi lascierò morir di fame. — Il scimio disse: O sciocco, sono io forse lo stolido Lambacarna, che, pure avendo veduto il pericolo, ritorni là e mi lasci dar la morte? Perchè


Prima venne e poi fuggì
Poscia che l’alto valor
Del leone egli scoprì.


Non ha orecchi, non ha cor,
Lo stordito che fuggì
E potè tornare ancor. —

Il delfino disse: Amico, chi era cotesto Lambacarna? e come mai, pur avendo veduto il pericolo, morì? Fammi tu saper tutto ciò. — Il scimio disse:

Racconto. — Abitava una volta in un paese selvoso un leone di nome Caralachesa, del quale era ministro uno sciacallo di nome Dusaraca che sempre gli andava dietro. Un giorno, combattendo il leone con un elefante, n’ebbe ferite tanto gravi alla persona che non poteva metter piede innanzi a piede; e però, da che egli non poteva muoversi, Dusaraca, tormentato dalla fame, sentivasi venir meno. Un giorno, egli disse al leone: Signore, io sono afflitto dalla fame né posso muover piede innanzi a piede. Come dunque posso far l’obbedienza mia? — I! leone disse: Va tu e cercami qualche animale perchè io, benché venuto in questo stato, lo uccida. — Udito ciò, lo sciacallo, facendo sue ricerche, se ne venne presso un villaggio vicino, laddove egli scorse un somaro di nome Lambacarna che a fatica, sulla sponda d’uno stagno, si mangiava i rari germogli dell’erba durva14. Quando gli fu vicino, gli disse: Zio, ti venga il mio saluto d’ossequio! Da gran tempo non li sei fatto vedere! Dimmi adunque come mai sei venuto a questo stato di debolezza? — Lambacarna disse: 0 nipote mio, che devo dire? Uno spietato di lavandaio mi opprime con carichi immani e non mi dà nemmeno una manata d’orzo, e però io qui mi mangio soltanto questi germogli fangosi di durva. Come potrei io esser ben nutrito di corpo? — Lo sciacallo disse: Zio, se così è, vi è pure un luogo dilettoso, vicino a un fiume, tutto vestito di cespi d’erbe del color dello smeraldo. Andando là, tu starai con me godendo della felicità dell’intrattenerti in piacevoli discorsi. — Lambacarna disse: Nipote mio, tu parli bene; ma noi che siamo animali del villaggio, siam la preda degli animali delle selve. Che mi farei dunque di quel tuo luogo ameno? — Lo sciacallo disse: Non dir così, zio! Quel luogo è difeso dalla sbarra del braccio mio, e però non ci può entrare nessun altro. Anzi vi sono tre asinelle da marito che già alla stessa tua maniera erano vessate dal lavandaio. Esse, ben nutrite come sono, per baldanza giovanile, mi hanno detto: «Se tu sei veramente il nostro zio materno, andando a qualche villaggio, menaci qui un buon marito». Per ciò appunto io ti voglio menare a quel luogo. Come ebbe udito quelle parole dello sciacallo, Lambacarna, preso nelle membra dal fuoco dell’amore, rispose: Amico, se così è, entrami innanzi e rechiamoci là subitamente. Intanto, si suol dir a proposito:


Ambrosia qui non è, non è veleno,
Tranne una bella dal ricolmo seno,


Per cui si viva essendo insiem congiunti,
Per cui si muoia essendone disgiunti.


E poi:


Cosa è stranissima
Che non precipiti


Alcun che incontrasi
Nell’occhio vivido


Di donne belle,
Mentre suol nascere
Amor d’un subito
Al sol ripeterne


Il nome, senza
Che pur si tocchino,
Che pur s’adocchino. —


Dopo ciò, egli se ne venne, insieme allo sciacallo, nel cospetto del leone. Ma intanto che il leone tormentato dal suo male, vedendo il somaro, stava per levarsi, l’asino prese a fuggire, e perchè egli fuggiva, il leone volle dargli un colpo colla zampa, ma quel colpo fallì come fallisce l’intento d’uno sventurato. Intanto lo sciacallo, preso dall’ira, gli disse: Oh! di che maniera mai era quel tuo colpo? se l’asino può andarsene via dinanzi a te, come farai tu battaglia con un elefante? Davvero che ora s’è veduto il tuo valore! — 11 leone allora tutto vergognoso gli disse: Oh! dunque che dovrò fare? Io non aveva ben preparato il salto. Ma un’altra volta nemmeno un elefante, ove capiti al mio salto, mi sfuggirà. — Lo sciacallo disse: Anche una volta per oggi io ti menerò innanzi colui. Ma tu devi aspettare misurando bene il salto. — Il leone disse: Amico mio, colui che, avendo veduto coi suoi proprii occhi, se n’è fuggito, come mai ritornerà qui? Cerchisi adunque qualche altro animale. — Lo sciacallo disse: Perchè impacciarti di cotesto? Tu stattene soltanto a ben misurare il salto. — Dopo ciò, andando lo sciacallo in traccia del somaro, ecco ch’egli Io vide pascolare al suo luogo. Allora, come vide lo sciacallo, l’asino gridò: 0 nipote mio, tu m’hai menato in un bel posto davvero laddove io era venuto ornai in poter della morte! Dimmi ora tu chi era mai quel terribile animale dai colpi dell’artiglio del quale, simile al fulmine, io sono scampato. — Udendo questo, lo sciacallo rispose con un sorriso: Zio, quella era un’asinina, che, ben nutrita nella foresta, avendo veduto che tu venivi, con molto amore t’era corsa incontro per abbracciarti. Ma tu per timidezza sei fuggito. Essa invece ora non può vivere senza di te. Perchè tu fuggivi, essa levò la mano per attaccarsi a te, non per altra cagione. Vieni adunque! Essa, per cagion tua, posto l’animo a voler morir di fame, va dicendo: «Se Lambacarna non sarà mio marito, io mi getterò nel fuoco o nell’acqua, ovvero ingoierò del veleno. Io non posso tollerar la lontananza sua!». Tu adunque, per far piacere a lei, torna a quel luogo! Se no, ti sarà data colpa d’aver fatto morire una femmina e il Dio dell’amore si adirerà con te. Perchè è stato detto:


Gli stolidi che lasciano la donna,
Che vince sempre, gemma del Dio Amore,

In tutte cose di quaggiù possente,
E, stolti! corron dietro a lor chimere,
Dal Dio d’amor senza pietà colpiti

Vedonsi poi, ché alcun di lor va ignudo,
Rasa la testa, ed altri è in veste rossa,
Altri ha le trecce intorno al capo ed altri
Porta squallidi teschi alla cintura15. —

L’asino allora, persuaso da quelle parole, si mise in via collo sciacallo. Ora, giustamente si suol dire:


In forza del fato,
Ancor se lo sa,
Ciò che gli è vietato,
L’uom sempre farà.


Un’opra vietata,
Se il fato non sia,
Dal mondo approvata
Deh! come saria?


Intanto, ingannato dalle tante e tante parole di quel birbaccione, il somaro se ne ritornò nel cospetto del leone. Così Lambacarna fu ammazzato dal leone che già s’era preparato a spiccare il salto; indi, avendolo atterrato, fattone custode lo sciacallo, esso leone si mosse per bagnarsi nel fiume. Ma lo sciacallo, per cupidigia e avidità, si divorò il cuore e le orecchie dell’asino. Quando poi il leone ritornò dopo che s’era bagnato e aveva fatto adorazione agli Dei e soddisfatto con le cerimonie di rito la schiera delle anime dei Padri, ecco che l’asino era là privo degli orecchi e del cuore. Al vederlo, egli, vinto dall’ira, così gridò allo sciacallo: 0 scellerato, come hai tu fatto questa sconcezza, onde non è qui che un rimasuglio dopo che tu ne hai divorato il cuore e gli orecchi? — Lo sciacallo con gran rispetto gli rispose: 0 signore, non dir cosi, perché quest’asino non aveva né orecchi né cuore. Perciò appunto, essendo venuto qui, fuggito per timore quando t’ebbe veduto, tuttavia ritornò ancora. — Il leone allora, dando fede a quelle parole, spartì l’asino con lo sciacallo e senza sospetto alcuno se lo mangiò. Perciò io dico:


Prima venne e poi fuggì
Poscia che l’alto valor
Del leone egli scoprì.


Non ha orecchi, non ha cor,
Lo stordito che fuggì
E potè tornare ancor.


Tu, o sciocco, hai ordito un inganno, ma, come Yudistira quando disse il vero, tu stesso l’hai distrutto. Intanto, egregiamente si suol dire:


Il traditor che suo intento scordando
Si fa stolidamente a dire il vero,


Da quell’intento suo lungi va errando
Come già Yudistira veritiero. —


Il delfino disse: Come ciò? — E il scimio incominciò a raccontare:

Racconto. — Una volta, in un certo paese, abitava un pentolaio di nome Yudistira. Costui un giorno, essendo ubriaco, nel correre con gran furia stramazzò sopra certi cocci acuti di pentole e di bicchieri mezzi rotti, onde, spaccatasi la fronte alla punta di un coccio, con la persona tutta insanguinata, a gran stento si rilevò dal suolo e tornò a casa. Ma la sua ferita, peggiorata per non esser stata curata a dovere, a gran fatica poté essere guarita. Quando poi quel paese fu afflitto dalla carestia, il pentolaio, crucciato per la penuria, con alcuni soldati passò in altro paese e là si pose a’ servizi di un re. Il re, vedendo queirorribile cicatrice sulla fronte di lui, pensò: Costui è certamente un valoroso. Perciò appunto egli ha una ferita sulla fronte. — Così il re riguardava lui con particolar favore in mezzo agli altri capitani, facendogli onore e doni e altro. Gli altri capitani, vedendo quel soverchio favore, benché ne avessero invidia grande, tuttavia, per timore del re, non dicevano nulla. Ma poi, un giorno, fattasi la rassegna dei soldati del re, essendo nata una guerra, quando già gli elefanti erano schierati e i cavalli attaccati e i soldati messi in ordine, il re, conforme all’occasione, si mise a interrogare in disparte il pentolaio: O capitano, che nome hai tu? quale la tua stirpe? e in qual battaglia hai tu ricevuto cotesta ferita? — L’altro rispose: Signore, questa non è una ferita fatta dalle armi. Io mi chiamo Yudistira e per nascita sono un pentolaio. In casa mia erano già alcuni cocci. Un giorno, essendo ubriaco, nell’uscire stramazzai correndo sopra quei cocci. Allora mi si fece sulla fronte questa sconcia ferita che ha preso un aspetto così orribile. — Udendo ciò, il re tutto svergognato disse: Oimè! io sono stato ingannato da questo pentolaio che voleva imitare i capitani! Gli si dia sùbito qualche punizione. — Allora il pentolaio disse: O signore, non far così, ma fa di vedere nella battaglia l’agilità della mia mano. — Il re disse: Oh! tu sei fornito d’ogni sorta di virtù! Vattene tuttavia. Perchè è stato detto:


Sei forte, sei saggio,
Sei bello, o mio figlio,
Ma là nel villaggio


’Ve nato sei tu,
Lionfante giammai
Ucciso non fu. —


Il pentolaio domandò: Come ciò? — Il re incominciò a raccontare:

Racconto. — Una volta in un paese selvoso abitava una coppia di leoni. Un giorno, la leonessa partorì un paio di leoncelli, e il leone intanto, continuando ad ammazzar animali selvatici, ne dava alla leonessa. Un giorno, egli non potè trovar nulla; anzi, mentr’egli errava qua e là per la selva, il sole venne al tramonto. Soltanto, intanto che tornava alla sua tana, trovò un piccolo sciacallo. È questo ancor piccino! — egli pensò, e presolo con cura fra i denti, lo portò vivo ancora alla leonessa. La leonessa allora disse: Hai tu, o caro, qualche cosa da mangiare? — Il leone disse: O cara, io quest’oggi, tranne questo piccino di sciacallo, non ho potuto trovare alcun animale. Io però, pensando ch’esso è tanto piccino, non l’ho ucciso. Certo egli è come uno della nostra stirpe. Perchè è stato detto:


Anche a costo della vita,
Non a donne o a sacerdoti,
Non a piccoli fanciulli,


Non a Bràmani devoti,
Se da lor fiducia s’ha,
Violenza mai si fa.


Tu ora però fanne tuo pro’ mangiandolo. Domani io mi procaccerò qualche altro animale. — La leonessa disse: Caro mio, tu, pensando che questo è un piccino, non l’hai ucciso. Perché dunque io, a pro’ del ventre mio, dovrei ucciderlo? Ora, è stato detto:


Cosa ch’é illecita
Far non si può,
S’anche pericolo
Di vita è in ciò.


Cosa ch’è lecita
Non lascierai;
Cotesta legge
Non mutò mai.


Perciò costui sarà per me come il mio terzo figlio. — Detto ciò, col latte delle sue proprie mammelle molto bene lo allevò. Così quei tre piccini, che del tutto ignoravano l’origine l’uno dell’altro, in egual maniera di vita passavano il tempo della loro fanciullezza. Ma un giorno, errando per la selva, capitò là un elefante selvaggio. Intanto che i due leoncelli, al vederlo, gli andavano incontro con aspetto iroso, il piccolo sciacallo gridava: Ohé! l’elefante è il nemico della vostra stirpe! perciò non dovete andargli incontro. — Così dicendo corse alla tana mentre gli altri due, per la defezione del loro maggior fratello, si sbigottirono. Ora, si dice giustamente:


È formidabile
Quel reggimento
Per un che scaglisi
Con ardimento,
Con forza ed impeto,


Là nel cimento.
Ma se quell’unico
Si sbigottisce,
Ecco vittoria
Che già fallisce!


Ancora:


Perchè i monarchi vogliono
Soldati di valore,
Di gran virtù, magnanimi,


Opranti con ardore,
E lasciano ogni abietto
Che non ha core in petto.


Così que’ due, come furon giunti a casa, nel cospetto dei genitori raccontarono ridendo come s’era comportato il loro maggior fratello, cioè, come avendo veduto da lontano un elefante, fosse fuggito. Ma lo sciacallo, avendo udito ciò, con mente presa dall’ira, con labbra tremanti come ramoscelli al vento, con occhi infiammati, con fronte corrugata, aggrottando le ciglia, disse loro aspre parole. La leonessa allora, menatolo in disparte, lo ammoni dicendo: Figlio mio, non ciarlar mai più cosi! Sono essi tuoi fratelli minori. — Ma quello, preso d’ira maggiore, le rispose: Forse che io sono minore di loro in valore, in bellezza, in varietà di scienza, in destrezza, perché essi abbiano a ridersi di me? Or bene, io li ammazzerò. — Udendo ciò, la leonessa che pur desiderava di salvarlo, sorridendo gli rispose:


Sei forte, sei saggio,
Sei bello, o mio figlio,
Ma là nel villaggio,


’Ve nato sei tu,
Lionfante giammai
Ucciso non fu.


Ascolta pertanto, figlio mio. Tu, figlio della femmina d’uno sciacallo, sei stato allevato col latte delle mie mammelle. E però, intanto che quei miei due figli, per la loro età piccina, non sanno ancora che tu sei uno sciacallo, andandotene sollecitamente vattene a stare fra quelli della tua stirpe. Se no, ucciso da loro, te n’andrai per la via della morte. — Lo sciacallo, udendo quelle parole, con mente turbata dal timore, adagio adagio incamminandosi si ritrasse fra quelli della sua stirpe. Perciò tu ancora, mentre questi capitani non sanno ancora che tu sei un pentolaio, vattene via subitamente. Se no, disprezzato nel loro cospetto avrai la morte. — Il pentolaio, come ebbe udito, fuggì via con tutta fretta. Perciò io dico:


Il traditor che suo intento scordando
Si fa stolidamente a dire il vero,


Da quell’intento suo lungi va
Come già Yudistira veritiero.

Va via sciocco! che soltanto per amor di donna hai messo mano a far tutto questo, mentre nessuno dovrebbe aver fiducia in donne. Perchè è stato detto:


Quella per cui la casa abbandonai
Cui di mia vita la metà si cede,


Mi lascia senza avermi amato mai.
In donna oli! chi può avere alcuna fede? —


Il delfino disse: Come ciò? — Il scimio disse:

Racconto. — In un certo paese c’era una volta un Bramino, che aveva una donna cara a lui più della sua propria vita. Costei però non cessava dall’abbaruffarsi ogni giorno con la famiglia, onde il Bramino, non potendo sopportar quelle liti, per amor della moglie abbandonò la sua famiglia e con lei partì per un paese lontano. Quando furono nel mezzo d’una gran selva, la Bramina disse: O nobil uomo, io muoio dalla sete. Cercami in qualche luogo dell’acqua. — Quando il Bramino, che a quelle parole era andato a prender l’acqua, ritornò, trovò che essa era morta. Mentre egli, facendone cordoglio per il molto amore, stava piangendo, ecco ch’egli udì nell’aria questa voce: O Bramino, se tu cedi a lei la metà della tua vita, la Bramina rivivrà. — Avendo udito, il Bramino, fatte le purificazioni di rito, le cedette, pronunciando tre parole solenni, la metà della propria vita; onde sùbito, a quelle parole, la Bramina risuscitò. Allora, come ebbero bevuto dell’acqua e mangiato di certi frutti silvestri, si rimisero in cammino. Nell’andare, quando furono all’entrata di una città, essendosi messi per un giardino fiorito, il Bramino disse alla moglie: O cara, fino a che io non torni dopo che avrò comprato da mangiare, tu devi startene qui. — Detto ciò, egli partì. Intanto, in quel giardino fiorito, uno storpio che volgeva la ruota d’un pozzo, stava cantando con voce celeste. All’udirla, la donna, ferita dal dio dell’amore, andatagli accanto, gli disse: O caro, se tu non mi amerai, avrai colpa d’aver dato morte a una donna. — Lo storpio rispose: Che vuoi far tu d’uno sciancato come me? — Quella disse: A che questo discorso? Oh! tu devi di necessità venire a convegno con me! — Lo storpio, udendo cotesto, fece; e quella, come ebbe gustato il piacere, disse: D’ora in poi, finché duri la vita mia, io mi son data a te. Sapendo ciò anche tu devi venir con noi. — Lo storpio disse: Sia pur così. — Il Bramino intanto, avendo comprato da mangiare, quando ritornò si mise a mangiar con lei; ma essa disse: Cotesto storpio ha fame. Dàgli adunque qualche boccone. — Fatto ciò, la Bramina disse: O Bramino, nel tempo che tu senza alcun compagno te ne vai per i villaggi, io non ho alcun compagno per intrattenermi seco parlando. Perciò prendiamoci con noi lo storpio e andiamo. — Il Bramino disse: Io non posso sostener me stesso da me stesso; come potrei sostener anche uno storpio? — La donna rispose: Io lo porterò con me dentro una corba. — Il Bramino, con mente che si lasciò ingannare da quelle parole false, acconsentì. Dopo ciò, un giorno, mentre si riposava presso una cisterna, da lei che s’era innamorata dello storpio, egli fu sospinto e fatto cadere nel fondo di quella, ed essa, presosi con sè lo storpio, si recò in una città vicina. Là le guardie reali che s’aggiravano qua e là per impedir che qualcuno frodasse la gabella, adocchiarono quella corba che stava in capo alla donna. Gliela tolsero a forza e la portarono nel cospetto del re. il re allora la fece aprire e vide che dentro era lo storpio; la donna intanto era venuta fin là piangendo e seguitando a piedi i gabellieri. Il re domandò: Che è adunque tutto questo affare? — La donna rispose: Costui è mio marito, che, ammalato e maltrattato da una turba di congiunti, io, con mente presa dall’amore, mi son posto sul capo e ho menato qui nel tuo cospetto. — Udendo ciò, il re disse: O Bramina, tu sei la mia sorella. Ricevendo da me due villaggi in dono, godendo con tuo marito ogni sorta di beni, felicemente tu abiterai qui con noi. — Ma il Bramino, per volontà del cielo, da un buon uomo era stato tirato fuori dalla cisterna! indi, dopo essersi aggirato qua e là, era venuto a quella città. La malvagia femmina lo vide e però fece saper cotesto al re, dicendo: O re, il nemico di mio marito è giunto. — Il re gli decretò la morte, ma egli disse: O signore, da costei è pur stata presa da me qualche cosa e se tu ami la giustizia, tu fammi rendere quella cosa. — Quella disse: O signore, da me non è stato preso nulla. — Il Bramino disse: Rendimi la metà della vita che io ti ho ceduta con tre parole solenni. — La donna allora per timore del re, dicendo: Si, mi è stata data da lui la vita con le tre parole solenni,— restò morta. Il re, meravigliato, disse: Come ciò?_ Il Bramino allora gli raccontò tutto quanto era già accaduto, e però io dico:


Quella per cui la casa abbandonai,
Cui di mia vita la metà si cede,


Mi lascia senza avermi amato mai.
In donne oh! chi può avere alcuna fede? —


Il scimio seguitò a dire: Anche a proposito si racconta questa storiella:


Che non fa, che non dà l’uom, se pregato
Una donna l’avrà? Dove nitrisce

Chi giumento o caval non è mai stato,

Puossi radere il capo anche se quella
Non è la fase di luna novella. —


Il delfino disse: Come ciò? — Il scimio allora incominciò a raccontare:

Racconto. — C’era una volta un re di nome Nanda, signore d’una terra all’estremo confine dell’oceano, a cui erano sgabello le corone fulgide d’una schiera di molti re, la cui gloria risplendeva nitida come il raggio della luna in autunno. Aveva un ministro di nome Vararuci che era versato in ogni sorta di dottrina e conoscitore di ogni verità. La moglie di costui, un giorno, s’era crucciata seco per questioni d’amore, nè si ammansava, per quanto fosse placata con ogni sorta di carezze dal marito. Il marito alfine le disse: Dimmi, o cara, in qual modo tu potrai placarti. Io certamente lo farò. — E quella allora s’indusse a dire: Se tu mi cadrai a’ piedi con la testa rasa, allora io mi volgerò a te tutta placata. _ Quand’ebbe fatto ciò, egli fu rimesso in grazia. Nella stessa maniera anche la moglie di Nanda che s’era adirata con lui, per quanto supplicata, non si placava. Egli allora le disse: lo, o cara, non posso vivere senza di te un solo istante. Cadendo a’ tuoi piedi, io ti prego di farmi grazia. — Essa disse: Se io, messoti in bocca il freno e montandoti sulla schiena, ti potrò far correre e tu sospinto in corsa nitrirai come un cavallo, allora io sarò placata. — E così fu fatto. La mattina dell’altro giorno, entrando 11 re nell’assemblea, sopraggiunse anche Vararuci. Al vederlo, il re gli domandò: O Vararuci, come mai, pur non essendo la debita fase della luna, ti sei rasa la testa? — Rispose:


Che non fa, che non dà l’uom, se pregato
Una donna l’avrà? Dove nitrisce

Chi giumento o caval non è mai stato,

Puossi radere il capo anche se quella
Non è la fase di luna novella. —


Anche tu, o scellerato di delfino, ti sei sottomesso alla volontà delle femmine come già Nanda e Vararuci, quando, venendo qui, o mio caro, hai messo mano a certo tuo spediente per uccidermi; se non che, per colpa della tua loquacità, quel tuo spediente si è scoperto. Intanto, si suol dire giustamente:


Hanno la morte gazze e pappagalli
Per colpa della lor loquacità,


Non già i nibbi o gli aironi. Ed è il silenzio
Quel che ogni cosa accomodar più sa.


E poi:


Benchè guardassesi
Con molta cura,
Preso un aspetto
Da far paura,
Vestito d’una


Pelle di tigre,
L’asino un giorno
Hanno ammazzato
Perchè ha ragliato. —


Il delfino disse: Come ciò? — Il scimio incominciò a raccontare:

Racconto. — Una volta, abitava in un certo paese un lavandaio di nome Suddapata. Egli aveva un solo asino, il quale, per mancanza di nutrimento, era venuto in assai tristo stato. 11 lavandaio, andando un giorno qua e là per un bosco, vide una tigre morta. Allora pensò: Oh! bella cosa che m’è capitata! Come l’avrò vestito con la pelle di questa tigre, io di notte lascierò andare il mio asino per i campi di grano, acciocché le guardie campestri del vicinato, credendolo un tigre, non lo discaccino. — Fatto cotesto, l’asino mangiava del grano fin che ne voleva; poscia, alla mattina, il lavandaio lo rimenava a casa. Così, con l’andar del tempo’, l’asino, diventato grasso, a fatica si lasciava condurre alla stalla. Ma un giorno, essendo preso dalla follia dell’amore, udì da lontano un ragliar di asine. All’udirle soltanto, incominciò a ragliare. Le guardie campestri allora, pensando: Costui è un asino vestito della pelle d’una tigre, — l’ammazzarono a colpi di bastoni, di proietti e di pietre. Perciò io dico:


Benchè guardassesi
Con molta cura,
Preso un aspetto
Da far paura,
Vestito d’una


Pelle di tigre,
L’asino un giorno
Hanno ammazzato
Perchè ha ragliato. —

Mentre il delfino stava così a favellar col scimio, un pesce che intanto sopraggiunse, gli gridò: O delfino, la moglie tua, perchè non volle toccar cibo nel tempo che tu qui t’indugiavi, vinta dalla potenza del desiderio, è morta. — Il delfino, all’udir quella parola che fu simile per lui alla caduta di un fulmine, col cuore in gran turbamento incominciò a lamentarsi: Oh! che è mai accaduto a me meschino! Perché è stato detto:


Può nelle selve andare
Quei che in casa non ha
Una madre o una sposa
Che gli parli amorosa.


Somiglia in verità
A una selva la casa
Che deserta è rimasa.


Ma tu, amico, perdonami se da me ti è stato fatto oltraggio. Io intanto, poiché ho perduto la femmina mia, mi avventerò nel fuoco. — Udendo cotesto, il scimio sorridendo disse: Oh! già da tempo io t’aveva riconosciuto come tale che si lascia governare e dominar dalle femmine! Ora però ne ho la prova, da che tu, o sciocco, pur nella buona ventura vieni in tanto corruccio. Come muoia una mogliera sì fatta, vuolsi invece far festa. Di fatto è stato detto:


Quella donna che male si comporta,
Che sta con altri in sempiterna guerra,

Trista vecchiaia in aspetto di sposa
Da ogni savio si estima che non erra.

E però quei che desidera
Qui la sua felicità,
Anche il nome delle femmine
Con gran cura eviterà.
Ciò che serbano nel core,
Sulla lingua mai non hanno;
Ciò che serban sulla lingua,
Metter fuori mai non sanno;
Ciò che fuori han messo alfine,
Le ree donne mai non fanno.
Quanti periscono
Che per vertigine
A donna accostansi
Di gran beltà,
Come alla lampada
A perir va
Stolta farfalla!
All’interno velenose,
All’esterno dilettose,


Son le donne per natura
Come il frutto che del gungia16
Sovra i rami si matura.
Non se le batti
Con un bastone,
Non se le infilzi
A uno schidione,
Non per elogi,
Non per presenti,
Si fan le donne
Obbedïenti.
Basta! Perchè dir altre scelleraggini
Che commetton quaggiù le triste femmine

Quando per ira il loro infante uccidono
Che più mesi nel ventre si portarono?

Lo sciocco soltanto
In ruvida donna
Si cerchi l’amore,
In femmina altera
Si cerchi l’ardore,
E in chi nulla sente,
Un tratto piacente. —


Il delfino disse: Amico, è così. Ma intanto che faccio io? Due malanni mi son capitati. Uno è la rovina della casa; l’altro è il non andar più d’accordo con un amico come te. Ma tutto ciò avviene in forza del destino. Perchè è stato detto:


Per quanto grande sia,
L’avvedutezza mia,
Doppia è tua furberia.


L’amante non c’è più,
Non c’è lo sposo. Orsù,
Putta, a che guardi tu? —


Il scimio disse: Come ciò? — Il delfino disse:

Racconto. — Abitavano già in un certo paese due agricoltori, marito e moglie. La moglie, poiché il marito era vecchio, avendo sempre la mente a tutt’altro, non stava mai ferma in casa, ma andava qua e là in cerca di altri uomini. Un giorno, essa fu veduta in un luogo deserto da un furfante di ladro che le disse: O fortunata! mia moglie è morta e io, al vederti, son stato preso dall’amore. Concedi adunque che io pigli piacere di te. — La donna rispose: O fortunato, se così è, sappi che mio marito ha una gran quantità di denaro. Ma, essendo molto vecchio, egli non può muoversi. Io però, pigliandomi tutto quel denaro, verrò con te acciocché, andando con te in altro paese, io possa godere a mia voglia della felicità del piacere. — L’altro disse: Ciò mi piace, e però domani all’alba tu devi venire sollecitamente a questo luogo perché, andando ad una città più bella, godasi con te alcun frutto della vita del mondo. — La donna allora, avendo promesso col dir di sì, tornata a casa con bocca ridente, intanto che il marito di notte stava in letto, si pigliò tutto quanto il denaro e all’alba corse al luogo designato. Il ladro, entratole innanzi, voltosi alla regione meridionale, con molta prestezza s’incamminò. Come furono andati così per due yogiani17, ecco che si trovarono dinanzi ad un fiume. Al vederlo, il ladro pensò fra sé: Che ho io da farmi di costei che è già sul cadere della gioventù? e che, se alcuno le verrà dietro alle spalle? Questo sarebbe per me un gran malanno! Io adunque mi piglierò i suoi denari e me n’andrò da solo. — Così avendo divisato, le disse: Questo gran fiume, o cara, è difficile da passare. Come io avrò deposto i denari sull’altra sponda, ritornerò da te. Allora, come mi ti avrò fatta montar sulla schiena, felicemente, sola come sarai, ti farò passar di là.— Rispose: E così si faccia, o fortunato! — Così dicendo, gli pose in mano tutto quanto il denaro. Ma quegli disse: O cara, dammi anche la sopravveste e la camicia. Cosi potrai senza timore entrar nell’acqua. — Fatto ciò, il furfante toltosi il denaro e quel paio di vesti, se ne andò dove più gli piacque. Mentre la donna, tutta turbata, se ne stava seduta sulla sponda del fiume serrandosi il collo fra le mani, ecco che capitò là la femmina d’uno sciacallo tenendosi in bocca un brandello di carne. Intanto che, venendo, essa guardava qua e là, un grosso pesce, uscito dall’acqua, se ne stava là fuori, sulla sponda del fiume. Al vederlo, essa lasciò andare il pezzo di carne e corse dietro al pesce. Un nibbio intanto, calandosi dal cielo, ghermì quel pezzo di carne e volò in alto, e il pesce, vedendo la femmina dello sciacallo, si cacciò nel fiume. La rea donna18 allora, ridendo, così disse alla femmina dello sciacallo che inutilmente erasi affaticata e ora stava riguardando al nibbio:


La carne ebbe l’augello,
Tornò nell’acqua il pesce;
Poichè di questo e quello,


O sciocca, orba ten vai,
A che guardando stai? —


Udendo ciò, la femmina dello sciacallo, vedendo ch’essa aveva perduto il marito, il denaro e l’amante, sogghignando le rispose:


Per quanto grande sia
L’avvedutezza mia,
Doppia è tua furberia.


L’amante non c’è più,
Non c’è lo sposo! Orsù,
Putta, a che guardi tu? —


Mentre il delfino così raccontava, ecco che da un altro pesce gli fu data questa notizia: Ohimé, la tua casa è stata occupata da un altro grosso delfino! — Udendo ciò, il delfino con mente afflitta, mentre andava pensando a qualche espediente per cacciar di casa colui, diceva: Oh! vedete colpo della sorte!


Mio nemico l’amico è diventato;
Mi è morta dopo ciò la moglie mia;


Un altro nel mio tetto s’è cacciato;
Qual altro mal toccarmi oggi dovrìa?


Intanto, si suol dire a proposito:


Sempre sogliono altri colpi
Fioccar sopra alle ferite;
Cresce ognor la rabbia al ventre
Se le biade son smaltite;


Quando è tempo di malanni
Sorgon odi e inimicizie;
Tocca all’uom tutto cotesto
Se ha le stelle non propizie.


Ora, che farò io? Forse che farò battaglia con colui? ovvero, fattogli ammonimento con buone maniere, lo farò uscire di casa mia? Forse che io mi metterò seco in discordia o piuttosto gli farò qualche dono? O piuttosto ne farò domanda a questo scindo mio amico? Perchè è stato detto:


Qualcun che interroghi
Maestri degni
E interrogandoli
A far s’ingegni,


Nessun ostacolo
Incontrerà
In tutte l’opere
Che tenta o fa. —


Così avendo divisato, di nuovo si fece a interrogare il scimio che intanto era salito sull’albero dei pomi rosati: Amico, vedi la mia disgrazia! La casa mia è ora occupata da un delfino che è più forte di me. Perciò io vengo a domandarti consiglio. Dimmi ora che devo io fare. Tra i diversi espedienti, il primo dei quali è il trattato d’amicizia19, quale sarebbe ora a proposito? — 11 scimio rispose: Oh! malvagio ingrato, sebbene già scacciato da me, a che ricorri a me un’altra volta? A te che sei sciocco, io non darò alcun consiglio. — Avendo inteso ciò, il delfino disse: Ricordandoti, o amico, di me che pur son colpevole, l’antica affezione, dammi tu consiglio acconcio! — Il scimio disse: Io non ti dirò nulla. Come poi 10 fossi menato da te, per il consiglio di tua moglie, ad essere gettato in mare, certamente cotesto non era bello per te. Quantunque poi la moglie sia la cosa più cara in tutto il mondo, non si gettano però in mare né gli amici nè i congiunti per consiglio della moglie. Intanto, io t’ho fatto già conoscere, o sciocco, che tu perirai per la tua storditaggine. Perchè


Chi non fa per sua stoltizia
Ciò che ha detto un sapïente,
Si rovina immantinente,


Come avvenne un dì al cammello
Ch’ebbe al collo un campanello. —


Il delfino disse: Come ciò? — E l’altro disse:

Racconto. — Abitava una volta in un certo paese un carpentiere di nome Udagialaca. Costui, oppresso dalla molta povertà, andava pensando: Oh! maledetta la miseria di questa nostra casa! Ogni altra gente se ne va contenta del suo mestiere, ma ogni nostra faccenda, in questo paese, non ha alcun merito, perché ogni gente ha dovunque case antiche e quadrate, e io qui non ne ho alcuna. Che utilità adunque ho io del fare il carpentiere? — In questi pensieri abbandonò il suo paese, quando, all’entrare in una selva, ecco che là nel più profondo del bosco, come in un labirinto, nel tempo che il sole tramontava, vide una cammella che s’era sbrancata dalla sua mandra ed era nei dolori del parto. Egli adunque, presa con sé la cammella col suo cammellino, s’incamminò verso la sua abitazione. Giunto a casa, prese una corda e legò la cammella, quindi, toltasi una scure affilata, si recò ad un luogo montuoso per recarne certi rami verdi per lei. Quand’ebbe reciso là sul luogo molti rami novelli e teneri, se li recò in collo, indi li gettò dinanzi alla cammella che adagio adagio tutti se li mangiò. Dopo di che, per l’abbondanza di quei ramoscelli che mangiava dì e notte, essa divenne ben grassa di membra, e il cammellino diventò un cammello grosso. Il carpentiere, intanto, prendevasi di consueto il latte e manteneva la sua famiglia; anzi, per il molto amore che gli portava, egli legò al collo del cammellino un grosso campanello. Ma poi, un giorno, pensò: Ohimè! a che occuparmi d’altre faccende noiose, mentre il necessario per la mia famiglia mi viene dal mantener questa cammella? A che dunque occuparmi d’altre cose? — Con questi pensieri, entrato in casa, disse alla moglie: O cara, se c’è l’approvazione tua, io ho un ottimo affare. Io prenderò da qualche ricco certa somma di danari e andrò nel paese di Gurgiara20 a prendervi cammelli giovani. Intanto, finché io ritorni menando altri cammelli, tu devi guardar con cura questi due. — Così andò per i villaggi del Gurgiara, comperò una cammella e ritornò a casa. Ma a che tante parole? Egli fece in modo che radunò molti cammelli e molti cammelli giovani. Fattane così una grossa mandra, vi pose un custode al quale ogni anno, in ricompensa, dava un cammello giovane, e con ciò, quanto di latte gli occorreva il giorno e la notte. In questa guisa il carpentiere, occupandosi in questa faccenda della caramella e dei cammelli giovani, molto bene se la passava. I suoi cammelli andavano a pascere nelle foreste dei dintorni; come avevan mangiato a loro voglia di tenere erbe rampicanti e bevuto dell’acqua a un grande stagno, nell’ora del vespro, adagio adagio e saltellando, ritornavano a casa. Invece, quel giovane cammello di prima, per certo suo orgoglio, veniva alla coda di tutti gli altri e tardi con loro si mischiava. Gli altri, intanto, dicevano: Cotesto cammello dev’essere uno sciocco, perché, sbrancatosi dalla mandra, e stando alla coda di tutti gli altri, viene avanti facendo suonare il suo campanello. Oh! se capiterà presso la tana di qualche animale feroce, allora dovrà ben morire! — Un giorno, mentre essi s’internavano nella selva, un leone, che aveva udito il suono del campanello, si avvicinò. Egli guardò, quand’ecco s’avanzava la mandra dei cammelli; ma, intanto che quel solo, dietro tutti gli altri, se ne stava a pascer l’erbe tenere e saltellava, gli altri cammelli giovani, come ebbero bevuto dell’acqua, se n’erano ritornati a casa, e costui, come fu uscito dalla selva, benché si guardasse attorno da tutte le parti, non seppe riconoscere né vedere la via. Smarritosi così dalla mandra, adagio adagio, facendo gran lamenti, andò innanzi alcun poco, finché il leone, andando dietro alla sua voce e avanzandosi passo passo, gli si nascose sul cammino. Il cammello intanto veniva innanzi, e allora il leone balzando fuori, l’afferrò per il collo e l’ammazzò. Perciò io dico:


Chi non fa per sua stoltizia
Ciò che ha detto un sapïente,
Si rovina immantinente


Come avvenne un dì al cammello
Ch’ebbe al collo un campanello. —


Avendo udito ciò, il delfino disse: Amico,


Gente esperta delle regole
Disse un giorno e proclamò
Che amicizia è indestruttibile;
Tu pertanto, onor facendole,
Quello ascolta ch’io dirò.
Colui che acconcio
D’uomini saggi


Che son maestri,
Cerca il consiglio,
Nè in questo mondo,
Nè in quel di là,
Alcun periglio
Incontrerà.


E però, benché io sia del tutto un ingrato, fammi tu grazia col darmi un consiglio. Ora, è stato detto:


Ove buono alcun si mostri
Ver chi alcun favor gli fa,
Qual mai pregio si discopre,
O qual merto in sua bontà?


Ma chi buono s’addimostra
Verso alcun che l’oltraggiò,
Veramente dai più saggi
Buon costui si proclamò. —


Avendo udito ciò, il scindo disse: Caro mio, se così è, e tu vattene a quel luogo e abbaruffati con colui. Perchè è stato detto:


Se resta ucciso,
Va tosto in paradiso;
Se vivo torna,
Gloria in casa l’adorna;
Doppia mercede
A chi pugna e non cede.
Chi è più forte, a noi s’acquisti


Con lusinghe ed umiltà;
Chi è gagliardo, a noi s’acquisti
Con astuzia e furbità;
Chi è da meno, a noi si acquisti
Con un piccolo presente,
E chi è pari, a noi s’acquisti
Con un colpo oltrapossente. —


Il delfino disse: Come ciò? — E l’altro disse:

Racconto. — C’era una volta in un certo paese selvoso uno sciacallo di nome Mahaciaturaca, il quale, un giorno, trovò nella selva un elefante morto da sé. Vi si aggirò dattorno da tutte le parli, ma non poté lacerarne la dura pelle. Un leone, intanto, che andava qua e là per la selva, capitò in quel luogo. Quando vide ch’egli era giunto, lo sciacallo, con rispetto, chinando fino alla superficie del suolo il muso, con ambe le zampe davanti congiunte sulla fronte, gli disse: O signore, io che son colui che porta dinanzi a te il tuo scettro, qui sto a custodir per te quest’elefante. Perciò ne mangi nostro signore. Il leone, vedendolo così inchinato, rispose: Oh! io non mangio mai di animali stati uccisi da altri! Perchè è stato detto:


Nelle selve, benchè avvezzo
Il leon carni a cibar,
S’anche ha fame non s’induce
Erbe e paglie a rosicchiar.


Ben che oppresso da sventure,
Di virtù mai non uscì
Dal sentiero ogni bennato,
Ogni nobile così.


Io perciò ti fo grazia di cotesto elefante. — Avendo udito ciò, lo sciacallo tutto gioioso disse: Tutto questo è degno d’un monarca verso i suoi sudditi. Perchè è stato detto:


Un grande, ridotto
A risico estremo,
Sue proprie virtù,


Per insito merto,
Non perde mai più.
Così la conchiglia


Non perde candor,
Benchè abbandonata
Del fuoco all’ardor. —


Quando il leone fu partito, ecco che sopravvenne una tigre. Al vederla, lo sciacallo pensò! Ohimè! ora che ho allontanalo con atti d’umiltà quello scellerato, come potrò allontanar costei? Costei è forte, nè si può impattarla con lei senza qualche astuzia. Perché è stato detto:


Dove amicizia
Non è possibile,
Dove alcun dono
Non è fattibile,


Alcuna astuzia
Almen si tenti;
Vincon le astuzie
I renitenti.


Anzi, anche chi è ornato d’ogni sorta di virtù si lascia sopraffare dall’astuzia. Ora, è stato detto:


Rotonda, brillante,
Celata, rinvolta,


Forata una volta,
Si lega una perla21. —

Così avendo pensato, andato incontro alla tigre con la cervice alta per certo sentimento d’arroganza, con turbamento dell’animo le disse: Mamma mia, come mai sei tu venuta qui in bocca alla morte? Quest’elefante é stato ucciso da un leone. Egli poi, dopo che m’ebbe posto qui a fargli la guardia, se n’è andato al fiume per farvi le abluzioni; ma nell’atto del partire m’ha dato questo comando: «Se mai capita qui qualche tigre, tu di soppiatto fammelo sapere, perché io disgombri da ogni tigre questa selva. Una volta, una tigre, divorandosi in disparte un elefante che io aveva ammazzato, non mi lasciò altro che gli avanzi. Da quel giorno in poi io sono adirato con tutte le tigri». — Udendo ciò, la tigre tutta spaventata rispose: Figlio mio, salvami almeno la vita! Anche s’egli viene qui assai tardi, guarda tu di non dirgli il fatto mio. — Ciò detto, fuggi via in tutta fretta. Partita la tigre, ecco sopraggiungere un leopardo, e lo sciacallo, al vederlo, così pensò fra sé: Cotesto chiazzato ha i denti forti. Ora io farò in modo che egli mi schianti la pelle sul fianco di questo elefante. — Cosi avendo divisato, si volse al leopardo dicendo: O fratello, perché mai ti fai vedere così di rado? Oh quanto sembri essere affamato! Ora però tu sei ospite mio. Ecco qui un elefante che è stato ucciso da un leone e a cui io, per suo comando, sto a far la guardia. Tu però, intanto che il leone non torna ancora, mangiando della sua carne, quando te ne sarai satollato, vattene via presto. — Il leopardo rispose: Babbo mio, se così è, io non posso mangiar di questa carne, perché l’uomo, fin ch’è vivo, vede cento avventure felici22. Ora, è stato detto:


Un boccon che può ingoiarsi,
Ingoiato, digerirsi;
Digerito, a pro’ voltarsi,


Sempre vogliasi appetirsi
Da colui che cercar sa
Qui la sua felicità.


Intanto si suol sempre mangiare ciò che si digerisce bene. Io però me n’andrò via subito di qui. — Lo sciacallo disse: O sciocco, mangia senza alcun timore! lo ti farò sapere la venuta di colui anche quando sarà lontano. — Dopo ciò, quando lo sciacallo ebbe notato che il leopardo aveva lacerato la pelle, si mise a gridare: Vattene, figlio mio! vattene! 11 leone viene! — Come intese, il chiazzato fuggì lontano. Ma, mentre lo sciacallo si mangiava un brandello di carne per quello squarcio fatto far da lui con quell’astuzia nella pelle, ecco che sopraggiunse tutto iroso un altro sciacallo. Egli allora, ben sapendo che gli era pari di vigore, si mise a recitare quei versi:


Chi è più forte, a noi s’acquisti
Con lusinghe ed umiltà;
Ehi è gagliardo, a noi s’acquisti
Con astuzia e furbità;


Chi è da meno, a noi s’acquisti
Con un piccolo presente,
E chi è pari, a noi s’acquisti
Con un colpo oltrapossente. —


Così, voltandogli risolutamente di contro, sbranatolo con le zanne e ammazzatolo, si mangiò da solo con tutto agio e felicemente la carne dell’elefante. Di questa stessa guisa tu pure, come avrai vinto in battaglia quel tuo nemico che è della tua stessa stirpe, ammazzalo. Se no, t’avrai la morte da lui quando avrà messo le radici in casa tua. Perchè è stato detto:


Per giovenche buon frutto è possibile;
Penitenza in Bramini è probabile;


Leggerezza in comari è visibile;
Per congiunti fastidio è trovabile.


E ancora:


Cibi diversi
Son più gradevoli;
Donne civili
Più son piacevoli;


Di terra estrana
Sola è una macola,
Chè i suoi congiunti
Ognun vi ostacola. —


Il delfino disse: Come ciò? — Il scimio disse:

Racconto. — C’era una volta in un certo paese un cane di nome Citranga. Sopravvenne in quel paese una lunga carestia, onde, per mancanza di cibo, i cani e gli altri animali lutti venivano a perire. Ma Citranga, per timor di morire, sentendosi tormentato dalla fame, si recò in altro paese. Là, in una certa città, per favore d’una massaia, moglie d’un capo di casa, entrando ogni giorno in quella casa e mangiando di diversi cibi, giunse a satollarsi assai bene. Se non che, quando usciva di casa, circondato da ogni parte dagli altri cani inviperiti contro di lui, per tutto il corpo era straziato dai loro morsi. Allora, egli pensò: Oh! quanto è migliore il proprio paese laddove si può stare assai bene anche nella carestia! Là, nessuno viene ad azzuffarsi con te. Io perciò voglio tornarmi alla mia città. — Cosi avendo divisato, si mosse per andare al suo paese. Quand’egli fu ritornato di fuori, tutti quelli della sua razza gli domandarono: Ohè Citranga! raccontaci che hai tu fatto in quel paese! e di che maniera è quel paese? e qual è il costume della gente? che roba c’è da mangiare? e che ci si fa? — Egli rispose: Come si può descrivere il costume d’un paese straniero?


Cibi diversi
Son più gradevoli;
Donne civili
Più son piacevoli;


Di terra estrana
Sola è una macola,
Che i suoi congiunti
Ognun vi ostacola. —


Il delfino allora, avendo udito quel consiglio, fatto divisamente di morire, salutò il sdraio e ritornò a casa, laddove, azzuffatosi con quel prepotente che gli era entrato in casa e ammazzatolo con grand’animo e vigore, riebbe la sua casa dove lungamente e felicemente abitò. Perciò giustamente si suol dire:


Che si fa di buono stato
Quando nulla, per averlo,
Di virile s’è operato?


Anche il bove che invecchiò,
L’erba mangiasi che sotto
Il destino gli mandò.


Così finisce il quarto libro, detto della perdita di ciò che s’ha acquistato, nel Panciatantra, opera dell’inclito Visnusarma.


  1. Così secondo il testo di Calcutta. Quello del Kosegarten ha: Chi in sua stoltizia, per le lusinghe altrui, lascia andare ciò che ha acquistato, resta ingannato come lo stolido delfino fu ingannato dallo scimio.
  2. Il sacrifizio.
  3. Cioè le anime degli antenati.
  4. Cioè con le parole amichevoli si acquista un amico che è un altro fratello.
  5. Cioè, quando hanno afferrato, non lasciano più andare.
  6. Intende sua moglie, la delfina.
  7. Intende lo scimio.
  8. Che sempre si volge a dritta e a manca dalla parte della spola per riceverla.
  9. Fare che anche gli altri godano.
  10. Cioè ha avuto il vantaggio di rinascere.
  11. Per natura.
  12. L’inferno, supposto essere nell’ultima regione australe presso alle acque dell’oceano.
  13. Cioè senza timore di lordarsi di più.
  14. Nome d’un’erba indiana.
  15. Si accenna ai diversi ordini di monaci indiani e al loro modo di vestirsi o di accomodar la persona, ora con la testa rasa, ora con trecce, ora con teschi attorno ai fianchi. L’Amore che essi hanno disprezzato, si vendica di loro, secondo il poeta, rendendoli così brutti e ributtanti.
  16. Albero indiano.
  17. Misura itineraria indiana.
  18. Si può anche intendere nuda, e così dice il testo preso alla lettera. Ciò stesso si dica del putta dei versi che seguono.
  19. Vedi le note ai libri antecedenti.
  20. Il Gugerat.
  21. Si lasciano tutte le interpretazioni allegoriche e mistiche che possono avere questi versi e che si trovano riferite dal Fritze e dal commentatore indiano.
  22. Si sottintende che, morto, non le vede.

Note

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