< Le Novelle Indiane di Visnusarma
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Anonimo - Le Novelle Indiane di Visnusarma (Antichità)
Traduzione dal sanscrito di Italo Pizzi (1896)
Libro Terzo
Libro Secondo Libro Quarto


LIBRO TERZO.


Ora s’incomincia il terzo libro che è detto dei corvi e dei gufi e del quale i primi versi sono i seguenti:


Di tal che fu nemico ed avversario
E venne poscia in amicizia teco,


Non ti fidar. Nel fuoco acceso, mira!
Da’ corvi, pien di gufi arde lo speco!


Così adunque s’ode raccontare. C’era una volta nella regione meridionale una città di nome Mihilaropia, presso alla quale era anche un albero di fico molto ramoso, coperto di densissime fronde, laddove cinto da ampio corteggio di corvi, abitava il re dei corvi di nome Megavarna. Fattami abitazione acconcia, egli passava là il suo tempo con tutta la sua gente. Intanto il re dei gufi, detto Arimardana, ritrattosi, con un infinito corteggio di gufi, ad uno speco del monte, là si stava ad abitare. Costui, venendo sempre di notte, si aggirava da tutte pari, attorno a quell albero di fico e in forza dell’antica inimicizia, qualunque corvo poteva prendere, quello uccideva e poi se n’andava, onde, per quel suo continuo venire, a poco a poco il soggiorno dell’albero di fico per lui crasi fatto vuoto di corvi. Così appunto vanno le cose del mondo. Perchè si dice:


Chi dispregia il suo nemico
Che s’avanza a suo bell’agio,
O un malor che pigro e lento


Sopravvien, la morte avrà
Da l’un d’essi adagio adagio.


E poi:


Chi, quando è sorto, non sa far tacere
Il suo nemico o alcuna malattia,


Anche di corpo se valente ei sia,
Ai colpi avversi dee poi soggiacere.


Ma un giorno, il re dei corvi convocò tutti i suoi ministri, e disse: Poichè cotesto nemico riottoso e intraprendente, per voler del destino, viene qui di notte e fa strage di noi, quale vi può essere difesa? E perchè noi non ci vediamo di notte nè di giorno possiam vedere dove sia la sua tana perchè andandovi lo potessimo combattere, quale espediente dovrà adoprarsi per il meglio, la pace, la guerra, l’andar via, raccostargli, il convenire insieme il non accordarsi? Meditando tutto cotesto, ditemi voi sollecitamente vostro avviso. — Quelli allora dissero: Ciò che ha detto nostro signore, avendoci fatto questa domanda, è stato ben detto. Ora, si dice:


Anche se non dimandato,
A parlar d’alcuna cosa
Un ministro è deputato.
Quando poi richiesto ei sia,
Ciò che è giusto e che confà,


Dica, piaccia ovver dispiaccia
Quel che dire egli dovrà.
Quel che, affabil consigliero,
Dicitor di ciò che piace,
Dimandato, in tempo giusto


Opportuna cosa tace
Che buon frutto dar potrìa,
Sempre sempre tuo nemico
Reputato da te sia.
Perciò da noi,
Iti in disparte,


Si farà, o prence,
Consiglio, ed arte
V’adopreremo,
Sì che lo scopo,
Nell’eseguirlo,
Raggiungeremo. —


Allora Megavarna incominciò a interrogare uno ad uno i suoi cinque ministri che egli aveva ereditati da suo padre e che si chiamavano Uggivin, Sangivin, Anugivin, Pragivin, Ciragivin. Egli adunque interrogò Uggivin per il primo, dicendo: Amico, in questa nostra condizione, che si pensa da te? — Disse l’altro: O re, con un potente non si deve far guerra; ora, colui è potente e sa cogliere a tempo. Intanto è stato detto:


Da chi sa piegarsi
Dinanzi ai potenti
E a tempo menare
Le mani valenti,
Non va mai lontana


La sorte più lieta;
Così la fiumana
Che sempre va in giù,
Non torna più in su.

E poi:


Tu quel nemico
Ch’è onesto e pio,
Che ha gran valore,
Che in molti assalti
Fu vincitore
E di fratelli
Ha una gran schiera,
Eviterai,


Seco la pace
Anche farai.
Anche con uomo ignobile
La pace tu farai

Allor quando in pericolo
Di vita ti vedrai,
Chè ogni cosa si salva
Quando la vita è salva.


In ogni modo, con chi è stato vincitore in molte battaglie, si deve far la pace. Perchè è stato detto:


A chi alleanza fa col vincitore
Di più battaglie, cedono i nemici
Subito di costui per il valore.
Pace si faccia
Con chi ci uguaglia1;
Dubbia è vittoria
Nella battaglia.
Cosa ch’è dubbia,
Tu non farai,
Disse Brihàspati,
Mai e poi mai.
Di genti che combattono
E la vittoria incerta.


Se i tre modi non giovano2,
La pugna sia conserta.
Un testardo che a patti non discende,
Ove urti forte in altri che gli è uguale,

Di sè e dell’altro alla rovina intende.
Come, urtando in un’altra, urna non cotta.

La battaglia dell’uom debole
Con nemico ch’è più forte,
Di colui menò alla morte,
Mentre incolume restò
Il possente, come pietra
Che una pentola spaccò.

E ancora:


Terra, ricchezze, amici,
Tre frutti della guerra;
Se d’essi niun ci tocca,
Non facciasi la guerra.
Leon che scava
Tana di topi
Tutta di sassi
Ingombra e piena,
Rompesi l’unghie,
Ovver, per frutto
Di ciò che fa,
Altro che un topo
In fin non ha.
Però dove non trovasi
Frutto d’esito lieto,
Ma sol contrasti e colpi
D’armi e di combattenti,
Nessun la guerra susciti,
Nessun la guerra tenti.
Con tal ch’è assai più forte
Quei che a pugnar sen va,
D’uopo è che si comporte
Come la canna fa3


Non come l’angue, se
Desia che salda in piè
Reggasi la sua sorte.
S’ei fa come la canna,
Raggiunge lieta sorte;
S’ei fa come il serpente,
Procacciasi la morte.
Qual la testuggine
In sè stringendosi,
I colpi tolleri
Il sapïente;
Ma poi rilevisi
A tempo debito
Come sobbalzasi
Nero serpente.
Quando veggasi la guerra
Sorvenir,
Con bei modi ognun la tenti
D’assopir.
Perchè incerta la vittoria
Sempre sta,
D’evitar contrasti ognuno
Curerà.


E poi:


Non v’ha esempio perchè debbasi
Col più forte contrastar;


Non fur viste mai le nuvole
Contro il vento camminar. —


Così Uggivin dava un consiglio di pace per mezzo di un’alleanza. Udito il suo consiglio, il re parlò a Sangivin: Desidero, o caro, di udire il tuo parere. — E quegli disse: O signore, non mi sembra che si debba fare alleanza col nemico. Perchè è stato detto:


Anche in ottimo contratto,
Col nemico non far patto;


Anche allora ch’è bollente
L’acqua spegne il fuoco ardente4.


Con questo, il tuo nemico è crudele, estremamente cupido e senza legge. Perciò tu non devi fare alleanza con lui in alcun modo. Perchè è stato detto:


Con tal che non ha legge e non ha fede,
Patto non farai tu di niuna guisa,


Chè anche stretto da patti gli si muta
Al suo talento rio quando egli cede.


Si deve adunque combattere con lui, e tale è il mio pensiero. Perchè è stato detto:


Un nemico è sconfitto agevolmente
Quando è pigro e crudel, cupido e vile,


Sciocco, dispregiator della battaglia,
Infedel, menzognero e negligente.

E poi, noi siam stati sopraffatti da lui. Se pertanto noi facciamo un solo motto per l’alleanza, egli si farà anche più oltraggioso. Ora, è stato detto:


Quando il nemico
Per quattro modi5
Si può domare,
Inutil’opra
È il lusingare6.
Forse che il medico
D’acqua cosparge
Corpo ammalato


Quando per febbre
Tutto è sudato?
A nemico ch’è adirato,
Le lusinghe e le moine
Il suo sdegno hanno infiammato.
Quando cascavi repente,
Così fan le stille d’acqua
Dento al burro ch’è bollente.


Se poi così si dice che il nemico è potente, nemmen cotesta è ragione buona. Perchè è stato detto:


Un piccino ammazzar può
Un nemico anche grossissimo,
Di coraggio ove s’armò;


Così ottiene potestà
Su grossissimo elefante
Tal che un fil di voce ha.


Nemici che non vinconsi di forza,
Vincer si dènno con arte sottile.

De’ Chichàchi fe’ un dì scempio e macello

Bima7, assunta una veste femminile.


E poi:


Vengono in potestà sempre i nemici
D’un re, come la morte

In dar le pene sue tremendo e forte;
D’un re di cor pietoso, i suoi nemici
Tanto si dàn pensiero
Quanto d’un fuscellin leggier leggiero.

Che si fa di tal che al mondo
Fu prodotto inutilmente
Disfiorando della madre
L’età giovane e piacente,
Di cui tosto si cancella


Ogni pregio per li pregi
Onde ogn’altro più s’abbella?
Quella fortuna che di macchie rosse
Non s’infiora di sangue di nemici,

Anche se cara, a dar mai non si mosse
Gandi, de’ forti al cor, pieni e felici.

Quel re, di cui la terra unqua bagnata
Non fu di stille di nemico sangue,

Non di pianto di donne di nemici,
Qual gloria in vita sua s’è procacciata? —


Così adunque Sangivin manifestò questo suo consiglio di far la guerra. Dopo di che, avendo dato ascolto, il re interrogò Anugivin, dicendo: Anche tu, o caro, facci ora conoscere il tuo avviso. — E quegli disse: Signore, il nemico nostro è malvagio, soverchiante di forza e disfrenato; e però non è bene far con colui nè la guerra nè la pace. Soltanto io credo che noi ci dobbiam muovere. Perchè è stato detto:


Non la pace, non la guerra
Con nemico ch’è oltraggioso,
Difrenato e rïottoso,


Ma di muoversi e d’andar
Sempre i saggi consigliâr.
Di due maniere è il muoversi.


Una ell’è per salvare
Gente che sbigottisce,
L’altra che possa andare
Chi la vittoria ambisce.
O nel mese di Ciaitra o in quel di Càrtica8,
E non dell’anno in un’altra stagione,

Vuolsi con forte esercito
Da chi vittoria ambisce
Invader la nemica regïone.

Ma tutti lodansi
Dell’anno i tempi
Pur che si assaltino
I nemici empi
Allor ch’egli hanno
Qualche malanno


O dentro al core
Qualche dolore.
Con gagliardi a te fidati
Quando reso avrai più forte
La tua terra, dei nemici
Nel paese allora andrai,
Ma tu innanzi di tue spie
Tutto pieno lo farai.
Chi l’altrui regno invade,
E d’acque nulla sa,
Di proventi, di biade,
O di gente che va
Alleata al nemico9,
Nel regno che lasciò,
Più ritornar non può.


Perciò, ti si conviene fare una ritirata, non dovendosi fare nè guerra nè alleanza con un potente malvagio. Del resto, la ritirata si suol far dai saggi appunto col fine di operar poi. Perchè è stato detto:


Per cozzar si fa indietro l’ariète;
Un salto per spiccar, pien di corruccio

S’aggomitola il re degli animali;

I saggi che hanno l’odio in fondo al core,
Nascosto meditando un lor disegno,
Quanto mai, computando, posson fare?


E ancora:


Chi vedendo un nemico gagliardo,
La sua terra a lasciar non è tardo,

Come già Yudistira10, al soggiorno
Suo farà, sempre vivo, ritorno.

Chi fiacco e debole
Col più valente,
Per voglia stolida


Di prepotente,
Combatterà,
Mentre il nemico
Soddisferà,
La sua famiglia
Rovinerà.


Ora, quando alcuno è assalito da un più potente, quello è tempo di ritirarsi, non già di alleanza o di guerra. — Così adunque il consiglio di Anugivin era quello di ritirarsi; ma il re, pure avendone ascoltato il discorso, così disse a Pragivin: Anche tu, o caro, di’ ora il tuo parere. — E quegli disse: O signore, questi tre partiti dell’alleanza, della guerra, della ritirata, non mi piacciono punto. Mi piace invece in ispecial modo lo stare ad ittendere. Perchè è stato detto:


Il coccodrillo che al suo loco sta,
Può un elefante strascinare a sè;


Ma, dal suo loco se lontano egli è,
D’un botolo in poter se stesso dà.


Ancora:


Assalito da un potente
In un forte tu starai


Ben raccolto e ben prudente.
Là restando, chiamerai,


Perchè libero ti rendano,
Quanti amici fidi avrai.
Chi con mente costernata.
Perché udì venir nemici,
La sua terra ha disertata,
Non farà mai più ritorno
A quel primo suo soggiorno.
Un serpe che i suoi denti non ha più,
Lionfante senza umor di gioventù,

Dal suo paese ito lontano un re,
Spregevoli alle genti tutti e tre.

Ben può certo combattere
Nemici forti e presti
Anche un uom sol che stabile
Al loco suo si resti.
Però il tuo loco mai
Tu non diserterai.
Perciò, facendoti
Un loco forte


E raccogliendovi
Una coorte
Di eletti militi,
Poi di steccati
Tutto cingendolo
E di fossati
E provvedendolo
D’armi e d’arnesi,
Sempre a combattere
I sensi intesi,
Là co’ tuoi militi
Attenderai.
Se scampi, ai termini
Arriverai
Di questa terra;
Ma in paradiso
Ascenderai,
Se cadi in guerra.


Ancora:


I deboli che insiem stanno accozzati,
Tal ch’è potente, non può sterminare,

Come a un sol loco i vimini spuntati
Bufera avversa non può sradicare.

Un albero del tutto ben fondato,
Anche se grande, come solo stia,

Dalla bufera, vïolenza ria
Quand’essa meni, presto è sradicato.

Ma gli alberi del tutto ben fondati,


Densi e raccolti in sè, mai non saranno
Da impetüoso vento sradicati
Perchè ad un loco sol congiunti stanno.

Così d’uom che solo sta,
Ben che pieno di vigor,
Che ognor vincerlo potrà
Il nemico pensò in cor;
Anzi, quanti più potè,
Danni e triboli gli diè. —


Così adunque il consiglio di Pragivin era quello di stare ad attendere, e il re, come l’ebbe ascoltatoci volse a Ciragivin dicendo: Anche tu, o caro, di’ il tuo avviso. — E l’altro disse: O signore, di tutti i sei modi11 quello che più mi piace, è il ricorrere qualche alleanza, e ciò appunto si deve fare, perchè è stato detto:


Uom valente e forte e destro,
Quando è solo, che farà?
Fuoco acceso, senza vento,
Da sè a spegnersi ne va.


Veracemente è la cosa più bella
In sè alleanza per gli uomini tutti.
Un grano che per caso si sbaccella,
Crescere più non può perchè poi frutti.


Tu adunque, stando qui, ti devi fare alleato qualche uomo di valore che ti difenda da ogni eventuale malanno. Che se invece, abbandonando il tuo paese, andrai altrove, nessuno potrà farsi compagno tuo fuorché a parole. Perchè è stato detto:


Del fuoco che investe
E brucia foreste,
Il vento è alleato;
Per spegner la vampa


Di picciola lampa
Da solo è bastato.
In dì di fallarla12
C’è forse alleanza?


Nè si vuole che si faccia alleanza soltanto con un potente. Anche l’alleanza dei deboli è cagion di salute, perchè è stato detto:

Come una canna non si può troncare
Salda e con l’altre ben compatta e cinta,
Non si può debil prence sopraffare13.


Se poi, all’opposto, l’alleanza si fa coi più forti, che s’ha da dire allora? Intanto, è stato detto:


L’alleanza coi più forti
A chi mai non è cagione
Ch’ei più in alto si sollevi?
Qual di perla pregio assume


Una stilla di rugiada
Che del loto sulle foglie
La mattina a cader vada.


Fuori adunque dell’alleanza non vi è alcun altro espediente; e però si deve fare alleanza, e questa è l’opinione mia. — Tale fu il consiglio di Ciragivin. Come fu detto tutto cotesto, Megavarna, inchinatosi ad un antico ministro di suo padre, già d’età grave, versato in tutte le dottrine del ben vivere, di nome Stiragivin, così gli disse: Padre mio, se da me sono stati interrogati tutti questi qui alla tua presenza, ciò e stato per farne la prova. Ora tu, avendo tutto ascoltato, dirai ciò che è più acconcio. Mi si mostri adunque ciò che ora è a proposito. - E l’altro disse: Figlio mio da ciascuno di questi tuoi ministri è stato detto tutto ciò che concerne la dottrina del viver bene, e ciascuna cosa va bene al tempo suo. Ma ora è il tempo d’usar la doppiezza, perchè è stato detto:


Senza fidarti
Sempre starai
In guerra e quando
Patti farai.
Col tuo nemico,
S’egli è possente,


S’egli è malvagio,
Onninamente
Fa che tu assume
Della doppiezza
Tutto il costume.


Perchè da quelli che sanno allettare il nemico, che si fida di loro, mentre essi non si fidano di lui, esso più agevolmente può esser tolto di mezzo. Ed è stato detto:


I saggi che pur vogliono
Il lor nemico opprimere,
Ansa gli dànno e aiutano.
Ad arte la pituita


Cresciuta con lo zucchero,
Perchè si tolga, agevole
Diventa nel suo crescere.

E poi:


Chi con le femmine
E coi nemici,
Con donne, pubbliche,
Con falsi amici,
Sincero e semplice
Si mostrerà,
Lungh’anni a vivere
Non giungerà.


Coi Bramini e con gli Dei,
Con te stesso e coi maestri,
Veritiero esser tu dèi.
Ma con gli altri, quanto sai,
Doppia lingua adoprerai.
Negli asceti che meditan l’essere,
Bella è semplicità di carattere;
Non in quei che corteggiati le femmine,
Non in quei che le genti governano.


Ricorrendo adunque alla doppiezza del carattere, rimanendoti al luogo tuo, ogni cosa ti riuscirà bene. Il nemico, allettato nella sua ingordigia, non te ne potrà cacciar via. Che se poi tu scoprirai in lui qualche punto debole, movendo contro di lui te lo potrai togliere dai piedi. — Megavarna disse: Ma, padre mio, io non so nemmeno dove egli stia di casa. Come dunque potrei io scoprire in lui qualche punto debole? — Stiragivin rispose: Figlio mio, non solo il luogo dove egli sta, ma anche ogni suo difetto io potrò scoprire per mezzo delle spie. Ora, è stato detto:


Vedono per l’odor giovenche e buoi,
Vedon pei libri sacri i sacerdoti,


Vedono i re per loro esploratori,
Vede per ambo gli occhi ognun di noi.


Anzi, a questo proposito, è stato detto:


Re sovrano che conosce
Di sua parte e dell’avversa,
Di celate opre per l’arte,


Ufficiali e dignità,
Nessun danno incontrerà. —


Megavarna disse: Padre mio, quali sono cotesti ufficiali e quanti sono di numero? e come sono queste spie celate? Mi si faccia saper da te tutto questo. — E l’altro disse: A questo proposito, il beato Narada così ha detto un giorno al re Yudistira: Dalla parte del nemico sono diciotto ufficiali; dalla nostra propria parte, quindici; e questi si possono conoscere per tre e tre spioni per ciascuna parte. Come poi siano stati conosciuti, dalla propria parte e da quella del nemico si può conseguir l’intento. Al qual proposito fu già detto a Yudistira da Narada eremita:


Dai nemici stan diciotto
Ufficiali e dignità
E son quindici da te.


Tutto noto ti sarà,
Ben celate le tue spie
Inviando a tre a tre.


Col nome poi di ufficiale o dignità si suol denominare ogni pubblico esecutore. Se alcuno d’essi fa male, ciò ritorna a danno del principe, ma se fa bene, tutto va ad incremento del principe. E sono ufficiali e dignità, il regio consigliere, il sacerdote domestico, il capitano dell esercito, il principe ereditario, il regio usciere, il guardiano del gineceo, il sopraintendeute, l’esattore, l’economo, l’imprenditore, il comandante, l’assessore, l’ispettore dei cavalli, l’ispettore degli elefanti, il tesoriere, il guardiano delle fortezze, il maggiordomo, il sopraintendente dei boschi. Questi sono dalla parte del nemico, e se qualcuno falla, ecco che il nemico subito è rovinato. Dalla propria parte sono: la regina madre, la regina, l’eunuco, il giardiniere, il prefetto delle stanze, il capo delle spie, l’astrologo, il medico, il fornitor dell’acqua, il fornitor degli aromi, il maestro, le guardie del corpo, il prefetto di palazzo, il reggitore dell’ombrella regala e la favorita del re. Per la porta della inimicizia di costoro dalla nostra propria parte, entra la rovina. Intanto:


Come son medici e astrologi
E Bramini acconcie spie
Dalla nostra propria parte,


Così tutto sanno e vedono
Dalla parte dei nemici
Quei che il mago fan per arte14. —


Megavarna disse: Padre mio, donde è nata questa così fatta inimicizia mortale tra i corvi e i gufi? — E l’altro disse: Figlio mio, una volta essendosi radunati tutti gli uccelli incominciando dai cigni, dalle gru, dai pappagalli, cuculi, pavoni, cuculi grigi, gufi, colombi, dalle tortore, dai fagiani, e da altri15 dicendo: Oh! lassi noi per questo nostro re Garuda!16. Per tenersi troppo fedele a Visnù, egli non si dà alcun pensiero di noi. Che dunque farci di questo fantoccio di re il quale non pensa a difenderci quando siamo sgomenti dal malanno d’esser presi ai lacci dei cacciatori? Perchè è stato detto:


Oh! solo ed unico
Servir si de’
Quei che imperterrito
Chi si perdè


Può rinfrancar,
Sì come il sole
Quando la luna
Fa rinnovar.


Ogni altro che così si faccia, è re soltanto di nome. Ora, è stato detto:



Anche se cinto fosse
Da’ Matsi che dei numi
I pregi hanno l’aspetto
E nobili han costumi
Ed integri17, quel re
Agevolmente vincesi
Quando stolido egli è.
Quei che sue genti oppresse da’ nemici
E spaventate difender non sa,


Dubbio non è ch’è della morte il dio
E che di prence sol l’aspetto egli ha.

Da sei persone ciascun fugga tanto
Quanto da legno che nel mar s’è infranto:

Da un precettore che non sa insegnare,
Da un re che il popol suo non sa guardare,
Da un Bramino che leggere non suole,
Da donna che parlar dolce non vuole,
Da pastor che ne’ borghi a poltrir sta,
Da barbier che pei boschi a zonzo va18


Facciasi adunque, poichè così pensiamo, un altro re degli uccelli! — Osservando allora che il gufo aveva aspetto benauguroso, tutti dissero: Il gufo sia il nostro re! Si rechino subito i consueti arnesi e tutto ciò che è necessario alla consacrazione di un sovrano. — Allora, quando già erano state recate le acque di diversi stagni sacri, e accumulate cento otto radici, e innalzato il seggio regale, e disposta l’immagine circolare della terra distinta di sette isole, di mari e di monti, e distesa sul suolo la pelle di tigre, e riempite le brocche d’oro d’essenze incorruttibili di cinque specie di fiori, e apprestato lo specchio e tutti gli altri arnesi di lieto augurio, quando già ad alta voce recitavano i sacerdoti che erano i migliori nell’ufficiare coi Vedi e i più eccellenti nel cantare inni encomiastici, quando le più belle giovinette cantavano lor canti benaugurosi, e già era stata apprestata la patera incorruttibile tutta adorna di fiori, di conchiglie e d’altro, e in cui, a fine di molto lieto augurio, erano mescolati grani abbrustolati e bile di bue, fatta la cerimonia della purificazione e altre cerimonie, nel momento che si suonavano strumenti musicali di lieto augurio, e mentre il gufo, per farsi consacrare, già si posava sul trono regale rizzato là nel mezzo e apprestato con ogni sorta di purificazioni19, ecco che con l’incesso spavaldo di chi entra in luogo conosciuto e suo, in quella radunanza entrò, donde non si sa, il corvo. Egli andava pensando: Oh! perchè mai questa grande e solenne radunanza di tutti gli uccelli? — Gli uccelli allora, come l’ebbero veduto, si dissero l’un l’altro: Ehi! il più furbo fra tutti gli uccelli s’ode dire che è il corvo. Perchè è stato detto:


Il più furbo degli uomini è il barbiere,
Il corvo è de’ volatili il più astuto,


De’ monaci il più tristo è il bianco frate20,
Lo sciacal delle fiere è il più avveduto.


Devesi adunque ascoltare anche la sua parola. Ora è stato detto:


I disegni pensati dai saggi
In niun modo fallir mai potranno,


Quando molti più volte a trattarne
E a discuterne insiem converranno. —


Il corvo adunque, accostatosi agli uccelli, così loro disse: Oh! che è mai questa radunanza di gente e questa grande solennità? — Gli uccelli dissero: Non c’era alcun re degli uccelli, e però si è immaginato da tutti loro di consacrar re di tutti i volatili il gufo. Tu ora porgi il tuo avviso, poichè sei venuto in buon punto. — Il corvo allora sorridendo rispose: Oh! non va bene che, essendovi pure molti altri uccelli di gran valore, come i pavoni, i cigni, i cuculi, le anitre, i pappagalli, le folaghe, i colombi, le gru e altri ancora, facciasi la consacrazione di questo uccello che di giorno è cieco e ha così orribile ceffo. Oh! il mio avviso non è già questo, perchè:


Becco incurvo, occhi bistorti,
Brutto, orribile a veder,
Tal l’aspetto di costui


Quando l’ira ei fa tacer;
Ma se in ira monterà,
Il suo aspetto qual sarà?


Principe il gufo
Come si faccia
C’ha orribil faccia,
Che ha rea natura,
D’anima dura,


Che urlando va,
Quale per noi
Ne verrà poi
Utilità?


Con questo, essendo l’aquila Garuda il nostro signore, perchè si fa re il gufo? Anche s’egli ha molti pregi, ove ci sia un altro signore, nessun altro si può più approvare. Perchè è stato detto:


Perchè pungasi a buon fine,
Forte, illustre e di valor
Della terra nel confine
Solo imperi un regnator.


Son cagion di mal profondo
Molti prenci a un loco sol,
Come, allor che cessi il mondo,
Su nel cielo più d’un sol21.


Voi, col solo nome dell’aquila Garuda, potete essere inaccessibili ai nemici. Perchè è stato detto:


Ove con l’essere
Del nostro principe
Nome congiungasi
Molto autorevole,


Da parte de’ nemici in un istante,
Solo all’udir quel nome,
Franchigia e securtà vengono avante.


E poi:


Ove ai più grandi facciasi ricorso,
Fortuna puossi avere splendidissima,


Le lepri che ricorsero alla luna,
Menar poteron vita felicissima. —


Gli uccelli domandarono: Come ciò? — E il corvo incominciò a raccontare:

Racconto. — In un paese selvoso abitava già un grande elefante, signore della sua mandra, di nome Ciaturdanta. Ora, in quei luoghi fu per molti anni così grande siccità, che restarono asciutti tutti i laghi, le paludi gli stagni e i vivai. Allora, gli elefanti così dissero insieme al loro re: O signore, per la gran sete alcuni degli elefanti più giovani stanno per morire, altri già son morti. Si cerchi pertanto alcun ricettacolo d’acque acciocchè gli elefanti bevendo possano riaversi. — Il re allora mando fuori alla ricerca dell’acqua per le otto regioni della terra certi suoi famigliata alacri e pronti. Quelli che erano andati verso le parti d’Oriente, videro uno stagno che si chiamava la peschiera della luna, tutta piena all’intorno di cigni, di anitre e di altri uccelli acquatici, abbellito da molti alberi che si piegavano sotto i fiori e i frutti. Come l’ebbero veduto, ritornando in gran giubilo al loro signore, gli fecero un inchino e gli dissero: In un paese lontano, in mezzo alla terra ferma, si trova un grande stagno mantenuto sempre pieno dalle acque del Gange sotterraneo. Là adunque si vada’ — Gli elefanti allora, camminando per cinque notti, giunsero allo stagno; si tuffarono a loro voglia in quelle acque e ne uscirono verso l’ora del tramonto. Ma intanto, da tutte parti intorno allo stagno, stavano nel terreno molte innumerevoli tane di lepri, le quali tutte restaron guaste e rotte dagli elefanti che andavano errando qua e là, e molte ne rimasero con rotte le gambe o la testa o il collo; alcune anche furono morte, altre restarono con un fil di vita. Ma poi, andata via la schiera degli elefanti, tutte le lepri, radunatesi con gran turbamento d’animo (altre avevano avuto atterrata la casa dai piedi degli elefanti; altre avevano le gambe spezzate; altre, peste del corpo, erano tutte sanguinose; altre, avendo avuto i piccini uccisi, avevano gli occhi pieni di lagrime), incominciarono a consigliarsi scambievolmente. Oh! noi perdute! dicevano. Quella schiera d’elefanti ritornerà sempre qui, poichè altrove non c’è acqua, e sarà questo lo sterminio di tutte noi! Perchè è stato detto:


Sol che ti tocchi, un lionfante t’ammazza;
Sol che ti fiuti, un serpente ti uccide;


Sol che sorrida, un principe t’ammazza;
Sol che ti onori, un birbaccion ti uccide.


Però si pensi ora a qualche maniera di difesa. — A questo punto, una di esse disse: Abbandonando questo paese, vadasi altrove. Perchè è stato detto:


Per la famiglia
Una persona
Lasciar si può;
Per un villaggio,
Una famiglia;
Per una gente,
Tutto un villaggio;


Ma, per sè stesso,
Al suol natìo
Dicasi addio.
Terra tranquilla, di messi datrice,
D’armenti e di bestiami accrescitrice,

Sempre, dimenticando ogn’altro affare.
Per sua salute il re debbe lasciare. —


Ma alcune altre dissero: Oh! non si può abbandonar d’un tratto questo luogo che fu già dei nostri antenati! Però si trovi modo di spaventar gli elefanti perchè, almeno, per voler del destino, qui non tornino mai più. Perchè è stato detto:


Anche dal serpe che non ha veleno,
Una gran cresta si dee sollevare;


Abbia tosco o non abbia, non può a meno
Della cresta l’ardir di spaventare.


Ma alcune altre risposero: Se così è, dipende da un messaggero avveduto la condizione d’incuter loro così grande spavento che non tornino mai più, e il modo di spaventarli sta in ciò che il lepre che è nostro re, di nome Vigiayadatta, abita nel disco della luna22. Si mandi pertanto alcun finto messaggero presso il signore della schiera degli elefanti e da lui gli si dica così: «La luna ti proibisce di venire a questo stagno, perchè appunto intorno a questo stagno stanno ad abitare i suoi sudditi». Come ciò gli sia detto, egli desisterà dal venire, persuaso da tali parole degne di fede. — Altre allora dissero: Se così è, ecco ch’è qui una lepre di nome Lambacarna. Essa è abile nell’ordir discorsi e conosce ciò che hanno da fare i messaggieri. Mandisi adunque là presso lo stagno. Intanto, è stato detto:


Non avido, leggiadro ed eloquente,
In ogni ramo del saper versato


E del pensiero altrui bene intendente,
Tal del principe mandisi il legato.


Ancora:


Di tal che in portinaio
D’un re s’abbatterà,
Bugiardo parolaio,
Pieno d’avidità


E stolido di mente,
Indubitatamente
Non toccheranno guari
A lieto fin gli affari.


Cerchisi adunque, se mai egli vorrà andare alle nostre parole. — Altre allora dissero: Oh! cotesto è stato detto a proposito! Non c’è altro spedante per la nostra salvezza. Però si faccia, e, come sarà stato cercato, si mandi Lambacarna. — Fattosi tutto ciò, Lambacarna, messosi per la via degli elefanti, quando vide il loro re che veniva allo stagno tutto attorniato da migliaia di capi di schiere, così pensò: È impossibile che costui possa accontarsi con uno della nostra specie, e la cagione è stata detta in ciò che «Sol che ti tocchi, un lionfante t’ammazza». Io perciò mi farò vedere a lui da un luogo inaccessibile. — Così avendo divisato, salito sopra un collicello alto e non accostabile, così gridò verso il signore della schiera: O elefante malvagio, perchè mai con tanto sfrontato ardire vieni tu a questo stagno? Torna indietro! — Udendo ciò, l’elefante, con mente stupita, rispose: Oh! chi sei tu? — E l’altro disse: Io sono il lepre di nome Vigiayadatta che abita nel disco della luna. Ora son stato mandato a te dalla luna beata in qualità di messaggiero. Tu sai che a messaggiero che parla per il dover suo, non si deve fare alcuna colpa. Tutti i re così parlano per bocca dei loro messi. Intanto, è stato detto:


Anche allora che l’armi son levate

E de’ congiunti uccidonsi le schiere,

Anche se dure cose egli ha parlate,
Da un re mai non si offende il messaggiere. —


Avendo udito cotesto, l’elefante disse: O lepre, dimmi adunque il comando della luna beata, perchè sùbito si faccia. — E la lepre disse: Nei giorni passati, venendo qui con la tua schiera, tu hai ammazzato molte lepri. E non sai tu forse che sono quelli i miei sudditi? Che se hai tu qualche utilità della vita, tu per tuo bene non ritornar mai più a questo stagno. Tale è il comando. — L’elefante allora disse: Ma dove sta ora la beata luna regnante? — E la lepre disse: Essa è ora qui nello stagno, venuta a consolare le lepri state maltrattate dalla vostra schiera e superstiti alla morte; io intanto son stata mandata qui da te. — L’elefante disse: Oh! vieni tu adunque, vieni tu sola con me, acciocchè tu me la faccia vedere! — Per questo, la lepre, al sopravvenir della notte, menato con sè l’elefante e postolo là sulla sponda dello stagno, gli fece vedere l’immagine della luna nel mezzo dell’acqua; allora disse: Ecco là, in mezzo dell’acqua, la nostra signora assorta in profonda meditazione. Tu pertanto, fattole un inchino in silenzio, vattene sollecitamente. Se no, se tu le interromperai la sua meditazione, anche di più s’adirerà contro di te. — L’elefante allora, tutto spaventato nell’animo, fatto un inchino alla luna, si mosse per andar via di là, e le lepri, incominciando da quel giorno, con tutte le loro genti felicemente abitarono in quei loro luoghi. Perciò io dico:


Ove ai più grandi facciasi ricorso,
Fortuna puossi avere splendidissima;


Le lepri che ricorsero alla luna,
Menar potermi vita felicissima.


Chi poi ha cara la sua vita, non si associ mai per aver protezione con un uomo dappoco, sordido, codardo, disgraziato, ingrato, tale che per indole propria non fa che ciarlare e domandare. Perchè è stato detto:


Soltanto pensano
Al dritto che hanno
La lepre e il passero;
Ma poi che stanno


Con un tristo arbitro,
Ambo finita
Hanno la vita. —


Gli uccelli dissero: Come ciò? — E il corvo disse:

Racconto. — Un tempo, io sono stato ad abitare sopra un grand’albero di fico in un paese selvoso. Sotto, in una cavità dell’albero, abitava un passero di nome Capingiala. Noi due sempre, nell’ora del tramontar del sole, venendo a trovarci, godevamo dello stare insieme in piacevoli discorsi e del raccontare i fatti antichi dei sapienti divini, dei sapienti regi, dei sapienti braminici, e del descrivere le molte cose curiose vedute da noi nell’andare errando qua e là; e così il tempo passava. Ma un giorno Capingiala, per procacciarsi da mangiare, se n’andò con altri passeri ad un paese pieno di riso maturo. Al cader della notte, egli non era ancora tornato, perchè io, turbato nell’animo e afflitto per la sua assenza, andava pensando: Come mai oggi non è ritornato Capingiala? Forse egli è stato preso a qualche laccio o anche stato ucciso da qualcuno! In ogni modo, s’egli è sano e salvo, non potrà stare senza di me. — Mentre io era in questi pensieri, passarono molti giorni, quand’ecco che una lepre di nome Sigraga, capitata là nell’ora del tramonto, si cacciò in quella cavità dell’albero, nè io, poichè disperava ornai di Capingiala, ne la impedii. Ma poi, a un altro giorno, Capingiala, ricordatosi del luogo suo, ingrassatosi omai col mangiar del riso, là ancora fece ritorno. Però giustamente si suol dire:


Tanta non trovasi,
Nemmeno in cielo,
Perfetta agli uomini
Felicità,
Quanta ne godono,


Anche se afflitti
Da povertà,
Alla lor terra,
Alla lor casa
O a lor città.


Vedendo egli allora la lepre che s’era cacciata nella cavità dell’albero, così le gridò con atto di disprezzo: O lepre, tu non hai fatto bene entrando in casa mia. Però escine tosto. — Ma la lepre disse: O sciocca, questa non è casa tua, bensì mia. A che dunque vai parlando con tanta asprezza? Perchè è stato detto:


Quando alcuno il suo vivaio,
Il suo pozzo, la sua fonte
O il suo tempio abbandonò,


Di riaverne signoria
Più pretendere non può.


E poi:


Chi per dieci anni
Pubblicamente
D’un campo o d’altro
Fu possidente,
Ha quel possesso


Per argomento,
Non testimonio,
Non documento
Gli è necessario
n un processo23.


Ora tu, o sciocco, non hai udito l’avviso di Narada:

Per gli uomini è argomento — di dieci anni il possesso;
Per gli’augelli e le fiere — l’avervi avuto accesso.


E però questa casa è mia per diritto, e non tua. Capingiala allora disse: Se tu vuoi ricorrere all’autorità della legge, vieni con me e interroghiamo qualche dottor di leggi. A chi egli assegnerà per diritto la casa, quello se la prenda. — Dopo ciò, ambedue si tolsero di là per andare a sbrigare quel piato, e io pensai: Che sarà ora? Io pure devo vedere questa faccenda. — Allora, per la curiosità, anch’io andai dietro a quei due. La lepre intanto, non essendo andata ancor molto lontana, così domando a Capingiala: Amico, chi ora definirà questa nostra questione? — E l’altro disse - Un gatto di nome Dadicarna che ha molta pietà per gli esseri viventi tutti, che s’è dato ai voti della vita penitente e se ne sta sul greto del Gange beato che ha le onde mobili delle sue acque increspate dai forti venti e scorre tutto insieme raccolto con suono di dolce mormorio. — Ma la lepre, come vide il gatto, turbata nell’animo da forte spavento, gridò: Via, via da questo malnato! Perchè è stato detto:


In vil che ha l’abito
Di penitente,
Nessun dell’animo
Sia confidente.


Molti si vedono
Su per i greti24
Ingordi e cupidi
Anacoreti25. —


Ma intanto quel gatto selvatico di nome Dadicarna, avendo udito il piato che quei due facevano, per ispirar fiducia in loro, se ne venne alla sponda del fiume là presso la via, e, presa una manata di verbene, segnato dei dodici segni fausti, socchiuso un occhio, le braccia levate in alto, toccando il suolo con la sola punta delle zampe, volta la faccia al sole, mormorò questa pia giaculatoria: Oh! quanto è vano il mondo! La vita dura un istante; la compagnia dei proprii cari è simile a un sogno; illusione è la famiglia e la turba degli amici e congiunti! Fuor della vita religiosa, non c’è altra via! Perchè è stato detto:


Poi che i corpi sono labili
E felicità non dura
E la morte sempre accostasi,
Vuolsi far della virtù
La conquista imperitura.


Uom, di cui vanno e vengono
I di senza virtù,
De’ fabbri come il mantice
Respira e nulla più26.


E poi:


Senza virtù scienza è cosa inutile
Come del can la coda, che non può

Nè coprir le vergogne nè difenderlo
Se una mosca per caso il morsicò.

Quale il grano leggiero in fra le biade,
Quale ogni augello vil tra gli altri augelli,

Quale l’abbietta mosca appo le genti,
Tale ogni uom cui virtude non abbelli.

D’una pianta val più assai
Frutto e fior che ne côrrai;
Più del latte che si sprema,
Valer dicesi la crema,
E d’un olio ancora impuro
Val più assai l’olio ch’è puro,
E di tutta umanità27
Maggior pregio ha la pietà.
Solo per fare le occorrenze sue
E per mangiare, a utilità d’altrui,

Come le bestie, fatto fu colui
Che scevro va da pregio di virtue.

Lodano i sapïenti del ben vivere
La fermezza del core in tutte l’opere;

Di virtù ch’è irretita a mille ostacoli,
Davver! che la partenza è rapidissima!

Brevemente, o genti, a vui
Dir si può virtù che sia.
A che far tante lungaggini?
Dee l’onesto aitare altrui
E di gente mala e ria
Proprio è gli altri tutti offendere.
La somma ascoltisi
D’ogni dovere,
E ciascun vogliala
Poi ritenere:
Da te per gli altri
Mai non si appresti
Ciò che in niun modo
Per te vorresti. —


Avendo udito quella esposizione dei doveri, la lepre disse: O Capingiala, eccoti qui un penitente, dottor di leggi, sulla sponda del fiume! Interroghiamo costui. — Capingiala disse: Ma non è egli, per sua propria natura, il nostro nemico? Interroghiamolo adunque stando da lontano, che non avvenga in lui alcuna infrazione dei voti. — Allora, stando da lontano, l’uno e l’altro dissero: O penitente dottor di leggi, una questione è fra noi due. Tu danne la definizione a noi con cotesta tua sapienza nelle leggi. Quello che di noi due rimarrà perdente nella disputa, sia divorato da te. — Ma l’altro disse: Amici, non dite così! Io mi son ritratto dalla via che mena all’inferno, e il non offendere alcun vivente è la vera via della pietà. Perchè è stato detto:


Poiché da’ sapienti proclamato
Fu dover primo il non uccider mai,


Anche allora che t’hanno morsicato,
Pidocchi e cimici risparmierai.


Anche chi stermina
Dannose belve,
Al tristo orrore
D’inferno andrà,
Perch’egli ha core


Senza pietà;
Ma quanto più
Colui v’andrà
Che le innocenti
Ammazzerà!


Ora, quei sacrificatori che nei sacrifizi uccidono animali, non intendono, stolti! il vero significato della tradizione. Perche là è detto questo: «Devesi sacrificare con degli agia». Ora, per questi agia s’intendono grani di riso di tre o di sette anni, che non germogliano più28. Ed è stato detto:


Se ascende fra i beati
Chi gli alberi troncò
E di animai sgozzati


Nel sangue si macchiò,
Di chi dir si potrà
Ch’egli all’inferno andra?


E nero io non mungerò mai di esseri viventi; bensì darò la sentenza tra il vincente e il perdente. Ma io sono vecchio e da lontano non intendo bene le parole dell’uno e dell’altro. Ora però che sapete ciò, facendovi più vicini a me, dite in mia presenza il vostro negozio, perchè io, presane conoscenza, mentre dirò la sentenza che definirà la questione, non perda il frutto dell’altra vita. Perchè è stato detto:


Chi per rispetto29,
O per furore,
O per affetto,
O per timore,
Sentenza dà,
Verso l’inferno
Cadendo va.
In falso per greggi,
Cinque uomini ammazza;


In falso per bovi,
Dieci uomini ammazza;
In falso per donna,
Cent’uomini ammazza;
In falso per uomo,
Mille uomini ammazza30.
Ove chiaro ed aperto il suo pensiero
Non dica alcun sedendo in tribunale,

Lontan si tenga o parli veritiero.


Perciò voi venendo senza alcun timore sotto agli orecchi miei, parlate chiaramente. — Ma a che tante parole? Il passero e la lepre furon così abilmente persuasi da quel malvagio, che s’accostarono a lui. Allora, e nello stesso tempo, uno di essi fu raggiunto da lui con una zampa e l’altro afferrato con la sega dei denti. Così ambedue furon morti e divorati. E però io dico:


Soltanto pensano
Al dritto che hanno
La lepre e il passero;
Ma poi che stanno


Con un tristo arbitro,
Ambo finita
Hanno la vita.

Ora, poichè voi che di notte siete ciechi avete avuto ricorso ad un re dappoco che è cieco di giorno, andrete per la via della lepre e di Capingiala. Perciò, tenendovi bene in mente cotesto, facciasi da voi ciò che si deve fare. — Allora, avendo ascoltato questo discorso del corvo, gridando tutti: Oh! egli ha parlato giustamente! — e dicendo ancora: Suvvia! raduniamoci e consigliamoci intorno al nostro sovrano, — gli uccelli andarono dove vollero, e solo rimase là, seduto sul trono regale per la consacrazione, con la sua Cricalica31, il gufo. Egli disse allora: Chi è ancora qui? Oh! perchè dunque oggi non mi si fa la consacrazione? — Udendo ciò, Cricalica gli rispose: Caro mio, alla tua consacrazione è stato fatto impedimento da cotesto corvo. Gli altri uccelli sono andati là dove hanno voluto, e qui soltanto è rimasto il corvo per qualche sua ragione. Però lèvati su presto perchè io ti rimeni a casa. — Come ebbe udito questo, il gufo, con turbamento dell’animo, così disse al corvo: O malvagio, quale offesa t’ho fatta io perchè tu avessi da impedire la mia consacrazione? Da oggi in poi vi sarà tale inimicizia fra noi che si perpetuerà anche nella nostra stirpe. Ora, è stato detto:


A crescer torna
Legno reciso
D’ascia o bipenne,
E si rimargina
Ciò che la spada
A ferir venne;


Ma offesa grave
È rea parola.
Piaga che aperta
Per essa fu,
A fare il margine
Non torna più. —


Quand’ebbe detto ciò, se n’andò a casa con la sua Cricalica. Il corvo allora, tutto turbato di paura, si mise a pensare: Oh! io mi son procacciato senza ragione una inimicizia! Perchè ho io parlato così? Perchè è stato detto:


Se qualcun, quando non lice,
Fuor di tempo e fuor di luogo,
Stolida parola dice


Che gli scema dignità,
Non parola, ma veleno
La parola sua sarà.


E poi:


L’inimicizia altrui tal ch’è avveduto,
Anche se forte, mai non si procacci;

Qual saggio mai prender vorrà veleno
Di medico in pensar ch’è provveduto?

Nell’assemblea
Nessun ch’è saggio,
Parola rea
D’altri dirà;
Nemmeno un biasimo
Con verità
Muover si de’


Ove malanno
Rechi con sè.
Ma quei che per gli amici
Che fidansi di lui,
Opra fa che più volte
Provò ne’ pensier sui,
Qual con saggezza molta
In sua mente ha raccolta,
Quei veramente è saggio
E di gloria e fortuna
Fa manifesto saggio! —

Così pensando fra sè, il corvo se n’andò, e da quel giorno, tra noi e i gufi, c’è tale inimicizia che si perpetua nelle nostre stirpi. — Megavarna allora disse: Padre, poichè tutto ciò è avvenuto, cosa dobbiam far noi? — E l’altro disse: Figlio mio, poichè tutto ciò è avvenuto, dopo gli altri sei espedienti, ce n’è un altro molto energico, quale io stesso adoprerò e per esso toccherò la vittoria. Io, ingannandoli, ammazzerò tutti i nemici. Perchè è stato detto:


Quei che ha molta furberia
Molto accorto ed avveduto,
Può ingannar chiunque sia
Ben di forza provveduto;


Però certi birbaccioni
D’una capra han derubato
Un Bramino sventurato. —


Megavarna disse: Come ciò? — E l’altro disse:

Racconto. — Avvenne già che in un certo paese abitava un Bramino di nome Mitrasarma che s’era dato al culto del Fuoco. Costui, un giorno, nel mese di Maga, spirando un vento leggiero, essendo coperto di nuvole il cielo, con una pioggerella che veniva adagio adagio, si recò ad un vicino villaggio a cercarvi una capra per il sacrifizio. Ne fece domanda a un devoto, dicendo: O anima devota, io, la notte del prossimo novilunio, intendo di fare un sacrifizio; però dammi tu una capra. — Il devoto allora gli diede una capra grassa, secondo il precetto, e il Bramino come l’ebbe riconosciuta buona al sacrifizio facendola correre qua e là, se la tolse sulle spalle e in tutta fretta parti per ritornare alla sua città. Ora, mentre egli così andava per la sua via, gli capitarono incontro tre malandrini affamati, i quali, vedendo quella grassa capra recata in collo dal Bramino, si dissero l’un l’altro: Oh! se si potesse mangiar quella capra, si manderebbe alla malora il tempaccio di quest’oggi! Suvvia dunque! Imbrogliano costui, togliamogli la capra e ripariamoci dal freddo. — Allora uno di essi, mutatosi di vesti, venutogli incontro in un luogo appartato della via, così si fece a dire a quel devoto del Fuoco: Oh! lo stolto adorator del Fuoco! E perchè fa egli cosa degna di riso e vietata a tutta la gente portandosi in collo un cane impuro? Perchè è stato detto:


Cammelli ed asini,
Botoli e galli
E gente ignobile,
Ciascuno guardisi


Mai dal toccarli — ,
Tale il precetto.
Questi tu mai
Non toccherai. —


Il Bramino, preso dall’ira, rispose: Oh! sei tu cieco che chiami cane una capra? — Ma l’altro rispose: O Bramino, non t’adirare, ma va come ti piace. — Ma poi andando egli innanzi per la via, ecco che l’altro malandrino, venendogli incontro, gli disse: Oimè! oimè, Bramino! Anche se ti fu molto caro cotesto tuo figlio morto, non ti è lecito portarlo in collo, perchè è stato detto:


Quello stolido che tocca
Una bestia o un uom ch’è morto,

Si purifichi ingoiando

Dalle vacche ciò che è porto32,
E pel corso d’una luna
Tutti i giorni digiunando. —

Il Bramino gli rispose con ira: Ohe! sei cieco tu che una capra dici essere un figlio morto? — E l’altro rispose: O reverendo, non t’adirare! Io ho parlato per ignoranza. Tu però vattene come più ti piace. — Ma poi, come fu andato ancora un poco per la selva, il terzo malandrino venutogli incontro con altre vesti e accostatosi a lui, gli disse: Oh! ciò non va bene! Tu ti porti in collo un asino! Deh! mettilo giù! Ora, è stato detto:


Un bagno è additato
Con tutte le vesti,
E purificato
Da tutta bruttura


Allora sarà,
Chi, ’l sappia o nol sappia,
Toccato per caso
Un asino avrà.


Perciò mettilo giù intanto che nessun altro non ti ha ancora veduto. — Il Bramino allora, persuasosi che quella capra fosse un Racsaso33 tutto spaventato la gettò a terra e fuggì a casa, e quei tre, riunitisi e toltasi la capra, si diedero con molto piacere a mangiarsela. Perciò io dico:


Quei che ha molta furberia,
Molto accorto ed avveduto,
Può ingannar chiunque sia
Ben di forza provveduto;


Però certi birbaccioni
D’una capra han derubato
Un Bramino sventurato.


E poi, si suol dire egregiamente:

Alle parole molte — e varie de’ birbanti,
D’ospite alle parole — delle femmine ai pianti,

Di servitor novello — agli atti, alle maniere,

Non si può fare a meno — quaggiù di soggiacere.


Anzi non c’è modo di resistere ai deboli quando sono molti. Ed è stato detto:


Insuperabili
Son sempre i più;
I molti vincere
Non potrai tu.


Un gran serpente,
Ben che crucciato,
Dalle formiche
Fu divorato. —


Megavarna disse: Come ciò? — E Stiragivin incominciò a raccontare:

Racconto. — Dimorava già presso un formicaio un nero serpente di gran corpo, chiamato Atidarpa. Egli, un giorno, lasciata la via consueta per uscir dalla tana, prese ad uscirne per un pertugio stretto. Mentre egli vi si strascicava dentro, per la grossezza del corpo e l’angustia del pertugio, volle il destino che gli si facesse nel corpo una ferita. Allora, dalle formiche, che accorsero subito all’odore del sangue uscito dalla ferita, egli fu oppresso e tormentato. Tante lo mordono, tante l’ammazzano. Alla fine, tutto coperto da infinite piaghe per la moltitudine delle formiche, straziato per tutto il corpo, Atidarpa si mori. Perciò io dico:


Insuperabili
Son sempre i più;
I molti vincere
Non potrai tu.


Un gran serpente,
Ben che crucciato,
Dalle formiche
Fu divorato.

Però, a questo punto, io ho alcuna cosa da dire, la quale tu tenendo bene in mente, avrai da operare in conformità. — Megavarna disse: Parla! si farà secondo il tuo avviso, non diversamente. — E Stiragivin rispose: Ascolta dunque, o figlio mio, quale espediente ho io immaginato, quinto dopo gli altri quattro, il primo dei quali è l’alleanza. Fattomi d’un tratto tuo nemico, tu mi devi assalire con dure parole; e perchè le spie dei nemici comincino ad aver fiducia in me, tu mi devi lordar di sangue accattato in qualche parte e cacciarmi abbasso, ai piedi di quest’albero di fico. Devi poi andare al monte Risciamuca laddove ti terrai con tutta la tua gente. Io intanto come con arte bene acconcia avrò condotto i nemici tutti a fidarsi di me, certo ornai di riuscire, venuto là dentro alla loro fortezza che ben conosco, ben sapendo che essi di giorno son presi da cecità, tutti li ammazzerò. Da me è stato risaputo tutto ciò, e non v’è altro modo di riuscire per noi, perchè la loro fortezza che non ha uscita, è atta soltanto a procurare il loro sterminio. Perciò è stato detto:


Quand’ha un’uscita, dice veramente
Che una fortezza ell’è l’esperta gente;


Ma un carcere ella è ben se non ha uscita,
Con apparenza di piazza munita.


Nè tu devi avere alcuna pietà di me, perchè è stato detto:


Anche se ben tenuti e accarezzati
E dolci a lui come la propria vita,

I servi suoi dal re sian riguardati,

Ove una guerra levisi improvvisa,
Quai secchi legni al fuoco destinati.


E poi:


Come la propria vita
I servi suoi difenda,
Come di sua persona
Di lor cura si prenda,


Massime per quel giorno
In che i nemici sui
Verranno incontro a lui.


Perciò tu, in questa faccenda, non mi devi punto risparmiare. — Quand’ebbe detto ciò, prese a far con lui una finta baruffa. Allora, gli altri ministri del re, pensandosi che Stiragivin avesse tenuto un parlare non rispettoso, si levaron d’un tratto per metterlo a morte, ma Megavarna gridò: Ohe! fatevi indietro voi! lo da per me mi piglierò vendetta di questo malvagio che è passato dalla parte dei nemici. — Così dicendo gli montò sopra, e piluccatolo con leggieri colpi del becco, e macchiatolo con sangue accattato, con tutto il suo sèguito si recò al monte Risciamuca come era stato ordinato. Cricalica intanto che faceva da spia dei nemici, andò a raccontare lutto quell’incidente di Megavarna e del suo ministro al re dei gufi dicendo: Il nemico tuo, tutto sgomento, è andato ora altrove con tutto il suo sèguito. — Perchè allora il re dei gufi, avendo udito ciò, con tutti i suoi ministri, con tutto il suo sèguito, nell’ora del tramonto si mosse per andare a sterminare i corvi, e diceva intanto: Presto! presto! Nemico spaventato, che ad altro non pensa che a fuggire, è preda degli animosi. Intanto, è stato detto:


Se il nemico s’allontana,
Questa è prima sua sventura;
Se ricorre a protettori,


È seconda sua iattura,
E soccombere egli de’
Ai satelliti del re34. —


Così dicendo egli si fermò là sotto l’albero di fico circondandolo co’ suoi da tutte le parti. Ma perchè nessun corvo si faceva vedere, Arimardana, tutto contento, salito sulla cima di un ramo, celebrato dai bardi regi, così gridò ai suoi soldati: Scoprasi ora dove sono iti i nemici! veggasi per qual via son fuggiti i corvi. Che se essi non si sono ancor riparati in qualche fortezza, io, venendo loro alle spalle, tutti li sterminerò. Perchè è stato detto:


Pur che dietro a una siepe di pruni
Si difenda, invincibil sarà

Quel nemico per tal che desio
Dentro al core di vincerlo avrà;

Quanto più se ad un loco, fornito
D’ogni cosa che all’uopo verrà,
Ei sarà, loco forte, salito! —


Stiragivin intanto, in quello stato suo, così andava pensando: Questi nemici nostri che non anche son bene informati di ciò che io intendo di fare, come sono andati, così ritorneranno. Io intanto non ho da far nulla. Perchè è stato detto:


Non intraprender tosto opra da fare,
Gli è il primo segno della sapïenza;


L’opra intrapresa al termine guidare,
Secondo segno della sapïenza.


Perciò è assai meglio il non far nulla che riuscir male nell’impresa. Io però mandando loro una voce, mi farò conoscere. — Così avendo divisato, fece un gemito lento lento. Udendolo, tutti quei gufi si mossero per ammazzarlo, ma egli disse: Eh! io sono Stiragivin, il ministro di Megavarna, ridotto da lui in questa condizione. Ora voi fate sapere al vostro re che io ho molte cose da dirgli. — Avvisato da loro, il re dei gufi, pieno di meraviglia, venutogli presso all’istante, gli domandò: Oh! oh! come mai sei tu venuto in questo stato? Parla! — Stiragivin rispose: O signore, si ascolti l’origine di questo stato mio! Nei passati giorni, quel malvagio di Megavarna, divorato dall’ira e dal dolore contro di voi per la sventura dei molti corvi da voi uccisi, già s’era mosso per farvi la guerra. Allora io gli dissi: O signore non ti si convien punto far ciò. Quelli son forti e noi siam deboli. Ora è stato detto:


Con colui ch’è più potente,
Mai non pensi a contrastar
Chi più debole si sente
Se i suoi dì vuol conservar.


Non si abbatte chi è più forte,
Ed è chiaro che sen va,
Chi l’assale, a certa morte,
Qual volante insetto fa35.


All’opposto, vuolsi far la pace anche con presentazione di doni. Perchè è stato detto:


Come vegga un nemico possente,
Tutto il suo dona l’uom ch’è prudente;


Il donando, egli salva sua vita,
E ricchezza maggior s’è acquisita. —

Quand’ebbe udito cotesto, quel malvagio, montato in ira contro di me, sospettando ch’io fossi passato dalla tua parte, m’ha ridotto a questo punto. Intanto, il rifugio mio è il venire a’ tuoi piedi. Ma a che ho io da dichiararti tante cose? Appena io possa muovermi, io, menandoti alla sua casa, farò sterminio di tutti i corvi. — Arimardana allora, come ebbe inteso, si consigliò co’ suoi consiglieri ereditati già dal padre e dall avo suo. Egli aveva cinque consiglieri, cioè Ractacsa, Gruracsa, Diptacsa, Vacranasa e Pracaracarna. Egli adunque interrogò Ractacsa per il primo: Poichè il consigliere del nostro nemico è venuto in poter nostro, cosa dobbiam fare? — Ractacsa rispose: O signore, a che si dubita per ciò? Si uccida senza remissione. Perchè:


Nemico diserto
S’uccida d’un tratto
Perchè non ritorni
Più forte rifatto.


Sua forza guerriera
S’ei ripiglierà,
Difficile a vincersi
Più e più si farà.


E che? «La fortuna, quando viene da sè e altri la trascura, maledice». Tale il proverbio che va tra la gente. Ed è stato detto:


Ad uom che occasion cerca opportuna,
Occasïon tocca una sola volta.


Da quei che in buon momento oprai desia,
A stento ancor l’occasione è colta.


E s’ode anche a dire:


Vedi il rogo che fiammeggia,
Ve’ la cresta mia ch’è infranta!


Amicizia che fu rotta,
Per favor più non s’impianta.


Arimardana disse: Che vuol dir ciò? — Ractacsa allora incominciò a raccontare:

Racconto. — Eravi già in un certo paese un Bramino di nome Haridatta, al quale, attendendo egli all’agricoltura, ogni stagione riusciva senza frutto. Un giorno, tormentato dal calore, per riposare nell’ora del maggior caldo, si sdraiò in mezzo al suo campo all’ombra di un albero. Allora, vedendo non di lontano uno spaventoso serpente che sollevava una gran cresta e che si stendeva presso un formicaio, incominciò a pensare: Ecco che cotesta Deità del campo non fu mai onorata da me, e però il lavoro mio dei campi mi riesce senza fruito. Ma io oggi le renderò il debito onore. — Così avendo divisato, procacciatosi da certi luoghi del latte e versaiolo in una scodella, venendo là presso a quel formicaio, cominciò a gridate. O divino protettor del campo, io non ho mai stipulo, in tanto tempo, che tu abitavi qui. Intanto, io non ti ho reso il debito onore. Ora però tu mi perdona! — Come ebbe detto così e offerto il latte, si mosse per ritornare a casa. Alla mattina, quando stava per ritornare, guardò, ed ecco ch’egli vide nel piatto una moneta d’oro. D’allora in poi, tutti i giorni, egli là si recava da solo e offriva il latte e ne riceveva sempre una moneta d’oro. Ma un giorno, comandato a un suo figliuolo di recare il latte al formicaio, il Bramino se n’andò al villaggio. Il fanciullo, quand’ebbe recato il latte e l’ebbe collocato al suo luogo, ritornò a casa; e poi, l’altro giorno, andando di nuovo, veduta quella moneta d’oro e raccoltala, si diede a pensare: Questo formicaio è tutto pieno di monete d’oro, e però io, sconvolgendolo tutto, mi piglierò in un colpo il tesoro. — Così avendo divisato, all’altro giorno, quand’ebbe offerto il latte, nel frugare per il formicaio egli colpì nella testa, col bastone, il serpente. Il quale, rimasto in vita per voler del destino, con ira morsicò il fanciullo co’ suoi denti acuti e velenosi, onde il fanciullo in breve ora si mori. I suoi famigli allora gli prepararono il rogo in luogo non lontano da quel campo. Intanto, al giorno che seguì, ritornò il padre del fanciullo. Udita dai suoi famigli la cagione della morte del figlio suo, mostrò di approvarla dicendo:


Chi non accoglie
Quei che ricorso
Han fatto a lui,
Tutti si perde


I beni sui,
Come nel verde
Giardin dei loti
I cigni idioti. —


I famigli dissero: Come ciò? — E il Bramino incominciò a raccontare:

Racconto. — C’era una volta in un certo paese un re di nome Citrarata dove era anche uno stagno, detto lo stagno dei loti, custodito con cura dai soldati di lui, e nel quale stavano molti cigni di color d’oro. Di sei in sei mesi essi si lasciavano tagliar la coda. Un giorno, capitò a quello stagno un grande uccello tutto di color d’oro. Ma i cigni gli dissero: Tu non puoi stare in mezzo a noi. Noi abbiamo occupato questo stagno mediante il tributo, al termine d’ogni sei mesi, d’una coda. — Ma a che andar per le lunghe? Ne nacque da una parte e dall’altra una disputa. Alla fine, l’augello fece ricorso al re e disse: O signore, quegli augelli m’han detto così: Nostro signore che vorrà mai fare? noi intanto non accoglieremo nessuno. — Io allora ho detto: Voi non dite bene; e però io, andando dal re, gli farò sapere ogni cosa. — A questo punto, il re comandi. — Il re allora disse a’ suoi servitori: Oh! oh! voi andate! ammazzate tutti quegli uccelli e portateli sùbito qui. — Quelli, al comando del re, andarono. Vedendo allora i famigli del re coi bastoni in pugno, un vecchio uccello si mise a gridare: Ohe! fratelli! la faccenda è andata male! Noi intanto, tutti unanimi, voliam subito via! — E quelli così fecero. Perciò io dico:


Chi non accoglie
Quei che ricorso
Han fatto a lui,
Tutto si perde


I beni sui,
Come nel verde
Giardin dei loti
I cigni idioti. —


Come ebbe detto ciò, il Bramino alla mattina che seguì, tornò a prender del latte, poi, andato là sul luogo, cominciò ad invocare ad alta voce il serpente. Il serpente venne finalmente sulla porta del formicaio e così gli rispose: Con te che sei venuto qui per cupidigia mettendo da parte il lutto del tuo proprio figlio, d’ora in poi non vi sarà più l’amicizia di prima. Io, per l’inconsideratezza giovanile, son stato battuto dal figlio tuo ed egli è stato morsicato da me. Come posso io dimenticare il colpo di quel bastone? e tu come puoi dimenticare la sventura dolorosa del figlio tuo? — Così dicendo e porgendo al Bramino un monile di perle di gran prezzo e dicendogli di nuovo: D’ora in poi tu non devi più ritornar qui, rientrò nella sua tana, e il Bramino, toltosi quel monile, lagnandosi seco del mal consiglio del figlio suo, ritornò a casa. Perciò io dico:


Vedi il rogo che fiammeggia36,
Ve’ la cresta mia ch’è infranta!


Amicizia che fu rolla,
Per favor più non s’impianta.


Così, se tu con molto accorgimento avrai ucciso colui, il tuo regno resterà libero da ogni impedimento. — Avendo ascoltato cosi il discorso di lui, il re si fece a interrogar Cruracsa: Che pensi tu, amico mio? — E l’altro rispose: O signore, è cosa crudele questa che è stata detta da costui, e la ragione si è che non si deve ammazzare chi si rifugia presso di noi. Anzi, a questo proposito, questo appunto si racconta:


S’ode narrar che a dover pio conforme
Onor fece un colombo al suo nemico


Per aita venuto, e ad una cena
Di sue carni imbandita anche invitollo. —


Arimardana disse: Come ciò? — E Curacsa incominciò a raccontare:

Racconto.

D’anima abietta e pe’ viventi eguale
Al Signor della morte37, orrido e tristo,
Aggirarsi solea per l’ampia selva
Un cacciator d’augelli. Ei non avea
Amico alcuno, non congiunti o soci,
Ma si vivea da tutti abbandonato
Per l’opre sue crudeli.


Perciocchè:

Ognun dovria

Come serpe fuggir lo scellerato
Che dà la morte agli esseri viventi. —
Egli adunque, pigliando una sua gabbia.
Un laccio ed un baston, sempre la selva
D’ogni vivente in danno percorrea;
E un dì, pel bosco andando, ecco in potere
Venirgli una colomba, e quella tosto
Nella gabbia ei cacciò. Le plaghe allora
Tutte del cielo s’oscurâr di dense
Nuvole, e nella selva egli era ancora;
Vento e pioggia sorvenne e l’ora estrema
Quella parea del mondo. Allor, con alma
Turbata di terror, forte tremando,
Cercò rifugio. A un grand’albero venne.
Un istante il guardò come si guarda
In del limpida stella, indi, raggiunto
Come l’ebbe, oh! dicea, chiunque sii
Ch’abiti qui, son io venuto al tuo
Rifugio. Tu però mi sii difesa,
Ch’io son dal freddo assiderato e perdo
I sentimenti per la fame! — Intanto,
Di quell’arbor sui rami, afflitto e mesto
Un colombo che già lunga stagione
Là solea dimorar, dalla compagna
Abbandonato, fea questi lamenti:
Molto il vento e la pioggia, e ancor non riede
La mia diletta. Ahimè! chè orba di lei
Oggi, è deserta la mia casa! Sposa
Allo sposo fedel, tutta di lui,
Di ciò che piace à lui tutta contenta,
Oh! se alcun uomo ha tal consorte in terra,
Egli è beato! Non han detto i saggi
Esser casa una casa, ma colei
Esser la casa che n’è la signora;
E casa, ove di lei deserta sia,
Vuolsi estimar quale una selva! — Allora
La colombella ch’era nella gabbia,
Come la voce udì del suo compagno,
Già mesta e afflitta, con gioioso core
Fe’ questi detti: Oh! non è donna quella
Di cui non va contento il suo consorte!
Quando contento egli è, tutti gli Dei
Son satisfatti. Entro foresta che arde,
Arda qual pianta che co’ frutti e i rami
Tutta è incesa, ed in cenere ridotta
La donna sia di cui non è contento
Il suo consorte! E dà in misura il padre,
Dà in misura il fratello e dà in misura
Il figlio ancor. Ma a sposo che suoi doni
Senza misura fa, qual donna mai
Onore non faria? —


Poi soggiunse ancora:

Con alma intenta

Odi tu, o caro, ciò che dir ti voglio,
Cosa propria ed onesta. Anche col sangue
Sempre difenderai tal ch’è venuto
Al tuo rifugio. E questo uccellatore
Qui si sta riparato alla tua casa,
Dal freddo oppresso e dalla fame afflitto.
Rendigli adunque tu l’onor che devi.


Ora, s’ode dire come precetto:

Ove qualcun tanto non renda onore
All’ospite che a lui sul vespro giunse,
Quant’è nel suo poter, tutta gli appone
L’opra sua rea quell’ospite e con seco
Tutto si porta il beneficio suo38.
Or tu non aver seco odio o rancura
Così pensando: «Presa fu da lui
La mia diletta!» — , chè per l’opre mie
Son io venuta in questi ceppi e sono
Questi vincoli miei l’opre mie antiche39.


In quanto che:

I mali tutti, i morbi e la miseria,
I ceppi e le sventure è mio a’ mortali
Frutti del germe di lor triste colpe.
Però, lasciando il tuo corruccio, in core
Qual ti nascea per questi ceppi miei,
Posta la mente al dover tuo, costui
Conforme a legge accogli. — Udendo allora
Queste ch’eran conformi al dritto e al [giusto
{{indent|0|Voci di lei, di libero volere
Accostossi il colombo al cacciatore
E così favellò: Tu benvenuto!
Dimmi, o caro, che farti io deggia mai.
Oh! non crucciarti, chè tu se’ davvero
In casa tua. — Come que’ detti intese,
Così all’augel rispose il cacciatore:
O bel colombo, ho freddo. Oh! mi ripara
Da questo verno! — Radunando allora
Certi carboni qua e colà correndo,
Fuoco il colombo fece uscirne e poi
Fiamma fe’ divampar d’aride foglie.
Come l’ebbe così tutto racceso,
A lui si volse che d’alcun riparo
L’avea richiesto: Scàldati le membra
Senza timor sicuramente. Alcuno
Poter non ho per ch’io tua fame acqueti.
Altri a mille, altri a cento ed altri a dieci
L’alimento procaccia; io poverello.
Io misero, con stento mi poss’io
Alimentar. Però di tal che il cibo
Porger non puote a un solo ospite suo,
S’egli abita a un ostel pieno di molti
Danni e sventure, quale il frutto mai?
Questo mio corpo adunque che la vita
Ha grama, offerirò, perch’io più mai,
Un supplicante allor che giunge, in questa
Guisa non debba dir: «Nulla ho con

meco!» —

Così di sè medesmo ei fea lamento,
Non già del cacciator. Ti farò sazio,
Soggiunse poscia. Un solo istante attendi. —
Così dicendo, il pio, con mente lieta,
Nel fuoco si cacciò, v’entrando in mezzo
Come in sua casa, e il cacciator che il vide
Cader nel fuoco, molto impietosito,
Oh! l’uom, gridò che male adopra, amico
Non è di sé davvero! Ei tocca poi,
Egli medesmo, il mal ch’ei stesso fece.
Ed io malvagio, ed io che mi piacea
D’opre crudeli, scenderò d’inferno,
Oh! non è dubbio, al tetro loco. Intanto


A me crudel fu addimostrato esempio
Da seguitar per questo generoso
Che mi offerse a cibar le carni sue.
Ma d’oggi in poi queste mie membra tolte
A ogni piacer disseccherò crucciando
Come al cocente està picciolo stagno
D’acque si secca. Sopportando il freddo,
L’ardore, il vento, dimagrato e brutto
Di tabe il corpo, con digiuni assai,
Grande farò di ciò la penitenza. —

Ruppe allora la gabbia e il laccio suo
E la verga e il baston l’uccellatore

E liberò la colombella afflitta.
Ella, sciolta da lui, come veduto
Ebbe il compagno suo cader nel fuoco,
Mesta e con alma di dolor crucciata
Fe’ questo pianto: O signor mio, che farmi
Non so, priva di te, di questa vita!
Donna afflitta e deserta, oh! qual mai frutto
Ila del vivere suo? L’alto pensiero
Di sé stesso, l’orgoglio e l’alterigia,
Fra congiunti, di stirpe, e sopra servi
E famigli il comando, in un baleno
Spariscono al venir di vedovanza! —

Così più volte pïetosamente,
Molto afflitta del cor, si lamentando,

La colombella, a’ maritali voti
Sempre fedele, al divampante fuoco
Entrò nel mezzo. Allora, d’un celeste
Manto vestito e d’ornamenti cinto
Divini, eterni, e stante sopra un carro,
Vide la colombella il suo consorte.
Ei, divenulo ornai corpo divino,
Acconciamente si le disse: O buona,
Da te bene si fe’ che mi seguisti!
Donna che segue il suo consorte, in cielo
Tanto tempo starà quanti son peli
In umana persona, e son tre volte
Dieci milioni e una metà pur anco.

E il cacciator, di giubilo compreso,
Venne a un orrido bosco; abbandonata

De’ viventi la caccia, ei per cotesto
Lungamente si dolse. E là, veggendo
Un incendio di selve, entro con alma
Deliberata andovvi e nell’incendio,
Purificato d’ogni sua sozzura,
Felicità perfetta in ciel raggiunse.
Per aita venuto, e ad un banchetto
Di sue carni imbandito anche invitollo. —


Perciò io dico:


S’ode narrar che a dover pio conforme
Onor fece un colombo al suo nemico,


Per aita venuto, e ad un banchetto
Di sue carni imbandito anche invitollo. —


Avendo udito ciò, Arimardana interrogò Diptacsa: Essendo le cose a questo punto, che pensi tu? — L’altro rispose: O signore, colui non si deve ammazzare, perchè:


Costei che sempre m’abborrisce ed oggi
Così m’abbraccia, se t’aiuta il cielo,


Ch’ella è pur cosa mia,
Dolce benefattor, portami via.


Ma il ladro disse:

Nulla vegg’io che qui rapir sia dato;
Se c’è cosa a rapir tornerò io,
Anche se ben costei non t’ha abbracciato. —


Arimardana domandò: Chi è costei che non abbraccia? e chi è questo ladro? Io desidero udir tutto ciò per disteso. — E Diptacsa incominciò a raccontare:

Racconto. — C’era una volta in un certo paese un mercante vecchio di nome Camatura, dal quale, essendogli morta la prima moglie, preso d’amore, fu sposata, dandole una gran dote, la figlia di un mercante povero. Ma essa, come oppressa da un gran malanno, non poteva nemmeno guardare in viso quel mercante vecchio. Ora è a proposito che:


Bianco segno in sulla testa
Che si mostri fra i capelli,
Di disprezzo pei mortali
È cagione manifesta;


Via ne fuggono lontane
Le ragazze giovinette
Qual da ignobile sepolcro
Pien di schegge d’ossa umane.


E poi:


Ha i membri attrappiti,
L’andar vacillante,
I denti spariti,
La vista mancante,
Persona cadente,
Parlar balbuziente;
I comandi sui
Nessuno eseguisce


Dei servi di lui;
Nemmen l’obbedisce
La moglie proterva.
Oh! trista sventura
Di chi sopraffatto
Restò da vecchiezza!
Lo stesso suo figlio
L’insulta e disprezza.


Ma poi una volta, mentre essa giaceva con lui sul letto voltandogli le spalle, ecco che entrò in casa un ladro, perchè la donna, appena l’ebbe veduto, tutta spaventata abbracciò strettamente il suo consorte benchè così vecchio. Egli allora, mentre per la meraviglia gli si arricciavano tutti i peli del corpo, si mise a pensare: Oh! perchè mai oggi costei così m’abbraccia? — Ma poi, guardando egli con maggiore attenzione, scoperto il ladro in un luogo riposto della casa, pensò: Ecco! essa mi ha abbracciato per paura di lui. — Così avendo pensato, disse al ladro:


Costei che sempre m’abborrisce ed oggi
Così m’abbraccia, se t’aiuta il cielo,


Ch’ella è pur cosa mia,
Dolce benefattor, portami via. —


Udendo ciò, il ladro rispose:

Nulla vegg’io che qui rapir sia dato;
Se c’è cosa a rapir, tornerò io,
Anche se ben costei non t’ha abbracciato. —


E però, se si può augurar buona fortuna da un ladro che fa alcun servizio, quanto più da chi ha fatto ricorso alla nostra protezione! Con questo, costui che è stato maltrattato dai nostri nemici, potrà esserci di aiuto, anche per poter scoprire il loro punto debole. Per queste ragioni egli non deve essere ammazzato. — Avendo udito ciò, Arimardana interrogò un altro ministro, cioè Vacranasa: Amico, essendo noi ora a questo punto, che s’ha da fare. — E l’altro rispose: O signore, colui non deve essere ammazzato. Perchè:


Per nostro ben contendono fra loro
I nemici talvolta; e fu da un ladro


Data ad altri la vita e di giovenchi
Da un orrido demòn fu reso un paio. —


Arimardana disse: Come ciò? — E Vacranasa incominciò a raccontare:

Racconto. — C’era una volta in un certo paese un povero Bramino di nome Drona che viveva di ciò che riceveva in dono, che non aveva mai nè alcuna veste preziosa, nè unguenti, nè ghirlande odorose, nè ornamenti, nè aromi, nè alcun’altra cosa deliziosa, avvezzo a lasciar crescere i capelli, la barba, le unghie e tutti i peli del corpo, disseccato nella persona dal freddo e dal caldo, dal vento, dalla pioggia e dalle altre intemperie. Un giorno, gli fu dato da un devoto, per compassione, un paio di vitellini, i quali egli, prendendoli dalla loro tenera età, alimentandoli con latte accattato, con olio di sesamo, con grani e con altro, allevò acconciamente. Ma poi un ladro, come li ebbe veduti, si mise d’un tratto a pensare: Oh! io porterl via al Bramino cotesto paio di giovenchi! — Così avendo divisato, intanto che si mosse di notte per andare, presasi una soga da legare i giovenchi, ecco che a metà di strada gli fu veduto un tale che aveva una fila di acuti e ratri denti, sporgente il naso come un ramo di bambù, con occhi grandi e rossi, con forti muscoli, con membra sbilenche, le guancie macilente e la barba e i capelli e la persona rossi come fuoco bene acceso. Vedendolo, quantunque preso di gran paura, il ladro gli domandò: Chi sei tu? — E l’altro disse: Io sono il terribile demone Satiavaciana40. Ora anche tu fammiti conoscere. — Disse il ladro: Io sono il ladro Cruracarma41 e vado a rubare un paio di giovenchi ad un povero Bramino. — Allora, fidandosi di lui, il demone gli disse: È questo il momento del mio sesto pasto, e però voglio ora mangiarmi quel Bramino. Ciò appunto va bene, e noi due così attendiamo a una faccenda sola. — Così, postisi là in un angolo ambedue, stettero ad aspettare il momento opportuno. Quando poi il Bramino s’addormentò, il ladro, vedendo che il demone già s’era mosso per divorarlo, disse: O sozio, non è questo il modo! quand’io avrò portato via il paio di giovenchi, allora tu potrai divorarti il Bramino. — Ma l’altro disse: Se per caso il Bramino si desterà al muggire dei giovenchi, l’impresa mia non sarà riuscita. — Ma il ladro disse: E se, intanto che tu ten vai il paio de’ giovenchi, tu dovrai divorarti il Bramino. — Mentre essi in questa maniera contendevano dicendo: Io! Io! — , natane una baruffa, il Bramino al gran rumore si destò. Il ladro allora disse: O Bramino, questo demone ti voleva divorare. — E il demone alla sua volta gridò: O Bramino, questo ladro ti voleva portar via il paio de’ giovenchi. — Il Bramino, come udì, si levò su e accortamente, con una preghiera mentale al suo Dio particolare, si liberò dal demone e salvò dal ladro i giovenchi tirando fuori un bastone. Perciò io dico:


Per nostro ben contendono fra loro
I nemici talvolta: e fu da un ladro


Data ad altri la vita e di giovenchi
Da un orrido demon fu reso un paio. —


Come ebbe udito e accolto quel discorso, Arimardana volle interrogare anche Pracaracarna: Dimmi ora che ne pensi tu. — E l’altro disse: O signore, colui non si deve ammazzare, perchè, ove egli restì salvo, si potrà in qualche modo vivere insieme felicemente e con scambievole affetto. Ora, è stato detto:


Quei che il modo di lor vivere
L’un per l’altro non nascondono,
Certamente si rovinano,


Come i serpi che abitavano,
Un delle formiche al cumulo,
L’altro dentro delle viscere. —


Arimardana disse: Come ciò? — Pracaracarna incominciò a raccontare:

Racconto. — C’era una volta in una città un re di nome Devasacti, il figlio del quale ogni giorno più si andava consumando nelle membra per un verme che gli si era cacciato nel ventre, e, sebbene medicato con molti e sottili rimedi, applicandovisi i farmachi designati dalla scienza migliore, non poteva mai riacquistar la salute. Alla fine il giovane principe, per la disperazione, andò in altro paese laddove, andando a mendicar per la città, stava di consueto a passare il tempo suo presso un gran tempio di Dei. In quella città risiedeva un re di nome Bali, il quale aveva due figliuole giovani. Ogni giorno, allo spuntar del sole, andavano esse nel cospetto del padre e lo salutavano; e allora una diceva: Possa tu vincere, o gran re, tu, per la cui grazia si acquista ogni felicità! — Ma l’altra diceva: Possa tu godere, o gran re, di ciò che ti guadagni da te! — Udendo cotesto, un giorno il re così gridò con ira: Ohè! ministri, questa ragazza che sconciamente parla, datela in moglie a qualche straniero perchè essa si goda di ciò che ella stessa si guadagna. — Come i ministri ebbero risposto: Così si faccia! — , la ragazza con piccol sèguito di famigli fu da essi menata al giovane principe che stava nel tempio degli Dei. Essa però, tutta lieta della mente, onorando come un dio il suo sposo, presolo con sè, andò in altro paese. Allora, posto il principe a custodir la casa sulla sponda d’uno stagno nella parte più remota della città, essa andò fuori coi suoi famigliaci per comprar burro, olio di sesamo, sale, riso e altro. Fatto vendita e compera, quando ritornò, ecco che il principe era disteso per terra, posta la testa sopra di un formicaio; intanto, un serpente, con alta la cresta gli usciva dalla bocca e prendeva aria, e là pure, sbucatone fuori, stava presso il formicaio un altro serpente. Al vedersi l’un l’altro avevan fatto rossi gli occhi per l’ira, e il serpente del formicaio diceva; Oh! oh! malvagio! come mai tormenti tu così cotesto principe, tanto bello in tutta la sua persona? — Ma il serpente della bocca rispondeva: Ohè! perchè mai da te, o malvagio, s’è tutto guasto cotesto paio di pentole piene d’oro che son dentro al formicaio? — Ma poi, avendo essi svelato così i lor modi di sussistenza, il serpente del formicaio di nuovo incominciò a dire: Oh! scellerato, e chi non conosce la medicina che s’ha da usar contro te? Con una bevanda di poltiglia di riso inacidita da tempo tu trovi la morte! — E il serpente delle viscere rispose: E la medicina che s’usa contro di te, chi non la sa? la tua morte avviene o con olio caldo di sesamo o con acqua bollente. — In questa maniera, la regia fanciulla, che s’era nascosta dietro un cespuglio, quand’ebbe udito quei loro scambievoli discorsi intorno al modo di lor sussistenza, operò poi in maniera conforme. Risanato il marito nella persona, raccolto un tesoro grandissimo, essa ritornò al suo paese, dove, onorata dal padre, dalla madre, dai famigliari, godendo di ciò che s’aveva procacciato, stette poi felicemente a dimorare. Perciò io dico:


Quei che il modo di lor vivere
L’un per l’altro non nascondono,
Certamente si rovinano,


Come i serpi che abitavano,
Un delle formiche al cumulo,
L’altro dentro delle viscere. —


Avendo udito ciò, lo stesso Arimardana acconsenti. Come fu fatto42, Ractacsa, stando a vedere, sorridendo quasi invisibilmente riprese a dire: Male! male! Nostro signore è stato inconsideratamente rovinato da voi. Ora, è stato detto:


Là ’ve si onora
Chi onor non merta,
E a chi n’è degno,
Si dà la berta,


Tre cose regnano
E son: miseria,
Mortalità
E povertà.


E poi:


Anche se è fatto il mal sotto a’ suoi occhi,
Placido il soffre tal che è fra gli sciocchi;


Così portasi in collo il carpentiere
La moglie e il ganzo della sua mogliere. —


I ministri dissero: Come ciò? — E Ractacsa incominciò a raccontare:

Racconto. — C’era una volta in un certo paese un carpentiere di nome Viradara e la moglie sua chiamavasi Camadamini. Costei era una sgualdrina e la gente ne diceva ogni male, perchè il marito, intanto, pensava di metterla alla prova e diceva: Come farò io ora la prova di costei? perchè è stato detto:


Quando il fuoco sarà freddo
E la luna tutta ardente,
Quando onesta ed esemplare


Fia la trista e mala gente,
Allor chiara si vedrà
Delle donne l’onestà.


Da ciò che ne dice la gente, io dovrei riconoscerla per disonesta. Perchè è stato detto:


Ciò che mai non si udì nè mai si vide
Per entro ai Vedi o ai libri de’ precetti.


Tutto il mondo conosce ove cotesto
Dentro all’ovo di Brahma si ricetti43. —


Così avendo divisato, un giorno disse alla moglie: O cara, domani mattina io andrò al villaggio. Passeranno alcuni giorni; tu intanto, mi devi fare buona provvigione per il viaggio. — Essa allora, udite quelle parole, con mente tutta lieta e con desiderio, abbandonando tutte le altre faccende, fece un mangiare squisito con molto burro e zucchero. Ora egregiamente si suol dire:


In giorno torbido,
Con neri nuvoli,


Quando giù piovono
Le nubi, al termine


D’una foresta di gran vastità,
Partiti gli uomini44,
Di donne che amano


Che loro scuotasi
Il pelliccione, è gran felicità45.


Egli pertanto, levatosi su all’alba, uscì di casa, ed essa, come ebbe veduto ch’egli era partito, con volto ridente passò tutto quel giorno ad azziniarsi, indi, recatasi alla casa del suo consueto amante, incominciò a dirgli: Quello scellerato di mio marito è andato al villaggio; perciò tu vieni a casa mia quando tutta la gente sarà addormentata. — Mentre tutto ciò si faceva, il carpentiere come ebbe passato quel giorno in un bosco, in sul far della sera rientrò in casa per un’altra porta, indi, nascostosi sotto il letto, là si stette ad aspettare; e Devadalta, convenuto là con la donna, si sedette intanto sul letto. Al vederlo, il carpentiere tutto turbato di sdegno la mente, si mise a pensare: E che? mi leverò io e ucciderò costui? ovvero li ammazzerò io tutt’e due d’un tratto quando saranno a giacere? Ora però io starò a vedere cosa farà mia moglie e ascolterò i suoi discorsi con lui. — La donna intanto aveva chiuso la porta di casa ed era montata sul letto; ma, intanto ch’essa vi montava, ecco che un piede del carpentiere ne sporgeva fuori. Allora pensò: Tutto ciò gli è certo per una prova che vuol far di me questo scellerato di carpentiere. Ora come potrò io far conoscere la mia onesta condotta di donna? — Mentre essa così pensava, Devadalta mostravasi voglioso di abbracciarla; perchè la donna, congiunte le mani sulla fronte, gridò: 0 generoso, tu non puoi toccare la mia persona, perchè io son fedele ai miei voti di sposa e son veramente onesta! Se no, io, mandando una maledizione, ti ridurrò in cenere. — Devadalta disse: Se così è, allora perchè son io stato chiamato? — E la donna rispose: Oh! ascoltami attentamente! Io questa mattina, per fare una visita agli Dei, sono entrata nell’oratorio della dea Durga, quand’ecco, non so come, venne una voce dal cielo: «Figlia mia, che ti devo io fare, tanto mi sei tu devota? Eppure, fra sei mesi, è destino che tu rimanga vedova». Allora io dissi: «O beata, poiché tu prevedi la sventura, conoscerai anche il rimedio. V’è forse qualche modo perchè lo sposo mio possa vivere ancora un cent’anni?» La Dea allora rispose: «Vi è, e il modo dipende da te». E io, come intesi cotesto, dissi: «O beata, se anche si dovesse fare con la mia vita, tu fammi sapere, perchè io faccia!». E la dea rispose: «Se in questo giorno, montando sul Ietto con un altr’uomo, l’abbraccerai, quel destino di dover morire che persegue tuo marito, passerà sopra colui, e tuo marito vivrà per cent’anni ancora». Perciò appunto tu sei stato cercato da me. Ora, ciò che tu hai in mente di fare, puoi fare. La parola della Dea non si potrà mai mutare. Tale è il mio pensiero. — Allora colui, con viso tutto sorridente, fece ciò ch’era solito di fare, e lo sciocco di carpentiere, com’ebbe inteso le parole della moglie, coi peli del corpo tutti arricciati per la gioia, saltando fuori di sotto al letto, gridò verso di lei: Bene, o fedele al tuo marito! Bene, o gioia della tua famiglia! lo, col cuore messo in sospetto dalle parole dei maligni, per metterti alla prova aveva fìnto d’andare al villaggio, ma poi m’era tenuto nascosto qui, sotto il letto. Vieni adunque e abbracciami! Tu sei ben la prima fra le donne fedeli al marito perchè bai osservato il voto più stretto anche nel convegno con un altr’uomo! Tu hai fatto tutto questo per accrescer la mia vita e per allontanar da me il destino della mia morte! — Così dicendo l’abbracciava con amore e, levandosela in collo, allo stesso Devadatta cominciò a dire: 0generoso, per il mio bene adunque tu sei qui venuto! In grazia tua ho io conseguito un’età d’altri cent’anni. Perciò abbracciami tu ancora e montami in collo. — Così gridando, abbracciando Devadatta che punto non lo desiderava, per forza se lo prese in collo. Allora, ballando e gridando questo e altro ancora: O la prima di tutte le donne fedeli ai voti, tu m’hai fatto un gran servigio! — , reggendoli ambedue in collo, a qualunque porta di casa della sua gente o di altri a cui andava, là faceva la descrizione di ciò che quei due avevano fatto. Perciò io dico:


Anche se è fatto il mal sotto a’suoi occhi,
Placido il soffre tal che è fra gli sciocchi;


Così portasi in collo il carpentiere
La moglie e il ganzo della sua mogliere.


Noi intanto, sconquassati fin dal fondo, siam rovinati. Ora, egregiamente si suol dire:


Quei che obblïando lor parlare onesto
Fanno l’opposto di che han detto avante,


Da’ sapienti estimansi nemici
Che d’amici hanno assunto il bel sembiante.


E poi:


Ogni nobile disegno
Presto vassene in malora
Come l’ombra allor che chiaro
Spunta il sol nella prim’ora,


Ove incontrisi in ministri
Tanto stolidi e ignoranti,
Da confonder tempo e loco
Degli affari che hanno avanti. —


Ma gli altri tutti, non badando punto alle parole di lui, come ebbero sollevato Stiragivin, presero a menarlo con sè nella loro fortezza. Come vi fu menato, Stiragivin disse: O signore, oggi che si potrà far di me, inutile come sono e in questo stato e pure da te raccolto? Però io desidero di gettarmi in un fuoco ardente, e tu devi consolarmi concedendomi quel fuoco. — Ractacsa allora, che ebbe indovinato l’intimo disegno di lui, disse: A che desideri tu di gettarti nel fuoco? — E l’altro rispose: Poichè per cagion vostra Megavarna mi ha dato questo malanno, appunto per espiare l’inimicizia dei corvi, io desidero diventare un gufo. — Udendo ciò, Ractacsa che era bene esperto nelle arti politiche dello Stato, rispose: Caro mio, tu sei falso e finto e furbo nel discorrere, e però, anche se tu sarai diventato gufo, troppo sempre ti avrai cara la tua propria natura di corvo. Intanto, s’ode raccontar questa storiella:


D’aver lasciando il sol per suo marito,
Il vento, il monte, il nugolo, ritorno


La topina fe’ a’ suoi, chè il proprio sangue
Difficilmente puote esser tradito. —

I ministri dissero: Come ciò? — E Ractacsa incominciò a raccontare:

Racconto. — Sulla sponda del Gange che ha le onde orlate di candide spume, nate dallo scorrere delle acque, e i pesci sempre spaventati dall’udire il rimbombo delle acque che si precipitano su per la superficie scabra delle roccie, era già un romitaggio frequentato da penitenti sempre intenti alle preghiere, alle mortificazioni, alle penitenze, alle meditazioni, alle opere tutte di santimonia, paghi del bersi soltanto acque putride e scarse, con la persona macilenta per cibarsi soltanto di erbe, di radici, di frutti, di legumi, coperti soltanto ai lombi d’alcune vesti di corteccia. Là era pure un capo di famiglia di nome Yaginavalchia. Un giorno, intanto ch’egli nel Gange stava per bagnarsi e far le abluzioni di rito, gli capitò alle mani una topina sfuggita al rostro di un falco. Vedendola, la nascose compiute le cerimonie di purificazione, col potere della sua penitenza mutata in fanciulla la topina, la prese con sè e ritornò al suo romitaggio. Là così egli parlò alla moglie sua che non aveva figlia: Prendasi, o cara, questa tua figlia che ci è nata. Vuolsi allevarla con molta cura. — Ed essa fu allevata da cole, tenuta cara e ben guardata finchè toccò l’età di dodici anni. La donna allora, vedendola in età da nozze, disse al marito: Marito mio, non ti avvedi tu che omai passa il tempo di far le nozze di tua figlia? — Egli rispose: Ben detto! Ora, si suol dire:


Gli Dei le donne godonsi a principio
Luno46, il Fuoco, i Gandarvi, e se dipoi

L’uom se le gode, colpa in ciò non vedesi.
E a lor dà Luno purità, i Gandarvi
Mente lor dànno accorta e tutta il Fuoco
L’illibateza. Però son le donne
Monde d’ogni sozzura. E come ancora
Sue regole non ha, così ella è Gauri47,
Ed è Rohini48 quando i menstrui giungono;
Quando segno non n’ha, non ha mammelle
E non ha peli. Godesi di lei
Luno ne’ menstrui sopraggiunti, e godono
Ne le mamme i Gandarvi ed entra il Fuoco

In quell’umor di lei. Però, nel tempo
Che alle regole sue non anche è giunta,
La fanciulla si collochi, e si loda
Che sian sue nozze negli otto anni suoi.
Menstrui che giungan pria49, rovinan tutta
Precedente una vita, e un’altra ancora
Le mammelle cresciute, e del piacere
L’acre desìo rovina i disïati
Mondi del cielo, e rovina l’umore
L’antico padre50. Ma le nozze sue,
Secondo ch’ella vuol, si fanno allora
Che ha la fanciulla i menstrui suoi; le nozze
Però facciansi quando ella è scoverta


Anche di peli51. Manu così disse,
Di Brahma il figlio. Ma fanciulla tale
Che nell’ostel del padre suo già vede
I menstrui suoi non maritata ancora,
Maritar non si può, ch’ella d’abietta

E vil ragazza ha nome. Essa dal padre,
I menstrui quand’ell’ha, sposa si dia
A un grande, a un pari, a un nom di basso stato,
Chè in tutto ciò colpa non è nessuna52.


Io pertanto, la darò a un suo pari non ad altri. Perchè è stato detto:


Fra due che han stato eguale,
Fra due d’egual famiglia,


Non già fra ricco e povero,
Nozze e amistà si appiglia.


E poi:


L’indole, la famiglia e le dovizie,
L’età, il sapere, il corpo e le amicizie,

A queste sette qualità pensando

La fanciulla si collochi. Ogni saggio,
Più in là di ciò, nulla va reputando.


Oggi adunque, se così le piace, chiamando qui il Sole beato, a lui la darò in isposa. — E la donna disse: Che male è in ciò? Facciasi adunque. — Allora l’eremita chiamò il Sole. Colla potenza d’una parola magica dei Vedi da lui pronunciata, ecco che il Sole, venuto in un istante, così gli domandò: O reverendo, perchè son stato io chiamato? — L’eremita rispose: Questa è mia figlia; se essa ti vuole per isposo, tu devi pigliarla. — Detto ciò, così parlò a sua figlia: Figlia mia, ti piace il Sole beato che illumina i tre mondi? — La fanciulla disse: Padre mio, egli scotta troppo! No, io non lo voglio. Ma si chiami alcun altro migliore di lui. — Udite queste parole di lei, il romito così parlò al Sole: O beato, c’è alcuno che sia più potente di te? — Il Sole rispose: Il nuvolo è migliore di me, perchè, quand’io sono coperto da lui, sono invisibile. — L’eremita allora, come ebbe chiamato il nuvolo, disse alla fanciulla: Figlia mia, io ti vo’ dare a costui. — Ma quella rispose: Egli è tutto di color nero e tutto freddo. Perciò dammi tu ad altro di qualità migliore. — Il romito allora domandò al nuvolo: O nuvolo, c’è qualcuno che sia migliore di te? — Il nuvolo rispose: Migliore di me è il vento. Lacerato da lui, io vado in mille lembi. — Udendo ciò, l’eremita chiamò il vento e disse: Figlia mia, il vento ti sembra essere il più degno per le tue nozze? — Padre mio, essa rispose, egli è troppo instabile. Perciò mi si meni innanzi qualcun altro che sia migliore. — Disse allora l’eremita: O vento, vi è qualcun altro che sia migliore di te? — Migliore di me, disse il vento, è il monte, dal quale perchè sta fermo, son trattenuto benché forte. — L’eremita allora, chiamato il monte, disse alla fanciulla: Figlia mia, io ti darò a costui. — Ma essa rispose: Padre mio, costui è tutto d’un pezzo e immobile. Perciò dammi tu a qualcun altro. — L’eremita allora interrogò il monte: 0 re dei monti, vi è qualcun altro che sia migliore di te? — Disse il monte: Migliori di me sono i topi, i quali a forza bucano il corpo mio. — Chiamato allora un topo, l’eremita lo mostrò alla fanciulla, dicendo: Figlia mia, io ti darò a costui. Ti piace il re dei topi? — E la fanciulla, quando l’ebbe guardato, pensando fra sè: Costui è della mia natura! — , coi peli del corpo arricciati per la gioia, rispose: O padre mio, fammi diventar una topina e dammi a costui perchè io attenda agli uffici di casa secondo la natura mia. — Egli allora, con la virtù della sua penitenza, la ritornò allo stato di topina e la diede al topo. Perciò io dico:


D’aver lasciando il sol per suo marito,
Il vento, il monte, il nugolo, ritorno


La topina fe’ a’ suoi, chè il proprio sangue
Difficilmente puote esser tradito. —


Ma quelli, non badando punto alla parola di Ractacsa, per la rovina della loro stirpe menarono Stiragivin nella loro fortezza. Intanto che lo menavano, egli, ridendo fra sè, pensava:


Quei che disse, parlando al suo signore
Util consiglio: «Uccidasi costui!»,


Solo fra tutti di vita il tenore
Conosce e il ver ne’ pensamenti sui.


Ora, se costoro non faranno secondo il. suo consiglio, non piccolo sarà il loro danno. — Intanto, quando fu giunto alla porta della fortezza, Arimardana disse: Ohè! a questo nostro Stiragivin che ci vuol tanto bene, preparate un posto degno di lui. — Udendo cotesto, Stiragivin pensò: Io ora devo pensar qualche modo di sterminarli tutti. Ma, se io sto in mezzo a loro, non mi riuscirà, perchè essi, notando ogni mio atto, ogni mio gesto, staranno all’erta. Stando invece presso la fortezza, mettendovi attenzione potrò riuscire. — Così avendo pensato, si volse al re dei gufi: O re, è giusto ciò che è stato detto da nostro signore. Tuttavia, io so le regole della politica e sono di gente nemica, e, quantunque dato a te e leale, nou mi si conviene abitar dentro la fortezza. Perciò io, standomi qui sulla porta, ogni giorno, purificato il corpo con la polve dei piedi tuoi di loto, farò il mio servizio. — xVvendo risposto di sì, ogni giorno i ministri del re dei gufi, apprestando cose da mangiare secondo sua voglia per comando appunto del re, portavano a Stiragivin gran copia di pietanze, ond’egli in pochi giorni divenne vigoroso come un pavone. Ma Ractacsa, vedendolo così ben nutrito, sorridendo così disse un giorno ai consiglieri e al re: Oh! stolto tutto il consiglio dei ministri e stolto tu pure, o re! Così almeno la penso io. Perchè è stato detto:


Io da principio fui lo sciocco, e poi
Chi al nodo del suo laccio mi prendea;


II re, con tutti li ministri suoi,
Ampia formò di sciocchi un’assemblea. —


E quelli dissero: Come ciò: — Ractacsa incominciò a raccontare:

Racconto. — C’era una volta in un paese montuoso un grand’albero su cui abitava un certo uccello di nome Simbuca, nel cui sterco si trovava essere dell’oro. Un giorno, un cacciatore capitò da quelle parti, e l’uccello sotto gli occhi di lui vuotò il ventre. Allora, veduto che lo sterco, all’istante che cadeva, s’era fatto tutt’oro, il cacciatore meravigliato disse: Ohè! dalla mia fanciullezza in poi ho passato ottant’anni a pigliare uccelli e non ho mai visto dell’oro nello sterco di alcuno! — Così pensando, tese il laccio intorno a quell’albero, e quell’uccello, per sua sciocchezza e per fidarsi troppo, s’andò a posar come prima sull’albero. Restò sùbito preso al laccio perchè il cacciatore, scioltolo da que’ nodi e postolo in una gabbia s’incamminò verso casa. Allora si mise a pensare: Che farò io di quest’uccello pericoloso? Se qualcuno viene a sapere come egli è e quale è lo farà sapere al re, c’è pericolo per la mia vita, lo stesso adunque lo mostrerò al re. Così avendo divisato, così anche fece, e il re quando vide l’uccello, con gli occhi sorridenti come un fior di loto dischiuso venne in grandissima allegrezza e disse: Ohè guardie! Custodite con cura questo uccello e dategli da mangiare e da bere e ogn’altra cosa a sua voglia! — Mai ministii dissero: Che s’ha da fare di quest’uccello accolto soltanto pei aver dalo fede alle parole di tale a cui non si può credere, d’un cacciatore ì Quando mai s’è trovato dell’oro nello sterco degli uccelli? Si liberi omai dalla prigionia della gabbia! — L’uccello allora, liberato dal re per i discorsi dei ministri, come fu volato al sommo dell’arco della porta mandò fuori copia di sterco tutta d’oro, indi, mormorando quei versilo da principio fui lo sciocco — , a tutto suo piacere se ne volò via per l’aria. Perciò io dico:


Io da principio fui lo sciocco e poi
Chi al nodo del suo laccio mi prendea;


Il re, con tutti li ministri suoi
Ampia formò di sciocchi un’assemblea. —


Ma quelli ancora per l’avversità della sorte, non badando alle parole di Ractacsa quantunque fossero a proposito, anche più alimentarono Stiragivin con diveise pietanze di carni copiose, perchè Ractacsa, convocata in segreto la sua gente, disse: Ecco tale è la sorte di nostro signore e a tal punto è la sua fortezza, lo però gli ho consigliato ciò che gli deve dire un ministro affezionato alla famiglia di lui. Noi intanto andremo ad un’altra fortezza sul monte. Perchè è stato detto:


Chi pensando alla sventura
Che non anche capitò,
Opra e fa, della sua cura
Lieto sempre si restò;
Ma sè stesso piange poi
Chi, per ciò che venir de’,


Non pensava a’ casi suoi.
Perchè al bosco, qui, abitassi,
Io son giunto ai vecchi dì,
Ma non mai per me s’udì
Che uno speco favellassi. —


Quelli dissero: Come ciò? — E Ractacsa incominciò a raccontare:

Racconto. — Abitava una volta in un paese selvoso un leone di nome Caranacara. Un giorno egli, dopo essersi aggirato qua e là tormentato dalla fame, non s incontrò in alcun animale. Nell’ora del tramonto, essendo giunto presso una grande spelonca della montagna, v’entrò e si mise a pensare: Certamente qualche animale deve venir di notte in questa spelonca. Qui adunque io starò tenendomi nascosto. — Intanto, capitò là uno sciacallo di nome Dadipuccia che era il signore della spelonca. Guardò ed ecco che le orme delle zampe del leone entravan tutte nella caverna, ma nessuna era volta all’uscire. Allora pensò: Oh! io son morto! Qui c’è da fare con un leone che s’è cacciato qui dentro. Ora, che fo io? Come potiò saperlo? Così pensando e tenendosi pur sull’entrata, incominciò a lamentai si: Oh spelonca! Oh spelonca! — Così dicendo, stava alcun poco in silenzio, e poi di nuovo gridava! Oh! non ti ricordi qual patto è stato fatto tra me e te? cioè che io, dopo una mia assenza, quando ritorni ti debba salutare e che tu mi debba rispondere. Ma se tu oggi non mi fai invilo, io andrò bene ad un’altra caverna che mi chiami. — Avendo udito cotesto, il leone pensò: Certamente questa caverna gli mandami richiamo quand’egli torna, ma oggi per timore di me essa non fa motto. Intanto, si suol dire egregiamente:


Di chi ha turbato il core
Da tema e da sgomento,
De’ piedi e delle mani


Van l’opre a perdimento,
E tremito lo coglie
Che la voce gli toglie.


Io adunque gli farò il solito invito perchè, entrando, egli mi fornisca il mio pasto. Così avendo divisato, il leone gli fece il consueto invito. Ma, al ruggito di lui, la caverna si riempì di tal fragore che spaventò anche i più lontani abitatori della selva, e lo sciacallo, nel fuggire, recitò quei versi:


Chi pensando alla sventura
Che non anche capitò,
Opra e fa, della sua cura
Lieto sempre si restò;
Ma sè stesso piange poi
Chi, per ciò che venir de’,


Non pensava a’ casi suoi.
Perché al bosco, qui, abitassi,
Io son giunto ai vecchi dì;
Ma non mai per me s’udì
Che uno speco favellassi. —


Pensando a tutto ciò, voi dovete venir con me. — Così avendo parlato, Ractacsa, seguilo da tutta la turba de’ suoi partigiani, se n’andò in un paese lontano.

Quando Ractacsa fu partito, Stiragivin tutto contento così pensò: Oh! questa è ben fortuna buona per noi che Ractacsa se ne sia andato! perchè egli ha vista lunga e costoro son tutti storditi della mente. Ora però son essi venuti a tal punto che facilmente io potrò sterminarli tutti. Perchè è stato detto:

Principi che non han saggi e avveduti
I ministri che il padre a lor legò,
Ratto, davver! che vedonsi perduti!


Con ciò giustamente si suol dire:


Quei nemici che lasciando
La politica sincera
A rovescio vanno oprando


Di ministri con la ciera,
Son davver da equiparare
Di scienza a un luminare. —


Così avendo pensato, ogni giorno, per dar fuoco alla caverna dei gufi, portava un fuscellino di legno nel suo nido, nè quegli sciocchi di gufi s’accorgevano che egli riempiva il suo nido per poi bruciarli tutti. Ora, giustamente si suol dire:


Fa suo amico il suo nemico,
Odia e offende chi gli è amico,
Stima lecito l’illecito,


Disonesti gii atti onesti,
L’uom colpito dai Celesti.


Come adunque sulla porta della caverna, col pretesto di farsi il nido, si fu levato un mucchio di legni, quando, allo spuntar del sole, i gufi furon diventati tutti ciechi, Stiragivin venne in gran fretta e disse a Megavarna: O signore, la caverna dei gufi ornai si può incendiare. Tu perciò, venendo cona tua gente, prendendo con te un fuscellino di legno acceso cacciato nel mio nido alla porta della caverna acciocché tutti i nemici vi muoiano miseramente come nell’inferno Cumbipaca. — Ciò udendo, Megavarna tutto contento rispose: Raccontaci, o padre, la tua avventura. Dopo lungo tempo oggi soltanto ti sei fatto vedere. — E l’altro disse: Figlio mio, non è questo il tempo di far racconti, perchè qualche spia del nemico potrebbe fargli assapere la mia venuta, ed egli, il cieco, risaputala, fuggirsene altrove. Affrettiamoci adunque, perchè è stato detto:


Se alcun s’indugia
In tutte l’opre
Ch’egli far de’
Con mente presta,
Dubbio non è


Che in suo disdegno
Impedimento
A quel suo intento
Il cielo appresta.


E poi:


Di quest’opera e di quella
Che buon frutto dar dovrìa,
Solo il tempo coglierà,


Quando sùbito fatta più non sia,
Tutto il frutto ch’essa dà.


Quando tu sarai tornato a casa dopo aver sterminati i nemici, con tutta pace io ti racconterò per disteso ogni cosa. — Megavarna allora, avendo udito queste parole, con tutta la sua gente, presosi con la punta del becco un fuscellino acceso, se ne venne alla porta della caverna e gettò quel fuscellino nel nido di Stiragivin. Allora, tutti quei gufi, ricordandosi le parole di Ractacsa, non potendo uscire perchè la porta era sbarrata, dentro la caverna ebbero il supplizio dell’inferno Cumbipaca e morirono. Così, avendo sterminati i suoi nemici, Megavarna si ritornò di nuovo alla sua fortezza dell’albero di fico. Sedutosi allora sulla sedia regia, in mezzo all’assemblea de’ suoi, tutto gioioso dell’animo, interrogò Stiragivin: Padre mio, essendo tu andato fra i nemici, come bai tu passato il tempo? In ciò sta ora la nostra curiosità. Raccontaci adunque, perchè


Ogni gente di buon conto
In un fuoco fiammeggiante
Preferisce di cader


Anzi che del suo nemico,
Fosse pure un solo istante,
A contatto rimaner. —


Avendo udito ciò, Stiragivin disse: Nella speranza del buon frutto avvenire, il ministro non deve sentire alcun disagio. Perchè è stato detto:
Da quelli che han paura, quella qualunque via,
Purchè meni allo scopo, sublime o bassa sia,

Con mente accorta e destra seguasi sempre. Un giorno,
Un prode incoronato53, con un legame adorno,
Di donna in guisa, avvinte ebbe le mani aitanti
In dar tremendi colpi, atte alle imprese grandi,

A proboscidi eguali di nobili elefanti.


Sire, anche l’uom ch’è forte e sapïente,
Conoscitor d’occasion propizia,

Abitar presso abietta e trista gente
Che parla in guisa di scoppiar di tuono,
Dee pur talvolta. Bima54, quel possente,
Forse che non restò là nella casa
De’ Matsi un giorno e vesti ebbe di cuoco,
La cucchiara quand’egli in man brandia
Affaticato e il fumo l’anneria?

Questa o quell’opera,
Lecita o illecita,
Qual già nell’animo
Immaginavasi,
Allor che capiti
Danno qualsiasi,
Dal savio facciasi,
Che il tempo acconcio
Guarda e considera.
L’eroe fortissimo55
Che fra terribili
Mani stringeasi
L’arco suo Candiva,
Atto vastissime
Turbe a sconfiggere,
Forse che in aureo
Cinto non videsi,
Con molto ridere,
Con molta fregola,
Far capitomboli
E balli in circolo?


Il sapïente che pur vuol raggiungere
Inclito scopo, anche se forte d’anima,

Nelle sventure che gli Dei ci mandano,
Frenando l’ardor suo, fermezza prendasi
Di core acconciamente. Ecco! Yudìstira56,
Benchè li suoi fratelli l’attorniassero
A Yama, Indra e Cuvera in tutto simili57,
Ben che di gran virtù, forse che reggere
Non volle, afflitto, per età lunghissima
De’ penitenti un giorno il bordon triplice?

I figli di Cunti58
Gagliardi e possenti,
Di nascita illustri,
Di corpo avvenenti,
Servendo a Virata59
Addetti restàr,
De’ bovi le mandre
Intenti a guardar.
Anche adorna d’ogni pregio
Che ha con sè la giovinezza,
Anche se non trova in terra
Chi l’uguagli di bellezza,
Anche se di nobil sangue,
Pari a Lacsmi60 in leggiadria,
Alla donna il reo destino
Qualche gran malanno invia.
Forse che, al comando altrui
Con dispregio sottomessa,
Dalle ancelle con orgoglio
Come schiava manomessa,


Di Drupàda la fanciulla61
Là, de’ Matsi nell’ostello,


A tritar fiori di sandalo
Non si addusse col pestello? —


Megavarna disse: Padre mio, cotesto star coi nemici penso che sia come osservare il voto della più austera castità. — E l’altro disse: O signore, tale è appunto. Ma intanto io non ho veduto in alcun altro luogo turba simile di sciocchi nè altro saggio e accorto fuori di Itactacsa, molto prudente e d’incomparabile sapienza in ogni dottrina, perchè appunto da lui solo è stato indovinato il mio disegno quale era veramente. Invece, quegli altri gran sciocconi che erano i ministri, vivevano soltanto col nome di ministri e non capivano nulla della verità, essi, che non ebbero punto inteso il mio disegno. Perchè


Dalla parte del nemico
Un ministro disertore
Che sol cerchi di star teco,
È spacciato traditore,
E perchè dal dover suo
Così volle disertar,
Pronto sempre alle tue offese,
Tu lo devi reputar.
Andando, mangiando,
Giacendo, sedendo,
Bevendo, curando
Tutt’altre faccende,


Perchè non attende
Se caso di lui
Alcun fa o non fa,
Nel proprio nemico
A urtar sempre va
Il proprio nemico.
Però con tutta cura il sapïente
Del triplice suo ben62 guardi la casa
E sè medesmo attento guardi. Allora
Perduto egli sarà quando in tal cura
Inerte egli si mostri e negligente.


Ora, anche questo si suol dir giustamente:


Chi mai non crucciano
Le malattie
Quando si mangiano
Sostanze rie?
A chi non toccano
Danni e sinistri
Allor che stolidi
Sono i ministri?
Chi non inuzzola
La lieta sorte?
Chi non fa vittima
Quaggiù la morte?
Chi non rovinano
Gli affari quando
D’essi le femmine
Si van curando?


Va63 d’uom troppo avido
Gloria ed onore;
Va l’amicizia
Del traditore;
La casa perdesi
D’uom che fallì;
Perde il carattere
Chi troppo ambì;
Perde scïenza
L’uomo avventato,
E il lieto vivere
Lo sventurato;
Il regno perdesi
Sempre da un re,
Ministri stolidi
C’ha intorno a sè.

Quanto poi all’avere io, o re, osservato il voto della più austera castità stando coi nemici, ciò appunto che tu hai detto, ho io esperimentato di presenza. Ora è stato detto:


Di sfrontato il costume pigliando
E l’onor dietro a sè postergando,
Suo vantaggio l’uom curi prudente;
Trascurarlo, è stoltizia patente.
Il sapïente, allora
Che toccagli sventura,


In collo il suo nemico
Di prendersi procura.
Un giorno, sterminata
Folla di rane ingente
Tutta fu da un immane,
Nerissimo serpente. —


Megavarna disse: Come ciò? — E Stiragivin incominciò a raccontare:

Racconto. — C’era una volta in un paese vicino al monte di Varuna un nero serpente di già matura età, di nome Mandavisa. Costui, un giorno, così pensava nella mente sua: Per qual modo adunque potrò io mai passarmela in maniera comoda e felice? — Recatosi allora ad una palude ov’erano molte rane, là si fece vedere a stare in tutta pace, quand’ecco che, intanto ch’egli stava cosi, una rana venuta fino al lembo dell’acqua così lo domandò: Babbo, perchè come prima non ti dài tu attorno per procacciarli da mangiare? — Disse il serpente: Cara mia, come posso io, misero e infelice, aver desiderio di mangiare? E la cagione è questa, ler sera, mentre io era in faccende per procurarmi da mangiare, ecco che mi fu veduta una rana. Io già spiccava il salto per afferrarla; ma essa, come m’ebbe veduto, per timor della morte, cacciatasi fra certi Bramini che erano immersi nella meditazione, sparì andando non so dove. Stando io là stordito della mente per cotesto, ecco che mi accadde di mordere in un dito, mentre se ne stava sulla sponda della palude, il figlio di un Bramino di nome Hradica. Il fanciullo morì all’istante. Io allora, dal padre di lui addolorato, fui maledetto così: «Poichè da te, o malvagio, fu morsicato il figlio mio innocente, per tale tuo misfatto diventerai tu il veicolo delle rane. Di tal vita, avuta soltanto per concessione mia, tu camperai». Però io qui appunto son venuto da voi per essere il vostro veicolo. — La rana fece saper tutto questo alle altre rane, e le rane tutte, liete dell’animo, andando riferirono tutto ciò al loro re di nome Gialapada, il quale pure, circondato dai suoi ministri, pensando fra sè così: Oh! meraviglia! — in gran fretta saltò fuori della palude e montò al sommo della cresta del cristato Mandavisa. Le altre rane, secondo il grado, montarono tutte insieme sul dorso. A che tante parole? Quelle tutte che non trovarmi posto sul dorso del serpente, gli corsero dietro a piedi, e Mandavisa per sollazzarle faceva lor vedere diverse maniere di camminare, onde Gialapada, tutto contento del ricevere tal soffregamento per il corpo, gli andava gridando:

Tale non è l’andar sull’elefante,
Sul cavallo, sul carro od in lettiga,
Quale è l’andar sul dorso a Mandavisa! —


Ma il giorno che seguì, Mandavisa incominciò a camminare adagio adagio. Vedendo ciò, Gialapada gli disse: Perchè mai oggi, o caro Mandavisa, non si va così bene come prima? — E Mandavisa rispose: O signore, oggi per mancanza di cibo non posso tirare. — Allora l’altro disse: Amico, mangia delle rane della plebe! — Udendo ciò, Mandavisa lutto gioioso rispose subitamente: Veramente c’è la maledizione del Bramino; però io mi accomodo a questo tuo comando. — Egli allora, senza alcun indugio, datosi a divorar le rane, in assai pochi giorni ripigliò vigore, onde tutto contento, ridendo fra sè, andava dicendo:


Queste molte e varie rane
A me date per inganno
Quanto tempo ancor potranno,


Senza tema di iattura,
Dare a me la mia pastura? —


E Gialapada, lasciandosi infinocchiare dalle finte parole di Mandavisa, non si accorgeva di nulla. Intanto, capitò in quel luogo un altro serpente, nero e grosso, il quale, vedendo Mandavisa che si lasciava cavalcar dalle rane, ne fece le meraviglie e disse: 0 sozio, tu dunque ti lasci cavalcare da quelle che son la nostra pastura! Questa è ben cosa contradditoria! — Mandavisa rispose:


Tutto cotesto ben conosco e so

Che dalle rane cavalcar mi fo;

Ma son io, se tu guardi un poco, a me,
Quale il Bramin cui cieco il burro fe’. —


Il serpente disse: Come ciò? — E Mandavisa cominciò a raccontare.

Racconto. — C’era una volta in un certo paese un Bramino di nome Yaginadatta. La moglie di lui, una sgualdrina innamorata d’un altro, senza posar mai faceva ciambelle con burro e con pezzetti di zucchero, e di nascosto del marito le portava al suo damo. Ma, un giorno, il marito vedutala far cotesto, le disse: O cara, che è quello che là si vede? e dove porti tu sempre tutto ciò? Suvvia! dimmi la verità. E quella, come se rispondesse da senno, così rispose fintamente al marito: C’è non lontano di qui un oratorio della santa Dea64, lo, come ho digiunato, le porto oggi per la prima volta in offerta questi scelti cibi. — Così, sotto gli occhi di lui, togliendo con sè tutta quella roba, s’incamminò verso l’oratorio della Dea. Con questo pretesto dell’avergli indicato la Dea, ella pensava: Mio marito si crederà che la sua Bramina, appunto per la santa, è solita portar con sè quei tali cibi scelti. — Così adunque, intanto che, venuta all oiatoiio della Dea, entrando nel fiume per le abluzioni di rito, essa attendeva a lavarsi, il marito, andatole dietro per un’altra via, si appostò in modo da non essere veduto, dietro il simulacro della Dea. La Bramina frattanto, fatte le abluzioni, entrata nell’oratorio della Dea, fatte le purificazioni, le unzioni, e data l’offerta delle ghirlande, dei suffumigi e d’altro, inchinando la Dea, così le si volse dicendo: O santa Dea, in qual maniera mio marito potrebbe diventar cieco? — Udendo ciò, il Bramino, con voce contraffatta e stando pur sempre dietro la Dea, mormorò queste parole: e tu darai continuamente a tuo marito alimento di ciambelle di burro e d’altro, ben presto egli diventerà cieco. — E la sgualdrina, ingannata da quelle finte parole, così tutto il di diede di quelle cose al Bramino. All’altro giorno il Bramino disse: O cara, io non vedo più tanto bene! — Udendo questo, la donna pensò: Ecco che mi è stata fatta la grazia dalla Dea! — Allora, il damo di lei, l’amante del suo cuore, senza sospetto e pensando: Questo Bramino che fra poco sarà cieco, cosa mai mi potrà fare? — , cominciò a recarsi da lei ogni giorno. Ma un giorno il Bramino, vedendolo entrare, quando se lo vide vicino, afferrandolo per i capelli, tanto lo malmenò con le busse, incominciando col bastone e coi calci, che quegli morì. Reciso poi il naso alla rea mogliera, la discacciò. Perciò io dico:


Tutto cotesto ben conosco e so
Che dalle rane cavalcar mi fo;


Ma son io, se tu guardi un poco a me,
Quale il Bramln cui cieco il burro fe’. —


Mandavisa, ridendo fra sé, continuava a dire all’altro serpente: Oh! le rane hanno sapori differenti! — Ma Gialapada, come ebbe udito ciò, molto turbato nell’animo, gli domandò cosa mai egli avesse detto: Che hai mai tu detto, amico? Questa è una parola inverosimile! — Ma quegli, per coprire ogni intendimento suo, rispose così: Oh! non è nulla! — E però stordito nella mente da quelle finte parole, Gialapada non si accorse per nulla d’aver fatto lega con un birbaccione. A che tante parole? Tutte le rane furono divorate dal serpente tanto che non ne rimase nemmeno il seme. Perciò io dico:


Il sapïente, allora
Che toccagli sventura,
In collo il suo nemico
Di prendersi procura.


Un giorno, sterminata
Folla di rane ingente
Tutta fu da un immane,
Nerissimo serpente.


Adunque, o re, come da Mandavisa che aveva gran forza d’intelletto, furono sterminate le rane, così da me pure tutti i nostri nemici. Intanto si suol dire giustamente:


Fuoco ardente che si appiglia
Fiammeggiando alla foresta,
Lascia intatte le radici;
Ma quel vento che s’appresta


Molle e placido a spirar,
Fin dal fondo le radici
Può divellere e schiantar65. —


Megavarna disse: Padre mio, ciò è ben vero. Quelli che sono d’animo grande, anche incontrando qualche malanno, non abbandonano l’impresa, generosi come sono. Perchè è stato detto:


D’uomini grandi
Questa è grandezza
Che hanno adornezza
Di gran saper:


Cosa intrapresa
Non lascian mai
Per quanti guai
Possono aver.


E poi:


Per timor di qualche ostacolo
Nulla gl’infimi intraprendono;
Quei di mezzo tosto cessano
Che in ostacoli s’incontrano;


Anche in mezzo a mille ostacoli
Gli uomini di cor magnanimo,
Ciò che impreso da lor fu,
Non tralasciano mai più.

Intanto avendo tu annientato i nemici, questo mio regno è sciolto omai da ogni pericolo. Tutto questo è ben proprio di quelli che sono esperti di politica. Perchè e stato detto:
Il saggio che non lascia alcun vestigio
Di debiti, di fuoco o malattia
O di nemico, non fallisce mai. —


Stiragivin disse: O signore, tu sei ben fortunato, tu, di cui ogni impresa riesce bene! Ma qui col solo valore si fa riuscir bene alcuna faccenda. Che sarà invece con la sapienza? Ciò che allora si fa, è tutto per la vittoria. Ora, è stato detto:


Nemici uccisi
A colpi d’armi
Non sono uccisi;
Da un savio uccisi,


Veracemente
Ei sono uccisi.
L’uomo soltanto
Nella persona


L’arma ferisce,
Ma il saggio casa,
Possanza e gloria,
Tutto colpisce.


Soltanto per la cura indefessa dell’opera congiunta di un saggio e di un valoroso avverasi esito felice nelle faccende:


Dell’uom che in avvenir gran cose attende,
Dell’opra al cominciar l’intento è sano,

Pronta la mente, ed il saper che intende
Ricchezze a lui donar, non scocca invano,

Co’ frutti suoi fiorisce il senno, grado
Alto raggiunge il suo pensiero e intanto
Dell’opra ei gode e a lui ne tocca il vanto.


E poi. All’uomo che è fornito di saggezza politica, di liberalità, di valore, tocca in sorte il regno. Ora è stato detto:


D’uom gagliardo, sapïente,
Liberale in compagnia,
Gode e piacesi la gente
Che virtù bella seguìa.


Da virtù viene agiatezza;
Buono stato, da ricchezza;
Da buon stato, autorità,
Indi regia dignità. —


Megavarna disse: Ecco ora che le dottrine della sapienza politica hanno pronti i loro frutti, perchè, per il tuo inframmetterti, Arimardana con tutti i suoi è stato sterminato. — Stiragivin allora disse:


A meta che toccar per violenti
Modi si può soltanto, in sul principio

Vuolsi accostar con arte acconcia e bella.

Di molto onore è segno in pria ma poi
S’atterra il re degli alberi che tutti
Gli altri avanza sublime alla foresta.


Ma poi, che s’ha da dire, o re, di quei discorsi per i quali d’un tratto o si deve abbandonar l’impresa, ovvero essa riesce a male. Perchè si suol dire giustamente:


Le parole di que’ stolidi
Che perchè non pensan mai
E han timore di risolversi
E intravedon mille guai


A ogni piè sospinto, mettono
Qualche bella impresa in fondo,
Argomento son per ridere
Quando attorno van pel mondo.


I saggi poi non devono trascurare nemmeno le faccende dappoco. Perchè


«Cotesto io potrò far con poco studio!» —

«Che c’è qui da badar?» — così, con poca
Cura attendono all’opre i dissennati.

Quanti però son malaccorti e in grave
Angoscia cadon poi quando d’alcuna
Sventura s’appresenta il facil caso!

Intanto oggi, essendo stato vinto il nemico, il mio signore potrà come prima pigliarsi i suoi sonni. Perchè anche questo si suol dire:


In quella casa ove biscie non sono,
Ove alle biscie è pur conteso il varco,

Ciascun felicemente può dormir.

Ma in quella casa
Difficilmente assai sonno si piglia,
Ove un serpe fu visto comparir.


E poi:


Quando gente d’onor, d’anima grande
E di virtù, lieto non tocca il fine

D’opre di lunga lena, ove l’augurio
Ricevè degli amici, opere eccelse

Di gran saper, di gran conato, ad alto
Punto sospinte di nobil desio,
Qual v’è per essa, nel momento tristo
Dell’affannoso cor, modo al conforto?


Ora però il cuor mio si riposa dopo ch’io ho intrapreso cosa che è riuscita. Ma tu, attendendo soltanto a proteggere i tuoi sudditi, godi del regno tuo che è fatto libero ornai da ogni malanno, felice per le immutabili insegne dell’ombrello e del seggio regale, che passeranno ai figli e ai figli dei figli tuoi. Perchè


Di quel re che l’amor della sua gente,
Col farsen protettor, non si procaccia,

Come le tette delle capre al collo66,
È inutile il regnar veracemente.

Quel re che di belle
Virtù si compiace,
Che ai colpi del fato
Col cor non soggiace,


Che a servi e ministri
L’affetto suo dà,
Per lunga stagione
La regia fortuna
Che mobil ventaglio
Di seta raduna
E candido fregio
D’ombrello, godrà.


Nè tu ti devi lasciar ingannare dall’ebbrezza della tua felicità, pensando così fra te: «Ecco che io ho avuto il reguo!» — , per la ragione che le grandezze dei re sono instabili, e la fortuna regale è difficile da raggiungere come è difficile da salire una canna; difficile da mantenere, poichè si piace di rovinare in un momento, benchè mantenuta con cento riguardi; traditrice alla fine, sebbene afforzata da sacerdoti; di mente agevolmente instabile come la stirpe delle scimie; malagevole a scrutare come un lago coperto di foglie di loto; mobilissima come il camminar del fuoco; incerta come la società degli scapestrati; malagevole da trattare come il veleno d’un serpente; di colore mutabile a ogni momento come un lembo di nuvola nell’ora del tramonto; vana per sua natura come le bollicine che si seguono in una sorgente; ingrata come la natura del serpente; veduta e sparita in un momento come un mucchio di denari avuto in sogno. Ancora:

Come si fa nel regno la consacrazione,
Così nelle sventure senno vuolsi e ragione.

Quando un re si consacra, versan le brocche fuori67,

Insieme all’acque molte, del fato i disfavori.
Cioè nessuno è inaccessibile alle sventure. Perchè è stato detto:


Di Rama l’esiglio,
Di Bali l’arresto,
De’ figli di Pandu
Il loco foresto,
Di Nala signore
L’uscita dal regno,
De’ Vrisni la morte,
D’Argiuna l’indegno
Danzar col maestro,
Di Lanca del re
L’immensa rovina,
Se pensi fra te,
Oh! tutti i viventi
Oppressi, dirai,
Qui son dal destino!
Chi dunque? chi mai
Da lui securtà
Quaggiù troverà?68
E Dasarata ov’è, d’Indra l’amico,
Già fatto degno di salire al cielo?


E Sagara dov’è, prence che il flutto
Frenò vasto dell’acque? e dove è quello
Che da una man nascea, figlio di Vena?
E Manu ov’è che essenza avea di sole?
Il fato che potente suscitolli
A vita un giorno, al nulla, ecco! gli ha resi69.

Dei tre mondi vincitore,
Dove andò re Mandatare,
De’ suoi voli osservatore?
Dove il sire dei Celesti
Nahusa? dove il chiomato
Ch’ehhe già i consigli onesti?
Co’ lor nobili elefanti.
Co’ lor carri, elli che assisi
Già si stavan tutti quanti
Su’ lor troni, dalla gente
Son creduti ebber colesto
Dal destino prepotente,
Ma il destin li tolse poi
Via ciascun dai lochi suoi.


Ancora:


Prenci, ministri,
Vaghe donzelle,
Orti e giardini,
Quei, questi, quelle,


Ratto che il Fato
Li discopri,
Tutto sparì.


Così adunque, avendo conseguito la fortuna regale che pure è instabile come l’orecchio di un elefante ebbro d’amore, fa tu ora di goderne insistendo nella saviezza.

Così finisce il terzo libro, detto della guerra dei corvi e dei gufi, del Panciatantra già composto dall’inclito Visnusarma.


  1. Con chi ci è uguale in forza.
  2. Gli altri modi di trattar col nemico.
  3. Cioè che si pieghi.
  4. Vuol dire che, come l’acqua spegne sempre il fuoco anche se riscaldata da esso, così si può sempre, in qualunque condizione, vincere un nemico.
  5. Gli altri modi di trattar col nemico, ricordati di sopra.
  6. Perchè ciò lo rende più che mai oltraggioso e superbo.
  7. Bima (propr. Bhima), un eroe del Mahabharata. Chiciachi (propr. Kiciakâs) è il nome d’una razza conquistata dagli Arii tra l’Indo e il Gange.
  8. Mesi in cui non piove.
  9. Cioè bisogna che prima s’informi di tutto ciò per mezzo degli spioni.
  10. Celebre eroe del Mahahbarata che, perduto il regno, visse lungamente nelle selve.
  11. Di comportarsi col nemico. Vedi sopra.
  12. Quando alcuno si trovi alla distretta o a mal partito.
  13. Quando sia cinto d’alleati.
  14. Propriamente, secondo il testo, incantatori di serpenti che andando qua e là fanno da spie.
  15. Si lasciano indietro cinque o sei nomi di uccelli i cui nomi indiani non si può sapere a quali nomi nostri corrispondano.
  16. L’aquila Garuda che serve di cavalcatura a Visnu. Vedi sopra.
  17. I Matsi (Matsyâs), popolo favoloso.
  18. Che voglia dire quest’ultimo verso, non s’intende bene.
  19. Non son sicuro della traduzione di questo lungo passo dove sono parole oscure e rarissime, e i diversi testi non vanno d’accordo fra loro.
  20. Monaci mendicanti della setta dei Giaina che vanno vestiti di bianco.
  21. Prima della fine del mondo risplenderanno sette soli in cielo (Benfey, citato dal Fritze).
  22. Gl’Indiani nelle macchie della luna vedono rimmagine d’una lepre.
  23. Quando alcuno gli volesse disputare quel possesso.
  24. I lidi sacri dei fiumi dove penitenti e pellegrini fanno le loro abluzioni.
  25. Tutto questo passo che comincia dalla domanda della lepre, manca nel testo di Calcutta e certamente è spurio, tanto più che è tutto contraddetto da ciò che segue.
  26. Il testo: «respira, ma non vive»; cioè ha soltanto una vita materiale.
  27. Nel senso di esser nato uomo.
  28. La parola agiâ, in sanscrito, vuol dire capra, e agia significa non nato, o che non rinasce più. Da ciò è venuta la doppia interpretazione del testo della legge sacrificale, a cui si accenna, cioè: si deve sacrificare con bestie dell’armento (agiâ, capra); — si deve sacrificare con cosa che non rinasce o non germoglia più (agia); per cosa, che non rinasce più, si è voluto intendere granelli di riso di tre o di sette anni.
  29. Cioè lasciandosi governare o da rispetto verso altrui, o da ira, ecc.
  30. Cioè quel giudice che per greggi dà una sentenza falsa, e reo della morte di cinque uomini; quel giudice che per buoi dà una sentenza falsa, è reo della morte di dieci uomini; e così di seguito.
  31. Nome della moglie del gufo.
  32. Cioè latte puro, latte acido, burro, orina e sterco.
  33. Spirito maligno e demoniaco.
  34. Del re nemico.
  35. Cioè come la farfalla che si abbrucia nella fiammella del lume.
  36. Il rogo su cui fu arso il figlio morto del Bramino.
  37. Yama, dio della morte.
  38. Cioè il demerito dell’averlo trattato non come poteva, resta al padrone di casa, e il merito d’aver fatto qualche cosa per lui, resta all’ospite stesso.
  39. In altra vita anteriore.
  40. Cioè il veridico.
  41. Cioè facitore di opere crudeli.
  42. Cioè concessa la vita al corvo Stiragivin.
  43. L’ovo di Brahma, il mondo.
  44. Quando i mariti sono assenti.
  45. Questi versi si trovano anche nella novella del monaco Asadabuti nel primo libro; ma sono alquanto diversi in un punto, e là rispondono meglio al senso.
  46. Il dui Luno, la luna, che in sanscrito è maschile.
  47. La fanciulla che non ha ancora le regole sue, è come Gauri, che è la sposa di Siva.
  48. Nome della sposa del dio Luno.
  49. Prima dell’esser maritata.
  50. Il lasciar che una fanciulla giunga ad età da marito e non le si dia marito, è una colpa che, secondo le idee indiane, ha i suoi tristi effetti nella vita antecedente dell’individuo, nelle altre vite che può avere rinascendo, nella vita oltramondana, nella sorte dei parenti già morti, ecc.
  51. Quando ha le regole sue, può fare secondo che vuole; è meglio però collocarla prima che giunga quel tempo.
  52. Non so se ho inteso bene questo passo, molto scabro per le cose dette e per il modo con cui son dette.
  53. Argiuna, uno degli eroi del Mahabharata.
  54. Bhima, eroe del Mahabharata.
  55. Argiuna.
  56. Yudhishthira, eroe del Mahabharata, il primo dei Pandhuidi.
  57. I fratelli di Yudhishthira sono Argiuna, Bhima, Nakula, Sahadeva, qui equiparati ad lndra il re degli Dei, a Yama dio e signore dei morti, a Kuvera dio delle ricchezze sotterranee.
  58. Nakula e Sahadeva, figli di Kunti che fu sposa di Pandhu, secondo il Mahabharata.
  59. Antico re dei Matsi. Virata (Virata) è nome di forma pracrita; in sanscrito
    suonerebbe Virastra (Viràshtra).
  60. La dea della fortuna.
  61. Draupadi, la sposa dei Pandhuidi.
  62. I tre beni: il buono, il gradevole, l’utile (Cappeller, Sanslcrit- Worterbuch).
  63. Va in rovina, perisce.
  64. Durga, la sposa del dio Siva.
  65. Cioè consumando lentamente ogni cosa.
  66. Il Benfey dice trattarsi di certe capre del Bengala che hanno sotto la gola alcune escrescenze carnose simili a piccole mammelle. L’autore qui le dice inutili perchè non danno latte, non essendo mammelle vere.
  67. Le brocche che contengono l’acqua lustrale con cui i re si consacrano.
  68. Si accenna qui a molti fatti dell’antica epopea. Rama andò quattordici anni in esiglio per un voto del padre; i figli di Pandhu stettero lungamente nelle selve, perduto il regno; Naia perdette il regno al giuoco dei dadi; Bali fu vinto da Visnu e cacciato nell’inferno; i Vrisni dal commentatore indiano sono eguagliati ai Yaduidi, nome di una razza discendente da Yadu (?); Argiuna dovette danzare in casa di Virata; Ravana re di Lanca (Geylan) fu vinto da Rama.
  69. Dasarata re di Àyodya, padre di Rama; Sagara fece discendere in terra le acque
    del Gange che prima erano in cielo. Pritu, figlio di Vena, fu fatto nascere per scongiuri di certi eremiti dalla mano destra di esso Vena già stato da loro ucciso. Manu, figlio del sole, il legislatore, ecc.

Note

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