< Le Novelle Indiane di Visnusarma
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Anonimo - Le Novelle Indiane di Visnusarma (Antichità)
Traduzione dal sanscrito di Italo Pizzi (1896)
Libro Secondo
Libro Primo Libro Terzo


LIBRO SECONDO.


Ora s’incomincia il secondo libro detto del modo di acquistar gli amici, e i suoi primi versi sono questi:


I saggi, i sapïenti,
Quei c’han letture molte
Se ben poco potenti,
Compiono con prestezza,


Come fe’ il cervo e il topo,
Il corvo e la testuggine,
Ciò che di fare è d’uopo.


Così, pertanto, si racconta:

C’era una volta in una provincia della regione meridionale una città di nome Mihilaropia, non lontano dalla quale era già un grande albero di fico di smisurata altezza, i cui frutti davan da mangiare a infiniti uccelli, le cui cavità brulicavano di bacherozzoli, alla cui ombra venivano a riposare i viandanti. Perciò è stato detto:


Quell’albero, del qual dormono all’ombra
Le gazzelle e di cui scerpon le foglie

Da tutte parti gli augelletti a stormi,
Di cui nel cavo brulicano i vermi
E stan su per li rami a far dimora

Schiere di scimie, di cui l’api attorno
Succhiano i fiori a lor grand’agio, oh! quello
È ben degno di lode, ei, che per molti
Viventi è buono in tutte parti sue!
Gli altri1 inutile peso ènno alla terra.


Ora, abitava là anche un corvo chiamalo Lagupatanaca, il quale un giorno, incamminatosi alla città per far provviste, intanto che guardava qua e là, ecco che gli venne incontro uri uccellatore che teneva in mano una rete, tutto nero del corpo, con distorti i piedi, con irli i capelli, simile ad un ministro di Yama2. Vedendo costui, il corvo, turbato nell’animo, così pensò: Oh! questo scellerato se ne va certamente all’albero di fico dov’è la mia dimora! Però non si può sapere se oggi farà o non farà sterminio degli uccelli che vi abitano. — Così avendo pensato diverse cose, tornato indietro all’istante e venuto a quell’albero di fico, gridò agli uccelli: Ohè! viene uno scellerato di cacciatore che ha nelle mani una rete e granelli di riso. Non vi fidate di lui per nulla. Egli, gittata la rete, vi spargerà i granelli di riso. Quei granelli voi li dovete considerare come altrettanto veleno. Mentre egli così parlava, l’uccellatore, giunto là a’ piedi del fico, gittata la rete e sparsi i granelli di riso che parevano semi di sinduvara3, si ritrasse non molto lontano e stette nascosto. Ma gli uccelli, trattenuti dalla forza delle parole di Lagupatanaca, riguardando quei granelli di riso come altrettanti semi di veleno mortale, si tennero nascosti. Intanto, il re dei colombi, di nome Cilragriva, che con un seguito di mille colombi errava qua e là in cerca di cibo, vide da lontano i granelli perchè egli, sebbene ammonito da Lagupatanaca, tratto dall’ingordigia della gola si precipitò per divorarli e restò preso con tutto il suo sèguito. A proposito, intanto, si suol dire:


Non prevista la morte addosso capita,
Sì come ai pesci che abitan nell’acque,


A tutti quei (nè punto se n’avvedono)
Cui troppo contentar la gola piacque.


Se non che, cotesto avviene appunto per l’avversità del fato, nè in ciò si trova alcuna colpa. Perchè è stato detto:


E Paulastia come mai
Nel rapir la donna altrui
Non conobbe i torti sui?
E da Rama come mai
Non fu scorta l’aurea fiera
Che un’antilope non era?


Yudistira come mai,
Dal gettar dei dadi, tratto
In disgrazia fu d’un tratto!
Sempre, sempre casca il senno
Quando gli uomini, assaliti
Dal malanno, son storditi4.


E poi:


Se avvinti ai ceppi
Son della morte,
Se tocco5 il senno
Han dalla sorte,


Incespicando
Per torta via
Anche dei grandi
La mente svia.


Intanto l’uccellatore, quando vide esser stati presi i colombi, con cuor gioioso accorse, levando in alto un bastone per ammazzarli. Ma Citragriva, sebbene si vedesse preso con tutto il suo sèguito e scorgesse l’uccellatore che s’avanzava, disse ai colombi: Oh! non temete! Perche è stato detto:


Tale, a cui nella sventura
La prudenza non vien meno
(Dubbio alcuno in ciò non ha),


Si raccoglie al porto in seno
Con l’aita ch’essa dà.


E poi:


Sempre ugual dei grandi il core
Nella sorte o buona o mala;


Quando spunta, il sol rosseggia,
E rosseggia quando cala.


Noi tutti pertanto, levandoci a volo d’un tratto e traendo con noi la rete come saremo in luogo dove l’uccellatore non ci potrà vedete, l’avremo libertà. Ma se voi, inviliti dal timore, non vi leverete subito a volo, avrete la morte. Perchè è stato detto:


Lunghi e sottili
Son sempre i fili;


Ma insiem congiunti
Son forti i fili.


Perchè son molti,
Di gran conati
Hanno virtù.


Prendane esempio
Chi sa di più. —

Dopo cotesto, mentre i colombi se n’andavano per aria toltasi la rete dell’uccellatore, l’uccellatore, restato in terra, correva loro dietro, e, levati in alto gli occhi, andava recitando questi versi6:

Vanno gli augelli e portan via la rete.
Quando, fra lor discordi, ei piatiranno,
Dubbio non è che a terra ricadranno. —


Anche Lagupatanaca, abbandonata la cura del procacciarsi il cibo, per il desiderio dei sapere ciò che sarebbe avvenuto dei colombi, li seguì andando loro dietro, e l’uccellatore, quando vide ch’essi erano scomparsi dalla vista, perduta la speranza e recitando questi versi, tornò indietro:


Ciò ch’esser non dovea, mai non avvenne;
Senz’affanno s’ottenne

Ciò ch’essere dovea. Perchè destino

E con sè gli altri si piglia
Così appunto come fa
Il Tesor della Conchiglia7.


Ma lasciam stare il desiderio di mangiar carne di colombi. Intanto io ho perduto anche la mia rete ocn la quale io faceva vivere la mia famiglia! — Citragiva intanto, quando conobbe che l’uccellatore era scomparso dalla sua vista, così disse ai colombi: Ohè! è tornato indietro quello scellerato di uccellatore! Andiamo adunque tutti di buon animo ad un luogo che è a settentrione della città di Mihilaropia. Là, un topo che è amico, detto Hiraniaca, romperà tutti questi lacci della rete. Perchè è stato detto:


Nella sventura
Che a tutti appigliasi,
Nessuno ha cura
D’aita porgere,


Fosse pur anche
Con un sol detto,
Fuor dell’amico
C’ha il nostro affetto. —


Ammoniti in questa maniera da Citragiva, i colombi se ne vennero alla tana inaccessibile d’Hiraniaca. Hiraniaca, abitando una tana sicura che aveva mille uscite, viveva felicemente non temendo di nulla. Intanto,


Riflettendo al periglio possibile,
Conoscendo le norme del vivere,
Una tna che ha cento sortite,
Qui fe’ il topo e qui stassi impassibile.


Da tutti si può vincere quel re
Che privo di fortezze si restò,
Sì come il serpe che i denti perdè,
O l’elefante a cui l’umor stagnò8.

E poi:


Quell’opra che non fanno
Mille elefanti e mille
Cavalli per un re,
Sola in tempo d’assalti
Una fortezza fe’.


Un solo arcier che stia
Alto sui muri, atterra
Cento nemici in guerra;
Però delle fortezze
Lodi gli esperti fanno
Che le regole sanno.


Citragriva pertanto, venuto alla porta di quella tana inaccessibile, gridò ad alta voce: O amico Hiraniaca, accorri, accori! presto! Una gran disgrazia ra’è toccata! — Udendo ciò, Hiraniaca, standosi pur dentro alla sua tana sicura, rispose: Oh! chi sei tu? a che sei venuto? e che è cotesta sventura? Dilla, suvvia! — Citragriva, avendo inteso, disse: Io son l’amico tuo Citragiva, re dei colombi. Però vieni presto! Ho gran bisogno di te. — Udendo ciò, il topo tutto contento, coi peli arricciati per la gioia, con animo confidente, uscì fuori in gran fretta. Intanto, egregiamente si suol dire:


Gli amici che hanno il cor pieno d’affetto,
Che dànno agli occhi di ciascun diletto,

Sempre alle soglie vanno di que’ tali
Capi di casa ch’ènno liberali.

Il nascere del sole, o caro mio,
Il betel e un racconto baratide,

La ganza, la mogliera e un dolce amico,
Cose nuove sempre ad ogni giorno9.


E poi:


Se d’alcuno alla dimora
Van gli amici ad ora ad ora,
Tale in cor dolcezza avrà,


A cui pari non sarà
Altra mai felicità. —


Ma Hiraniaca, come vide Citragriva preso ne’ lacci con tutto il suo sèguito, disse tutto turbato: Oh! che è questo? — E l’altro disse: In ben lo sai, e perchè me lo domandi? Perchè è stato detto:


Procede dalla forza del destino
Come, perchè, di qual maniera, dove,


Quando, per quanto tempo, alcun di noi
Si fe’ con l’opre sue lieto o meschino10.


Io ho avuto questi lacci per l’ingordigia della gola. Intanto, fa tu di sciogliermi; non indugiare. — Udendo ciò, Hiraniaca disse: Oh! quanto egregiamente si suol dire:

Vedon gli augelli a cento miglia l’esca,
Non vedon già, per voler del destino,
Il laccio che a quell’esca è posto accanto.


E poi:


Quand’io vedo luna e sole
Dal dragon celeste offesi11,
Serpi, augelli ed elefanti
Entro i lacci restar presi,


Quando vedo i sapïenti
Andar poveri e dolenti,
Penso e dico: Oh! nostra sorte.
Quanto sei possente e forte!

E poi:


Anche gli augelli
Che pel ciel vanno,
Toccan sovente
Qualche malanno;
Arraffa i pesci,
Chi sa pescare,
Anche nel fondo
Cupo del mare.
Oh! quale è mai


Opera trista,
Opera egregia?
E un loco eccelso
Di che si pregia?
La morte intanto
Anche lontano
Della sventura
Porta la mano. —


Così avendo detto, incominciò a rodere i lacci di Citragriva. Citragriva allora disse: Non fare, non far così! Togli prima i lacci ai miei servitori, e poi a me. — Udendo ciò, Hiraniaca adirato disse: Oh! tu non hai detto bene! Il servitore sùbito dopo il padrone. — E l’altro disse: Non dir così, amico. Tutti questi poveri colombi sono sotto la mia protezione, venuti insieme da me dopo ch’ebbero abbandonato ogni altra cosa. Come adunque non renderò loro almeno questo poco d’onore? Perchè è stato detto:

Ove renda il padrone a’ servi suoi
Debito onor, non l’abbandonan mai
S’anche nella miseria il veggan poi.


E poi:


Prima radice
È la fiducia
D’ogni felice
Opra quaggiù;
Però di sue
Schiere il governo
All’elefante


Concesso fu.
Benchè il leone
Abbia su tutte
Selvagge fiere
Sovranità,
Di cortigiani
Pompa non ha.


Con questo, mentre tu rodi a me i lacci, ti si possono rompere i denti e può giungere intanto quello scellerato di uccellatore, e io allora sarò dannato all’inferno. Perchè è stato detto:


Andrà all’inferno e nel mondo di là
Cruccio e tormento in sempiterno avrà


Il signor c’ha i suoi servi alla distretta
E pur sollazzo e buon tempo si dà. —


Udendo cotesto, Hiraniaca tutto contento rispose: Or sì ch’io vedo giustizia di re! Del resto, io così ho voluto metterti alla prova. Tu, con questa tua norma, avrai un sèguito di molti colombi. Perchè è stato detto:


Ma chi pei servi suoi
Sempre è pietoso in core,
Di principe l’onore


Merta veracemente,
Degno che dei tre mondi12
Ei dicasi reggente. —


Così avendo detto, quand’ebbe roso i lacci a ciascuno dei colombi, Hiraniaca disse a Citragriva: Torna adunque, amico, a casa tua. Come t’incolga qualche altra sventura, vieni da me. — Così avendoli accomiatati, entrò nella sua fortezza, e Citragriva ritornò a casa sua con tutto il suo seguito. Intanto, giustamente si suol dire:


Cose difficili
Dispone ed ordina
Chi ha degli amici;
Però procaccisi


Amico tale
Che abbia alla nostra
L’indole eguale.


Intanto, il corvo Lagupatanaca, avendo vedulo la liberazione di Citragiva dai lacci meravigliandosi così andava pensando: Oh! sapïenza e destrezza e accortezza di cotesto Hiraniaca nell’ovviare alle cose difficili! Questo era appunto il modo da tenersi nel liberar dai lacci quegli uccelli! Io intanto per l’indole mia incostante, non posso fidarmi di nessuno. Mi farò adunque amico costui. Perchè è stato detto:


I saggi anche se colmi d’ogni bene,
Si dènno procacciar fedeli amici;


Attende il mar che spunti in ciel la luna,
Anche sa ha l’acque sue turgide e piene13. —


Così avendo divisato, volando giù dall’albero e accostandosi alla porta della tana, imitando la voce di Citragriva, incominciò a chiamare Hiraniaca: Vieni, vieni! O Hiraniaca, vieni! — Hiraniaca, udendo quella voce pensò: Che ci sia qui qualche altro colombo restato nei lacci che mi chiama? — E gridò: Oh! chi sei tu? E l’altro disse: Io sono un corvo di nome Lagupatanaca. — Ciò udendo, Hiraniaca, stando pur sempre dentro, rispose: O caro, vattene via subito di qui. — Il corvo disse: Io son venuto da te per un affare grave, perchè dunque non mi ti fai vedere? — Hiraniaca disse: Io non ho bisogno di venire a star con te. — E il corvo soggiunse: Avendo veduto in che modo tu hai sciolto Citragriva dai lacci, mi è nato in cuore un grande alletto per te. Però, se mai mi accadesse d’esser legato, da parte tua mi verrà la liberazione. Facciasi adunque amicizia con me. — Hiraniaca disse: Oh! tu sei colui che mangia, e io colui che vien mangiato! Quale amicizia adunque può essere tra me e te? Vattene! Come può esserci amicizia quando c’è contraddizione? Ed è stato detto:


Sol tra quei che sono eguali
Di famiglia e facoltà,


Non tra ricchi e poverelli,
Matrimoni ed amistà.


E poi:


Quei che, baggiano e stolido,
Amico si procaccia,
Sia ricco, sia indigente,


Di grado diffidente,
Meritamente busca
Le beffe della gente.


Perciò, vattene! — Il corvo disse: O Hiraniaca, io sto qui seduto alla tua porta. Se tu non fai amicizia con me, io morirò in tua presenza. Così io sarò morto di digiuno volontario14. — Hiraniaca disse: Oh! come mai con te che fin da principio mi sei stato nemico, potrò io fare amicizia? Perchè è stato detto:


Con il nemico lega non si fa
Nemmen con arte meditata e salda,


Che l’acqua sempre, anche se molto calda,
L’ardor del fuoco spegno e spegnerà. —


Il corvo disse: Tu non mi hai ancora veduto in viso. Donde, perciò, l’inimicizia? Perchè dunque parli così a caso? — Hiraniaca disse: L’inimicizia è di due specie, innata e casuale, e tu sei nostro nemico innato. Perciò è stato detto:


Inimicizia
Accidentale
Tosto arte acconcia


A sopir vale.
Inimicizia
Connaturale


Non si torni
Se pria la vita
Alcun non dà. —


Il corvo disse: Oh! io vorrei udire i segni particolari di coleste due specie d’inimicizia! Dilli tu adunque. — Hiraniaca disse: La casuale si toglie via per qualche accidente; essa se ne va per qualche servizio fatto per ammenda; ma l’innata non se ne va in alcuna maniera. Essa è come quella che è tra l’icneumone e i serpenti, tra gli animali erbivori e quelli che sono armati d’artigli, tra il fuoco e l’acqua, tra gli Dei e i demoni, tra cani e gatti, tra ricchi e poveri, tra le mogli d’uno stesso marito, tra il cacciatore e la gazzella, tra i galantuomini e gli scapestrati, tra i sapienti e gli stolidi, tra le donne oneste e le sgualdrine, tra i buoni e i malvagi. Tra questi tutti è inimicizia eterna, e se alcuno in alcun modo non è stato tolto di mezzo dall’altro, essi però si amareggiano l’un l’altro la vita. — Il corvo disse: Ciò non è punto vero. Ascolta questa parola mia:


Amicizia o inimicizia
Non per nulla qui si fa;


Però il saggio lasci questa,
Sola curi l’amistà.


Perciò appunto tu devi far con me alleanza e patto d’amicizia. — Hiraniaca disse: Quale alleanza tra me e te? Ascoltisi la somma d’ogni regola del vivere:


Quei che amicizia
Rifar vorrà
Con un amico
Che si crucciò,


La morte avrà
Come la mula
Che ingravidò15.


Ma tu dirai: «Io son pieno di meriti, e però nessuno mi perseguiterà della sua inimicizia». Ora anche cotesto non è possibile. Perchè è stato detto:


A Pànini, scrittore di grammatica,
Un leon portò via la cara vita;

Un elefante al monaco Giaìmini,
Filosofo scrittor, l’alma ha rapita;

Pingala fu, dottor nell’arte metrica,
Da un pesce divorato in riva al mare;
Le fere bestie che han la mente torbida

D’error, del merto altrui che s’hanno a fare?


Il corvo disse: Così è, però ascolta anche questo:


Amicizia si suol fare
Dalla gente per aita;
Dagli augelli e dalle fiere
Per cagion lor definita;


Dagli sciocchi, per la brama
D’arricchire o per timore,
Ma dai saggi per concetto
Della mente superiore.


E poi:


Nell’amistà la gente abietta e sciocca
Somiglia ad un vasel d’ignobil creta

Che facile si spezza ed a gran stento

Si ricompone. Ma la gente a modo
È un vaso d’or, difficile a spezzarsi,
Agevolmente a ricomporsi adatto.


Ancora:


Se la canna da zucchero tu pigli
Dall’un de’ capi e procedendo vai,
Di nodo in nodo crescer sentirai
Il suo dolce sapore.


Tal della gente che ha pregio e valore,
È l’amistà. Quella de’ tristi e rei
Esser l’opposto argomentar tu dèi.


E poi:


Lunga al principio e a lungo andar mancante

Esile al cominciar, ma poi crescente,

Qual l’ombra, che del giorno in due metà,
Nella prima e nell’altra, in sè dissente,
De’ buoni e de’ malvagi è l’amistà16.


Io, intanto sono buono. Con ciò, io ti leverò ogni sospetto con giuramenti e altre sicurtà. — Hiraniaca disse: Io non mi fido dei tuoi giuramenti. Perchè è stato detto:


Tu del nemico
Non ti fidare
Anche se fede
Ti vuol giurare.


Indra, sì dice,
Vritra ammazzò
Dopo che seco
Fede giurò.


E poi:


Senza fiducia ch’egli in altri ispiri,
Esito lieto, fosse pure un dio,

Non ha il nemico negl’intenti sui.

Dal sire degli Dei spezzato il feto
Ebbesi Diti confidando in lui17.


Altrimenti:


Il saggio che desia
Felicità quaggiù, beni e incremento,


Alcuna fè non dia
Nemmeno a Vrihaspàti18 un sol momento.


E poi:


Dentro ficcandosi
Per un pertugio
Sottil sottile,
Manda il nemico
Adagio adagio


Tutti in rovina,
Come fa l’acqua
Che della nave
Lenta s’infiltra
Nella sentina.

Ancora:


Nessuno si confidi
In tal che non si fida;
Nessuno si confidi
In tale che si fida,


Chè il rischio che rampolla
Sempre dal confidare,
Anche l’ime radici
È solito guastare.


E poi:


Chi mai non fidasi,
Anche se debole,
Non si fa uccidere
Da alcun malevole
Di gran poter.


Quei che si fidano,
Anche se validi,
Spesso si vedono
Sotto ai più deboli
Morti cader.


Ma intanto:


Bene operar secondo Visnugupta,
Non si fidar secondo Vrihaspàti,

Procacciarsi, secóndo il Briguide,

Gli amici, del ben vivere la norma
Ecco che in parti tre si suddivide19.


E poi:


Di ricchezze sterminate
Ben che ricco possessore,
Chi si fida degli amici


E di donne senz’amore,
Ben può dir che di sua vita
La carriera ha già finita. —


Udendo cotesto, Lagupatanaca non rispose, ma pensò: Oh! gran sapienza di costui nelle regole della vita! Davvero! che io sempre più son voglioso della sua amicizia! — E disse: O Hiraniaca,


Soglion dire i sapïenti
Che dei buoni l’amicizia
Sette numera elementi.


Tu però quest’amicizia
Fa con me una buona volta
E un mio detto intanto ascolta!


Stando nella tua fortezza, tu sempre, poichè non ti fidi di me, dovrai intrattenerti meco a discorrere di virtù e di difetti. — Udendo ciò, Hiraniaca pensò: Questo Lagupatanaca mi sembra esser dotto nei suoi discorsi e dicitor del vero, e però è utile che si faccia amicizia con lui, chè sarà bello lo stare insieme in piacevoli discorsi. — E disse: Se così è, facciasi amicizia con te, eccetto però che tu non metterai mai piede in casa mia. Perchè è stato detto:


Timido timido
Incominciando,
Adagio adagio
Sul suol strisciando,
Poscia con impeto


Forte assaltando,
Ogni nemico
Così s’adopra
Come la man dei zerbinotti, quando
Le donne per le membra van tastando. —


Udendo ciò, il corvo disse: O caro, se così è, sia pure così. E da quel giorno ambedue là se ne stettero godendo della felicità dello stare a ragionare insieme, e passarono il tempo facendosi scambievoli servigi. Lagupatanaca procacciava per Hiraniaca certi ghiotti pezzetti di carne, e Hiraniaca procacciava per Lagupatanaca scelti granelli di riso e altre cose elette da mangiare, e tutto cotesto andava assai bene per ambedue. Ora è stato detto:


Si dà, si prende;
Ogni segreto
Si dice e intende;
Mangiasi e da mangiare


Anche si dà;
Dell’amicizia il sestuplice segno
Qui appunto sta.


E poi:


Non si fa l’amicizia con alcuno
Senza che alcun servigio gli si presti;


Nemmen gli Dei, senza copiosi doni,
Lor grazie a dispensar son molto presti.


Ancora:


Dura in terra l’amicizia
Fin che dono alcun si dia;
Il vitel, se il latte manca,
Dalla madre fugge via.


Vedi tu qual fiducia ispirar suole
Un dono fatto di cor generoso?

Pel suo poter, dall’odio in un momento
All’amicizia passa un uom riottoso.


E poi:


Penso che più d’un figlio sia gradito
Anche alle bestie dissennate un dono,

Chè il latte ad ogni stolto e scimunito

(Alla giovenca che ha il vitel, tu guarda)
Sempre sempre ed intero hanno fornito.


Ma a che tante parole?


Fatta amicizia
Indefettibile,
Indivisibile


Come tra carne ed unghia,
Il corvo e il topo
Han stretta un’alleanza artificiale20.

Anzi, il topo, presto ai servigi del corvo, tanto si fidò di lui che, andandosi a cacciare sotto le ali di lui, stavasi continuamente a godere del piacere dello stare insieme. Ma poi, un giorno, il corvo sopravvenendo con gli occhi pieni di lagrime, con voce tremante così parlò al topo: O Hiraniaca, io mi sono disinnamorato di questo paese e voglio andarmene altrove. — Hiraniaca disse: Amico, quale è mai la cagione del tuo disinnamorarti? — E l’altro disse: Ascolta, o caro. In questo paese, per la grande siccità, è venuta la carestia, e per tale carestia la gente, afflitta dalla fame, non fa più nemmeno la più piccola offerta21. Con ciò, di casa in casa, dalla gente affamata son stati posti certi lacciuoli per prendere gli uccelli. Io, perchè era destinato che dovessi vivere ancora, preso ad un lacciuolo, ho potuto liberarmene. Questa è la cagione dell’aver perduto l’affetto per questo paese. — Hiraniaca disse: E dove andrai ora? — L’altro disse: Nella regione meridionale, in mezzo a una selva profonda, è un ampio stagno. Là è pure una testuggine di nome Mantaraca molto mia amica, anzi in grado maggiore di te. Essa mi darà da mangiare pezzetti di carne di pesci. Con tal provvigione, col piacere di stare insieme a parlare, passerò il mio tempo. Io qui non voglio stare a vedere lo sterminio degli uccelli coi lacciuoli. Ora, è stato detto:


Quando la terra
È desolata
Perchè del cielo
L’acqua è mancata,
Quando il raccolto
Sen va perduto,
Nessun de’ saggi
Ha mai veduto
Del suo paese
L’impoverir,


Della sua casa
Il deperir22.
Qual è pel forte
Peso opprimente?
Qual è distanza
Per l’uom fidente?
Qual terra estrana
Pel sapïente?
Qual uom straniero
Per l’eloquente?


E poi:


Sapïenza e di principi potesta
Fra lor non sono eguali veramente.


Solo in sua terra onore al re si presta,
Onorasi dovunque il sapïente. —


Hiraniaca disse: Se così è, verrò là con te ancor io, perchè qui a me pure è capitato un gran malanno. — Il corvo disse: Oh! che è mai cotesto tuo malanno? Parla! — Hiraniaca disse: Amico, molte cose ci sarebbero da dire per questo punto; ma, come saremo giunti là, ti racconterò tutto per disteso. — Disse il corvo: Ma io soglio andar per l’aria e tu cammini per terra; come dunque potrai tu venir con me? — E l’altro disse: Se pure c’è necessità di salvar la mia vita, tu, toltomi sulla schiena, menami a quel luogo, chè non c’è altro modo di andare per me. — Udendo questo, il corvo disse con gioia: Se così è, me felice se potrò con le passare il mio tempo! lo conosco gli otto modi del volare dei quali il primo sì e quello del volare insieme. Ora, è stato detto:


Volare insieme,
Volare innanzi,
Volare in alto,
Volare in giù,
Volare obliquo,
Volare in giro,


Volare in su,
Volar veloce,
Ecco! son gli otto
Modi del vol
Compresi in questo
Pensiero sol.


Montami adunque sulla schiena perchè io felicemente ti porti a quello stagno. Dopo ciò, Hiraniaca montò subito sulla schiena del corvo, il quale, toltolo con sè, partì adoperando il modo del volare insieme. Così, andando adagio adagio, venne con quello accostandosi allo stagno. Mantaraca intanto, quand’ebbe veduto di lontano Lagupatanaca cavalcato dal topo, pensando fra sè: Ecco ora quel bizzarro di corbaccio che sa tutti i tempi e tutti i luoghi! — , in gran fretta si cacciò sott’acqua. Ma Lagupatanaca, deposto Hiraniaca nella cavità d’un albero che stava sulla sponda, come fu volato sulla cima di un ramo di quello, ad alla voce incomincio a gridare: O Mantaraca! o Mantaraca! vieni, vieni! Io sono il corvo Lagupatanaca, l’amico tuo, venuto a te con cuore desideroso dopo tanto tempo! Vieni dunque e abbracciami! Perchè è stato detto:


Sandalo canforato e neve frigida23
Quale hanno mai valore?


Davver! la sesta parte essi non valgono
D’un amico del core!


E poi:


Da chi mai celesta ambrosia
Fu prodotta primamente,
Questo motto di tre sillabe


Ch’è l’amico veramente,
Protettor nella sventura
E conforto in la rancura? —


Udendo cotesto, Mantaraca, quand’ebbe meglio conosciuto l’amico, con tutti i peli del corpo arricciali per la gioia, con gli occhi pieni di lagrime per il piacere, uscendo in gran fretta dall’acqua, gridò: Vieni, vieni, amico! abbracciami! È passato tanto tempo, e io alla prima non ti aveva riconosciuto e però mi era cacciato sott’acqua. Intanto, è stato detto:

     
Alleanza con tale non farai,

Vrihàspati dicea, di cui la possa,

L’opere e la famiglia tu non sai. —


Mentre egli ebbe così parlato, Lagupatanaca, disceso dall’albero, gli diede un abbraccio. Giustamente, intanto, si suol dire:


Oh! che mai valgono
Fonti d’ambrosia
Che il corpo lavino?
Al petto stringere
Un dolce amico


Non più veduto
Da tempo antico,
È tal conforto
Che in verità
Prezzo non lui.


Ambedue allora, abbracciatisi acconciamente, coi peli tutti del corpo arricciati per la gioia, sedutisi ai piedi di un albero, si raccontarono scambievolmente le loro avventure. Hiraniaca intanto, fatto un inchino a Mantaraca, si sedette accanto al corvo, e Mantaraca che subito l’ebbe veduto, disse a Lagupatanaca: Chi è quel topo? E perchè mai, pure essendo tuo cibo consueto, è stato da te menato fin qui, montato sulla schiena? Ciò non è possibile per alcuna cagion lieve. — Udendo cotesto, Lagupatanaca disse: Questo topo, che ha nome Hiraniaca, è mio amico; anzi è la mia seconda vita. Ora, a che tante parole?


Come in ciel senza numero soli gli astri,

Come son senza numero le stille
Della pioggia e i granelli dell’arena,

Son così senza numero di questo
Magnanimo i gran pregi. Or però venne
A te, caduto in un estremo affanno.


Mantaraca disse: Qual è la cagione di questa sua disperazione? — Il corvo disse: Quand’eravamo là, egli ne fu già domandato da me. Ma egli mi ha risposto: Oh! c’è molto da dire! Quando saremo giunti allo stagno, allora li racconterò. Perciò egli non ha fatto saper nulla nemmeno a me. Ora però, diletto Hiraniaca, facci sapere la cagione di questa tua disperazione. —

Racconto. — Hiraniaca disse: Nella regione meridionale è una città di nome Mihilaropia non lontano dalla quale è un romitaggio con un oratorio del beato Siva, laddove abitava un monaco mendicante chiamato Tamraciuda. Il quale, andando per la città a mendicare, come aveva raccolto da mangiare in gran copia, tornato al romitaggio, si manteneva con quello; nascondendo poi nella sporta con cui andava a mendicare, ciò che gli avanzava di quei cibi, e appendendo quella sporta a un dente di elefante24, andava a dormire; alla mattina poi, dispensando quel cibo a certi operai, faceva lor fare nel tempio del dio la pulizia scopando, ungendo e mettendo ogni cosa in ordine. Ma un giorno cosi mi fu parlato dai miei servitori: O signore, nel romitaggio di Tamraciuda c’è sempre molta buona pietanza appesa a un dente d’elefante. Noi non possiamo mangiarne mai; ma per un re nessuna cosa è inaccessibile. A che, intanto, andiam noi correndo qua e là per procacciarci da mangiare? Noi oggi ci vogliam cacciare là dentro e mangiare col tuo favore a tutta nostra voglia. A che tanto inutile affaticarci? — Avendo udito cotesto, io, attorniato da tutta quanta la mia gente, là mi condussi nel momento stesso, dove con un salto mi cacciai dentro alla sporta delle elemosine, e dove, dopo aver dato da mangiare ai miei servitori gli avanzi di certe pietanze cotte, io stesso mi posi a mangiare. Come poi tutti fummo saziati, ritornammo alle nostre case. D’allora in poi sempre io, col mio sèguito, mi stava a mangiare di quei cibi, e il monaco per (pianto poteva stava a far la’ guardia; ma io, quand’egli s’addormentava, arrampicatomi fin lassù, faceva le faccende mie, perchè egli allora, ponendo gran cura nel difendersi da me, portò un giorno un lungo pezzo di canna, con la quale, benchè coricato, per timor di me, andava picchiando sulla sporta. Allora io, senza aver potuto toccar di quelle pietanze, per timore d’esser battuto mi tirava indietro. Così, essendo io occupato nella guerra con lui per tutta la notte, il tempo andava. Ma poi, un giorno, capitò in quel romitaggio un amico di Tamraciuda, già suo ospite, Vrihatsfigi di nome, che viaggiava in pellegrinaggio per visitare certi stagni sacri25. Come l’ebbe veduto, Tamraciuda si conformò a tutte le regole dell’accogliere ospiti col levarsi in piedi e con l’accoglierlo a tutto onore. La sera poi si adagiarono insieme sopra un solo giaciglio e cominciarono a discorrere dei doveri morali. Ma, intanto che Vrihatsfigi era in bei discorsi socievoli, Tamraciuda, distratto della mente per timor di me, mentre con quel pezzo di canna picchiava sulla sporta delle elemosine, tralasciava di dar risposta all’amico, anzi non gli volgeva nemmeno un motto, perchè l’ospite, venuto in gran disdegno, gli disse: O Tamraciuda, ornai io ho conosciuto che non sei mio amico da che non mi parli con affabilità. Ora io, benchè sia di notte, lascierò il tuo romitaggio e me ne andrò altrove. Perchè è stato detto:


«Vieni! t’accosta! siedi! ecco la sedia!
Perchè ti fai veder tanto di rado?

Che notizie? Oh! davver sei tu malato?
E la salute come va? Son io
Ben lieto del vederti!». Ecco, di quelli

Amici che favellano in tal guisa,
Con tal rispetto, agli ospiti mo’ giunti.
Da ogni timor con libera la mente
Sempre alle case appresentar ti puoi.


E poi:


Quei che va di tale in casa
Che, al veder l’ospite suo
Guarda abbasso o guarda altrove,


Oh! davver ch’è come un bove
Che le corna sua perdè!


Ovvero:


Dove in piè nessun si leva,
Dove affabil non si parla,
Dove nulla si favella


Nè di vizi nè di colpe,
Nessun vada in quella casa.


E tu ti sei inorgoglito per aver ottenuto questo romitaggio e ti sei dimenticato dell’affetto che devi agli amici, e non sai che col pretesto di abitare un romitaggio si può guadagnare l’inferno. Perchè è stato detto:


Se hai tu desio d’andartene all’inferno,
Di prete cappellano ufficio assumi


Almeno per un anno. Oh! che altro mai?
Reggi sol per tre giorni un oratorio!


Perciò tu, o sciocco, sei da compiangere che ti sei inorgoglito per la tua ricchezza. — Udendo colesto, Tamraciuda, con la mente tutta turbata da timore, gli rispose: O reverendo, non dir così! Io non ho in alcun luogo amico eguale a te; però ascolta la cagione perchè io ho trascutato la tua compagnia. Un topo scellerato si caccia, saltando, nella sporta delle elemosine benchè sospesa in un luogo alto, e si divora tutto quello che c’è di pietanze raccolte. Mancandomi quelle pietanze, io non posso più far spazzare l’oratorio del dio. Io però, per spaventare il topo, di tanto in tanto vo picchiando con questa canna sulla sporta delle elemosine. Altra cagione non v’è. Ma tu vedi intanto l’ardire di quello scellerato il quale co’ suoi salti superai gatti, le scinde e qualunque altro animale. — Vrihatsfigi disse: Si sa in qual parte si trova la sua tana? — Tamraciuda disse, reverendo, io non lo so. - E l’altro disse: Certamente essa si trova sopra qualche tesoro, e il topo, per l’ardore che manda il tesoro, spicca i suoi salti. Perchè è stato detto:


Ardor che viene da tesori ascosi,

Forza e vigore ad ogni corpo dà;

Anche più se lo spenderne e il goderne
All’opre nostre s’accompagnerà.


E poi:


Una ragion dev’esserci
Perchè la vecchia Sàndili


I sesami sgusciati
Venda pei non sgusciati. —

Tamraciuda disse: Come ciò? — E l’altro disse:

Racconto. — In un certo paese vi è una città molto devota detta. Sangiatara laddove io una volta, nella stagione delle piogge, stanco dell’imperversar delle nuvole piovose, accostatomi all’abitazione di un certo Bramino, gli domandai una piccola stanzetta per me, e dove io, esaudito dal suo acconsentimento, abitai felicemente, addetto al culto degli Dei. Un giorno però, di gran mattino, come fui destato, porgendo attenzione stetti ad ascoltare il Bramino e la moglie sue che piativano insieme. Il Bramino diceva: O Bramina, domani mattina cade la solennità del solsitizio d’estate in cui si fanno doni infiniti. Io però in gran freta, per far le provvigioni, andrò alla villa. Tu intanto, in onore del Sole beato, devi apprestar da desinare ad un Bramino. — Udendo cotesto, la Bramina con voce aspra rimproverandolo gli rspose: Come puoi tu avere da dar da desinare ad un Bramino, oppresso come sei dalla povertà? Così parlando, come non ti vergogni tu? Davvero! che dal momento che tu mi hai dato la mano di sposa, io non ho mai avuto bene! non ho avuto focacce e non pietanze da assaggiare! non ornamenti per le braccia, per le gambe, per gli orecchi, per il collo o per altro! — Udendo ciò, il Bramino, benchè intimorito, rispose con tutta pace: O Bramina, non è bello parlar così, perchè è stato detto:


Oh! perchè mai
A chi ha bisogno
Almeno almeno
Mezzo boccone
Non si darà?


Alla speranza
Dono adeguato
Dato e assegnato
Quando sarà?


E poi:


Quel frutto che raccolgono
Per copia di gran beni
I ricchi di quaggiù,


I poverelli acquistano
Con un quattrin, sì come
Da noi udito fu.


E poi:


Chi dona, anche se povero,
Merta che altri l’onori,
Non già l’avaro e sordido
Ben che abbia averi e onori.


Il pozzo che contiene
Acque dolci a gustare,
Caro è alle genti tutte,
Ma non già il salso mare.


E poi:


Perchè col nome
Di re dei re

Bugiardamente
Nomar si dè
Chi, ben che ricco e grande, nulla dà?
Così non chiamasi
Dai sapïenti
Il dio che a guardia
Sta de’ tesor,

Ma il dio signor
Che sovra gli altri numi ha potestà26.

Sempre degno è di lode l’elefante
Che si consuma perchè molto dà,

E biasmo tocca l’asino ragliante
Che tondo e pingue nessun dono fa27.

Ben che ben fatta
E ben formata
La secchia vuota


Giù va calata;
Ben che sbilenca,
Ben che bistorta,


Va in su la scala
Che in alto porta28.


E poi:


Care le nuvole
A tutte genti,
Chè l’acque dolci
Sono pioventi;


Ma il sole in viso
Mirar non puoi,
Sempre vibrante
I raggi suoi29.


Così divisando, anche da chi è oppresso dalla povertà si può dar alcun poco del poco in tempo e misura opportuna. Perchè è stato detto:


Se dassi ad uom degno
In tempo ed in loco
Adatto e opportuno
D’onore alcun segno,


Dai saggi e prudenti
Per l’eternità
Quel segno si dà.


Da alcuni anche è stato detto:


Aver mai non si debbe
Soverchia avidità,
Nemmen si dee lasciare
Desìo con onestà.


Dell’avido soverchio
Al sommo della testa
Spuntar suole una cresta. —


La Bramina disse: Come ciò? — E il Bramino incominciò a raccontare.

Racconto. — C’era una volta in un paese selvoso un Pulinda30 il quale un giorno era entrato nella selva per cacciare. Andando egli qua e là, s’incontrò in un verro che pareva uno dei cocuzzoli del gran monte Angiana. Come l’ebbe veduto, egli l’atterrò con una saetta acuta, scagliata col tirar della corda dell’arco fino agli orecchi. Ma il verro, con animo preso da furore, gli squarciò il ventre con le zanne aguzze, simili ai corni lucenti della luna nuova, onde il Pulinda cadde morto a terra. Il verro allora, ucciso che ebbe il cacciatore, morì per il dolore della ferita ricevuta dalla freccia. Intanto, uno sciacallo che omai si avvicinava alla sua morte31, mentre andava errando qua e là tormentato dalla fame, capitò in quel luogo. Vedendo il Pulinda e il verro che giacevano morti, tutto contento si mise a pensare: Oh! come la sorte mi è favorevole! Ecco che qui mi capita da mangiare senza ch’io v’abbia pensato! Però giustamente si suol dire:


Quel frutto che con l’opre si procaccia
In altra vita32 l’uom, sia tristo o lieto,


In questa ei tocca e la sorte gliel manda
Senza che studio o cura egli vi faccia.

E poi:
Qualunque il loco, il tempo o l’età sia
In che si fe’ alcun’opra o buona o trista,
S’ha il frutto di quell’opra tuttavia.


Ora io ne mangerò in maniera che per più giorni mi resti da mantenermi. Perciò io comincerò dal mangiare questa corda che sta alle punte dell’arco. Ora, è stato detto:

Goder della dovizia procacciata
Adagio adagio e non in furia debbo,
Come dell’elisir, gente assennata.


Così adunque avendo divisato con la mente, cacciandosi in bocca la punta dell’arco, incominciò a rosicchiar quella corda. Ma la punta dell arco, allo spezzarsi del legame, squarciandogli la regione del palato, gli uscì fuor dal capo a modo di cresta, ed egli morì subito di quella ferita. Perciò io dico:


Aver mai non si debbe
Soverchia avidità,
Nemmen si dee lasciare
Desio con onestà.


Dell’avido soverchio
Al sommo della testa
Spuntar suole una cresta. —


E soggiunse ancora: O Bramina, non hai tu udito che


L’età, l’opre, l’aver, la sapïenza,
Il tempo del morir, son cinque cose


Che s’apprestano all’uom fin da quell’ora
Ch’ei nell’alvo materno ha l’esistenza?


Così adunque ammonita da lui, la Bramina disse: O caro, se così è, ecco che io ho qui in casa un poco di grani di sesamo. Come li avrò sgusciati, con la farina di sesamo darò da desinare al Bramino. — Udita la risposta di lei, il Bramino se ne andò al villaggio, e quella, quand’ebbe ammollito nell’acqua calda e poi sgusciato i grani di sesamo che aveva in casa, li espose al calor del sole. Ma, intanto ch’essa era tutta attenta alle faccende di casa, un cane orinò tra quei grani di sesamo. Avendo ciò veduto, essa pensò: Oh! vedi furberia della sorte contraria che ha fatto che non si possano più mangiare questi grani di sesamo!33. Ma io, togliendoli con me, me n’andrò alla casa d’alcuno di qui e con questi grani già sgusciati mi procurerò dei grani da sgusciare. Chiunque me ne darà a tal patto — Così, cacciati quei grani in una corba, entrando di casa in casa andava gridando: Oh chi prende grani di sesamo sgusciati per grani da sgusciare? — Anche in quella casa dov’io era entrato per chiedere l’elemosina, essa, recando quei grani, entrò per far il suo traffico e ripeteva quel suo grido. Ma, intanto che la padrona di casa venendo innanzi si prendeva i grani sgusciati per gli altri da sgusciare, ecco che il figlio, leggendo nel libro di Camandachi34, disse: Mamma, cotesti grani non si possono prendere! Non si posson prendere i grani sgusciati di costei per i non sgusciati, perchè vi deve essere qualche ragione perchè essa offre quelli per questi. — Udendo ciò, la padrona di casa lasciò di prendere quei grani. Perciò io dico:


Una ragion dev’esserci
Perchè la vecchia Sàndili


I sesami sgusciati
Venda pei non sgusciati.


Ora, la conclusione è questa. Dal calore d’un tesoro nascosto nasce ciò che il topo possa far quei salti. — Avendo detto ciò, Vrihatsfigi seguitò a dire: Si conosce la via per cui egli viene e va? — Tamraciuda rispose: O reverendo, si conosce, perchè esso non viene solo; anzi, circondato da una innumerevole schiera di topi, correndo di qua e di là sotto i miei occhi, se ne va e se ne viene con tutti i suoi. — Vrihatsfigi disse: C’è qui una marra? — E l’altro disse: Certamente! Anzi c’è questa tutta di ferro. — L’ospite disse: Adunque, domani noi dobbiam svegliarci all’alba e andrein seguendo le pedate del topo sul suolo non ancora stato insudiciato dai piedi della gente. — Io, quando intesi le parole di quello scellerato simili alla caduta d’un fulmine, pensai fra me: Oimè! sun morto! chè s’odono parole di tale che è fermo nel suo proposito! Se, intanto, si scopre il tesoro, ecco che cotesto malvagio troverà la nostra lana! Tutto ciò ben s’intende dal suo proposito. Ora, è stato detto:


I saggi, anche se vedono
Un uom solo una volta,
Chiara ne riconoscono
La virtù dentro accolta.


D’un granellin dell’oro
Con mano e con stadere
Sa divisare il quanto
La gente del mestiere.


E poi:


Fa sempre dell’animo
Un moto conoscere
Un quid, già dagli uomini
Toccato o toccabile,
Gradito o sgradevole
Del core nell’intimo.


Coi piè ratti un giovane
Augello che nascere
Ancora non videsi
La coda sua splendida,
Ch’egli è un pavon, subito
È dato conoscere35.


Io allora con la mente turbata dal timore, abbandonando con tutto il mio sèguito la via consueta della tana, voltolili ad uscire per altra via, intanto che vado innanzi, ecco che m’incontro faccia a faccia in un gatto di corpo smisurato. Costui, adocchiata la turba dei topi, con impeto vi si cacciò nel mezzo. I topi allora, accusandomi d’essermi messo per una via falsa, uccisi per metà, lasciando il suolo tutto bagnato di sangue, si rifugiarono nella tana. Ora, giustamente si suol dire:


I lacci infranse e dopo quelli rompere
Potè una ragna fatta por insidie;

Lungi scampò, da una foresta che ardere
Densa già si vedea tutta in circuito
Di molte fiamme; ancora, con grand’impeto

De’ cacciatori via ratta balzandosi
Dal tirar delle frecce, uscì un’antilope;
Dentro d’un pozzo alfin precipitavasi.
Quando la sorte gli è nemica, provisi,
Provisi alcuno a far atti magnanimi!36


Io però andai in disparte, ma gli altri tutti, nella loro stoltezza, rientrarono nella tana, e intanto quello scellerato di monaco, vedendo il suolo tutto macchiato da stille di sangue, si mise a seguir quella via della tana. Cominciando egli a scavar giù con la marra, ecco che scavando raggiunse il tesoro sopra il quale io sempre soleva stare e per l’ardor del quale io poteva penetrare in ogni luogo più difficile. Il monaco allora così disse tutto contento a Tamraciuda; O reverendo, ora tu puoi dormir tranquillo. Per l’ardor di questo tesoro appunto, il topo ti teneva desto. — Così dicendo, toltosi su quel tesoro, si volse per andare al romtaggio. Ma io, quando rientrai in quel luogo, non poteva più reggere alla vista di quel luogo squallido che rattristava l’animo. Oh! come potro io consolarmene? In questo pensiero, con grande affanno passo per me quel giorno. Quando il sole fu tramontato, io con gran turbamento d’animo e sfiacchito mi condussi, con tutto il mio sèguito, al romitorio, e Tamraciuda, come udì il rumore del nostro assalto, ecco che incominciò a picchiare ancora sulla pentola delle elemosine col suo pezzo di canna. Vrihatsfigi allora gli disse: O sozio, perchè mai questa notte non ti abbandoni tranquillamente al sonno? — e l’altro disse: O reverendo, quello scellerato di topo è ora ritornato con tutti i suoi, e io per timor di lui vo picchiando a pentola delle elemosine con questo pezzo di canna. — L’ospite allora disse sorridendo: O sozio, non temere; con quel tesoro se n’è andato via anche suo potere di spiccar salti. Tale è la sorte di tutti i viventi. Ora è stato detto:


Perchè alcuno prepotente
Voglia opprimere la gente,
Perchè parli ad alta voce,


Veramente ciò procede
Da che molto egli possiede. —


Io allora, udendo cotesto, preso da furore, spiccai d’un tratto un salto verso la pentola delle elemosine, ma non potei giungerla e caddi a terra, e il mio nemico, quando ebbe veduto, così disse sorridendo a Tamraciuda: Vedi! oh vedi caso strano! Ora, è stato detto:


Forte e potente
È chi ha ricchezza,
È sapïente
Chi sta in larghezza.


Guarda quel topo
Che impoverito
Come i suoi pari
S’è impicciolito.


Ora tu puoi dormire senza alcun timore, perchè ciò che gli dava potere per quei salti, è ora venuto nelle nostre mani. Intanto, egregiamente si suol dire:


Quale un serpe senza denti,
Senza umore un elefante,


Tal soltanto ha nome d’uomo
Chi di spiccioli e mancante. —

Udendo cotesto, io pensai fra me: Ciò che dice questo mio nemico, è pur vero! Io non posso più saltar tant’alto quanto un dito. Oh! misera vita di un uomo che non ha denari! Perchè è stato detto:


D’uom di povero intelletto
E di spiccioli mancante
Restan l’opre senza effetto
Come ai tempi della state
Le correnti disseccate.
Come l’orzo dei corvi37 e come i grani
Di sesamo selvaggi han sol di grani

E d’orzo il nome e non hanno valore,
Così è l’uom che deserto è di ricchezza.

Non splendon le virtù dell’uomo onesto
Quando povero sia, ma sempre suole

I pregi e le virtù di quello e questo
Ricchezza illuminar sì come il sole.

Chi fin dal nascere
Povero fu,
Tanto non sente
Dolor quaggiù,
Quanto chi povero
Ridiventò
Ricchezza ingente
Poi che acquistò
E il tempo in quella
Lieto passò.
Frutto d’albero tutto inaridito,
Dai vermini scavato, arso dal fuoco


In ogni parte, nato in steril loco,
All’opra d’un meschin va preferito.

È disprezzata,
È berteggiata
Sempre e dovunque
La povertà.
Anche s’è accorso
Un poverello
A dar soccorso,
Conto sen fa
Quanto d’un cane
In verità.
Le voglie dei poveri
Si levan, si levano,
Ma ratto comprimonsi
Del core nell’intimo
Sì come alle vedove
Le poppe si scemano.
Quei ch’è cinto dalle tenebre
Della trista povertà,
Anche quando il giorno è limpido,
Anche quando innanzi ei sta,
S’anche alcun vi mette cura,
Non si vede e non si cura. —


Dopo che io, affranto delle forze, ebbi così borbottato fra me, vedendo il mio tesoro adoperato ad uso di guanciale, all’ora dello spuntar del giorno ritornai alla mia tana. Allora, i miei servitori, mentre andavan qua e là, si dicevano l’un l’altro a voce bassa: Oh! costui non è più capace di riempirci il ventre! Anzi, a chi gli va dietro, toccherà la disgrazia d’incontrarsi in un gatto o in qualche altro malanno. A che dunque prestargli ossequio? Perchè è stato detto:


Vuolsi quel prence da lungi schifare
Onninamente dagli addetti suoi


Dal qual niun frutto è lecito sperare,
Ma sì quanti più mali e danni vuoi. —


Mentre io udiva per via queste loro parole, entrato nella mia tana, intanto che nessuno m’era venuto incontro, andava pensando fra me: Accidenti all’esser povero! Ora, giustamente si suol dire:


È morto l’uom che spiccioli non ha,
Morto il connubio che prole non dà,

E quel convito funerale è morto

Dove un prete ufficiarne non fu scorto;
Quel sacrifizio è morto ove non sia
Innanzi addotta la vittima pia.


Un albero che frutti più non reca,
Abbandonan gli augelli, e quello stagno

Che s’asciugò, abbandona il littorano38.
Un avvizzito fior lasciano l’api,
Lascian gli augelli un bosco incenerito;

Le cortigiane un uom che impoveria,
Abbandonano tosto, e un decaduto
Prence i ministri. Oh! veramente bada
Al suo vantaggio ognuno, e tal che sia
Vero amico di tal, non si rinviene! —


Mentre io così andava pensando, ecco che i miei servitori erano passati al servizio dei miei nemici. Vedendomi solo e impoverito, mi andavano schernendo; ma a me, standomi solo e tra la veglia e il sonno, sopravvenne una altro pensiero: Io, questa notte, andrò alla cella di cotesto falso penitente, e, come adagio adagio avrò rosicchiato il sacchetto dei denari di cui, ora, s’è fatto un guanciale, mentre egli sarà immerso nel sonno, tirerò alla mia tana il mio denaro perchè poi, con la sua potenza, io ritorni a regnare come prima: Ora, è stato detto:


D’alto lignaggio come fan le vedove,
Turba la mente sua la gente povera

Di cento voglie che non si soddisfano.

Di malanni e di dispregi
È per gli uomini cagione
La malvagia povertà.
Sol per essa dai congiunti
Quale in conto d’uom ch’è morto,
Uom ch’è vivo in conto s’ha.
È al grado estremo
D’ogni disprezzo,
È a punto tale
Che fa ribrezzo,
Bersaglio eterno
Della sventura,
Dalla miseria
Quei c’ha bruttura.
Si vergognano i congiunti
di chi spiccioli non ha,
Anche celano di lui
La consanguineità,
E chi avanti gli era amico
Suo nemico a farsi va.


È viltà della persona,
È ricetta d’ogni affanno,
È sinonimo di morte,
Povertà per quei che l’hanno.

Fugge la gente l’uomo poveretto
Come di polve il turbine si fugge
Che levò l’unghia di capre e di muli,
O come l’ombra ch’è di dietro al letto39.

Alcun che si può ancor fare
Con la creta che restò
Dopo ch’ebbesi a lavare40;
Ma in che devesi adoprare
Uom che povero restò?

Per far suoi doni
A un ricco ostello
Anche se giunge
Un poverello,
«Egli è un mendico!»
Tosto si dice.
Oh! dell’uom povero
Stato infelice!


Se, tuttavia, mentre io tento di ripigliarmi il mio avere, mi toccherà di morire, anche questa sarà cosa onorevole. Perchè è stato detto:


D’uom che vide rapirsi i beni suoi
E resta ancora in vita,


L’acqua lustral ch’egli offre, i padri suoi
Non hanno per gradita41.

E poi:


Se per i buoi,
Per i brahmini,
Per la sua donna,
Pei tolti beni,


Forte pugnando
Alcun morrà,
Avrassi in premio
L’eternità. —


Così adunque avendo divisato, entrato di notte nella cella, intanto che io aveva già fatto un gran buco nel sacchetto del monaco addormentato, ecco che quel penitente ipocrita si destò. Colpito da lui nella testa con un colpo di quel pezzo di canna, io a gran stento, perchè non era ancor destino che morissi, non caddi morto. Ora, è stato detto:


Ciò che toccar dovea,
Incoglie all’uom quaggiù;
Agli Dei d’impedirlo
Possibile non fu.


Io però non mi dolgo,
Non ho stupor di ciò.
Quello che tocca a noi,
A un altro non toccò. —


Il corvo e la testuggine domandarono: Come ciò? — Hiraniaca, allora, incominciò a raccontare:

Racconto. — C’era una volta in una citta un mercante di nome Sagaradatta. Il figlio di lui, un giorno, si prese un libro, comprandolo per cento rupie, sul quale era scritto:


Ciò che toccar dovea,
Incoglie all’uom quaggiù;
Agli Dei d’impedirlo
Possibile non fu.


Io però non mi dolgo,
Non ho stupor di ciò.
Quello che tocca a noi,
A un altro non toccò.


Sagaradatta, come l’ebbe veduto, domandò al figlio: Figlio mio, a qual prezzo hai tu comprato questo volume? - E l’altro disse: Per cento rupie babbo. — Ciò udendo, Sagaradatta disse: Tu sciocco che per cento rupie compri un volume su cui non stanno scritti che alcuni pochi versi! Con questa sapienza tua come potrai far denari? Intanto, da oggi in poi, tu non devi più stare in casa mia. — Così, con rabbuffi e rimproveri, scacciò di casa. Il giovane, disperato, andato in un paese lontano, capitato ad una città, là si pose ad abitare. Dopo alcuni giorn, da uno di quei cittadini fu così domandato: Donde sei tu venuto? E che nome hai tu. — Egli allora rispose: Ciò che toccar dovea, incoglie all’uom quaggiù. Interrogato da un altro, rispose allo stesso modo; anzi, a tutti quelli che così lo domandavano, rendeva la medesima risposta onde avvenne che in quella città il suo proprio nome era pur questo: Cio-che-toccar-dovea. Intanto, la figliuola di un re, di nome Ciandravati, giovane e leggiadra di aspetto, accompagnata da una sua ancella, venne a vedere la citta in giorno di gran festa, quando, per voler del destino, le capitò sotto gli occhi un giovane principe di molto leggiadro aspetto e avvenente. Ferita a quella vista dalle saette fiorite del dio dell’amore, disse all istante alla propria ancella: O cara, i giorni della gioventù se ne vanno inutilmente e mio padre non mi fa sposa di alcuno! Tu intanto devi tare in modo che io possa stare insieme con quel giovane. — Udendo cotesto, l’ancella, venuta in gran fretta dal giovane, così gli parlò: Io son stata mandata a te da Ciandravati. Essa così ti fa dire: «Amore, con la tua vista, mi ha ridotta all’estremo. Però, se tu non vieni presto da me, io oggi morirò». — Udendo ciò, egli rispose: Se di necessità io debbo venirvi, dimmi tu con quale espediente si può entrare. — Disse allora l’ancella: Questa notte tu salirai per una robusta fune che sarà appesa alla parte più remota del palazzo. — E quegli disse: Poichè tale è il tuo divisamente, così farò. — Così avendo pattuito, l’ancella ritornò presso Ciandravati. Ma, venuta la notte, il principe andava pensando fra sé: Questa è una cosa molto illecita! Perchè è stato detto:


Quei che va dalla figlia del maestro,
Dalla donna del servo o del signore,


Dalla mogliera dell’amico suo,
Detto è quaggiù di Bramini uccisore42.


Ancora:


Opra che tristo nome ci procaccia,
Opra che ci conduce giù all’inferno,


Opra ch’esclude dal ciel sempiterno,
Opra cotal, l’uomo quaggiù non faccia. —


Quand’ebbe così pensato fra sè, egli non andò presso la principessa. Intanto, Ciò-che-toccar-dovea, nell’andar di qua e di là, avendo veduto una fune che pendeva, essendo di notte, dal piano bianco di una casa43, col cuore pieno di desiderio salì arrampicandosi. La principessa, dicendo: È lui! — tutta lieta l’onorò di lavanda, di cibo, di bevanda, di vesti e d’altro; anzi, incamminatasi con lui al letto, mentre al contatto delle membra le si arricciavano i peli per la gioia, così gli andava dicendo: O caro, al solo vederti io mi sono innamorata di te e a te mi sono data. Nessun altro fuor di te, nemmeno col pensiero, sarà marito mio. Ma perchè non mi dici nulla? — Egli allora disse: Ciò che toccar dovea, incoglie all’uom quaggiù. — A quelle parole, la principessa pensando: Oh! non è lui! — fattolo discendere dal piano bianco della casa, lo fece andar via, ed egli, venute in un tempio diroccato, si pose giù per dormire. Là dentro essendo pur capitata una guardia di città che vi aveva un appuntamento con una ragazza, la guardia vide subito colui che già vi era addormentato, e però, per amor del segreto, gli disse: Chi sei tu? — L’altro rispose: Ciò che toccar dovea, incoglie all’uom quaggiù. — Udendo cotesto, la guardia di città disse: Questo tempio è abbandonato. Però tu va in casa mia e dormi nel mio letto. — L’altro, acconsentendo, benchè malvolentieri, andò a coricarsi nel letto altrui. Ma in quel letto stava pur coricata la figlia maggiore della guardia di città, di nome Vinayavati, bella e giovane, che, innamorata di un uomo, là appunto si stava ad aspettarlo. Essa, vedendo venir colui, dicendo fra sè: Ecco qui il nostro amante! — levatasi su che era di notte e non potendo nulla vedere per l’oscurità, fattagli accoglienza con cibi, vesti e altro, e datasi a lui secondo il matrimonio gandarvico44, mentre con lui stava sul letto, così gli disse con quella bocca che pareva un fior di loto dischiuso: Ma perchè oggi non mi parli tu con confidenza? — Ed egli disse: Ciò che toccar dovea, incoglie all’uom quaggiù. — Ciò udendo, quella pensò: Poichè s’è fatta un’opera inconsiderata, ecco che ora se ne matura il frutto. — Così avendo riflettuto, dopo che, molto conturbata, l’ebbe rimproverato assai, lo cacciò fuori. Intanto ch’egli andava per diversi chiassi, ecco che sopraggiunse uno sposo di nome Varachirti, abitante di altro paese, accompagnato da gran frastuono di musica, e Ciò-che-toccar-dovea prese ad andargli dietro. Quando poi, venuto il momento segnato dagli astrologi, la figlia d’un mercante, ornata di amuleti e col cinto nuziale, sulla porta di casa presso la via principale della città, già si teneva accanto all’altare coperto di fiori e di fronde, ecco che irruppe in quel luogo, dopo che aveva ucciso il custode, un elefante furioso che tutto mandò a soqquadro, nello scompiglio della gente che fuggiva. Anche quelli che accompagnavano lo sposo, come l’ebbero veduto, fuggiva. Anche quelli che accompagnavano lo sposo, come l’ebbero veduto, fuggirono da tutte le parti insieme allo sposo impaurito. Allora, Ciò-che-toccar-dovea, vedendo abbandonata la fanciulla che aveva gli occhi spalancati per il terrore, dicendole: Non temere! io ti difendo, — con molto coraggio la rassicurò, afferrandola con molta fermezza per la mano destra, e con aspra voce rimproverando l’elefante. Andato via per buona sorte l’elefante, Varachirti, benchè fosse passato il momento segnato dagli astrologi, ritornò coi parenti e cogli amici, mentre là si stava la sua sposa presa per la mano da un altro. Vedendo cotesto, Varachirti disse: Suocero mio, tu mi fai oltraggio dandomi una ragazza ch’è già stata data ad un altro. — Anch’io, rispose, venni con voi nel fuggire per timore dell’elefante nè intendo nulla di tutto ciò. — Così avendo risposto, egli incominciò a interrogar la fanciulla: O cara, tu non hai fatto bene! Dimmi intanto che sia tutta questa faccenda. — E la fanciulla disse: Poichè io, in gran pericolo di vita, sono stata salvata da costui, così, finchè io vivo, nessun altro fuor di lui avrà la mia mano di sposa. — Intanto, fra questi avvenimenti, la notte passò. Alla mattina, radunatasi molta folla, la figlia del re, avendo udito di quel caso strano, si recò sul luogo. Anche la figlia della guardia di città vi accorse, avendo risaputo tutto ciò per il racconto andato di bocca in bocca45, e il re, avendo inteso che là gran folla si era radunata, v’andò pure in persona. Allora, egli parlò così a Ciò-che-toccar-dovea: Raccontami tu senza alcun timore ciò che è avvenuto. — Perchè egli disse: Ciò che toccar dovea, incoglie all’uom quaggiù. — La figlia del re allora, ricordandosene, soggiunge: Agli Dei d’impedirlo possibile non fu. — E la figlia della guardia di città: Io però non mi dolgo, non ho stupor di ciò. — E la figlia del mercante, avendo udito tutta questa faccenda, disse: Quello che tocca a noi, a un altro non toccò. — Il re allora, avendo dato sicurezza a tutti, venuto a conoscenza di questo avvenimento in ogni sua parte e informato della verità, a Ciò-che-toccar-dovea diede con molto onore la sua figlia insieme a un migliaio di villaggi, con ornamenti e con sèguito, e gli disse: Tu sei mio figlio! — poi, col consenso della città, lo consacrò suo successore nel regno. Anche la guardia di città diede a Ciò-che-toccar-dovea la figlia sua facendole onore, secondo il poter suo, con doni di vesti e altro. E Ciò-che-toccar-dovea, fatti venire in quella città, preceduti da molto onore, il padre e la madre con tutta la loro famiglia, con la famiglia sua egli pure rimase ad abitarvi felicemente godendovi d’ogni sorta di beni. Perciò io dico:


Ciò che toccar dovea,
Incoglie all’uom quaggiù;
Agli Dei d’impedirlo
Possibile non fu.


Io però non mi dolgo,
Non ho stupor di ciò;
Quello che tocca a noi,
A un altro non toccò. —


Hiraniaca continuò a dire: Avendo avuto adunque da sopportare tutto questo male e tutto questo bene, venuto in grande turbamento d’animo, da questo amico mio mi son fatto condurre presso di te. Ecco la cagione della mia disperazione. — Mantaraca disse: Indubbiamente è costui tuo amico, il quale, pure essendo tormentato dalla fame, mentre tu sei il suo nemico e acconcio ad essere divorato da lui, ti ha qui menato dopo averti fatto montare sulla schiena, nè ti ha divorato lungo la via. Ora, è stato detto:


Credasi amico
Veracemente
Quei che negli agi
Non muta mente
E di ogni tempo
E in ogni età
Verace amico
Veder si fa.


Indubitabil prova degli amici
Dicono i sapïenti esser quaggiù

In certi segni, come ha segni certi
La fiamma che sull’ara accesa fu.

È amico vero quei che resta amico
Anche in tempo che tocca la sventura;

Perchè nel tempo di lieta ventura
Amico ci si mostra anche il nemico.


Oggi, intanto, io acquisto fiducia nel riguardo di costui, perchè, veramente, l’amicizia di animali che vivono nell’acqua, con i corvi carnivori, sarebbe vietata dalle regole della sapienza. Però si suol dire giustamente:


Non è costui d’un altro amico sempre
E non sempre nemico. Ove amicizia


Per caso cessi, vedesi d’un tratto
In nemico voltarsi il nostro amico.


Intanto, sii tu il benvenuto. Come in casa tua, rimani qui sulla sponda del lago. Perchè poi tu abbi perduto l’avere e debba stare in paese straniero, di ciò, finchè stai qui, non devi addolorarti. Ora, è stato detto:


Ombre di nubi son veracemente
L’affetto degli stolti, il cotto cibo,


Le donne, i beni e gli anni giovanili
Che anche troppo si godon brevemente.


Perciò i saggi, che sanno frenarsi, non hanno desiderio di ricchezze. Perchè è stato detto:


Di ricchezza ben raccolta
Tutto il corso della vita,
Ben guardata e in nessun tempo
Da sè lungi dipartita,


A colui che a Yama va46,
Oh! ingratissima ricchezza!
Niuna parte mai si dà.


Ancora:


Come in cielo dagli augelli
E dai pesci giù nel mare,
E qui in terra dalle fiere


Suolsi l’esca divorare,
Così quei che ricchi sono,
Ciascun muove ad assaltare.


E poi:


Delitti e peccati
Ai ricchi innocenti
Appioppano i re;
Ma illesi dovunque,
Sen van gl’ingredienti47.
In procacciare ricchezza è gran disagio;
Disagio in custodirle procacciate,


Disagio allor che vengono,
Disagio allor che sfumano.
Oh! ree dovizie a stento conservate!

Redenzïon di sè quei che desìa,
Redenzïon di sè toccar potrìa

Sol che volesse prendersi una briga
Di cento e cento in che sè stessa intriga
La gente sciocca che arricchir desìa.


Con questo, non devi disperarti abitando in paese straniero. Perchè è stato detto:


Di terra natia,
Di terra straniera,
Per l’uom ch’è assennato
Chi ha mai favellato?
Col vigor del braccio
Di terra in ch’ei va,
Conquisto si fa.
Con denti per armi


Con unghie e con coda,
In qualunque selva
Leone s’inselva,
Di forti elefanti
Che al suolo abbattè,
L’ardor della sete
Col sangue spegnè.


Poi, chi è saggio, anche se povero, anche se abita in terra straniera, in nessun modo può perire. Ora, è stato detto:


Sapïenza e di principi potesta
Fra lor non sono eguali veramente.


Solo in sua terra onore al re si presta,
Onorasi dovunque il sapïente.


E chi è tesoro di sapienza non è punto eguale all’uomo volgare. Perchè:


Da chi ha vigor dell’anima,
Da chi non fa lungaggini,
E del far sa le regole,
Nelle disgrazie stabile,


Che sa il da farsi, energico,
Fortuna suole andare
Per aver da alloggiare.


Con questo, la ricchezza acquistata, anche quando è acquistata con l’opere, si può perdere. Quel tesoro fu tuo per alquanti giorni. In un momento, non essendo tuo proprio, non ti si lascia godere. Fattosi tuo, la fortuna te lo porta via. Perchè è stato detto:


Chi ricchezze guadagnò
Nulla nulla ne godè


Come in sua stoltizia fe’
Somilaca a una selva allor che andò. —

Hiraniaca disse: Come ciò? — E Mantaraca incominciò a raccontare:

Racconto. — Abitava una volta in un certo paese un tessitore di nome Somilaca il quale fabbricava vesti regali di maniere diverse, adorne di bellissimi ornamenti, ma non poteva ricavarne tanto denaro che gli bastasse oltre il mangiare e il vestirsi, mentre gli altri tessitori suoi eguali, con l’abilità del fabbricar vesti grossolane, erano giunti a grande ricchezza. Così vedendoli, Somilaca disse un giorno a sua moglie: Guarda, o cara, cotesti tessitori di vesti grossolane che son pieni d’oro e di ricchezze! Oh! non si può tollerare di stare in questo luogo! Andiamo altrove per far qualche guadagno. — La donna disse: Questo, o carissimo, è un ragionamento falso, cioè che chi va altrove guadagni ricchezze e non ne guadagni stando al suo paese. Perchè è stato detto:


Agli augei fu data questa
Lor peculïar potesta,
Perchè volino per l’aria,


Perchè volin presso terra.
Ma se nulla non si dà48,
Niun di nulla nulla fa.


E poi:


Ciò ch’esser non dovea, mai non avvenne
Senza affanno s’ottenne Ciò ch’essere dovea. Perchè destino

Era che mai non fosse, andò perduto
Quel che già in nostra mano era venuto.

Come un vitello trova la sua madre
Anche in mezzo a un migliaio di giovenche,

Così l’opra commessa in altra vita
Sempre in questa rinvien quei che la fece.


Ovvero:


Con lui si corca,
S’egli si corca,
L’opera antica49;
Con lui sen va,


S’egli sen va,
E alle sue spalle
Sempre si sta.


E ancora:


Come sempre un sol confine
Luce ed ombra hanno fra lor,


Così avvien che sian vicine
Copre tutte al loro autor.


Perciò tu stattene qui tutto intento alle tue faccende. — Il tessitore disse: O cara, tu non hai detto bene. Senza molta attenzione le opere non dànno frutto. Perchè è stato detto:


Come far non si può scoppio di mano
Con una mano sola,


Che frutti un’opra senza studio e cura,
Non si può far parola.


E poi:


Ve’ che quel cibo che t’invia la sorte
Al tempo del mangiare,


In bocca non può entrare
Senza che cura la tua man vi porte.


Di più:


Non col desio, ma con la cura, l’opere
Tutte dell’uom riescono.


Ad un leon che addormesi
In bocca le gazzelle oh! mai non entrano.

E ancora:


Se non riesce
Opra di tale
Che pur v’adusa
Tutta virtù,


Biasmo non merta,
Chè suol la sorte
Ogni più ardito
Frenar quaggiù.


Perciò mi è forza andare in paese straniero. — Così avendo divisato, se ne venne alla città di Vardamana. Dimoratovi per tre anni e fattovi un guadagno di trecento monete d’oro, pensò di ritornare a casa; ma a metà del viaggio, andando egli per una foresta, ecco che il sole venne a tramontare. Intanto, mentre per timore delle bestie feroci era montato sui rami d’un grosso albero di fico e già s’addormentava, egli udì nel sonno e nella notte due uomini di spaventoso aspetto che parlavano fra loro. E uno di essi diceva: O Facitore, tu sai bene che cotesto Somilaca non deve avere altra fortuna oltre quella delle vesti e del mantenimento. Perciò tu non dovevi dargli nulla. Perchè dunque gli hai dato trecento monete d’oro? — L’altro disse: O Destino, io devo dar per forza ai diligenti un premio conforme alla loro diligenza. Ciò che poi ne deve provenire, tutto dipende da te, e tu gliele puoi togliere. — Il tessitore che aveva udito tutto questo, si destò, guardò nel sacchetto delle monete d’oro e lo trovò vuoto. Allora, come rimproverandosi, pensò: Oh! che è mai ciò? Dov’è andata la ricchezza mia procacciata con tanta fatica? Tutto questo mio stento è stato inutile. Come potrò io mostrar la faccia a mia moglie e ai miei amici? — Così avendo pensato, ritornò alla città di Vardamana. Là, come ebbe, nello spazio di un anno, fatto il guadagno di cinquecento monete d’oro, di nuovo s’incamminò per ritornare al suo paese. Quando egli giunse a metà del viaggio, trovatosi di nuovo in mezzo alla foresta, il beato sole venne a tramontare. Ma egli, benchè molto stanco, per timore di perdere le monete d’oro non volle riposarsi, anzi velocemente camminava preso dal desiderio della sua casa. Allora egli udì due uomini di tristo aspetto, simili a quei di prima, che gli camminavano alle spalle e parlavano fra loro. E uno d’essi diceva: O Facitore, perchè mai hai tu dato a cotesto Somilaca cinquecento monete d’oro? E non sai tu ch’egli non può aver nulla oltre le vesti e il mantenimento? — E l’altro diceva: O Destino, per forza io devo dare agli uomini laboriosi. Ma ciò che ne deve provenire, dipende da te. Perchè dunque mi fai questo rimprovero? — Avendo udito ciò, Somilaca guardò nel sacchetto, ed ecco che le monete d’oro non c’erano più. Perchè egli, molto addolorato e gridando: Aimè! son rovinato! — venuto in disperazione grande, così si pose a pensare: A che devo vivere io, derubato come sono d’ogni mio avere? Ora io mi toglierò la vita appiccandomi a quest’albero di fico. — Così avendo divisato, fattasi una corda con certe erbe e fattone un laccio al collo, montò sopra uno dei rami. Ma, intanto che egli s’appendeva a quella per il collo nell’atto di uccidersi, ecco che un uomo, che stava nell’aria, così gli disse: Oh! oh! Somilaca, non fare questa violenza! Io son colui che t’ha rubato i denari, nè io posso concederti un sol quattrino oltre la spesa delle vesti e del mantenimento. Però, torna a casa tua. Del resto, io son contento di questa tua fermezza, e tu devi domandarmi un dono, quale più ti sia gradito, — Somilaca disse: Se così è, dammi tu gran ricchezza. — Ma l’altro disse: E che vuoi tu fare d’una ricchezza di cui non t’è dato di godere? Tu non puoi goder nulla oltre le vesti e il mantenimento. Però è stato detto:

Che far della ricchezza ch’è simile
In tutto a donna? qual d’una sgualdrina,
Ne gode ogn’uom che passa per la via! —


Somilaca disse: Oh! anche se non c’è modo di goder della ricchezza, venga quella ricchezza! Perchè è stato detto:


Ben che abietto e ben che ignobile,
Dagli onesti abbandonato,


L’uom quaggiù da tutti onorasi
Che ha molt’oro accumulato.


E poi:


Se cadono o non cadono,
Se duri sono o flaccidi,


Intanto ch’io guardavali,
Anni passaron quindici. —

L’uomo disse: Come ciò? — E l’altro rispose:

Racconto. — Abitava già in un certo paese un gran toro di nome Tixnavrisana, il quale, per soverchio ardore, abbandonata la mandra, andava attorno per le selve sconvolgendo con le corna le zolle lungo le sponde del fiume e cibandosi a suo piacere delle punte delle erbe verdi come lo smeraldo. Ora, là in quella selva, abitava anche uno sciacallo di nome Pralobaca, il quale un giorno, con la sua femmina, se ne stava piacevolmente seduto in una isoletta del fiume; ed ecco che, in quel tempo, per bere alla corrente, discese a quell’isoletta il toro Tixnavrisana. La femmina allora, come vide pendere i testicoli al toro, disse allo sciacallo: Signore, vedi come a quel toro pendono due brandelli di carne! Essi, fra una o due ore, gli cadranno, e però tu, sapendo ciò, devi andargli dietro. — Lo sciacallo disse: O cara, non si può sapere quando mai cadranno o non cadranno. Perchè dunque mi vuoi addossare una inutile fatica? Finchè io sto qui, io mi mangio con te di questi topi che vengono a ber dell’acqua, poichè questa è la loro via. Ma se io ti abbandono e vo dietro a quel toro, qualcun altro, venendo qui, occuperà questo posto, e però ciò non s’ha da fare. Perchè è stato detto:


A chi lascia cosa certa
Per cercarsi cose incerte,


Sfuman tutte cose certe,
Via van tutte cose incerte. —


La femmina dello sciacallo disse: Oh! sei bene un dappoco, tu, che ti contenti di quel poco che hai avuto! Perchè è stato detto:


Agevolmente
Picciol ruscello
Colmar si può;
Agevolmente
D’un toperello
La zampa breve


Empir si può;
Agevolmente
Un uom dappoco
Pago si fa,
Anche per poco
Lieto ei sen va.

Perciò un uomo di valore deve esser sempre in gran faccende. Perchè è stato detto:


Dove un’opra s’incominci
Con vigore ed energia
E si lasci ogni pigrizia
E prudenza aggiunta sia
A coraggio ed a virtù,
La più bella e lieta sorte
Via di là non parte più.
D’esser sollecito


Nessun dimentichi,
La colpa dandone
Al destin fatuo,
Chè non si possono
Da gran di sesami
Olii giù spremere
Senza che adoprisi
Cura sollecita.


Ancora:


La gente stolida
Che il core acqueta
Per poco assai
Nè tocca mai
Fortuna lieta,


Anche di quella
Felicità
Che le fu data,
Orba sen va.


Per quello poi che vai dicendo: Cadranno o non cadranno? —, anche cotesto non è bene a proposito. Perchè è stato detto:


Lodasi tal che ha fermo il suo proposito,
Ed esaltasi quei ch’è di gran mente;


Indra a un povero auge! ch’è detto il Ciàtaca,
Stille reca di pioggia, compiacente50.

Del resto, io ormai ho in gran fastidio la carne di topo. Quei due pezzi di carne mostrano che son vicini a cadere. Perciò tu devi in tutto far così e non diversamente. — Lo sciacallo allora, avendo inteso cotesto, abbandonando il luogo dove soleva cacciare i topi, andò dietro a Tixnavrisana. Ora, egregiamente si suol dire:

Di tutte l’opre sue vero padrone
È l’uom quaggiù, finchè non lo governa
Del parlar delle donne il pungiglione.


E poi:


Crede lecito l’illecito,
Accessibil l’inaccesso,
Quello crede sia mangiabile


Che mangiar non è concesso,
Delle donne al cicalar
Chi si lascia abbindolar.


Così adunque, mentre egli con la sua femmina andava dietro al loro, vide passar molto tempo, nè quei due lembi di carne caddero mai. Al quindicesimo anno, lo sciacallo, pieno di stizza, così disse alla femmina:


Se cadono o non cadono,
Se duri sono o flaccidi,


Intanto ch’io guardavali,
Anni passaron quindici.


Nè cadranno mai in avvenire. Ritorniamo adunque al passaggio dei topi! — Perciò io dico:


Se cadono o non cadono,
Se duri sono o flaccidi,


Intanto ch’io guardavali,
Anni passaron quindici.

Ora, perchè ogni uomo ricco è veduto di buon occhio, tu dammi ricchezze grandi. — L’uomo disse: Se così è, tu renditi ancora alla città di Vardamana. Abitano là due figliuoli di mercanti; uno è detto Guptadana, l’altro Upabuctadana51. Come tu avrai conosciuto l’intima natura dell’uno e dell’altro, d’uno di essi farai la scelta. Se ti gioverà ritenere nascoste le ricchezze e non goderne punto, io farò di te un Guptadana; se poi ti piacerà goder delle ricchezze concesse, io farò di te un Upabuctadana. Così avendo detto, sparì, e Somilaca, con l’animo pieno di stupore, se ne ritornò alla città di Vardamana. Giunto in città tutto stanco al momento del crepuscolo vespertino, domandando della casa di Guptadana e ritrovatala a stento, v’entrò quando il sole era già tramontato; ma come vi fu giunto, fu accolto con rabbuffi, per non poterne a meno, da esso Guptadana, dalla moglie e dai figli. Al momento poi della cena, gli fu dato alcun che da mangiare ma senza cordialità. Come ebbe mangiato, quando fu andato a letto, intanto ch’egli di notte guardava, ecco che quei due uomini si consultavano così fra loro. E uno allora diceva: O Facitore, perchè hai dato tu a cotesto Guptadana soverchio avere? Ora egli ha dato da mangiare a Somilaca. Oh! tu non hai fatto bene! — E l’altro diceva: O Destino,

io non ho colpa alcuna in ciò. Io devo sempre concedere che alcun uomo sollecito tocchi guadagno. Ma ciò che ne deve provenire, dipende alla sua volta da te. — Quando Somilaca si levò, Guptadana, in un momento, tormentato da una malattia d’intestini, fu oppresso dal male, onde per due giorni, inforza del gran male, dovette starsene digiuno. Ma Somilaca quella mattina stessa, uscito da quella casa, se n’andò alla casa di Upabuctadana dove egli, onorato da lui con l’andargli incontro e con altri segni defletto, provveduto di buon cibo e di vestimenta, dormì in un letto bellissimo. Anche là, guardando egli di notte, ecco che quei due uomini si consultavano fra loro. E uno diceva: O Facitore, cotesto Upabuctadana, nel dare ospitalità a Somilaca, ha fatto oggi una gran spesa. Come dunque avrà modo di poterla sostenere? perchè tutta questa roba egli ha presa da una casa di prestito! — L’altro diceva: O Destino, io ho fatto cotesto, ma ciò che ne deve provenire, dipende da te. — Alla mattina, un famigliare del re, presa una gran somma di denaro, segno del regal favore, capitò di un tratto e tutta la consegnò ad Upabuctadana. Allora, avendo veduto ciò, Somilaca pensò: Oh! davvero che io preferisco Upabuctadana, benchè lasci andar via l’avere, a quello spilorcio di Guptadana! Perchè è stato detto:


Fuoco sacrificai, frutto dei Vedi;
Frutto di donna, figliuoli e piacere;


Condotta egregia, frutto di dottrina;
Goder dei beni, frutto dell’avere.


Perciò il Creatore santo faccia di me un tale che gode delle sue ricchezze, chè io non so che farmi dell’essere tale che le ritiene! — Udendo questo, il Facitore e il Destino, resolo simile ad Upabuctadana, sparirono. Perciò io dico:


Chi ricchezze guadagnò
Nulla nulla ne godè


Come in sua stoltizia fe’
Somilaca a una selva allor che andò.


Perciò, o caro Hiraniaca, pensando a tutto ciò, non devi dolerti delle tue ricchezze, perchè ricchezza che si ha e non si può godere, si deve reputare come ricchezza che non si ha. Ora è stato detto:


Se son ricchi quei che in casa
Seppellito hanno un tesor,


Perchè mai ricchi non siamo
Anche noi di quel tesor?


E poi:


Di ricchezze guadagnate
Uso sano è il largheggiar;


Acque in stagni ragunate
Vanno i campi ad irrigar.


Ancora:


Goder si dee,
Si dee donar,
Ma nessun cumulo
D’oro o d’argento
Si dee levar.


Vedi che all’api
Che mucchi fanno
Di miei dolcissimo,
Altri poi vanno
Tutto a rubar.


E poi:


Darne, goderne, perderla,
Tre vie della ricchezza;


Va per la terza allora
Che non ne godi e non ne fai larghezza.


Così pensando, nessun uomo che abbia senno, non deve far guadagni per cupidigia, perchè tutto ciò è cagione di sfortuna. Ed è stato detto:


Gli stolidi che cercano
Quaggiù felicità
Nella ricchezza o in altre
Simili vanità,


Son come quei che accostansi,
Dell’està nel calor,
Per rinfrescarsi un poco
D’una vampa all’ardor.


Perciò, ogni uomo saggio deve contentarsi di ciò che ha. Perchè è stato detto:


Cibansi d’aere,
E non son deboli,
Serpenti e vipere;
Lionfanti mangiano
Di pagliuzze aride
E son fortissimi;
Con frutti e radiche
La vita passano
I casti monaci;
Ma un tesor splendido
Per tutti gli uomini
È un gaudio massimo.


Felicità di quei che, in cor tranquillo,
Ciba l’ambrosia d’esser sempre pago52,

Non è di tal che, d’arricchir voglioso,
Corre di qua di là ramingo e vago.

Chi come il nettare
Bee contentezza53
Ha tutto il vivere
In allegrezza,
Ma infelicissimi
Quei sempre stanno
Che non s’appagano
Di quello che hanno.


Di chi ha la mente
Ottenebrata,
I sensi tutti sono ottenebrati;
Quando è da nubi
Coperto il sole,
Restano i raggi suoi tutti velati.
I sapïenti dissero
Che la mente han tranquilla,
Felicità consistere
La dove alcuno toglia
Ogni brama, ogni voglia.
Non per ricchezze svellere
Si posson voglie o brame,
Nè sete si può spegnere
Da chi si sta rasente
A un focolare ardente.
Censuran cose
Incensurabili
E lodan cose
Illaüdabili
In voci altissime.


Oh! che non fanno,
Che non fan gli uomini,
A far denari
Quando si stanno?
Ricchezze disïar qual per costume
Ruoli frutto non apporta a chi desia;

Meglio lungi restar dalla lordura
Che averla con sue mani a spazzar via.

Pari al donar magnifico
Non è quaggiù dovizia;
Non v’ha nemico simile
A sordida avarizia;
Fregio non è che nobile
Alma possa uguagliar,
Nè altro è tesor, del proprio
Se alcun si può appagar.
Di povertà non è più tristo aspetto
Di quando scemi d’alcuno l’onore;

Siva, che altro non ha che un vecchio bue,
Di tutti i numi è pur sempre il signore54.


A che dunque ti vai tu tanto affliggendo?


Cade una volta
Saggio che falla,
Come da giuoco
Cade una palla;


Cade uno stolido
E giù stramazza
Come di mota
Lurida guazza.


Così adunque pensando, o caro, devi appagarti del tuo stato. — Il corvo, come ebbe udito il discorso di Mantaraca, disse: O caro, ciò che Mantaraca ha detto, tu devi tenere a mente. Intanto, giustamente si suol dire:


Agevolmente, o re, gente si trova
Che ognor favella di cose piacenti;

Parlatore o uditor non si ritrova
Di spiacevoli cose, anche se urgenti.

Quei che favellano
Cose spiacevoli,


Ma giuste e proprie,
Amici diconsi
Veracemente;
Gli altri, al contrario,
D’amici il nome
Han solamente. —


Intanto ch’essi parlavano così fra loro, una gazzella di nome Citranga, spaventata dai cacciatori, capitò presso quello stagno. Vedendola venir tutta turbata, Lagupatanaca sali sopra un albero, Hiraniaca si cacciò in un canneto e Mantaraca si gettò nell’acqua; ma Lagupatanaca, quand’ebbe riconosciuto che quella era un gazzella, disse a Mantaraca: Vieni, vieni, amico Mantaraca! E una gazzella che, arsa dalla sete, è venuta allo stagno! È lei che gridava, non già alcun uomo. — Udendo cotesto, Mantaraca così parlò molto a proposito per il tempo e per il luogo: O Lagupatanaca, dal modo con cui si mostra cotesta gazzella, soffiando forte, avendo occhi spaventati, guardandosi dietro, s’intende che essa non è arsa dalla sete, ma sì che è spaventata dai cacciatori. Perciò veggasi se le vengon dietro, o non vengono, i cacciatori. Ora, è stato detto:


Uom che è preso da spavento
Grosso e trepido ha il respiro,


Qua e là guarda e in nessun loco
Trova incolume il ritiro. —


Udendo cotesto, Citranga disse: O Mantaraca, tu hai ben riconosciuto la cagione del mio spavento! Io, sfuggita ai colpi delle saette dei cacciatori, a gran stento son qui venuta. La mia schiera intanto sarà stata tutta uccisa dai cacciatori. Mostrami tu, poichè son io venuta alla tua protezione, alcun luogo che sia inaccessibile a quei scellerati. — Ciò udendo, Mantaraca disse: Si ascolti, o Citranga, la regola del ben vivere. Perchè è stato detto:


Dei nemici all’apparire,
Due son modi consigliati
Da lor possa per fuggire.


Di menar per ben le mani
È l’un d’essi, e l’altro sta
Dei piè in la velocità.


Perciò, vadasi prestamente nella selva più densa acciocchè, almeno per oggi, non ci raggiungano quegli scellerati di cacciatori. Intanto, Lagupatanaca, sopravvenendo in gran fretta, gridò: O Mantaraca, i cacciatori, portando con sè molta carne di selvaggina, sono andati a casa; e tu, o Citranga, esci senza sospetto dallo stagno. — Così questi quattro, fatta insieme amicizia, presso lo stagno, al tempo del mezzogiorno godendo del raccontarsi delle storielle sotto l’ombra di un albero, passavano allegramente il tempo. Intanto, giustamente si suol dire:


Godendo del piacere
Del favellar ornato,
Mentre ogni pel del corpo
Pel gaudio s’è arricciato,
Anche di amanti donne
Senza la compagnia,


Possono avere i saggi
Sollazzo ed allegria.
Chi tesoro non raccoglie
D’eloquenza eletta e adorna,
Qual mai dono porterà,
D’eloquenza nella festa
S’egli a caso interverrà?


E poi:


Chi non raccoglie
Un bel parlare,
O di sua testa
Noi sa formare,
O nella mente


Un ripostiglio
Non ha che il tenga,
Dirsi qualmente
Potrà eloquente?


Ma un giorno, al tempo del radunarsi, Citranga non venne. Allora i tre, turbati dell’animo, così incominciarono a parlar fra loro: Oh! come mai quest’oggi non è venuta l’amica? Forse che è stata uccisa da un leone o da qualche altro animale? O forse anche da cacciatori? O forse è capitata nell’incendio di qualche selva? O forse in qualche aspro burrone trattavi dalla voglia dell’erba tenera e nuova? — Intanto, giustamente si suol dire:


Anche quando di sua casa
Nel giardino ei si diporta,
Che all’amico tocchi danno
Teme ognun che amor gli porta.


Ma se dentro a spaventosa
Selva piena di sventura
Ei talor s’aggirerà,
Quanto più si temerà!


Mantaraca, allora, disse al corvo: O Lagupatanaca, poichè noi due, io e Hiraniaca, non possiamo per la nostra lentezza andare in cerca di Citranga, va tu ad esplorar la selva se mai in alcun luogo potrai trovarla viva. — Udendo ciò, Lagupatanaca non era andato molto lontano dallo stagno quando trovò Citranga starsi là costretta da un laccio traditore. Vedendola in quello stato, con animo turbato dal dolore, le disse: O cara, che è ciò? — Ma Citranga, vedendo il corvo, se ne stava tutta contristata. Ed era giusto, perchè è stato detto:


Anche se allenta,
Anche se cessa,
Avvien che senta
Più forte il male


Quando alla vista
Gli si appresenta
Persona amica,
Ogni mortale.


Ma poi, cessato il lagrimare, disse a Lagupatanaca: Antico, ecco qui la morte mia! Eppure è ancora buona fortuna per me l’aver potuto rivederli. Perchè è stato detto:


Quando è giunto l’istante del morire,
A chi sorvive e a chi morir dovrà


Alcun sollazzo, alcun conforto dà,
Se qualche amico vedesi apparire.


Però mi si perdoni da te se mai, quando ci adunavamo a conversare insieme, io t’ho detto alcuna cosa con animo iroso. Ciò stesso tu dirai ancora per me a Hiraniaca e a Mantaraca. Perchè è stato detto:

Se conscio o inconscio alcun pungente detto.
Io v’ho rivolto, deh! mi perdonate,
Core assumendo di sincero affetto! —


Udendo ciò, Lagupatanaca disse: O cara, non temere da che tu hai amici come noi. Io ora, prendendo con me Hiraniaca, verrò sollecitamente. Gli uomini di valore non sbigottiscono mai nella sventura. — Così avendo detto, Lagupatanaca, come ebbe confortato Citranga, tornato là dove si stavano Hiraniaca e Mantaraca, raccontò loro tutto quanto il fatto di Citranga caduta nei lacci; anzi, fattosi montar sul dorso Hiraniaca che già aveva pensato a liberar dai lacci Citranga, se ne ritornò presso di lei. La quale, come ebbe veduto il topo, confortata da qualche speranza di vita, pur con qualche turbamento, disse: O amico, quanto giustamente si suol dire:


I saggi che riparo
Vòn fare alla sventura,
D’aver sinceri amici
Abbiano molta cura.


A nessun tristo caso
Riparo mai non fa
Chi senza amici in terra
A vivere si sta. —


Hiraniaca disse: Poichè tu sei, amica mia, tanto versata nella dottrina del ben vivere, come mai sei tu caduta in questo tradimento? — Citranga disse: Oh! non è questo il tempo di disputare! Piuttosto, prima che sopraggiunga quel malvagio di cacciatore, rompimi tu prontamente, rodendoli, questi lacci ai miei piedi. — Udendo cotesto, Hiraniaca rispose sorridendo: Amico mio, a che, essendo io qui venuto, temi tu ancora del cacciatore? Io intanto ho un gran sbalordimento in me al riguardo di questa dottrina del vivere, cioè come mai i pari tuoi, che pur la sanno, vengano a questa condizione. Perciò io te ne domando conto. E l’altra disse: Amico, anche la sapienza si lascia vincere dal destino, perchè è stato detto:


Quella parola
Che sulla fronte
Del Creatore
La man segnò,


Niun sapïente
Cancellar può,
Tutta scienza
S’anche v’usò. —


Mentre essi così parlavano fra loro, ecco adagio adagio venir fin là Mantaraca tutto turbato nell’animo per la disgrazia dell’amica. Vedendolo venire, Lagupatanaca disse: Oh! cotesto non va bene! — Hiraniaca disse: E che? Viene forse il cacciatore? — Disse il corvo: Lasciamo stare la faccenda del cacciatore! Viene Mantaraca, e questo è un errore contro la regola del ben vivere. Per colpa sua noi tutti ora andiamo ad essere ammazzati, perchè, se quello scellerato di cacciatore sopravviene, io me ne volerò per aria, tu ti salverai cacciandoti in una tana, Citranga fuggirà nella selva con tutta prestezza; ma costui che vive nell’acqua, che farà qui? Perciò appunto io sono turbato. — In quel momento arrivò Mantaraca, e Hiraniaca disse: O caro, tu non hai fatto bene venendo qui. Però, ritorna indietro sollecitamente mentre non viene ancora il cacciatore. — Disse Mantaraca: Amico, che devo fare? Standomi là, io non poteva sopportare il dolor cocente della disgrazia dell’amico, e però io son venuto qui. Ora, giustamente si suol dire:


Esser lontano dalla donna amata,
Orbo andar di ricchezza radunata,

Chi tollerar potrà

Se procacciar non sa
D’accontarsi con chi l’ama di cuore,
Solo rimedio dell’alma al dolore?


E ancora:


Meglio lasciar la vita
Che da un tuo pari vivere lontano;

Quella, restituita

M’è in altro nascimento55; i pari tuoi,
Io cercherolli invano. —


Intanto che così parlava, ecco venire il cacciatore con le saette in pugno. Il topo allora, come l’ebbe veduto, rosicchiò in un momento i lacci di corda di Citranga, perchè Citranga, sùbito, cominciò a correr via con tutta prestezza. Lagupatanaca salì sopra un albero e Hiraniaca si cacciò dentro una tana là vicina. Allora il cacciatore che erasi turbato dell’animo per la perdita della preda, essendosi inutilmente affaticato, quando vide Mantaraca che adagio adagio si strascinava sul suolo, pensò: Se il Creatore m’ha portato via la gazzella, mi ha mandato tuttavia questa testuggine per mio sostentamento. Con la sua carne ci sarà oggi da dar da mangiare alla mia famiglia. Perchè è stato detto:


Non si ottien se non è dato
Ciò che l’aria scorre a voi,


Ciò che va per l’ampia terra,
Ciò che striscia sopra il suol. —


Così avendo divisato, legatala attorno con corde d’erba e sospesala all’arco, se la recò in collo e s’incamminò verso casa. Allora, vedendosela menar via così, Hiraniaca tutto addolorato cominciò a lamentarsi: Oh! sventura, sventura!


D’un gran malanno
Son giunto appena
Fine a toccar
Come la riva
D’un vasto mar,
Che altro malanno
Mi sopraggiunge.
Ahimè! che assai


In ogni buco56
Si stanno guai!
Fin che inciampo non incontra,
Per via piana

La fortuna innanzi vien;
Ma se inciampo alcun la tocca,
La sventura
Con piè rapido sorvien.


E che?


Difficili a trovare
Arco, mogliere, amico,
Che, buoni, onesti, schietti,
Non sappiati sbigottir
Quando alcun gran malanno
Ci viene ad assalir.


Tanta non hanno gli uomini
Fiducia in madri e spose,
In figliuoli o in fratelli
O in sorelle amorose,
Quanto in amico n’hanno
Che fido e onesto sanno.


Poichè dal destino mi è stata portata via la mia ricchezza, perchè ora mi ha tolto anche l’amico che fu il mio conforto quando er’io stanco del lungo camminare? Io ben potrò avere un altro amico, ma un amico simile a Mantaraca non l’avrò mai più. Perchè è stato detto:


Primo conforto
Nella sventura,
Scampo e rifugio
Nella sciagura
E del segreto


Fiducia interna,
Dell’amicizia
Ecco la vera
In che si sta,
Trina bontà.


Oh! dopo di lui io non avrò altro amico! Intanto, a che mai il Creatore rovescia su di me incessantemente gli strali della sventura? Da principio ebbi la perdita delle ricchezze, poi la dispersione della mia corte, poi la partenza dal mio paese, poi l’esser disgiunto dall’amico. Ma di tal natura appunto è la legge del vivere di tutti i viventi di quaggiù. Perchè è stato detto:


Al corpo la sua morte va congiunta,
Buona ventura perdesi in un’ora,


Di tutta gente che in terra dimora,
Altra va unita insieme, altra è disgiunta.

E poi:


Sempre alle antiche piaghe
Altre piaghe son porte;
Va perduto l’avere
E divampa più forte
Desìo del possedere;


Nei dì della sventura
Levansi contro gii odi.
Oh! veramente assai
In ogni buco57 i guai.


Oh! da chi mai è stato detto con tanta giustizia? che


Questa perla, il cui nome
In tre suon si comprende58,
Amico, qual ne’ giorni
Del terror ci difende


E vasello è d’amore
E di conforto al core,
Da chi fu mai prodotta? —


Ma, in quel momento, ecco giunger pur là Citranga e Lagupatanaca che altamente piangevano. Hiraniaca allore disse: Oh! perchè questo inutile lamento? Fino a che Mantaraca non sia menato lontano dalla nostra vista, si deve pensare a qualche espediente per liberarlo. Perchè è stato detto:


Chi non sa che far lamenti
Ove alcun malanno il colga,
Fa che quel malanno aumenti
E alla fine mai non volga.
Dissero i saggi
Che del ben vivere
Hanno la cura,


Solo rimedio
Alla sventura,
Perchè essa cessi,
Bene adoprarsi
E lasciar subito
Di disperarsi.


Ancora:


Per ben guardar ricchezza ch’è venuta,
Perchè abbiasi ricchezza in avvenire,

Per liberar persona ch’è caduta

In qualche gran malanno, altro rimedio
Del consigliarsi non è a suggerire. —


Ciò udendo, il corvo disse: Oh! se così è, si eseguisca un mio consiglio. Vada Citranga sulla via del cacciatore, poi, presso a un qualche stagno, si lasci cadere esanime sulla sponda. Io allora, posatomi sulla sua testa, gliela piluccherò con leggieri colpi di becco, perchè quello scellerato di cacciatore, credendola morta ai colpi del mio becco, gettato a terra Mantaraca, corra dietro alla preda. Tu allora rosicchierai i legami d’erba a Mantaraca perchè esso sollecitamente si cacci dentro allo stagno. — Citranga disse: Eccellente il consiglio che tu hai pensato! Ora si può dire che Mantaraca è libero. Perchè è stato detto:


Primo fra tutte cose
Il poter della mente
Divisa chiaramente
Qual delle tante imprese


Effetto aver potrà
E quale non l’avrà
L’uom saggio, non lo stolto,
Cotesto intende e sa.

Così adunque si faccia. — Fatto così appunto, il cacciatore vide Citranga giacersi sulla sponda d’una palude presso la strada, e su Citranga starsi il corvo. Al vederla, tutto gioioso nell’animo, così pensò: Questa povera gazzella, restata con un fil di vita per il dolore dei lacci, pure avendoli infranti, venuta a gran stento fino a questa selva, qui è morta. Intanto, poichè la testuggine è in poter mio essendo legata molto strettamente, io mi piglierò anche questa. — Così avendo divisato, deposta al suolo la testuggine, si diede a correre verso la gazzella. In quel momento, Hiraniaca spezzò con la forza dei suoi denti simili a diamante le ritorte, onde Mantaraca, strascinandosi tra le erbe, si cacciò nella palude vicina. Citranga, prima che il cacciatore giungesse, balzando in piedi dal suolo, insieme al corvo fuggì via. Il cacciatore, tutto svergognato e conturbato, si voltò allora per guardare alla testuggine, ma anche la testuggine era sparita. Sedutosi allora a terra, borbottò questi versi:


Questa pingue gazzella che venuta
Era ne’ lacci miei, tu mi togliesti;

D’un tratto la testuggne predata
Mi si perdè per cenno che ne festi.

Or io digiun vo errando per la selva
Lungi dai figli e dalla donna mia.
O sorte, ciò che ancor fatto non hai
(Pronti siamo a soffrir) fallo suvvia! —


Quand’ebbe più e più volte ripetuto queste parole, ritornò a casa sua. Allora, quando il cacciatore fu andato assai lontano, il corvo, la testuggine, la gazzella, il topo, tutti insieme, venuti in giubilo grandissimo, abbracciandosi l’un l’altro e pensandosi d’essere rinati, ritornati al loro stagno, con grande felicità passarono il tempo intrattenendosi insieme a far racconti eloquenti. Ora, ripensando a tutto cotesto, ogni persona saggia deve preoccuparsi degli amici, ma con gli amici non bisogna usar con mala fede. Perchè è stato detto:


Chi gli amici si procaccia,
Senza frode si comporti.


Sol per essi non fia mai
Che malanno alcun ne porti.

Così è finito il secondo libro del Panciatantra, opera dell’inclito Visnusarma, che ha il titolo del modo di procacciarsi gli amici.


  1. oGli altri alberi.
  2. Il dio della morte.
  3. Albero indiano.
  4. È la dottrina del Quos Deus vult perdere, Deus dementat. — Paulastia, patronimico di Ravana signore di Lanca (Ceylan), rapì Sita la moglie di Rama, e Rama fu tratto lontano di Sita nella selva da una gazzella aurea che era, invece, un seguace di Ravana, trasformato. Ciò si legge nel Ramayana. Il Mahabharata poi racconta del re Yudistira che perdette al giuoco dei dadi la moglie, i fratelli e il regno.
  5. Guasto.
  6. Qui manca un distico che l’edizione di Calcutta non ha e che poco ha da fare col contesto.
  7. Uno dei tesori di Cuvera, dio delle ricchezze, la cui qualità è quella di non soffrire che altri, fuori del suo signore, ne abbia utile alcuno.
  8. L’umore che cola dalle gote degli elefanti quando sono in amore. Vedi il libro 1°.
  9. Cioè sono sempre cose gradite come le cose nuove. Il betel si mastica consuetamente dagl’Indiani. Racconto baratide, cioè una storia dilettevole del Mahabharata.
  10. In una vita anteriore si procacciò la felicita o l’infelicità della presente.
  11. Il dragone Rahu che tenta ingoiar la luna e il sole. Così si intendono gli eclissi dagl’Indiani. Vedi il libro 1°.
  12. Cielo, terra e inferno.
  13. Cioè per salire ocn la marea.
  14. Il lasciarsi morir di fame è opera meritoria di alcuni penitenti. Perciò il corvo qui si vuole attribuir questo merito.
  15. Antico costume indiano di uccidere le mule pregnanti.
  16. L’amicizia dei malvagi è come l’ombra della prima meta del giorno che è lunga a principio e poi manca, mentre quella dei buoni è come l’ombra della seconda metà che è esile al cominciare (nel mezzogiorno) ma cresce poi verso sera.
  17. Il signore degli Dei, Indra, minacciato di pericolo da uno dei figli di Diti, la madre dei demoni, si acquistò la fede di lei, poi la tradì e spezzò nell’utero materno il suo futuro nemico.
  18. Maestro degli Dei, ecc.
  19. Qui son ricordati tre supposti scrittori di cose morali, Visnugupta o Cianachia, Vrihaspati e il Briguide, cioè Râma figlio di Brigu (Bhrigu).
  20. Cioè che non è fondata sulla natura. Vedi sopra.
  21. Offerte di cibi fatte agli Dei nei trivii, di cui i resti erano mangiati dai corvi.
  22. Cioè è partito prima.
  23. Con cui gl’indiani sogliono rinfrescarsi.
  24. Dente d’elefante conficcato nel muro che faceva da chiodo o da cavicchio.
  25. Costume indiano di andare a certi laghi o stagni sacri per fare abluzioni e preghiere.
  26. Cuvera, dio custode dei tesori e delle ricchezze sotterranee, che non dà nulla a nessuno, non è chiamato dai saggi re dei re, sì bene è detto tale il dio Siva, re dei numi, che è donator di beni e per sè è povero.
  27. Giuoco di parole nel testo. Il sanscrito dâna significa dono e anche l’umore che stilla dalle tempia dell’elefante in amore. L’elefante lo manda fuori e si consuma, ma non l’asino che resta pingue e grasso.
  28. Se pure questo passo va inteso così. Pare che qui si debba intendere una scala di corda. V. Benfey alla voce karkataka-raggiu.
  29. Altro giuoco di parole. In sanscrito mitra vuol dire sole e anche amico, e kara vuol dir viaggio e anche mano. Conforme i due ultimi significati, il passo si potrebbe anche tradurre: «Non si può guardare in viso ad un amico che (per domandar favori) tende sempre le mani».
  30. Nome di gente barbara e selvaggia.
  31. Cioè che il destino omai traeva a morte.
  32. In una vita antecedente.
  33. Perchè contaminati dall’orina.
  34. Libro di dottrina morale, di cui sarebbe autore questo Camandachi. Questo passo è tradotto secondo il testo di Calcutta. Secondo il testo del Kosegarten, Camandachi è il nome del figlio.
  35. «Il lago reca noia al pavone vecchio quando, mentre egli, dopo aver bevuto, si volge indietro per ritornare, gli bagna la bella coda. Perciò il vecchio pavone ha una ragione per tenersi lontano dal lago; il giovane pavone lo fa istintivamente». Fritze. Intanto, vuol dire il poeta che da un solo atto o moto, appena visibile, si riconosce l’intimo pensiero.
  36. Detto per ironia.
  37. Così intende anche il Benfey. Pare si tratti d’un’erba di nessun valore.
  38. L’augello littorano.
  39. Credono gl’Indiani che sia cosa di malaugurio lo star dietro ad un letto.
  40. La creta che s’adopera per pulire e lavare vasi e suppellettili.
  41. L’acqua lustrale che si offre dalle persone pie alle anime degli antenati.
  42. Cioè reputato come reo del maggior delitto, quello di avere ucciso un Bramino.
  43. La parte superiore delle case indiane dipinta di bianco.
  44. Vedi la novella del tessitore (Novella V del libro I).
  45. Il testo ha d’orecchio in orecchio.
  46. Cioè che muore. Yama dio dei morti.
  47. Ai giorni nostri non è più così.
  48. Dalla sorte o dalla natura.
  49. Opera commessa da un uomo in una vita anteriore.
  50. Si dice dagl’indiani che l’uccello Ciataca (una specie di cuculo) si cibi soltanto di stille di pioggia e che il re degli Dei, Indra, gliele appresti, appunto perchè egli non riceve altro cibo.
  51. Che ritiene il suo avere; che gode del suo avere.
  52. Pago di ciò che ha.
  53. Non è bello in italiano dire bere la contentezza, ma il testo e l’immagine vogliono così.
  54. Il dio Siva è dio molto liberale e donatore, e si contenta di un vecchio toro per cavalcatura.
  55. La dottrina indiana del rinascere dopo morte.
  56. In ogni luogo di scampo.
  57. In ogni luogo di scampo. Vedi sopra.
  58. Così, perchè la parola amico è di tre sillabe in italiano. Il testo dice due sillabe perchè la parola per dire amico, in sanscrito, è mitra.

Note

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