< Le Novelle Indiane di Visnusarma
Questo testo è completo.
Anonimo - Le Novelle Indiane di Visnusarma (Antichità)
Traduzione dal sanscrito di Italo Pizzi (1896)
Libro Primo
Proemio Libro Secondo


LIBRO PRIMO.


Ora s’incomincia il primo libro detto della scissione degli amici, e i suoi primi versi sono questi:


     L’amor grande e crescerne del leone
E del toro, abitanti alla foresta.
Per lo sciacallo andò a perdizione,
Fiera ingorda soverchio e disonesta.


Intanto così s’ode raccontare: Vi è nella regione meridionale una città di nome Mihiralopia. Là era già il figlio di un mercante, detto Vardamanaca, che s’era acquistato l’avere con giustizia. Una certa notte, mentre egli giaceva in letto, gli sorvenne questo pensiero, cioè quali mezzi, anche essendo abbondante l’avere, doveva pensarsi e adoperare per acquistar ricchezza; inquantochè è stato detto:


     Nulla si sa quaggiù che col danaro
Far non si possa, e l’uom che ha fior di senno,
Ricchezza acquista ov’ei si studi al paro.
     Amici ha chi ha ricchezze, ed ha parenti
Chi è ricco, e un nomo egli è quaggiù nel mondo;
Vive davver chi ha assai possedimenti.
     Non è scïenza e non è studio bello,
Non maestria, non arte e non dovizia,
Che ne’ ricchi non lodi il poverello.
     Quaggiù, nel mondo, è dei ricchi parente
Anche l’estrano, ma stranier si mostra
A’ poveri il congiunto, immantinente.
     Da ricchezze cresciute e accumulate
Da tutte parti vengon tutte cose,
Come da’ monti l’acque derivate.
     Si rende a chi non merita, onoranza;
Chi n’è indegno, si cerca e si saluta;
Questa delle ricchezze è la possanza.
     Come pel cibo i sensi, hanno vigore
Per la ricchezza l’opre tutte. Intanto
Ella è pur detta universal motore.
     L’avido di ricchezze, ancor vivente,
Affronta i cimiteri e va lontano.
Lasciando il padre suo s’egli è indigente.
     Detta è del trafficar l’arte lucrosa
Di tutte la miglior per far denari;
Ogn’altra per natura è dubïosa.
     Gli uomini di cui già passaron gli anni,
Giovani son pur che abbiano ricchezza;
Ma sempre è vecchio tal che ne va privo,
Anche se nel bel fior di giovinezza.


Ora l’avere degli uomini si procaccia in sei maniere, col mendicare, col servire il principe, con l’agricoltura, col guadagno per mezzo del sapere, con l’usura, col trafficare. Ma il guadagno che si fa col commercio, deve essere superiore a tutti gli altri mezzi, poichè è stato detto:


     La questua si suol far dai mendicanti,
E dona il re non quel che dovrìa dare1;
L’agricoltura è faticosa, e ingrato
Lo studio è ancor per quella sua natura
Di grave disciplina, e dall’usura
Nasce la povertà, poi che l’avere
Passato è in mano altrui. Fuor del commercio
Altro io non penso che vi sia guadagno.


Il commercio poi deve essere di sette maniere, perchè vengano le ricchezze, cioè con l’adoperar falsi pesi, col falsificare i conti, col ricever pegni, col sopravvenir di qualche compratore facoltoso, con la cooperazione dei soci, col trafficar di aromi, col menar suppellettili in altri paesi. Perchè è stato detto:


     Con misura piena o scarsa
Sempre ingannasi chi è ricco;
È faccenda di Chirati
Prezzi dir falsificati2.
     Onest’uom che ha qualche sozio,
Pensar può con alma lieta:
«Io la terra m’acquistai
Ricca e piena! e che altro mai?».
     Comprator che sia voglioso,
Come vegga un mercatante.
Giubilar cupido suole
Come per novella prole.


E poi:


     Come alcun pegno gli si lasci in casa,
Al suo santo3 il buon uom fa i voti suoi.
Crepi presto il padron4, questo egli dice,
A te poscia darò ciò che più vuoi5.
     De’ commerci il commercio è con aromi;
A che con altre merci, oro ed argento?6
Ciò che si compra con un sol denaro.
Quello si vende poi per cento e cento.


Ma questo è de’ poveri e non degno dei ricchi, e però è stato detto:


     La ricchezza è pur grande di que’ tali
Che anche da lungi con denari molti
N’acquistan altri, come al laccio colti
Son con altri elefanti altri più grossi.
     Gente avveduta in vender suppellettili,
Ita in terra straniera, arte adoprando,
Ricchezza acquista ch’è duplice e triplice.


E altrimenti:


     Chi teme codardo, — qual donna leggiera,
D’andarne, infingardo, — in terra straniera,
Cornacchia dispetta, — omuccio dappoco,
Antilope abietta, — si muore al suo loco7.


E si dice nella dottrina morale:


     È qual rana in cisterna prigioniera
Chi, non uscendo, la terra non mira

Piena di tante meraviglie sue.
Qual è pel forte
Peso opprimente?
Qual è distanza

Per l’uom fidente?
Qual terra estrana
Pel sapiente?
Qual uom straniero
Per l’eloquente?

Così adunque avendo fermato nell’animo suo, un bel giorno, tolte con sè derrate e suppellettili che andavano a Matura8, salutato dai parenti e dagli amici, partì montato sopra di un carro. Lo trasportavano, legati al timone, due suoi bellissimi tori natigli in casa, Nandaca e Sangivaca di nome. Ora, uno di essi, quello detto Sangivaca, nell’accostarsi alla sponda della Yamuna, sdrucciolando nel pantano si ruppe una gamba e si buttò giù, per cui Vardamanaca, vedendolo in quello stato, venne in grande afflizione, e però, tocco di compassione nel cuore, per tre notti sospese viaggio della carovana. Allora, vedendolo così afflitto, i suoi compagni di viaggio gli dissero: O signore, come mai, per un toro, tutta questa carovana è così da te lasciata nelle angustie in questa selva molto pericolosa e tutta piena di leoni e di tigri? Ed è stato detto:

     
Mai non perda l’uom saggio por il poco

Il molto, anzi saggezza è veramente

Là ’ve il molto conservasi col poco.

Avendo posto mente a ciò, com’ebbe deputato certi uomini alla custodia del suo Sangivaca, per amor della sicurezza della carovana partì. Ma quei custodi sapendo la selva molto pericolosa, abbandonato Sangivaca e venendo dietro all’altro giorno così dissero falsamente al condottiero della carovana: O signore, Sangivaca è morto e da noi è stato arso nel fuoco. — Ciò vedendo il condottiero della carovana, per riconoscenza dei servigi prestati, tocco nel cuore di compassione, fece tutte le cerimonie funerarie del suo toro, l’atto di sua franchigia9 e tutto il resto.

Ma Sangivaca con quel poco di forza vitale che gli restava, ristorato dai freschi venticelli che venivano dalle selve e dalle acque della Yamuna, levandosi a poco a poco, raggiunse le sponde del fiume. Allora, cibandosi delle più alte erbe verdi come smeraldi, diventato in pochi giorni come il toro di Siva10, grasso, corpulento e forte, scompigliando di giorno con le corna i formicai11, là se ne stava e muggiva. Ora, egregiamente ciò si dice:


     Ciò che non si custodisce.
Custodito è dagli Dei;
Ciò che ben si custodisce,
Va in malora per gli Dei.
Nella selva abbandonato,
Senza scorta altri si vive;
Con gran cura riguardato,
In sua casa altri non vive.


Ma poi un leone di nome Pingalaca, tormentato dalla sete, essendo disceso, circondato da tutti gli animali alla sponda della Yamuna per ber di quell’acqua, udì, così di lontano, il grave muggire di Sangivaca. Ciò avendo udito, fortemente conturbato nel cuore, coprendo con la fretta i segni del suo sgomento, si appiattò al piede d’un fico, disposti prima gli animali in quattro schiere dintorno a sè12, e disse: La disposizione dei quattro circoli si è del leone. I seguaci del leone sono: Gracchia il corvo! e che è avvenuto13? E poi:


     Re dalle bestie non si vuol sacrare.
Nè ordinarsi il leon. Sugli animali

La signoria da sè gli venne allora
Ch’ei con la forza l’ebbe ad acquistare.


Intanto, erano sempre suoi seguaci due sciacalli, figli di due ministri già dimessi di ufficio, di nome Carataca e Damanaca. Questi due fra loro solevano consigliarsi, perchè allora Damanaca disse: Caro Garataca, cotesto nostro re Pingalaca, disceso per ber dell’acqua alla sponda della Yamuna, si sta qui ora. Perchè mai egli, benchè tormentato dalla sete, mutando divisamente, dopo aver disposto in ordine di battaglia l’esercito, s’è perduto d’animo e si sta là a’ piedi del fico? — Garataca disse: Caro mio, qual frutto per noi due dall’occuparci di questo affare che non è nostro? Perchè è stato detto:


     L’uom che curar desia
Affar che suo non è,

Dritto a morir s’avvia
Come la scimia ch’estraeva il conio.


Damanaca disse: Come ciò? — E quegli disse:

Racconto. — In un certo luogo vicino alla città, in mezzo ad un boschetto d’alberi, dal figlio di un mercante erasi incominciato a fabbricare un tempio agli Dei. Gli operai, il maestro e gli altri tutti, solevano andare in città, all’ora del mezzogiorno, per desinare. Un giorno, una schiera di scimie che là presso abitava, dopo ch’ebbe errato qua e là, capitò in quel luogo. Ora, là giaceva il tronco d’un albero di angiana14 stato spaccato per metà da uno degli operai, introdottovi nel mezzo un conio di legno di cadira15. Le scimie, intanto, cominciarono a trastullarsi secondo il loro piacere sulle cime degli alberi, sui pinnacoli del tempio, e sulle estremità dei tronchi, quando una di loro, vicina omai a morte, sedutasi per leggerezza su quel tronco spaccato per metà, tirando la corda che legava il legno, gridava: Oh! perchè mai questo conio è stato ficcato qui fuor di posto? — E afferrandolo colle mani cominciò a voler spaccare. Ma, per cagion d’un testicolo che le era entrato nella spaccatura del tronco, levato il conio, avvenne appunto ciò che dianzi t’ho detto. Perciò io dico:


     L’uom che curar desia
Affar che suo non è,

Dritto a morir s’avvia
Come la scimia ch’estraeva il conio.


Con questo, c’è qui per noi due cibo bastante per tutto un giorno16. Che importa adunque cotesta faccenda? — Damanaca disse: E che? sei tu bisognoso soltanto del mangiare? Ciò non va bene. Però è stato detto:


     Per desio di far bene a’ propri amici,
Per desio di far male a’ suoi nemici,

Dei re corra l’aita l’uom prudente.
Deh! chi non è, l’epa a colmar, valente?


Ancora:


     Viver possa colui là ’ve parecchi
Vivon dov’egli vive17!

Forse che empir gli augelli
Non sanno il ventre co’ lor propii becchi?


E poi:


     La vita che si vive anche per poco,
Dagli uomini lodata allorchè adorna
Di sapienza, di valor, di forza,
Detta è dai saggi frutto aver di vita
In coteste virtù. Ma la cornacchia
Ha vita lunga e cibasi d’avanzi18.
     Chi, nè da sè, nè d’altri con l’aita,
Pietà non sente della turba afflitta
O de’ congiunti o de’ prossimi suoi,
Qual della vita, in questo mondo umano,

Qual frutto mai darà? Ma la cornacchia
Ha vita lunga e cibasi d’avanzi.

È facile colmare
Un picciol ruscelletto,
È facile riempire
La zampa d’un insetto.
Facile ad acquetarsi,
Un uom di poca mente
Anche con poco assai
Sue voglie fa contente.


E altrimenti:


     Che si fa d’un figliuol che dalla madre
Vigor giovanile ebbe,
Nè, qual vessillo, a capo di sua stirpe
Mai si levò nè crebbe?

Nel volger del tempo
Non tornasi a vita?


Ma il vivo si loda
Che per lieta sorte
In questa riluce19.
Felice è il nascer di quel sterpo ancora
Che d’un torrente crebbe in su la riva,

S’è sostegno alla man, di chi, sommerso
Pien d’angoscia nell’acqua, omai periva.


Tuttavia:


     Rari son que’ buoni al mondo
Che somigliano alle nubi;
Esse van sublimi e lente

     E ogni pena ed ogni arsura
     Via cancellan dalla gente20.


E ancora:


I saggi estimano
Onor di madre
Esser grandissimo,
Quando quel germe

Che in seno avea.
D’ogni dottissimo
Mastro si fea.


E altrimenti:


     Uom di valor, come di lui si resti
Ignota la virtù, tocca sovonte

Disprezzo dalla gente.


     Fin che si sta raccolto in secco legno
E non divampa fuor, lieve e dappoco

E veramente il fuoco. —

Carataca disse: Noi due, intanto, siam gente dappoco. A che dunque occuparci di questa faccenda? Perchè è stato detto:


     L’uom sapïente che non dimandato
Stolto favella al cospetto d’un sire.

Dalla gente, non sol tocca disprezzo.
Ma pur anche dileggio e contumelie.


E poi:


Quella parola
Là sol si scocca
Dove, se detta,
Frutto si tocca.


Sempre il colore
Durevol resta
Dato alla faccia
Di bianca vesta21.

Damanaca disse: O fratello, non dir così, perchè è stato detto:


L’uom che non val, diventa uom di valore
Se frequenta l’ostel del suo signore;


Ma l’uomo di valor nullo diventa
Se la corte del re più non frequenta.


E poi:


Predilige un re sovrano
L’uom che più presso gli sta
Senza lode e sapïenza,
Senza alcuna nobiltà.


Ciò che crebbe a lor dintorno
Per lo più traggono a sè
E liane e donne e re.

E poi:


     Quei ministri che i modi conoscono
Del piacere e dell’ira d’un re,
Bello bello di sotto sel pongono
S’anche strano e volubile egli è.

Ai sapïenti,
Ai valorosi,
Ai più valenti,
Ai più vogliosi,
A chi più sa
Gli usi e le norme
Di società,
Altro rifugio
Davver non è
Fuori d’un re.
A chi non rende ossequio a gran signore
Per nascita e per altro assai potente,

Sia dato in pena fino al dì che muore,
Attorno mendicar continuamente.

Quei che gridano i sovrani
Malvolenti ed inumani,
Così fan che i lor diletti
Tali appunto siano detti:
Alterigia, infingardaggine,
E gran dose di buaggine.
Come veggan pur tratti in poter nostro
Serpi, tigri, leoni ed elefanti,

«Oh! poca cosa ch’è domare un prence!»,
Dicono i saggi e gli uomini prestanti.

Il saggio che s’acconcia appo un gran sire
Ad altissimo loco suol salire.

Il sandalo odoroso
Sul Malaya soltanto suol fiorire22.

Elefanti ebbri sempre d’amore.
Bianche ombrelle23 e cavalli piacenti,

Doni son di propizio signore. —


Carataca disse: Dunque che pensi tu di fare? — E quegli disse: Questo nostro signore, cioè Pingalaca, insieme col suo seguito è spaventato. Perciò io, andando da lui, come avrò risaputo la cagione del suo sgomento, gliel torrò via con uno almeno di questi spedienti, che sono la pace, la guerra, l’avanzarsi, il tenersi tranquillo, l’alleanza, la mala fede. — Carataca disse: Ma come sai tu che nostro signore è preso da paura? — E l’altro disse: Ben si può riconoscere! E che? Intanto, è stato detto:


Dalle bestie pur s’intende
Ogni voce che sia detta24,
E cavalli ed elefanti
Traggon seco la carretta
Come spinti siamo avanti
Ma la gente di sapere


La parola anche non detta
Facilmente intende e sa,
E ha per frutto sapïenza
D’ogni gesto che altri fa,
La perfetta intelligenza.

E poi:


Dagli atti, dai gesti,
Andando, parlando,
Degli occhi dai segni,


Da quei della bocca,
L’interno pensiero
Si afferra, si tocca.

Io adunque, tornando presso quello spaventato, come avrò scacciato la sua paura e l’avrò fatto mio col potere della mia sapienza, avrò toccata la via per diventar ministro. — Carataca disse: Tu non sai le regole dello stare in corte; come dunque tu potrai farlo tuo? — E l’altro disse: Come mai io non so le regole dello stare in corte? Anzi, tutta quella dottrina morale che da me si è udita, quando mi trastullava sulle ginocchia di mio padre, da certi sapienti che presso di lui si radunavano e me l’andavano insegnando, s’è tutta impressa nel cuor mio come la quintessenza delle regole dello stare in corte. Intanto, s’ascolti questo:


     Tre quelli son che sfruttano la terra
Aureo-fiorente,
L’uom di valore, il dotto, e chi alla corte
È servïente.
     Volto il servire al ben del suo signore
Veracemente intendere si dè;
Per questa porta sola, e non per altra,
Il sapïente accostisi ad un re.
     Non serva il saggio a chi non ne conosce
Le virtù egregie, ch’ei non ne avrà frutto
Come da steril campo, anche se arato.

Anche se dell’avere
Orbo e de’ suoi soggetti,
Quei che servigi merta,
Si onori e si rispetti.
Verrà il sostentamento
Sempre da lui, qual frutto,
Sebben di lungo tempo
Al termine ridutto.


Sebben, vinto dalla fame,
Come tronco immobil sta
A disseccarsi,
Col suo ingegno il proprio ed atto
Cibo il saggio ben farà
A procacciarsi25.
Ha in odio il servo
Il tristo sere
Che aspro favella.
Ma chi non sa
Chi merta o no
Servigi e onori,
Se stesso, oh! come
Non odierà!
Ma quel prence appo cui sen vanno i servi
Affamati nè trovano ristoro,

Fuggir si dee come d’arca26 un arbusto,
Sebben sempre di fior, di frutti onusto.

Come verso il suo prence, ei27 si comporti


Ver la regina e ver la regia madre,
Verso il primo minislro e verso il prence
Ereditario, verso il sacerdote
E il guardiano delle porte28, sempre.

Chi sa il lecito e l’illecito
E ad un cenno del suo sire
Pronto grida: Viva il re!,
E non dubita eseguire29,
È il mignone del suo re.
Quei che l’or di buono acquisto
Che gli diè regai favore,
Spese, e veste il drappo fe’
Che donògli il suo signore,
È il mignone del suo re.
Chi a discorsi ed a consigli
Intricar mai non si feo
Delle donne del suo re
O de’ servi al gineceo,
È il mignone del suo re.
Chi dei dadi estima un tratto
Quale un messo della morte30,
E le donne inganno a sè,
E veleno un licor forte,
È il mignone del suo re.
Chi precede il re fra l’armi31
E in città gli vien da tergo32
E alle porte si ristè


Tutto umil del regio albergo,
È il mignone del suo re.
Chi ad un cenno del suo prence.
Non risponde calcitrando
E se accanto gli sedè,
Non l’offende sghignazzando,
È il mignone del suo re.
Chi, pensando: «Son io sempre
L’onorato del mio sire» —
Nei perigli non si diè
Mai sue norme a trasgredire,
È il mignone del suo re.
Chi costante e d’odio pari
Del suo prence odiò i nemici
E di far cura si diè
Il desio dei regi amici,
È il mignone del suo re.
Chi la pugna il loco suo
Pensa, sciolto da paura,
E straniero suol si fe’
Caro come le sue mura,
È il mignone del suo re.
Chi commercio mai non ebbe
Con le donne del suo sire
E con esse mai non fe’
Liti o dispute sentire,
È il mignone del suo re.

Carataca disse: Allora, quando tu sarai andato là, qual cosa dirai tu per la prima? Questo almeno mi si dica! — E l’altro disse: Fu detto:


     Da una parola, quando due favellano,
La parola in risposta si congenerà

Come da una semenza che dal piovere
Ebbe vigore, un’altra se ne origina.


E ancora:


Tristo effetto che nascea
Da non belli espedienti,
Lieto fin che si vedea
Da più acconci espedienti.
Sempre dicono i più saggi
Che procede da natura,
Come luce che s’irraggi,
Dalla buona o rea cultura33.


Come di pappagalli
D’altri sta sulla bocca
Ogni parola ornata;
D’altri nel cor profondo
Muta si sta e celata;
Ma d’altri veramente
E sulle labbra e in core
Dolce sonar si sente. —

Carataca disse:


Ad accostar difficili
Son veramente i principi,
Quai monti che pur donano


     Ogni gran cosa. D’aspidi
     Tutti son pieni, asperrimi,
     Ripidi, inaccessibili.


E poi:


Tortüoso, di scaglie coperto34,
Traditore, di trappole esperto,
Degli amici uccisor, fraudolente,


     Di malie vinto all’arti sovente35,
     È ogni principe ed ogni serpente.


E poi:


     Bilingui, facitor d’opre dolenti,
Vagheggianti alle colpe più perverse.
Veggon da lungo i re, come i serpenti.
     Quei che son cari ai principi,
Ove anche poco sbaglino,
Dentro la fiamma abbruciano
Come farfalle stupide.
     Difficile a toccar grado reale
Che pur s’onora da tutta la gente;
Ma, come al grado avvien sacerdotale,
Per picciol fallo rendesi perdente.

Difficile a raggiungere,
Difficile a toccare,
Difficile a serbare,
Felicità dei re;
Ma lungamente stabile
Resta, come acqua molta
Entro allo stagno accolta,
Tutta ristretta in sè. —


Damanaca disse: Ciò è vero, ma pure


     E di questo e di quello comportandosi
Secondo la natura ed acconciandosi,
E questo e quello tragge il sapïente
Al suo voler, sollecito adoprandosi.
     L’andar secondo volontà del sire
Pur fa bene a chi vive sottomesso;
Da chi s’acconcia a volontà d’altrui
Anche i mostri si possono asservire.

Encomiastico sermone
Nello sdegno del padrone,
L’amor dato a chi egli amò,
L’odio dato a chi egli odiò,
E l’elogio ai doni suoi,
Norme son per trarlo poi,
Senza magica virtù,
Alla nostra servitù. —

Carataca disse: Ebbene! se così hai deliberato, viaggio felice! e si faccia il tuo desiderio. — E l’altro, fattagli riverenza, si mosse per andar nel cospetto di Pingalaca. Pingalaca allora, vedendo venir Damanaca, disse al custode della porta: Mettasi da parte la bacchetta36. Damanaca, che è figlio del nostro antico ministro, non si deve impedire dall’entrare. Si faccia entrare perciò dentro il secondo circolo. — E l’altro disse: Così appunto come ha detto vostra Maestà! — Allora Damanaca, facendosi avanti, com’ebbe inchinato Pingalaca, si sedette al luogo che gli fu indicato; e quello, stendendogli la mano destra fornita di punte acute d’unghie, con segno d’onore gli disse: E sii felice tu pure! E perchè ti fai tu vedere dopo tanto tempo? — Damanaca disse: Da noi non può venire alcuna utilità al re; pure, ciò che è a proposito nel tempo presente per voi, si deve dire, perchè vi può essere utilità per i re da parte dei grandi, dei medii e anche degl’infimi. Perchè fu detto:


     Una pagliuzza sempre può giovare
Anche ad un re, gli orecchi per grattare

O i denti stuzzicar. Quanto più l’uomo!
L’uom che ha pur corpo e mani e può parlare.


Noi intanto che siamo servi del re nati in sua casa, gli siam fedeli anche nelle sventure sebbene non abbiamo il nostro vero ufficio; ciò che veramente non è degno di lui. Ed è stato detto:


     Al degno posto devonsi ordinare
E servi e gemme, nè si avvince al piede
Col dir: Così vogl’io! gemma frontale.

     Anche se ricco e nobile
E regnator legittimo,
Non ha dai servi ossequio
Quel re che ignora lor virtudi e pregi.


E poi:


     Messo tra gl’inferiori e trascurato
Nelle accoglienze a’ pari suoi dovute.
Non messo al posto ch’egli ha meritato;

Ecco le tre ragioni
Per che il servo il suo principe abbandoni.


Perchè poi il re, per sua inconsideratezza, assegni un posto infimo e negletto a quei servi che sono degni d’alto ufficio, ed essi poi là non vogliano rimanere, cotesto è colpa del re, non già di loro. Ed è stato detto:


     Se in vil stagno una gemma si lega
Di castone degnissima d’oro,

Non tintinna, non brilla, ma il fallo
Di chi là l’incastrò, sempre allega.


Per quello poi che il mio signore dice: «Dopo gran tempo tu ti fai vedere!» questo ancora si ascolti, perchè è stato detto:


     Dove tra la man dritta e la mancina
Distinguer non si sa,
Qual valentuom di testa integra e fina
A far soggiorno andrà?

Vicino a quelli
Di cui la mente
Confonde un vetro
Con una gemma
E con un vetro
Scambia una gemma,
Nemmen di nome
Si stanno i servi.
In quel paese ove non è chi sappia,
Non han valor le perle nate in mare.}}


Per soli tre quattrini
Sogliono il ciandracanta37 trafficare,
D’Abira nella terra38, i contadini.
     Là ’ve tra il zafferano
E tra il rubin giallastro
Non è diversità39,
Un trafficar di gemme
Come far si potrà?
     Quando d’ugual ragione
Con tutti i servi suoi
Comportasi il padrone,
Torna ogni sforzo vano
Di chi potria toccar grado sovrano40.
     Star senza servi — non può il signore,


Non ponno i servi — senza il padrone;
Tale per vincolo — d’uffici alterni
È di lor vivere — ferma ragione.
     Il re che se ne sta senza ministri
Che il favor ne procacciano alla gente,
Splender non può, sì come allor che il sole
Privo è di raggi, ben che assai possente.
     Sui raggi insiste il mozzo della ruota,
Sul mozzo della ruota i raggi insistono;
Così d’un prence e de’ ministri suoi
La ruota della vita intorno volgesi.

Piantati sul capo,
Con olii continui
Nutriti i capelli
Pur cangian colore.
Oh! quanto più assai
Que’ servi si cangiano
Cui non tocca amore!
Il prence, come satisfatto sia,
Dona i servi nel limite dei doni41;

Ma i servi suoi nel limite
Il servon dell’onore e con la vita!

Come ciò intendasi,
Dai re degli uomini
I servi scegliere
Accorti debbonsi,
Di sangue nobile,
Valenti ed agili,
Fidi e legittimi.
È possente quel re per quel ministro
Che ove gli faccia altissimo servigio

Malagevole e all’uopo, in niuna guisa
Il dice a lui, ma per pudor si tace.

Chi non chiamato
Innanzi viene
E sulle porte
Sempre si tiene,
E, dimandato,
Ben misurato
Il vero espone,
È degno servitor dei re sovrani.
Chi, non richiesto,
Come alcun rischio
Vegga del sire
E il rischio corre


A prevenire,
È degno servitor dei re sovrani.
Chi, castigato
E maltrattato
Ed insultato
Dal suo signore,
Contro a lui male
Non pensa in core,
È degno servitor dei re sovrani.
Chi nel favore42
Non si fa ardito
E del disprezzo
Non è stizzito,
Ma pur lo stesso
Umor conserva,
È degno servitor dei re sovrani.
Chi nè per fame
Si cruccia mai,
Nè per vegliare,
Nè caldo o freddo
Per tollerare,
È degno servitor dei re sovrani.
Chi pure udendo
Che ha da venire
Guerriero annunzio
Appo il suo sire
E con ridente
Bocca lo sente,
È degno servitor dei re sovrani.
Quello per cui s’accresce
Il confin dell’impero,
Come la luna cresce
Nel periodo primiero43,
S’egli al governo sta,
È degno servitor dei re sovrani.
Ma il ministro onde scema,
S’egli al governo sta.

Dell’impero il confine
Come, al fuoco sospeso,
Un cuoio s’è rappreso,
Da chi suo regno ha in cura, è da dimettere.
     È quel ministro una seconda sposa
In cui fidato sta commesso ufficio
Alla mente di lui non dubitosa.

Perchè poi da nostro signore mi si fa atto di dispregio mentre egli pensa di me: «Costui è uno sciacallo!», sappiasi che ciò non è punto addicevole. Perchè fu detto:


     Vien da un baco la seta e dalle pietre
L’oro e il panico dal pel de’ giovenchi44,
Dal fango il loto, e la luna dal mare,
Dal letame bovino il loto azzurro,
Dal legno il fuoco, e nascon dalla cresta
De’ serpenti le gemme45, e vien dal fiele
Delle vacche il sapone. Or, chi ha valore
Sol col mostrar proprio valor, non mai
Con l’origine sua, montasi in gloria.
     Come con molte e molte
Festuche insiem raccolte
Di erandi, binde e nale

E d’arche46, non può farsi opra di legno47,
Così niun frutto degno
Vien da un servo ignorante e dozzinale.
     Anche se nato in casa,
Vuolsi uccidere il topo malfattore;
Ma il gatto utile e savio,
Si fa venir con doni anche di fuore.
     Che far d’un servo ch’è fedel, ma stolido?
Che d’un protervo, ben che destro ed abile?
Ma tu, gran re, stima non far spregevole,
Non far di me, che abil ti sono e dedito! —


Pingalaca disse: Sia pure! Ma, abile o non abile, tu sei pur sempre il figlio dell’antico nostro ministro, e però di’ tu liberamente ciò che vuoi dire. — Damanaca disse: O signore, c’è alcuna cosa da farti sapere! — Pingalaca disse: E tu dilla di proposito. — E l’altro disse:


«Sia pur cosa inconcludente
Che riguardi il nostro sire,
Nel cospetto della gente


     Non dovrassi mai ridire» — ,
     Così dicea Brihàspati48 una volta.


Perciò voglia il re ascoltare in disparte ciò che io desidero fargli sapere, inquantochè


Da orecchi sei
Parola intesa
Attorno va;
Da quattro orecchi
S’ella è compresa,
Ferma si sta.


Parola udita
Da orecchi sei
Il sapïente
Eviterà
Con quanto studio
Vorrà e potrà. —

Allora senza indugio si allontanarono tutti insieme e in un istante, avendo udito cotesto, i ministri di Pingalaca che ne ebbero conosciuto l’intenzione, cioè le tigri, i leopardi, i lupi. — E Damanaca disse: Nostro signore era pur qui venuto per ber dell’acqua; perchè dunque si sta egli qui, mutato pensiero? — Pingalaca, con un sorriso sforzato, rispose: Oh! non è nulla! — E l’altro disse: O re, se cotesta non è cosa da dirsi, resti così. Perchè è stato detto:


Cosa che si nasconde anche alla moglie,
Anche ai congiunti, ai figli ed agli amici,

Il saggio, sia che lecita la pensi

O illecit’anco, di celarsi degna
Sempre, con gran rispetto, la ritegna. —

Avendo udito ciò, Pingalaca pensò: Costui mi sembra un onest’uomo. Però gli voglio dire il mio proprio pensiero, poichè è stato detto:


Chi ad un costante, amico,
A un servitore prudente,
A una fedel consorte,


A un affabil padrone
La sua disgrazia espone,
Modo rinvien per ch’egli si conforte.

O Damanaca, odi tu questa gran voce che vien da lontano?49 — E l’altro disse: O signore, io l’odo. E che perciò? — Pingalaca disse: Alla buon’ora! io voglio andar via da questa selva. — Damanaca disse: Poi qual ragione? — Pingalaca disse: Perchè oggi in questa selva deve essere entrato qualche animale non mai visto innanzi. Quello di cui s’ode così gran voce deve pur essere di tal forza che corrisponda alla sua voce. — Damanaca disse: Non è bello che nostro signore, soltanto per una voce, sia venuto in tanta paura. Perchè è stato detto:


Acqua che cade, la roccia suol fendere,
Perde segreto divulgato il frutto,


Amor da maldicenza vien distrutto,
Dalle ciarle l’uom vil si lascia prendere.


Però disdice al re ch’egli abbandoni la selva occupata già da tanto tempo, perchè vi son suoni diversi e vari di tamburi, di flauti, di liuti, di tamburelli, di castagnette, di cembali, di conche, di timballi e di altri di altra specie. Però non si deve aver paura per un solo suono. Perchè è stato detto:


Quando un terribile
E formidabile
Nemico è prossimo
Nè perde il principe
La sua virtù,


D’alcuna perdita
Non teme più.
Quando Iddio vuole incutere paura,
Fermo cor di gagliardi non si smaga.

Seccati gli stagni nell’estiva arsura,
Ma l’Indo vieppiù cresce e si dilaga.


E poi:


Quei che nella sventura
Non si conturba in core,

Della fortuna è lieto nel favore,
Nell’ora del pugnar non ha paura,
Figlio tal ch’è ornamento
Del mondo, raro assai
Ha da madre mortale il nascimento.

Quell’uom che, debole
Di possa e flaccido
E senza cèrebro,
È leggerissimo
Costume simile
Ha della stipula
In verità.

Ancora:


Chi al venir d’altrui potenza
Non si mostra saldo e forte,


Che val mai per avvenenza,
Per fregi vani che attorno si porte?

Adunque, ripensando a tutto ciò, nostro signore deve fare atto di coraggio. Non devesi temere d’un solo rumore, poichè è stato detto:


Fu già da me pensato
Che ciò fosse di carne rimpinzato.


Intanto io vado, ed ecco che il rinvegno
Cuoio soltanto e legno. —


Pingalaca disse: Come ciò? — E l’altro rispose:

Racconto. — In un certo paese, uno sciacallo di nome Gomayu, andando qua e là per la selva con la strozza tormentata dalla fame, giunse a vedere, il campo di battaglia di due eserciti, e là intese il suono d’un tamburo che, caduto a terra, di tanto in tanto era colpito dalle punte dei rami d’un albero, mossi dalla forza del vento; perchè egli, turbato in cuore, pensò: Oimè! son perduto! Ma perchè io non capiti nel luogo dov’é cotesta cosa che così risuona, me n’andrò altrove. Eppure, non è hello abbandonar d’uu subito la selva già percorsa dai padri miei, perché è stato detto:


Toccar gioia o timore
Chi pensa che potrà.
E con soverchio ardore


Nessuna cosa fa,
Mai non avrà di doglia alcun sentore.


Intanto, io vo’ sapere di chi sia questo suono. — Così egli pensava riprendendo animo. Andando adunque adagio adagio, ecco ch’egli vide il tamburo, che, quand’era colpito dalle cime dei rami mossi dal vento, faceva rumore, altrimenti taceva. Perchè allora lo sciacallo, osservato bene tutto ciò, accostandosi sempre più venne, per la curiosità, a urtar nel tamburo; anzi, per la gioia, così pensò: Oh! dopo tanto tempo finalmente ci tocca un buon pasto! Ora, cotesto sarà tutto pieno di carne, di grasso e di sangue. — Lacerando pertanto il tamburo tutto rivestito d’un cuoio aspro e tacendovi a un certo punto un pertugio, v’entrò dentro. Ma, nel lacerare il cuoio, ebbe rotti i denti. Allora, vedendo che quello era soltanto legno e cuoio, perduta la speranza, recitò questi versi:


Fu già da me pensato
Che ciò fosse di carne rimpinzato,


Intanto io vado, ed ecco che il rinvegno
Cuoio soltanto e legno.


Perciò non devesi temere d’un solo rumore. — Pingalaca disse: Oh vedi! tutto questo mio seguito, preso nell’animo da paura, vuol fuggire. Come dunque posso formar io animo sicuro? — E l’altro disse: O signore, la colpa non è di quelli. I servi sono simili al padrone. Perchè è stato detto:


L’arma, il cavallo, il costume, la voce,
I famigli, il liuto, la mogliera.


Indole del padron partecipando,
Abili o inetti sono in lor maniera.


Perciò, facendo animo virile, tu devi qui aspettar tanto che io ritorni quando abbia scoperto che sia mai cotesto rumore. Allora s’avrà da fare secondo che converrà. — Pingalaca disse: E come hai tu il coraggio d’andar fin là? — E quello disse: Forse che, ad un comando del padrone, è in facoltà del buon servo l’eseguirlo o il non eseguirlo? È pur stato detto:


Di niuna guisa, al cenno del signore,
S’ingenera in buon servo alcun timore.


Nella strozza d’un serpe, o in un gran mare,
Ei si caccia, difficile a varcare.

E poi:


Servo che dal padrone ebbe un comando
E, s’è grave o leggier, va ripensando,


Nutricar non si dee da tal signore
Che di suo buono stato è curatore. —


Pingalaca disse: Caro mio, se è così, va pure! Possano esser fortunate le tue vie! — Damanaca adunque, fattogli inchino, partì andando dietro alla voce di Sangivaca. Ma, partito Damanaca, Pingalaca, pieno di paura andava pensando: Aimè! io non ho fatto bene quando, fidandomi di lui, gli ho fatto conoscere il mio pensiero! forse Damanaca, avuto un regalo dall’una e dall’altra parte, mi serba rancore perchè fu già dimesso dall’ufficio. Intanto, è stato detto:


Quei che in onor già furono
D’un sire e or van spregiati,


Sempre quantunque nobili,
Di pur farlo morir si son sforzati.


Io pertanto, finchè possa conoscere ciò ch’egli vuol fare, andando in altro luogo, là starò ad aspettare. Perchè è stato detto:


Quelli che non si fidano,
Anche se fiacchi e deboli,
Mai non si fanno uccidere
Da chi più può di lor.
Ma quelli che si fidano,
Anche se forti e validi,
Soglionsi fare uccidere
Da chi può men di lor.
Nemmeno di Brihàspati50 l’uom saggio
Si fida allor che vuol beni e dovizie

E vita lunga e personal vantaggio.

Mai non si fidi alcun del suo nemico,
S’anche per sacramento a lui legato;

Vritra che un regno si levò ad ambire,
Coi giuri suoi per Indra fu ammazzato51.

Senza che alcun si fidi,
Nemmeno dagli Dei
Annientasi un nemico.
Dal prence degli Dei,
Perch’ebbe in lui fidanza,
Di Diti fu disfatta
Un dì la figliuolanza52. —

Così avendo pensato, recatosi in altro luogo, si stette là da solo ad aspettar la venuta di Damanaca. E Damanaca intanto, venuto là presso di Sangivaca, come l’ebbe riconosciuto per un toro, lieto dell’animo pensò: Oh! cotesto va egregiamente! E per pace e per guerra ch’io gli faccia fare con costui, Pingalaca sarà sempre sottomesso al mio volere. Perchè fu detto:


Non si comporta
Conforme ai detti
Di consiglieri,
Anche se schietti
E veritieri,
Un re giammai


Se pria non tocca
Malanni e guai.
Sempre fia da sfruttarsi a’ consiglieri
Quel re che sia venuto in qualche affanno.

Però, che tocchi al principe sciagura,
I consiglieri ognor s’augureranno.


Come il medico non vuole
Chi da morbi non è offeso,
Così chiedere non suole


Il ministro servitor
Quel monarca che va illeso
Da sventura o da dolor. —


Così avendo pensato, si mosse per andar da Pingalaca, e Pingalaca che lo vide venire, dissimulando il proprio pensiero, si mostrò qual era dianzi. Damanaca, venuto presso di lui, fattogli un inchino, si sedette, e Pingalaca disse: Amico, hai tu dunque veduto quella creatura? — Damanaca disse: Veduta, se piace al re!— Pingalaca disse: Davvero? — Damanaca disse: Perchè mai si dovrebbe dire il falso dinanzi al re? Ed è stato detto:


Chi dice anche la minima bugia
Dinanzi a prenci e dinanzi agli Dei,


Tragge sè stesso a morte
In un momento, s’anche grande ei sia.


E poi:


Poi che da Mànu tutto esser divino
Fu detto un re sovrano,

Come un dio riguardandolo il mortale,
Detto non parli che sia falso o vano.

Ben che ugual d’un celeste e d’un regnante
Sia l’intima natura,

Dal principe all’istante,
Ma dal celeste in la vita futura,
Dell’opre buone o ree cogliesi il frutto. —


Pingalaca disse: Dunque da te sarà stata veduta quella creatura! Se non che, pensando essa che un grande non si cruccia con un miserabile, tu non sei stato ucciso. Ora, è stato detto:


L’erbucce debili
Che da ogni banda

In giù si piegano,
Non schianta il nembo mai dalle radici;

Ma piante altissime
Piuttosto abbatte,
Chè guerra imprendere
Desìa chi è grande sol con gran nemici.


E ancora:


Alle piante de’ piè punto da erranti
Vespe in ebbro desio por quell’umore

Che le guancie gli riga53, oh! mai non sale

Valoroso elefante in reo furore.
Ma ben s’adira quando un forte, in cui
Sia forza eguale, crucciasi con lui. —


Damanaca disse: Così è! egli magnanimo, e noi dappoco. Eppure, se il re mi dice cotesto, io lo trarrò in sua servitù. — Pingalaca disse: Come mai potresti farlo con buon esito? — Damanaca disse: Qual cosa è mai che non riesca col sapere? Ora è stato detto:


Non per cavalli, non per elefanti,
Non per armi guerriere e non per fanti,


A così lieto fine opera cresce
Com quella sì che per saper riesce. —


Pingalaca disse: Se così è, tu omai sei elevato al grado di ministro. Da oggi in poi, io senza di te nulla farò che riguardi la pace o la guerra o altro. Tale è il mio divisamento. Però tu, andando subito, fa sì che quello venga in mia servitù. — E l’altro, avendo risposto che si, fatto a Pingalaca un inchino, venutosene di nuovo presso Sangivaca, gli disse con disprezzo: Vieni, vieni, malvagio bue! Pingalaca li chiama. A che più e più volte muggisci così, senz’alcun rispetto? — Ciò udendo, Sangivaca disse: Amico, chi è cotesto Pingalaca? — Ciò udendo, Damanaca, mostrando meraviglia, disse: Come non conosci tu il re Pingalaca? Aspetta un momento, e lo conoscerai dall’eletto! Non si sta egli forse, egli di nome Pingalaca, gran leone, là sotto al fico, circondato da tutti gli animali, elevato di mente nella sua gloria, signore delle ricchezze degli animali tutti? — Sangivaca allora, udendo cotesto, pensandosi di esser giunto alla sua morte, venne in grande costernazione, e disse: Amico, tu mi sembri di costume onesto e valente nel parlare. Se pertanto di necessità mi devi menar là, da parte del tuo signore mi si faccia la grazia di darmi un salvacondotto. — Damanaca disse: Oh! tu hai detto bene a proposito! tale, in fatti, è la regola. Perchè è stato detto:


Della terra del mar, d’un monte ancora
Si toccano i confini,


Ma da nessuno per nessuna guisa
Andar puossi d’un re in fondo al pensiero.


Tu però intanto sta qui finchè poi, quando avrò obbligato colui a questo fatto, io ti meni là da lui. —

Dopo ciò, Damanaca, venuto presso Pingalaca, così disse: O signore, quello non è un animale dei soliti. Quel toro, che è poi la cavalcatura del beato Siva, da me dimandato, m’ha risposto così: «Io dal dio Siva, perchè era contento di me, sono stato qui mandato a brucar le punte delle erbe nelle vicinanze della Yamuna. Che più? questa selva mi è stata data dal dio beato appunto per mio sollazzo». — Pingalaca disse: Ora sì che da me si sa il vero! Non senza il favore degli Dei cotesti erbivoi si aggirano muggendo e senza timore per questa selva piena di serpenti. Intanto, che hai risposto tu? — Damanaca disse: O signore, da me fu risposto così: «Poichè questa selva è il dominio di un leone di nome Pingalaca, mio signore, che è appunto la cavalcatura della dea Ciandica54, così se tu vieni da lui, gli sarai ospite gradito. Come sarai venuto da lui, stando con fraterno amore insieme, il tempo si passerà da voi in un sol luogo, avendo in comune il mangiare, il bere, i divertimenti e tutte le altre faccende». Da lui allora mi fu detto tutto questo in risposta: «Da parte del tuo padrone, disse, mi si dia il dono del salvacondotto». A questo proposito il re comandi. — Ciò udendo, Pingalaca con giubilo rispose: Bene, o sapiente! bene, o maestro di tutti i ministri! Egregiamente, consigliandoti in modo conforme al mio cuore, fu risposto da te! Però si deve dar subito il dono del salvacondotto. Egli intanto, come sia richiesto da te d’un salvacondotto per me, si meni qui al più presto. Perchè a proposito si suol dire:


Per ministri sapïenti,
Veritieri, integri, attenti,
Si sostien la monarchia
Come tiensi una magione
Su colonne salde e buone.


Morbi in curar letiferi,
Cose in unir diverse,
Di consiglieri e medici
La sapïenza emerse.
Ma, se ben sta la gente,
Chi non è sapiente? —

Damanaca allora, fattogli un inchino, intanto che andava da Sangivaca, pensava con gioia: Oh! ecco che il nostro signore è propenso a me col favor suo! Egli ora si governa secondo la volontà e la parola mia. Ora, non c’è alcuno più felice di me. Perchè è stato detto:


Ambrosia, in stagion fredda, un fuoco ardente
Ambrosia, riveder la dolce amante;


Ambrosia, aver la stima d’un regnante;
Ambrosia, conversar col sapiente. —


Così adunque, essendo venuto presso di Sangivaca, gli disse con deferenza: Amico, nostro signore da me è stato ben disposto al tuo riguardo; anzi ti è stata data la promessa di un salvacondotto. Vieni, perciò, con me senza alcun timore. Solanto, poichè tu hai avuto il favore del re, ti devi governare in tutta concordia con me, e punto punto comportarti con superbia per il tuo alto grado. Io pure, andando d’accordo con te, come avrò preso il posto mio di ministro, sosterrò tutto il peso della cura del regno. Come ciò si faccia, da noi due si potrà godere la felicità del regnare, poichè:


Vien ricchezza degli uomini in potere
Per l’arte della caccia.


Ecco! a guisa di fiere,
L’un d’essi incita l’altro, e l’altro ammazza!


E poi:


Chi per superbo vampo
Ai grandi, ai medi, agl’infimi non rende

Il lor dovuto onore,

Come Dantila, di suo grado scende,
Ben che onorato assai dal suo signore. —


Sangivaca disse: Come ciò? — E l’altro disse:

Racconto. — È quaggiù, sulla terra, una gran città di nome Vardamana. In essa abitava già un mercante d’ogni sorta di derrate, di nome Dantila, il primo dei maggiorenti di tutta la città; e perchè egli curava gli affari della città e gli affari del re, erano contenti tutti quei cittadini e il re ancora. Che più? Da nessuno non fu veduto nè udito mai uomo più destro! Intanto, anche ciò si dice egregiamente:


Quei che d’un prence l’interesse ha in cura

Quaggiù viene in fastidio della gente;
Quei che ha in cura gli affari della gente,

Da prenci inonorato si trascura.
Grande essendo l’ostacolo ed eguale,
Difficile è a trovar chi sa accudire
Della gente agli affari e del suo sire!


Intanto, passato certo tempo, si fecero certe nozze di Dantila, e però, avendoli egli invitati con segni di onore, furon da lui convitati e donati di vesti e d’altro gli abitanti tutti della città e il re col suo seguito. Terminate le nozze, il re col suo gineceo fu ricondotto a casa e onorato. Ora vi era un servitore del re, di nome Goramba, che ne soleva spazzar le stanze. Costui, essendosi seduto ad un posto che non gli conveniva, dinanzi al re e al mercante, dal mercante che se n’avvide, fu preso a pugni e discacciato. Goramba, da quel giorno in poi, fattosi sospiroso, per l’onta non poteva dormire nemmen di notte e intanto pensava: Come mai da me si potrebbe togliere il favore del re a cotesto mercante? E che mi fa questo inutile dimagrar del corpo? appunto perchè io non posso rendergli il contraccambio? Ora, ciò è stato detto a proposito:


Perchè mai sfacciatamente
L’uomo adirasi quaggiù,
Di vendetta s’è impotente?


Vedi che, s’anche saltella
Il pisel di sotto in su,
Non può romper la padella. —


Ma una mattina, nel momento che il re sonnecchiando stava a meditare, egli, mentre spazzava con le scope a piedi del letto, disse: Oh! grande ardire di Dantila che abbraccia la moglie del re! — Ciò udendo, il re, levatosi su tutto turbato, gli disse: O Goramba è vero ciò che tu hai mormorato? Dunque la regina si fa abbracciare da Dantila? — Goramba disse — O signore, avendo vegliato questa notte per esser dedito al giuoco, ora che io attendeva al lavoro delle scope, di forza il sonno mi ha colto. Perciò non so cosa mai io abbia detto. — Perchè il re, insospettito, andava dicendo fra sè: Come costui ha l’entrata libera in casa mia, così l’ha anche Dantila, e forse veramente egli avrà veduto la regina farsi abbracciare da colui. Perciò egli ha parlato così, perchè è stato detto:


Ciò che l’uom desìa nel giorno,
Ciò ch’ei vede e ciò che fa.


Più e più volte fa e ridice
Quando il sonno il sopraffà.


E ancora:


Ciò che in cor dell’uom si sta,
Sia pur cosa onesta o ria,
Manifesto si farà,


S’anche ben celato sia,
Da quel ch’ei favellerà
Nell’ebbrezza ovver nel sonno.


Quanto poi alle donne, qual dubbio v’è mai? Perchè è stato detto:


Con questo scherzano,
Quell’altro guardano
Tutte in furor,
A un altro pensano


Che hanno nel cor,
Oh! delle femmine
Chi ha il vero amor?


E ancora:


Le donne che sorridono col labbro
D’un color rosso pallido,

Con un lung’ora folleggiando scherzano;

A un altro poscia volgono gli sguardi,
Esse, che han gli occhi vividi,

Ampi come il bel fior che all’alba schiudesi,

E con la mente pensano frattanto
A un altro ancor, che, zotico,

Fugge da gentilezza e ha molti spiccioli.

Dunque, di queste che han leggiadre ciglia,
Da chi potrà conoscersi

Veracemente ove l’amor si collochi?

E poi:


Non si sazia di legni il fuoco mai,
Non il mar di torrenti,

Non di viventi
La morte mai, non d’uomini la donna
Da’ grandi occhi splendenti.

Se non v’è luogo appartato,


Se non v’è l’ora opportuna,
Se non v’è l’innamorato
Che pregando la importuna,
Sappi, o Nàrada55, che allora
Nelle donne di quaggiù
Nasce intatta la virtù56.


E poi:


Chi sciocco in sua stoltizia osa pur dire:
M’ama davver la cara donna mia!» — ,

Sempre al voler di lei deve obbedire
Come angel per sollazzo entro la stia.

Chi delle femmine
Quaggiù con l’opera
Tutti i più piccoli
Innumerevoli
Seguir desidera
Cenni e capricci,
Il senno a perdere
Onninamente
Va di sua mente
A passi spicci.
D’uom che femmine corteggia,
D’uom che vada a lor d’accanto

E a’ servizi lor provveggia
Un pochin di tanto in tanto,
Davver! che si compiacciono le donne!

Sol per manco d’amatori
E timor di servitori
A’ lor termini obbligate
Stan le femmine sfacciate.
Non v’è per esse
Alcun indegno;
Non v’è degli anni
Alcun ritegno.
Sia bello o brutto,
Dicon: «Gli è un uomo!» — ,
E il godon tutto,
Si servono le donne d’un nom ch’è innamorato

Come d’un loro cencio. E l’hanno strofinato
E preso per un lembo, nel c... se l’han ficcato

Sotto al piè d’una ragazza
Calpestato con disprezzo
Va chi per amore impazza,
Qual di rossa lacca un pezzo. —

Così adunque il re come ebbe lungamente brontolato, ritirò il favor suo da Dantila. Che più? Anche gli fu impedito l’accesso alla porta del re. Dnntila allora, stando a considerare per qual mai cagione il re così gli avesse tolto il favor suo, andava pensando: Oh! anche ciò è stato detto bene a proposito:


Chi superbo non divenne
Per ricchezze che acquistò?
Di qual ricco alla dimora
La sventura non andò?
Di chi mai per donne il core
Non fu tenero quaggiù?
E chi mai di re sovrano
Detto il vero amico fu?


Del dominio della morte
Chi non venne in potestà?
Chi, chiedendo, non ascese
A cospicua autorità?
E chi mai, venuto al laccio
D’uom perverso e traditor,
Ritornar potè sicuro
Alla sua dimora ancor?

E poi:


Purezza in corvi57 e in serpenti mitezza.
Verità in giocator, fedeltà in donne.

Senno in brïachi e in codardi fortezza,

E re che amico sia veracemente,
Fùr visti o uditi mai da alcuna gente?


Eppure da me non fu fatta, nemmen per sogno, alcuna cosa ingrata nè al re nè ad alcun altro. Perchè dunque ciò? Intanto, il re mi si è fatto nemico. - Un giorno, lo scopatore, avendo veduto Dantila rimandato dalla porta del re, ridendo così disse a’ portinai: O portinai! Cotesto Dantila che è nelle grazie del re, è quello che la grazia e punisce, però ch’egli è stato scacciato, godrete pur voi, come me, dei suoi pugni. — Ciò udendo, Dantila si mise a pensare: Oh! tutto ciò è opera di costui. Intanto, ciò fu detto a proposito:


Anche se ignobile,
Anche se stolido
E senza credito,
Chi serve a un principe
Dovunque onorasi.


Uomo infingardo e abietto
Rimproveri non sente,
Non biasmi, dalla gente,
Fin che a’ servigi d’un sovrano è addetto. —

Così, avendo borbottato, vergognoso, a casa, fattosi chiamar Goramba sul principiar della notte, come l’ebbe onorato del dono d’una muta di vesti, gli disse: Amico, in quel giorno tu non sei stato scacciato da me per rancore; ma perchè tu, nel cospetto dei Bramini, sei stato veduto sederti in un luogo che non ti conveniva, hai ricevuto quello sfregio. Però, sii riconciliato con me! — Ma l’altro che aveva toccato quella muta di vesti, come se avesse toccato il regno del cielo, venuto in grande allegrezza, gli rispose: O mercante, per tutto ciò son già riconciliato! Per il dono tuo, vedrai ora ciò che mai può la mia saggezza e riavrai la grazia del re. — Così avendo detto, se n’andò via tutto allegro. Ora, fu detto egregiamente:


Per poco va in su,
Per poco va in giù.


Del giogo58 e del vile
Oh! modo simile!

L’altro giorno, Goramba, andato a palazzo, attendendo a spazzare mentre il re sonnecchiando meditava, disse ad un tratto: Oh! balordaggine di questo nuovo re! il quale, quando va a far le sue occorrenze, mangia dei citrioli! — Ciò udendo, il re, levandosi su meravigliato, gli disse: Eh eh! Goramba, che sciocchezze vai tu dicendo? Io non ti scaccerò pensando che sei mio servitore di casa. Ma quando mai m’hai tu veduto far le mie occorrenze? — E quegli disse: Signore, perchè io son dato al giuoco e ho vegliato la notte, intanto che qui sto a spazzare, a forza m’ha colto il sonno. Dopo ciò, io non so cosa m’abbia detto. Però il re mi faccia grazia, essendo stato vinto dal sonno. — Il re, quand’ebbe udito ciò, andò pensando: Da che son nato, io, quando faccio le occorrenze mie, non ho mai mangiato citrioli, e però come è impossibile cotesto malanno che questo sciocco ha or ora detto, così è impossibile quell’altro di Dantila. Tale è il mio pensiero, lo ho fatto male togliendo a quel poveretto ogni onore. Simili cose sono impossibili in uomini tali! Intanto, perchè egli manca, le faccende del re e le faccende dei cittadini vanno tutte a male. — Così più volte avendo parlato fra sè, chiamato a sé Dantila e restituitigli i suoi propri ornamenti e le vesti e altro ancora, lo rimise nel suo ufficio. Perciò io dico:


Chi per superbo vampo
Ai grandi, ai medi, agli infimi non rende

Il lor dovuto onore,

Come Dantila, di suo grado scende,
Ben che onorato assai dal suo signore. —


Sangivaca disse: Amico, è vero quello che tu hai detto, e però si faccia così. — Detto ciò, Damanaca, presolo con sè, se ne venne nel cospetto di Pingalaca e disse: O signore, costui che è stato qui menato da me, è Sangivaca. Ora, il re comandi! — Sangivaca allora, fatto con rispetto un inchino a Pingalaca, stette con sommissione nel suo cospetto, e Pingalaca, porgendo la destra armata d’unghioni, simili a cunei di ferro, a lui che aveva una grossa e prolungata gobba, facendogli onore, gli disse: E tu pure stai bene? Come mai sei tu venuto in questa selva disabitata? — Da Sangivaca allora fu raccontata tutta la sua avventura; in qual modo egli si fosse separato da Vardamana, anche questo fu fatto conoscere da lui. Avendo ciò udito Pingalaca, disse: Amico, non temere. Tu starai a tua voglia in questa selva difesa dal mio braccio. Tuttavia tu devi star sempre sempre accanto a me, perchè, non potendosi questa pericolosa foresta abitare nemmeno dagli animali forti per essere infestata da belve terribili, come mai vi si potrebbe stare da animali erbivori? — Come ebbe detto ciò, il signor degli animali, disceso alla sponda della Yamuna, quando ebbe bevuto e preso un bagno a sua voglia, se ne ritornò alla selva di prima, suo proprio e libero soggiorno. Rimesso allora il carico del regno a Carataca e a Damanaca, insieme a Sangivaca se ne stette a godere della felicità dello stare insieme e del conversare. Intanto, fu detto a proposito:


Quella che una sol volta
E sol per caso avviene
Nobile compagnia
Degli uomini per bene,


Incorruttibil dura
In ogni tempo. Ma
Che rinnovar si possa,
Nessun si aspetterà.


Intanto, in pochi giorni, da Sangivaca che si valeva del suo sapere per aver letto certi libri di morale, Pingalaca, benchè duro di cervello, fu fatto sapiente; laonde, dismesso il costume selvaggio, gli fu fatto assumere costume cittadinesco. Che più? Ogni giorno Pingalaca e Sangivaca di tutto si consigliavano insieme in segreto, allorquando tutta l’altra corte degli animali si era allontanata. Anzi, i due sciacalli Carataca e Damanaca non avevano più l’accesso. Ma poi, poichè il leone omai si asteneva dall’usar violenza59, tutta la corte e i due sciacalli ancora, afflitti dal malanno della fame, passando ciascuno in altra parte della selva, là si stettero. Perchè è stato detto:


Un re che nulla dà, per ire altrove
Abbandonano i servi anche se illustre


E se nobile egli è, come una pianta
Che si seccava, lasciano gli augelli.


E poi:


Anche se molto onorati
Dal lor principe e signori
E di nobil stirpe nati
E per lui pieni d’amore.


Come lor non amministri
Lo stipendio giornaliero,
L’abbandonano i ministri.


Invece:


Quel signor che non lascia passare
L’ora in cui deve i servi pagare,


Mai non fia da’ suoi servi tradito
S’anche alcun n’ha vessato e garrito.


E poi non soltanto i ministri son così fatti, ma tutto (pianto il mondo, per amor dell’interesse, si regge alternatamente per mezzo dell’amicizia e degli altri tre modi60. Inquantochè:


Coi lacci che prepara l’amicizia
Con l’altre arti61 quaggiù, volgonsi attenti,

La notte e il giorno, i medici ai malati,
Ad altre terre i principi, i mercanti
Ai compratori, agl’ignoranti i dotti,

I ladri agl’imprudenti, i mendicanti
Ai padroni di casa, ai vagheggini
Le cortigiane, i furbi a tutti quanti;
Così, con arte, di vivere intendono
Come i pesci che ai pesci insidie tendono.


Anche questo, tuttavia, egregiamente si suol dire:


Perchè non sempre
Han lieti eventi
I rei intenti
Di serpi e ladri
E di birbanti,
Va il mondo avanti.
Il serpente di Siva ch’é affamato,
Vuol mangiar di Ganesa il topolino,


Ma il pavon di Cumara l’ha acciuffato,
Allor venne il leone
Della montana dea, che quel pavone
Sbranò che il serpe avea dilacerato62.

Or, se costume eguale
Hanno in casa di Siva i famigliari,

Perchè simile altrove63 non sarà?
Di questa guisa appunto il mondo va.


Allora Carataca e Damanaca, privati della grazia del loro signore, con la strozza afflitta dalla fame, si consigliarono l’un con l’altro, e Damanaca diceva: O nobile Carataca, eccoci caduti in basso! Quel Pingalaca, infatuato delle parole di Sangivaca, s'è volto contro il suo stesso costume. Intanto, tutta la sua corte s’è dispersa. Che si fa adunque? — Carataca disse: Se anche il re non vorrà seguire il tuo consiglio, si deve tuttavia ammonirlo per prevenire gli errori. Poichè è stato detto:


Anche se non porge ascolto,
Vuolsi un principe ammonir
Da chi ha tale ufficio e cura,


Come già il figliuol d’Ambica,
Suoi errori a prevenir,
Fu ammonito da Vidura64.


E poi:


Se un elefante o un principe,
In sua matta follia,
Lascia la dritta via,


Tosto nel biasmo incorrono
I consiglier65 di lui
E i satelliti sui.

E però, poichè da te fu menato presso il nostro padrone quell’animale erbivoro, ecco che di tua mano stessa son state accumulate le brace. — Damanaca disse: Questo è vero! L’errore è mio, non del re. Perchè è stato detto:


Dei capron per la battaglia,
Lo sciacallo si perdè;
Per Asadabuti, noi;
La ruffiana, perchè affari


Ebbe a cor che non son suoi;
Malanni tre
Fatti da sè66.

Carataca disse: Come ciò? — E l’altro disse:

Racconto. — In un certo paese è un oratorio laddove abitava già un monaco mendicante di nome Devasarma. Costui, dalla vendita di certe vesti finissime state date a lui da gente devota, adagio adagio s’era procacciata una bella somma di denaro. Allora, egli cominciò a non fidarsi di nessuno, nè si toglieva mai di sotto all’ascella quella somma, fosse giorno, fosse notte. Però fu detto bene anche questo:


In procacciar ricchezze è gran disagio;
Disagio in custodirle, procacciate.

Disagio allor che vengono,

Disagio allor che sfumano.
Oh! ree dovizie a stento conservate!


Ora, un tale, di nome Asadabuti, scellerato ladro degli averi altrui, avendo veduto quel gruzzolo di denari andar sotto l’ascella del monaco, così pensò: Come mai gli s’ha da portar via quel gruzzolo di denari? Ma qui, nel chiostro, per la soldità delle pietre congiunte, non c’è modo di rompere la parete, e per l’altezza non c’è da entrare per la porta. Io dunque, quando gli avrò ispirato fiducia con finte parole, mi acconcerò ad essere suo discepolo in modo che egli si fidi. Perchè è stato detto:


Chi non ambisce, pubblico ufficiale
Non sarà mai; non cura l’azzimarsi

Chi non fa il vagheggin presso alle donne,

Nè l’ignorante cosa che ti piaccia,
Parlerà mai, nè fia che inganni altrui
Chi dice aperto li pensieri sui. —

Così avendo pensato, andato nel cospetto del monaco, dicendo: Om!67 venerazione a Siva! — inchinandosi con tutte le otto parti del corpo68, in atto di compunzione disse: O reverendo, l’esistenza è fatua; simile, nella rapidità, a corrente montana, la giovinezza; eguale a un fuoco di paglia, la vita; simili ad ombre di nuvole, i piaceri; pari ad un sogno, i figli, la moglie, gli amici, la folla dei servitori, i congiunti! Questo è stato interamente conosciuto da me. Ora, per qual mai cosa che io faccia, avverrà che si superi da me l’oceano dell’esistenza?69 — Ciò udendo, Devasarma rispose con degnazione: Te beato, figlio mio, che nella prima giovinezza sei di natura tanto indifferente per le cose di quaggiù! Perchè è stato detto:


Sol chi d’animo è tranquillo
Nella sua più fresca età,
Credo che abbia vera calma.
Quando son le forze esauste,
Di chi mai tranquillità
Non s’ingenera nell’alma?70


Nella mente nasce in pria,
Poi nel senso corporal
La vecchiezza al sapiente71.
Ma lo stolto l’ha soltanto
Nella soma sua mortal,
Non mai dentro della mente.


Quanto poi all’espediente che mi domandi per superar l’oceano dell’esistenza, si ascolti:


Un Sudra o un altro simile,
O un Ciàndala che porti
Le trecce al mondo ascetico72,
Allor che lo conforti
La sivaita formola
Ed ei le membra intanto
Sparga d’immonda cenere,


Può diventare un santo73.
Col motto di sei sillabe74
Ponendo di sua mano
Un solo fior sul vertice
Del simbolo sovrano75,
Più non dovrà rinascere
In nessun corpo umano. —

Asadabuti, come ebbe udito ciò, abbracciandogli i piedi, così gli disse con rispetto: O reverendo, allora, col darmi i voti, mi si faccia grazia! — Devasarma disse: O figlio, io ti farò grazia. Soltanto non si deve star da te, di notte, nel chiostro, per ciò appunto che si loda la separazione dei monaci; e ciò, tanto per me quanto per te. Perchè è stato detto:


Perdesi il principe
Pel reo consiglio,
Per le moine


Perdesi il figlio;
Perdensi i monaci
Che insiem si stanno,


E i sacerdoti
Che nulla sanno.
La casa perdesi
Per la rea prole;
L’indole egregia
Per le ree scuole.
Da scioperaggine
Stato perfetto,
Amistà è guasta


Da poco affetto.
Ebbrezza e incuria
Guastan pudore,
L’ir troppo a zonzo,
Guasta l’amore.
Gli aver sì perdono
Per poca cura;
Per non far nulla,
L’agricoltura.

Perciò da te, come avrai preso i voti, si dovrà dormire alla porta del chiostro, in una capanna di paglia. — L’altro disse: O reverendo, la prescrizione tua è comando; anzi, nel mondo di là, io ne avrò buon frutto. — Allora, fatta la convenzione per il dormire, Devasarma, come l’ebbe accolto presso di sè, con insegnamenti a voce e di scrittura lo condusse al grado di discepolo, e Asadabuti, con lavargli le mani e i piedi, con procacciargli foglie di sandalo e con altri servizi, molto lo rallegrò. Ma il monaco non si toglieva mai di sotto dall’ascella il denaro, e intanto, andando il tempo, Asadabuti così pensava: Oimè! come mai dunque costui non si fida di me? Forse che io, sia pure di giorno, l’ho da uccidere con qualche arma? o gli ho da dar del veleno? o l’ho da ammazzare alla maniera di un bue? — Mentre egli così pensava, da certo villaggio, per fargli invito, venne un discepolo di Devasarma ch’egli teneva in conto di figlio. Il quale disse: O reverendo, per la cerimonia del conferire il cinto bramanico, vengasi da te a casa mia. — Avendo udito ciò, Devasarma, con Asadabuti, d’animo lieto s’incamminò. Andando egli così innanzi, fu da loro incontrato un fiume. Vedendolo, Devasarma, levatosi di sotto all’ascella il denaro, depostolo ben ravvolto in mezzo alla sua tonaca, fatta l’abluzione e l’adorazione agli Dei, d’un tratto disse ad Asadabuti: O Asadabuti, (intanto che io torni come abbia fatto le mie occorrenze, si deve da te guardar con cura questa tonaca che è del tuo maestro spirituale. — Così avendo detto, se n’andò. Ma Asadabuti, come l’altro non fu più in vista, toltosi il denaro, se n’andò via in tutta fretta, e Devasarma, preso nell’attimo dalle virtù del suo discepolo, fidandosi bene di lui, postosi giù, mentre così stava, osservava la battaglia di due caproni in mezzo ad una mandra di pelo rossiccio. Urtandosi, per il gran furore, quel paio di caproni dopo che s’eran molto ritratti indietro, il sangue loro stillò in gran copia dalla fronte. Allora uno sciacallo, con lingua ingorda entrando in mezzo, leccava il suolo insanguinato della battaglia, e Devasarma, nel veder ciò, pensava: Oh! quanto è sciocco di mente cotesto sciacallo! se anche una volta egli capiterà là nell’urto di quei due, s’avrà la morte. Così penso io. — Ed ecco che appunto in quel momento, essendo entrato nel mezzo per ingordigia di lambire il sangue, nell’urlo del capo di quei due lo sciacallo cadde e morì. Devasarma allora, compiangendolo, incamminatosi verso il suo tesoretto, mentre pian piano se ne veniva, non vide più Asadabati. Fatta perciò con grande ambascia l’abluzione di rito, esaminando la tonaca, ecco che il denaro non c’era più. Gridando allora: Aimè! aimè! ch’io son derubato! cadde svenuto a terra. Ma poi, dopo qualche tempo avendo ripreso i sensi, di nuovo, levandosi, incominciò a lamentarsi: O Asadabuti, or che m’hai ingannato, dove sei ito? suvvia! dammi risposta! — Così lamentandosi in maniere diverse, seguitando le pedate di colui, pian piano s’incamminò, e, andando, si trovò nell’ora della sera presso di un villaggio. Ora, da quel villaggio usciva appunto, con la moglie sua, un tessitore incamminato verso la città vicina per comprarsi rosolii, perchè Devasarma, vedutolo, così disse: O amico, noi siamo ospiti venuti presso di te ora che il sole è tramontato76, nè conosciamo alcuno qui, nel villaggio. Si osservi adunque il dovere dell’ospitalità, perchè è stato detto:


Ospite ch’è venuto dopo il cader del sole,
Dal signore della casa respinger non si suole.


Il signor della casa, facendogli accoglienza,
A conseguir si leva de’ sommi Dei l’essenza.


E poi:


Non mancan mai in casa a’ valentuomini
Strame77, acqua, terra78 e una parola affabile;

Quattro cose. Ora i Fuochi si compiacciono,
S’ei dicon79: «Benvenuto!», e tutto allegrasi


Indra, se da sedere ei dànno agli ospiti.
Dei piè per la lavanda i Padri godono,
E, pel primo boccon, l’Autor dell’essere80.


Il tessitore, udendo ciò, disse alla moglie: O cara, va tu a casa prendendo con te l’ospite e rimani intanto ad onorarlo di lavanda di piedi, di cena, di letto e d’altro. Io poi ti porterò rosolio in abbondanza. — Così avendo detto, se n’andò. Ma la moglie di lui ch’era donna di mal affare, prendendo con sè l’ospite, con bocca ridente perchè aveva in mente il suo Devadatta81, s’incamminò verso casa. Ora, egregiamente si dice:


Il giorno torbido,
Con neri nuvoli,
Quando difficili
Sono a passar le vie della città,


Partiti gli uomini82,
Di donne che amano
Che loro scuotasi
Il pelliccione, è gran felicità.


E poi:


Le donne innamorate
Che aman piacer furtivi,
Quanto vil paglia stimano83


Coltrici sprimacciate,
Lettighe con guanciali,
Sposi fidi e leali.

E poi:


Consumato hanno il cervello
Alla donna innamorata
Le carezze del suo bello
E nell’ossa l’ha infiammata
Il desìo del maschil sesso;
Son per lei punture e spine


Del marito le moine.
Niun conforto84 da costei,
E il marito, in verità,
Qual piacer ne coglierà?


E poi:


L’impudica che d’altri s’innamora.
Sempre a veder s’acconcia

La sua famiglia andarsene in malora;

Al biasimo s’acconcia della gente,
Al carcere s’acconcia
E della vita al periglio imminente.


La moglie, adunque, del tessitore, tornata a casa, come ebbe tratto fuori per Devasarma un letticciuolo senza coperta e sgangherato, disse: O reverendo, finchè io, come sia stata un poco con una mia amica venuta da un altro villaggio, non torni il più presto che possa, si resti da te in questa nostra casa a far buona guardia. — Così avendo detto, postasi certi ornamenti leggiadri, nel momento che usciva per andar dal suo Devasarma, le capitò dinanzi il marito suo tutto tremante per l’ubriachezza, coi capelli sciolti, barcollante a ogni tratto, avente in mano un fiasco di rosolio; perchè essa, vedutolo, fuggendo indietro rapidamente e rientrando in casa, deposti gli ornamenti, venne innanzi quale era prima. Il tessitore che l’aveva vedata fuggire fattasi quella meravigliosa attillatura, e che già aveva turbato il cuore per aver udito le sue perfidie da una tale che gliele aveva susurrate all’orecchio, se n’era pur stato fino allora a celar la sua intenzione. Ma allora, avendo veduto quel cotal atto di lei, fatto certo da ciò che aveva visto, mosso dalla forza dello sdegno, entrando in casa le gridò: O malvagia meretrice, dove andavi tu? — Quella rispose: Io, poichè son venuta via da te, non sono uscita in alcun luogo. Perchè dunque, per tanti rosolii bevuti, vai dicendo tante sciocchezze? — Intanto, egregiamente è stato detto:


I segni tutti di morboso stato
Dalle bevande inebrianti e forti

Fatti son manifesti. Ecco! è spossato
Chi n’usa, e al suol stramazza
E borbotta confuso e stranïato.

Anche il sol di cotesto ha esperienza
Quando son tremebondi i raggi suoi
Ed ei gitta le vesti
E perde suo vigore
E si tinge d’insolito rossore85.


Ma colui, udendo quella contraddizione e avendo veduto quel mutar di vesti, le disse: O meretrice! da lungo tempo son state udite da me le tue magagne, e però io stesso oggi, fattone certo, ti darò il dovuto castigo. — Così dicendo, dopo che le ebbe rotto il corpo con battiture di bastone, legatala ad un pilastro con forti lacci, vinto dall’ebbrezza, cadde in poter del sonno. Intanto un’amica di lei, moglie di un barbiere, accortasi che il tessitore era caduto in poter del sonno, venendo da lei, le disse: O cara, Devadatta ti aspetta a quel tal posto. Si vada adunque subito! — Ma l’altra disse: Vedi lo stato mio! Come posso andare? Però va tu e di’ all’amor mio: «Questa notte non posso venir con te». — Allora, la moglie del barbiere le disse: Cara mia, non dir così! Questo non è il costume della donna galante. Perchè è stato detto:


Di quei che fermo e certo in cor proposito hanno
Di côrre un dolce frutto, come i cammelli fanno86,

Anche se in chiuso loco e inaccessibil stia,

Credo che la natura degna di lode sia.


E poi:


Poi che la vita è incerta
Del mondo ch’è di là,
Poi che la gente esperta
È sol di biasmi, e va
Diverso e vario il mondo,


Se pronto a’ cenni sta
Un damerin giocondo,
Oh felici le donne
Che della fresca età
Sanno il frutto godere a sazietà!


E questo ancora:


Se per fato degli Dei
È deforme il damigello,
Pur sel godono bel bello
In segreto le dame innamorate.


Ma del proprio lor marito,
Anche se tutto piacente,
Non si curano per niente,
Tanto ne son ristucche ed annoiate! —


E quella disse: Se è così, dimmi allora in qual modo, legata come sono con forti lacci, posso io andare. Ed è pur qui questo scellerato di mio marito. — La moglie del barbiere disse: O cara, quest’ubbriacone non si desterà se non toccato dai raggi del sole. Perciò io ti scioglierò, e tu, come m’avrai legata al tuo posto, prestamente, dopo che sarai stata col tuo Devadatta, farai ritorno. — E quella disse: E sia così. — Come ciò seguì, il tessitore a un certo momento, levandosi su, poichè alcun poco gli era andato via lo sdegno e cessata l’ubbriachezza, disse a colei: O ganza degli altri, se da questo giorno in poi non uscirai più di casa e non t’intratterai con alcun altro, io li scioglierò. — Ma la moglie del barbiere, per timore della differenza della voce, non disse nulla, od egli più e più lo ridiceva quelle parole. Allora, poichè essa non gli dava alcuna risposta, egli, montato in ira, preso un rasoio affilato, le tagliò il naso, e disse: O meretrice, sta così intanto, che io non ti farò più alcuna carezza! — Così avendo borbottato, di nuovo s’addormentò; e Devasarma, che aveva perduto il sonno per la perdita del tesoro, con lo stomaco afflitto dalla fame, aveva veduto tutta cotesta faccenda delle donne. Ma la donna del tessitore, quando, fin che n’ebbe voglia, col suo Devadatta si ebbe goduto le dolcezze del piacere, a un certo momento ritornatasene a casa, così disse alla moglie del barbiere: Ohè! stai tu bene? e questo scellerato è stato su dopo che io era uscita? — La moglie del barbiere disse: Io sto bene per tutto il corpo fuorchè nel naso. Però tu scioglimi subito da questi legami perchè costui non mi vegga e io me ne torni così a casa mia. — Come ciò seguì, il tessitore, levatosi su di nuovo, disse alla donna: O meretrice, perchè non parli oggi? Forse che t’ho da dare altro più grave castigo col tagliarti gli orecchi? — E quella allora, con ira e con disprezzo, rispose: Via, via, ubbriacone! E chi mai può trattarmi male o mutilarmi, molto saggia come sono e fedele al marito? Questo ascoltino tutti gli Dei custodi del mondo, poichè è stato detto:


Il sol, la luna, il fuoco, il cielo, il vento,
L’acqua, la terra, il cor, Yama87 coi due

Crepuscoli, col giorno e con la notte,

Con la Giustizia ancor, sanno dell’uomo
La condotta che sia nell’opre sue.


Perciò, se v’è alcuna saviezza in me, gli Dei mi rendano il naso mio intatto; ma se, anche col solo pensiero, fu da me desiderato un altr’uomo, mi riducano essi in cenere. — Come ebbe detto ciò, ripigliò verso il marito: O scellerato, vedi ora che per la savia natura mia il naso m’è così appunto ritornato come prima! — Quegli allora, prendendo un tizzone acceso, intanto che guardava, ecco che il naso era così appunto e che al suolo era un gran lago di sangue. Perchè egli, stupito nell’animo, sciogliendola e liberandola dai lacci, fattala umiliar sul letto, con molte carezze la consolò; e Devasarma, avendo osservato tutta quella faccenda, con mente stupita, così diceva:


Quel saper che Usanas88 ha
E Vrihàspati89 pur sa,
Delle donne non potria
Superar la furberia.
Come dunque in sicurtà
Custodirle alcun potrà?


Queste che il vero
Proclaman falso,
E il falso vero,
Come potranno
Esser guardate
Da genti che hanno
Menti assennate?


E fu detto anche in altra maniera:


Non troppo amore
Ponete in femmine,

Poter di donne
Non fate crescere!
Co’ lor mariti

Che troppo le amano.
Qual con cornacchie
Che han tronche l’ali,
Si baloccan le tali e le cotali.

E favellan con bocca ridente


Ed assaltan con avida mente,
E sta il miel sulla bocca alle donne,
Ma nel core un veleno mordente.
Dagli uomini, allettati
Da un briciol di piacere,


Come dalle api ingorde
Il loto per il miele,
Suolsi baciar la bocca
Alle donne, e co’ pugni il cor si tocca90.


Ancora:


Oh! da chi mai quaggiù, sol per distruggere
Ogni ordin, fu prodotta questa macchina

Ch’è la donna, velen misto d’ambrosia,
Corba di tutti inganni, aspra e difficile
A governar da grandi e valent’uomini,
Ostel d’impudicizia e gorgo e vortice
Di perigli, città di scelleraggini,
Ripostiglio di vizi e casa propria
Di cento iniquità, regno di trappole?

Lodasi molto in donne
Del petto la durezza.
Procace e ingannatrice
Degli occhi la vivezza,
Viluppo di capelli,
Crespi, ravvolti e bruni,
Di bocca picciolezza,
Rotondità di cluni,
Timido core; e sempre
Ciascun favella intanto
Dell’arti onde sul damo
Ottengon esse il vanto.
Le simili a gazzelle91
Di cui i vizi molti


Virtù son tutte e pregi
In un drappel raccolti,
Agli uomini, davver!
Come potrian piacer?92
Esse ridono e piangono od inspirano,
Per fini lor, fiducia in cor degli uomini,

Intanto che dell’uom poi non si fidano.
Però da chiunque è d’alta e nobile indole,
Son veramente da fuggir le femmine,
Come per cimiteri atre fantasime93.

Leoni dalle giubbe scarmigliate,
Dall’orrido sembiante;

Elefanti, le gote che han rigate
Di molto umor stillante94:
Uomini saggi, eroi forti e animosi
Dell’armi alla tenzone,
Davver, che sono assai povera cosa
Di donne al paragone!

Fin che veggon che l’uom non s’innamora
Gli fan moine da principio e feste;

Se d’amor preso al laccio il veggan poi,
Traggonlo dietro a sè come quel pesce
Che avidamente diè di morso all’esca.


E che?


Di natura mobilissime
Come l’onde dell’oceano,


E d’affetto95 momentaneo,
Come nubi che s’accendono


Nel momento del crepuscolo,
Loro intento come aggiungano,
L’uom deluso elle abbandonano
Qual di lacca un frusto inutile
Che con forza già spremettero.

Stordiscono, ubbriacano,
Ingannano, minacciano,

Acquetano, disturbano.

Nel molle cor dell’uom poich’entrar sanno,
Con quegli occhi sinistri96 oh! che non fanno?

All’interno velenose,
All’esterno dilettose,

Perciò simili ad un cesto
Tutto a frutti e a fiori intesto97,
Si ponno definir le nostre spose. —


Mentre il monaco così pensava, con affanno grande passò quella notte, e la mezzana, ritornata a casa sua col naso tagliato, andava pensando: Che s’ha da fare ora? e in che modo s’ha da nascondere questo gran malanno? — Mentre era in questi pensieri, ecco che il marito, che era stato a corte per sue faccende e ora tornava a casa sua in sul mattino, stando pur sulla porta di casa nella fretta di aver molte cose da fare in città, le gridò: O cara, portami subito la scatola de’ rasoi perchè io me ne vada alle mie faccende in città! — Ma quella, che aveva il naso tagliato, standosi pur dentro in casa, guardando a ciò che doveva fare, dalla scatola de’ rasoi toltone uno solo, lo scagliò contro il marito, perchè il barbiere, per la fretta che aveva, vedendo quel solo rasoio, preso dall’ira glielo avventò di contro. Allora la mala donna, levando in alto le braccia, con animo furioso, saltò fuori di casa gridando: Aimè! da questo scellerato, vedete! mi è stato tagliato il naso, onesta come sono! Aiuto! aiuto! — Intanto, i sergenti del re, accorrendo, come ebbero ben picchiato il barbiere con colpi di bastone, legatolo con corde robuste, insieme alla donna che aveva il naso tagliato, menandolo alla casa del tribunale, dissero ai giudici: Ascoltino le vostre signorie, i giudici. Da questo barbiere, senza alcuna colpa di lei, è stata mutilata questa perla di donna. Ora, ciò che si merita, gli si faccia. — Così essendo stato detto, dissero i giudici: Ah! barbiere, perchè mai da te fu mutilata la donna tua? forse che da lei è stato amato un altro? o forse che ti è stato fatto alcun danno alla vita? o forse che è stata fatta opera di ladroneccio? Suvvia! dicasi il fatto suo! — Ma il barbiere, disfatto dalle battiture, non poteva parlare, perchè i giudici dissero: Oh! dunque è pur vero ciò che dicono i sergenti del re! Costui non ode! Costui è uno scellerato! e questa povera innocente è stala trattata male da lui. Ora, è stato detto:


L’uom che ha commesso
Alcun misfatto,
Tristo e perplesso
Per quel che ha fatto,


Perde la voce,
Perde il colore,
Guarda sospetto,
Perde il vigore.

Ancora:


Con gambe che vacillano,
Con faccia scolorita,
Con voce che balbetta,
Con fronte inumidita
Da stille di sudore,
In basso riguardante,


Ai giudici davante
L’uom s’appresenta di reo fatto autore.
Ove con studio guardisi,
A questi segni certi
Egli è riconoscibile
Da quei che di cotesto ènno più esperti.


Altro ancora:


Dinanzi ai giudici
L’uomo innocente
Con voce placida,
In sè fidente,
Con cor gioioso,


Con sguardo iroso98,
Chiaro nel dir,
Destro e animoso,
Suol farsi udir.


E costui appunto si mostra coi segni del misfatto, e però devesi mandar a morte per aver trattato male una donna. Facciasi dunque salir sulla forca. Così la legge. — Devasarma allora, come vide che menavano il barbiere al luogo del supplizio, correndo nel cospetto dei giudici, gridò: Oh! ingiustamente si manda a morte quel poveretto! Il barbiere è uomo d’onestissima vita. S’ascolti pertanto una mia parola:


Dei caprini per la battaglia,
Lo sciacallo si perdè;
Per Asadabuti, noi;
La ruffiana, perchè affari


Ebbe a cor che non son suoi;
Malanni tre
Fatti da sè. —


I giudici allora gli dissero: Oh! reverendo, come va cotesto? — Perchè allora Devasarma raccontò con tutti i particolari l’avvenimento di quei fatti, e i giudici, udendo ciò, molto meravigliati della mente, liberato il barbiere, andavano dicendosi l’un l’altro: Davvero!


Il bramino, il fanciullo e l’ammalato,
La donna, il penitente,

Condannar non si ponno impunemente.

Per ogni colpa loro anche più grave,
La mutilazione
La legge nostra espressamente impone.


La donna del barbiere, per colpa sua, ebbe il naso tagliato; ma ora sia la sua pena, per legge regale, il taglio degli orecchi. — Come tutto ciò fu fatto, Devasarma, reso libero omai dal dolore nato in lui per la perdita del suo tesoro, se ne tornò al suo eremitaggio. Però io dico:


Dei capron per la battaglia,
Lo sciacallo si perdè;
Per Asadabuti, noi;
La ruffiana, perchè affari


Ebbe a cor che non son suoi;
Malanni tre
Fatti da sè. —

Carataca disse: In queste condizioni, cosa dobbiam fare noi due? — Damanaca disse: In questi termini mi verrà certamente qualche lampo di genio per cui io separerò Sangivaca dal nostro padrone. Perchè è stato detto:


Via dall’arco liberata
Una freccia dall’arcier
Può e non può
Fare un morto al suol cader;


Ma prudenza bene usata
Da un uom saggio e di gran cor
Rovesciò
Col suo duce un regno ancor.


Io però, con arte multiforme, ricorrendo a un inganno nascosto, ne lo separerò. — Carataca disse: E se Pingalaca o Sangivaca viene a conoscere in qualche maniera quest’arte tua multiforme, caro mio, allora sarà un guaio! — E l’altro disse: Non dir così, amico. Da chi ha mente profonda, in tempo di disdetta, anche essendo contraria la fortuna, si deve usar dell’ingegno nè si deve lasciar mai alcun tentativo. L’ingegno in un attimo può acquistarsi un regno. Perchè è stato detto:


La fermezza del core
Deh! tu non lasciar mai
Anche se avverso il fato
Alcuna volta avrai,
Chè a loco alto d’onore
Per avventura giunge


Chi ha fermezza del core,
Anche se in mar gli avviene
Di perder rotte e infrante
Le navi, a l’opra torna
Voglioso il mercatante.


E poi:


Sempre all’uom ch’è diligente
Lieta sorte s’accompagna.
«Oh! il destin!», così la gente
Ch’è più stolida, si lagna.


Del destin non ti curando,
Uom ti mostra come può.
Non riesci t’adoprando;
E qual colpa avra’ tu in ciò?


Io adunque, ben sapendo nel mio profondo pensiero che quei due non s’accorgeranno di nulla, li separerò l’uno dall’altro. Perchè è stato detto:


D’un inganno che resti ben celato,
Nemmeno Brahma al fondo è penetrato;


Di Visnù nella forma, il tessitore
Della figlia del re godè il favore. —


Carataca disse: Come ciò? — E l’altro disse:

Racconto. — In un certo paese abitavano due amici, un tessitore e un carpentiere. Là, fin dalla fanciullezza, essi avevano passato il loro tempo dimorando sempre insieme e sempre l’un con l’altro aggirandosi per i medesimi luoghi, quando un giorno, in quel paese, presso l’oratorio d’un idolo, vi fu una gran festa con una processione. Andando pertanto quei due e passeggiando per il luogo tutto pieno di saltimbanchi, di ballerini, di cantanti, ingombro di genti venute da diverse parti, ecco che essi videro la figlia di un re che era montata su di un elefante, adorna dei segni tutti della bellezza, circondata da paggi e da eunuchi, venuta essa pure a veder l’idolo. Ma il tessitore, appena l’ebbe veduta, come se fosse stato preso da avvelenamento o colto da un pianeta maligno, ferito dalla saetta dell’amore, cadde d’un tratto a terra. Vedendolo in quello stato, il carpentiere, dolente di quella sventura, fattolo levar su da uomini atti, lo menò a casa sua, dove egli, con diversi rinfrescanti additati dai medici e curato dagli indovini, dopo lungo intervallo ritornò in sè. Allora, fu così domandato dal carpentiere: Amico mio, come mai e per qual cagione ti sei così svenuto? Raccontami tutto ciò come è veramente! — E l’altro disse: Amico, se così è, tu ascoltami in segreto e io ti dirò il tutto. — Dopo questo, egli disse: Amico mio, se tu mi stimi tuo amico, fammi grazia di procacciarmi le legne per il rogo99 e perdonami se, per la violenza dell’amore, t’ho fatto cosa che tu non meritavi. — L’altro, udendo ciò, con occhi gonfi di lagrime e balbettando disse: Dimmi adunque la cagione del tuo dolore, acciocchè vi si ponga rimedio se ciò si potrà fare. Perchè è stato detto:


Cosa non è nel mondo
Che aggiustar non si possa
D’incanti e lattovari,


Dell’oro con la possa,
Coi pensamenti savi
D’uomini dotti e gravi.


Se pertanto questo tuo male è rimediabile per alcuna di queste quattro cose, io vi porrò rimedio. — Il tessitore disse: Amico, il mio male è irrimediabile e per questi e per mille altri rimedi. Però non perder tu il tempo nella morte mia. — Il carpentiere disse: Oimè, amico, piuttosto fammelo sapere, perchè, ove io pure lo stimi irrimediabile, entri con te nel fuoco. Io non sopporterei nemmeno un istante la tua lontananza. Tale è il mio divisamento. — Il tessitore disse: Dunque ascolta, o amico. Dal momento che io ho veduto là alla festa quella figlia di re montata su di un elefante, questa condizione mia mi è stata fatta dal dio beato dell’amore. Però io non posso sopportar questo malanno. Intanto è stato detto:


Quando mai potre’ io, stando con lei
Un sol momento, fra sue braccia chiuso,

Sazio dormir di voluttà, fra quelle

Mammelle sue cacciandomi col petto,
Molli di zafferai!, turgide in guisa
Di tumor d’elefante ebbro d’amore?100


E poi:


Quel suo labbro colorito,
Quel suo paio di mammelle,
Quel suo orgoglio giovanile,
Quel suo bellico profondo,
Quel suo taglio della vita
Agil come un stel di loto,


Tai pensieri della mente
Le vertigini mi dànno
Subitane e vïolente.
Che le guance sue leggiadre
Più e più m’ardan, forse che
Vero e giusto ciò non è? —

Il carpentiere, udendo quelle parole d’amore, disse allora sorridendo: Antico, se così è, noi abbiano raggiunto felicemente la meta. Però oggi stesso tu starai con lei. — Il tessitore disse: Amico, là, in quella stanza della fanciulla, dove, eccetto il vento, nessun altro può entrare, guardata com’è dai custodi, come mai potrei io stare insieme con lei? perchè adunque ti fai beffe di me con queste menzogne? — Il carpentiere disse: Ebbene! amico mio, tu vedrai il mio ingegno. — Così avendo risposto, in quel momento stesso, fabbricò con legno di albero vayugia un’aquila Garuda101 moventesi per mezzo di una manovella, avente un paio d’ali con la conchiglia, col disco, con la clava, col loto, col diadema e coi gioielli102. Allora, facendovi montar su il tessitore, come l’ebbe fornito di quelle insegne di Visnù, insegnatogli anche il modo di adoperar la manovella, gli disse: Amico, penetrando di notte nella stanza della fanciulla in questa forma di Visnù, tu, come avrai con acconce e lusinghiere e accorte parole ingannata cotesta principessa che se ne sta sola all’estrema parte del palazzo dai sette quartieri e che nella sua storditaggine ti crederà Visnù, secondo i precetti di Vatsyayana103, prendine piacere. — Il tessitore, come ebbe udito ciò, penetrato sin là in quella forma, disse alla fanciulla: Dormi tu, o figlia di re, o vegli? Io per te, preso d’amore, dall’oceano di latte, abbandonando la mia Lacsmi104, son venuto qui in persona! Però si stia insieme con me. — E quella, vedendolo montato sull’aquila Garuda, con quattro braccia, armato, col mistico gioiello, levandosi meravigliata dal letto, congiunte le mani sulla fronte per reverenza, rispose: O beato, io sono un impuro verme umano e tu sei onorato nei tre mondi e loro creatore. Come dunque tutto questo può farsi? — Il tessitore disse: O cara, è vero ciò che da te si dice, ma anche Rada la moglie mia una volta era nata in una famiglia di pastori. Tu sei l’incarnazione di lei; perciò appunto io son qui venuto. — Così egli disse, e quella rispose: O beato, se è così, allora tu domandami al padre mio, ed egli senza dubbio mi ti darà in isposa. — Il tessitore disse: O cara, io non soglio andare al cospetto degli uomini. Molto meno poi c’è ragione di parlar con loro. Perciò tu mi ti devi dare secondo la norma del matrimonio gandarvico105. Se no, io con una maledizione, ridurrò in cenere tuo padre con la sua famiglia. — Così avendo detto, disceso dall’aquila Garuda, prendendo con la mano sinistra la fanciulla tutta timorosa, vergognosa e tremante, la condusse a letto. Là, per tutta quella notte, com’ebbe preso piacere di lei secondo i precetti di Vatsyayana, all’alba ritornò non visto a casa sua. Così, mentr’egli seguitava a prendersi piacere di lei, il tempo passava. Ma poi, un giorno, i paggi vedendo il labbro inferiore di lei, simile a corallo, segnato da morsi, così si dissero l’un l’altro: Oh guardate! La persona della principessa si mostra come di tale di cui alcuno si prenda piacere. Come dunque malanno di tal fatta può accadere in questa casa così ben custodita? Noi lo farem sapere al re. — Così avendo divisato, tutti, andando al re, gli dissero: Signore, noi non sappiam nulla, ma nelle stanze ben custodite della ragazza entra qualcuno. Intanto, il re comandi! — Ciò udendo, il re con mente turbata si pose a pensare:


Nata una figlia
È un cruccio fiero;
A chi darassi106,
È un gran pensiero.
Avrà, se sposa,
Felicità,
O non l’avrà?
Tu se’ un malanno
In verità,
O di figliuole
Paternità!


Son lo femmine e i torrenti
Nel potere equivalenti.
Oh! davver che s’assomiglia
Ogni sponda a ogni famiglia!
Fan rovina o fanno sperpero.
Or coi vizi, ora con l’onde,
Della casa le ree femmine
E i torrenti delle sponde.

E poi:


Della madre allieta il core
Una figlia quando è nata;
Poi, con cura e con affanno,
Dai parenti è nutricata.


Data ad altri con onore,
Si comporta indegnamente.
Son sventura insuperata
Le figliuole veramente! —


Così in varie maniere avendo pensato, egli parlò alla regina in un luogo segreto: Sappiasi, o regina, ciò che i paggi dicono. Intanto si crucci il dio della morte con colui dal quale questo inganno ci è fatto! — Anche la regina, ciò udendo, tutta turbata, venendo in gran fretta alla stanza della fanciulla, vide che il labbro inferiore le era stato morsicato e il corpo segnato da unghie, e però disse: Oh! malvagia, oh! disonor della tua casa, come mai hai tu fatto quest’onta a te stessa? Chi è quel già segnato dal dio della morte che ti si accosta? Suvvia! in presenza mia, si dica il vero! — Avendole così parlato la madre con ira aspra e riottosa, la giovane principessa, con aspetto di timore e di vergogna, rispose: Mamma, ogni giorno Visnù in persona, montato sull’aquila Garuda, viene da me la notte. Se questa parola mia non è la verità, tu stessa co’ tuoi occhi, ben nascosta, potrai vedere questa notte il beato sposo di Lacsmi. — Ciò udendo, la regina con bocca ridente, coi peli arricciati per la gioia, ritornando in gran fretta, così parlò al re: O re, possa tu essere felice! Ogni notte, il beato Visnù si accosta sempre a nostra figlia. Essa fu sposata da lui col matrimonio gaudarvico. Questa notte stessa egli si potrà vedere da me e da te andando a una finestra, perchè egli non vuol parlare coi mortali. — Al re che con gioia udì cotesto, parve quel giorno della lunghezza di cent’anni. Ma poi, standosi egli nascosto quella notte, postosi con la sua donna a una finestra, mentre si stava cogli occhi volti al ciclo, ecco che al tempo stabilito vide discender Visnù per l’aria, avente fra le mani la conchiglia, il disco e la clava, fornito de’ suoi segni consueti. Egli allora, pensandosi di nuotare come in un mare pieno di nettare, così disse alla sua donna: O cara, non vi è alcuno al mondo più ricco di me e di te! Poichè il beato Visnù si prende piacere di nostra figlia convenendo con lei, tutti i desideri nostri del cuore saranno soddisfatti. Intanto, col potere di mio genero, io sottometterò tutta quanta la terra. — Così avendo pensato, violò i confini di tutti i re circonvicini. Ma quelli, vedendo ch’egli violava i confini, radunatisi insieme, tutti gli mossero guerra. Il re allora, per bocca della regina, così fece dire alla fanciulla: O figlia, avendo noi una figlia come te ed essendo nostro genero il beato Visnù, come va che tutti quanti i re mi fanno guerra? Però si deve avvertire oggi il tuo proprio marito perchè tolga di mezzo questi nemici miei. — La fanciulla allora così disse con rispetto al tessitore, venuto da lei quella notte: O beato, non è punto bello che, essendo tu suo genero, mio padre sia oppresso dai suoi nemici. Facendogli adunque grazia, disperdili tu! — Il tessitore disse: O cara, i nemici di tuo padre son ben poca cosa; però non aver timore. In un istante io li farò a pezzi col disco mio Sudarsana. — Intanto, con l’andar del tempo, essendo stata invasa dai nemici tutta quanta la terra, il re fu ridotto alle sole sue mura. Egli tuttavia mandando pur sempre al tessitore in forma di Visnù, non sapendo chi egli si fosse, doni di canfora, d’aloè, di muschio, e d’ogni altro odor soave, con cibi, bevande e varie maniere di vesti, per bocca della figliuola gli faceva dire: O beato, domani all’alba sarà presa la città; mancano ormai le biade e le legna da ardere, tutti hanno guasta la persona dalle ferite e però non possono combattere, molti poi sono morti. Ciò sapendo, facciasi da te quanto si conviene all’occasione. — Avendo ciò udito, il tessitore pensò: Se la città vien presa, io avrò la morte e dovrò separarmi da costei. Io però, montando sull’aquila Garuda, mi farò veder nell’aria con le mie armi. Forse, pensando che io sia Visnù, i nemici spaventati periranno tutti, uccisi dai soldati del re. Perché è stato detto:


Anche dal serpe che non ha veleno,
Una gran cresta si dee sollevare.


Abbia tosco o non abbia, non può a meno
Della cresta l’ardir di spaventare.


Anzi, se io, uscendo in favor della città, avrò la morte, sarà anche più bello. Perchè è stato detto:


Se per i buoi,
Per i bramini.
Pel suo signore,
Per la sua donna,


Per la città,
Alcun morrà,
Avrassi in premio
L’eternità.


Anche è stato detto:


Quando la luna è nello stesso cerchio,
Anche il sole a Rahù resta soggetto107;


Del forte è pur laudabil la sventura
Quando il toccò per alcun suo protetto. —


Così avendo pensato, come ebbe fatto pulizia dei denti, rispose alla fanciulla: O cara, quando saranno sterminati tutti i nemici, io berrò e mangerò ancora. Che più? allora io tornerò a star con te. Intanto, tu devi dire al padre tuo che domani all’alba, uscendo dalla città con un forte esercito, cominci la battaglia. Io a tutti i nemici suoi toglierò ogni vigore, ed essi allora potranno essere uccisi da lui agevolmente. Se io in persona li sterminassi, quei malvagi sarebbero in via di salute108; perciò bisogna trattarli in modo che essi nel fuggire siano uccisi e non vadano in paradiso. — La fanciulla allora, avendo udito cotesto, andando in persona dal padre, gli fece saper tutto ciò, perchè il re, dando fede alle sue parole, levatosi di gran mattino, con un ben compatto esercito uscì a combattere, e il tessitore, posto il pensiero a morire, con l’arco in pugno, per le vie dell’aria, uscì alla battaglia. In quel momento, il beato Visnù che conosce il passato, il presente, il futuro, chiamata a sè con un solo atto del pensiero109 l’aquila Garuda, così le disse sorridendo: O pennuto augello mio, sai tu che un certo tessitore sotto le mie forme, cavalcando un’aquila Garuda di legno, fa all’amore con la figlia d’un re? — Rispose: O beato, tutta questa faccenda si sa! che faremo intanto? — Il beato Visnù disse: Oggi il tessitore deliberato di morire, fattone voto, è uscito a combattere. Egli se ne va a morte ucciso dalle forti saette dei soldati. Morto lui, tutta la gente andrà dicendo che Visnù, venuto a battagla con gagliardi soldati, è stato atterrato insieme all’aquila Garuda. Tutto il mondo allora non ci renderà più alcun onore. Tu perciò, andando presto, ficcati dentro a quell’aquila di legno; io intanto entrerò nel corpo del tessitore perchè egli possa sterminare i nemici. Sterminati i quli, avrem noi grande accrescimento di onore. — Come Garuda ebbe risposto: Così si faccia, — il beato Visnù si cacciò nel corpo del tessitore, il quale, per la virtù di lui, stando nell’aria, armato di conchiglia, di disco, di clava e d’arco, in un attimo e come per giuoco tolse ogni vigore a tutti quei valorosi guerrieri, che, circondati dal re col suo esercito, furon tutti vinti e uccisi in battaglia. Allora andò attorno fra la gente questa voce, cioè che i nemici erano stati tutti sterminati dalla potenza di Visnù genero del re. Il tessitore intanto quando vide che i nemici erano tutti uccisi, con mente lieta si calò dall’aria, e perchè il re, i ministri e i cittadini quando videro ch’egli era il tessitore, gli domandarono: Come va cotesto? — , egli, cominciando dal principio, fece loro sapere quanto già era accaduto. Il re allora, con animo giubilante, essendo cresciuto in potenza per lo sterminio de’ suoi nemici, in presenza di tutta la gente, secondo le regole nuziali, diede in isposa al tessitore la figlia e vi aggiunse anche delle terre; e il tessitore, godendo di lei del quintuplice goder del mondo, così passò il suo tempo. Perciò si disse:


D’un inganno che resti ben celato,
Nemmeno Brahma al fondo è penetrato;


Di Visnù nella forma, il tessitore
Della figlia del re godè il favore. —

Avendo udito ciò, Carataca disse: Amico, sia pur così. Ma io ho gran timore, perchè Sangivaca è accorto e il leone è feroce e tu non sei da tanto da separar questo da quello. — L’altro disse: Anche chi non è da tanto è da tanto, perchè è stato detto:


Ciò che far non si potrà
Con la forza, si farà
Con l’astuzia.


Nero un serpe si perdè
Per il corvo che gli diè
D’oro un vezzo. —

Carataca disse: Come ciò? — E quegli disse:

Racconto. — C’era una volta in un certo luogo un grand’albero di fico dove abitavano, avendovi posta la loro dimora, due corvi, marito e moglie. Ma, ogni qual volta essi nutrivano i loro piccini, ecco che un serpente nero, uscendo da una cavità di quell’albero, di mano in mano se li divorava, perchè essi, per disperazione, andando da uno sciacallo, loro caro amico, che abitava alle radici di un altro albero, gli dissero: Amico, che dobbiam far noi due, essendoci accaduto cotesto? Quel nero serpe malvagio, uscendo dalla cavità dell’albero, si va divorando i nostri piccini. Dicasi alcuno spediente per riparare a ciò!


Quei che prossime alla sponda
D’un torrente ha il suo podere,
Di cui vassene a’ convegni
Con il ganzo la mugliere,


Al quale abita un serpente
Nella rasa, come mai
Fia tranquillo della mente?


E ancora:


Lo stare in casa
Dov’è un serpente,
Rischio è di vita
Indubbiamente.


La vita è incerta
In quel confino
Che qualche serpe
Ha per vicino.


Noi pure che stiam là, ogni giorno siamo in pericolo di vita. — Lo sciacallo disse: Quanto a voi, voi non dovete minimamente turbarvi. Però quel ghiottone non potrà essere tolto di mezzo che con l’astuzia, perchè è stato detto:


Con l’astuzia, del nemico
Tal vittoria aver si può
Qual con l’armi non avresti.


Omiciattol che sa l’arte,
Vincer mai non si lasciò
Dai gagliardi più rubesti.


E poi:

     
Una gru che assai pesci divorava

Grandi, mezzani e piccoli, fu morta

Da un granchiolin, perchè troppo bramava.


I due dissero: Come ciò? — E l’altro disse:

Racconto. — In un certo paese selvoso era già un grande stagno fornito di diversi pesci. Una gru che là aveva posto la sua dimora, venuta a vecchiezza non poteva più prender pesci, perciò, con la strozza tormentata dalla fame, sedutasi sulla sponda di quello stagno, se ne stava piangendo, bagnando la terra di lagrime scorrenti, simili a perle. Allora un granchiolino accompagnato da diversi pesci, afflitto per il suo dolore, accostatosi a lei, così le disse con rispetto: Perchè mai oggi, o mamma, s’è preso da te a digiunare? Tutto è qui pieno di lagrime e di sospiri. — Ed essa disse: Figlio mio, tu hai indovinato il vero. Io mi nutro di pesci, ma ora, per penitenza, ho fatto voto di digiunare, e però io non mangio di alcun pesce anche se molto mi si accosta. — Il granchio, udendo ciò, disse: Qual è la cagione, mamma, di questa penitenza? — E quella disse: Figlio mio, io son nata presso queso stagno e vi sono anche invecchiata, e qui è stato udito da me che presto seguiranno dodici anni di siccità. — Il granchio disse: Da chi l’hai tu udito? — La gru disse: Dalla bocca di un astrologo, e ciò quando Saturno, tagliando la via al carro di Rohini110, prende Marte e Venere. Ora, è stato detto da Varahamihira111:


Quando il figliuol del sole112
Del carro di Rohini
Il sentiero attraversa,


Indra quaggiù nel mondo
Per anni sei e sei
Le pioggie sue non versa.


E poi:


Quando Saturno di Rohini al carro
Taglia il sentier, la terra, come rea

Di gran delitti, tutta d’ossa infrante

E di cenere piena, a chi di teschi
Si fe’ cintura, ha simile sembiante113.


E poi:


Se il figliuol del sole o Marte
O la Luna, di Rohini
Tiene il carro, che diremo?


In un gorgo di sventure
A ogni popol della terra
Un malanno incoglie estremo.


E poi:


Del carro di Rohini
A mezzo del sentiero
Quando la luna sta,
Meschina e derelitta
La gente che si fa?


Cotta al calor del fuoco
Mangia la propria prole,
Acqua si bee stagnante
Sotto all’ardor del sole.


Ora, questo stagno è scarso d’acqua e fra poco sarà asciutto. In quella siccità tutti quelli coi quali io son cresciuta e coi quali mi sono trastullata, per mancanza d’acqua verranno a morire. Io non reggo a veder la loro morte, e però ho fatto questo voto di lasciarmi morir di fame. Intanto i pesci di tutti gli stagni scarsi d’acqua dai loro addetti sono trasportati in luoghi d’acque profonde; alcuni, anzi, incominciando dai delfini, dagli alligatori, dagli orchi e dagli elefanti marini114, vi si recano da loro stessi. Ma qui, in questo stagno, i pesci se ne stanno senza darsi alcun pensiero, e io appunto vo piangendo perchè di essi non resterà nemmeno la semenza. — Il granchio allora, avendo udito tutto ciò, fece sapere agli altri pesci quelle parole della gru, e quelli tutti, con animo preso da terrore, cominciando dai pesci maggiori alle testuggini, andando dalla gru, così le domandarono: Mamma, c’è qualche modo per salvarci? — Disse la gru: Non lontano da questo stagno se ne trova un altro, grande, d’acque molte, ornato di foglie di loto, che, anche se non piove per ventiquattr’anni, non si asciugherà. Ora, se alcuno di voi mi monta sulla schiena, io lo porterò là. — I pesci allora, fidandosi di lei, gridando: Mamma! zia! sorella! io per il primo! io per il primo! — , la attorniarono da tutte le parti. Ma la malvagia, prendendoli per ordine uno ad uno sulla schiena, andando su d’una rupe piatta non lontana dallo stagno e traendoveli sopra, in disparte se li mangiava. Tornando poi di nuovo allo stagno, sempre ingannando la mente dei pesci con false novelle degli altri, si procacciava il suo nutrimento. Ma, un giorno, essa fu così dimandata dal granchio: Mamma, con me per la prima volta tu hai parlato con affetto. Perchè dunque mi abbandoni e meni via gli altri? Salva oggi almeno la vita mia! — Udendo cotesto, la malvagia così pensò: io son sazia di carni di pesci, e però oggi mi farò un manicaretto di questo granchio; — Dicendo allora: Suvvia! fatto salir il granchio sulla schiena, s’incamminò verso quella rupe da macello. Ma il granchio come vide da lontano la rupe che omai era un monte d’ossa, accortosi che quelle erano ossa di pesci, così domandò alla gru: Mamma, di quanto è ancora distante quello stagno? Sei tu stanca, dimmi, del mio peso? — Ma la sciocca gru pensando che il granchio fosse un pesce e credendo che non potesse vivere all’asciutto, sorridendo rispose: O granchio, dov’è mai quest’altro stagno? Il modo di sostentar la vita mia è questo; perciò accomandati pure al tuo dio protettore, che io, traendoti su quella rupe, voglio pur divorarti. — Ma, mentre essa così diceva, fu presa dal granchio con le branche nella parte molle del collo, bianca come uno stelo di loto, e uccisa. Il granchio allora, prendendo la testa della gru, adagio adagio se ne ritornò allo stagno. Tutti i pesci l’interrogarono: Ohè, granchio, perchè sei tu ritornato? E c’è qualche segno di buono augurio? E la mamma non è venuta con te? Perchè dunque s’indugia? Noi tutti siam qui bramosi con gli occhi su di te. — Avendo quelli così parlato, il granchio sorridendo rispose: Tutti quegli sciocchi pesci, ingannati da quella bugiarda che li ha tratti non lontano di qui su quella piatta rupe, sono stati divorati da lei. Io però che non era ancor destinato alla morte, conosciuto il disegno di lei, micidiale di chi in lei si confidava, qui ne porto la testa. Non più paure adunque! Tutti i pesci omai possono star tranquilli. — Però io dico:

     
Una gru che assai pesci divorava

Grandi, mezzani e piccoli, fu morta

Da un granchiolin, perchè troppo bramava. —


Disse il corvo: O caro, dimmi allora in che modo quel malvagio serpente può essere ucciso. — Lo sciacallo disse: Tu devi andate a una città che sia sede di re. Là, ad un qualche ricco o ad un ministro regio o ad un altro nel momento ch’ei non vi badi, devi rapire un monile d’oro o un vezzo di perle e cacciarlo nel buco dell’albero. Per esso, il serpente agevolmente verrà ucciso. — Il corvo allora e la cornacchia, levatisi a volo in quell’istante, se ne vennero ad una città, e la cornacchia capitò ad un giardino, laddove, mentre se ne stava ad osservare, ecco che tutte le donne del gineceo d’un re, venute ad uno stagno, deposti i monili d’oro, i vezzi di perle, le vesti e gli altri ornamenti, stavano scherzando nell’acqua. Essa allora, rapito un monile d’oro, si mosse per volare al suo albero. Ma i paggi e gli eunuchi, vedendo portar via quel monile, con bastoni alla mano, corsero in fretta dietro alla cornacchia, e la cornacchia, cacciato quel monile nel buco del serpente, si fermò ad un punto ben lontano. Intanto che i servitori del re, montati sull’albero, frugavano in quel buco, ecco che là si stava, sciolte le spire, un nero serpente. Uccisolo a colpi di bastone e ripreso il monile, essi se ne andarono per la loro via, e i due corvi, marito o moglie, d’allora in poi abitarono felicemente in quel luogo. Perciò io dico:


Ciò che far non si potrà
Con la forza, si farà
Con l’astuzia.


Nero un serpe si perdè
Per il corvo che gli diè
D’oro un vezzo.


Del resto, non v’è nulla al mondo che non si possa fare dai saggi. Perchè è stato detto:


Ha possanza chi ha del senno.
Dello stolto ov’è il poter?


Nella selva un leon fero
Una lepre fe’ cader. —


Carataca disse: Come ciò? — E l’altro disse:

Racconto. — In mezzo ad una selva abitava un leone di nome Basuraca. Per la soverchia sua forza egli non cessava mai dall’ammazzar gazzelle, lepri e altri animali. Un giorno però, tutti gli abitatori di quella selva, antilopi, cinghiali, bufali, buoi selvatici, lepri e altri, radunatisi, andando da lui, così parlarono: O signore, a che mai questo infruttuoso macello di animali, mentre con un solo puoi saziarti? Facciasi oggi una convenzione fra noi. Da oggi in poi, fin che tu qui ti starai, ogni giorno uno di noi, per turno, verrà da te per il tuo nutrimento, così facendo, tu avrai il tuo sostentamento senza fatica e intanto non vi sarà questo sterminio di noi tutti. Seguasi da te il costume dei re, poichè è stato detto:


Chi adagio adagio
Gode il suo regno


Secondo il frutto,
Sì come il saggio115


Dell’elixir,
A luogo altissimo
Potrà salir.
La terra, benchè fessa ed aspra e dura,
Porge, a chi prega con debito rito,

Il frutto, come il legno
Porge la vampa, acconciamente attrito116.

I sudditi proteggere è lodevole,
Del celeste tesoro117 accrescimento;

Offendonsi le leggi nell’opprimerli,
E infamia ell’è per l’uom di mal talento.

Dal difender le genti e dal proteggerle
Ricchezza agevolmente si procaccia,

Come si suol da vacche il latte mungere.
Chi così fa, dritta segue sua traccia.

Quel re che stolido
Sì come pecore
Ammazza i sudditi,
Per una volta
Fia soddisfatto,
Ma nulla affatto
Un’altra volta.
Cura adoprando,
Il re difenda
Le genti sue,
Ove egli intenda
Ricchezze aver;
Di doni e onori
Sia largo come
Di freschi umori
Largo a’ suoi fiori
È il giardinier.


Il principe e la lampada, nell’atto
Che succhiano alla gente,

Quei l’or co’ pregi suoi preclari e questa
Con lo stoppin lucente,
Non si fanno conoscere per niente.

Come si custodisce una giovenca
Perchè si munga poi, così la gente

Dal re si cura. E perchè dian lor frutti,
E perchè dian lor fiori, acconciamente
S’innaffiano le piante e si difendono.

Come le molli e tenere
Erbette e le radici

Rendono al tempo debito
I frutti lor con cura custodite,
Così lor frutti rendono
Le genti ben guardate e ben nutrite.

Oro e grano,
Perle e carri,
D’ogni sorta,
E qualunque
Altro oggetto
Pur che sia,
Al suo re sempre si dia
Dalla gente.
Quei re che promuovono
Il ben delle genti,
Si fanno potenti;
Ma, niuno ne dubiti!
Le genti angariando
Si van rovinando. —

Allora, avendo udito quelle loro parole, Barusaca disse: Oh! voi avete detto il vero! Però, se, mentre io qui mi sto, non verrà sempre uno di voi, io vi divorerò tutti quanti. — Quelli allora, avendo promesso, contenti e senza timore si dispersero per la selva. Intanto, ogni giorno, uno di loro per turno, o un vecchio, o uno che più non si curava della vita, o un ipocondriaco, o uno che temeva d’essere ucciso dalla moglie o dal figlio, a mezzogiorno si partiva da loro per essere divorato dal leone. Venne poi, nell’ordine, la volta d’una povera lepre, che contro sua voglia da tutti gli altri animali fu mandata fuori. Perchè essa, andando adagio adagio e perdendo il tempo, pensando, tutta angustiata nel cuore, qualche modo d’uccidere il leone, arrivò presso di lui alla fine del giorno. Il leone intanto, tormentato dalla fame per quell’indugio, preso dall’ira, leccandosi le basette andava pensando: Oh! io domani mattina vuoterò di animali la selva! — Mentre egli così pensava, la lepre, venendo innanzi adagio adagio, fattogli un inchino, si fermò nel suo cospetto, e quegli che la vide venir così lenta mentre l’aveva già veduta velocissima, avvampando d’ira, così gridò rimproverandola: O vilissima lepre, tu che sei così veloce, ora sei venuta con questo indugio! Per questo tuo fatto, domani, come ti avrò uccisa, sbranerò tutti quanti gli altri animali. — La lepre allora, inchinandosi con rispetto, rispose: O signore, qui non c’è fatto ne di me ne degli altri animali. Però si ascolti la ragione. — Disse il leone: Dilla tosto intanto che non sei ancora sotto i miei denti. — La lepre disse: O signore, oggi io, secondo il mio turno, da tutti gli animali che hanno riconosciuto in me il pregio dell’essere io la più veloce, sono stata mandata qui con altre cinque lepri, io però, nel tempo che veniva, fui così domandata da un altro gran leone uscito fuori da una caverna: Ehi! dove andate voi? Raccomandatevi al vostro Dio! — io allora risposi: Noi, per un patto convenuto, ci rechiamo presso il re leone Basuraca per suo cibo. — Egli allora disse: Se così è, allora questa selva che è una, si deve abitare da tutti gli altri animali soltanto per una convenzione fatta con me. Quel Basuraca intanto è un ladro. Però, se egli è re qui, tu, mentre io mi terrò qui in pegno queste quattro lepri, come l’avrai invitato a venir da me, ritorna da me subitamente, acciocchè quello che di noi due riuscirà re per la sua forza, si mangi tutti questi animali. — Così io, comandata da lui son venuta nel cospetto del re. Questa è la cagione del mio indugio. Il re ora comandi. — Avendo udito cotesto, Basuraca disse: O cara, se così è mostrami tu subito subito quel furfante di leone, perchè io, sfogando su di lui l’ira che ho contro gli animali, resti soddisfatto. Ora, è stato detto:


Alleati, nummi e suolo
Son tre frutti della guerra;
Ove d’essi manchi un solo,
Non si faccia quella guerra.


Dove non sia gran frutto,
Dove sconfitta sia,
L’uom saggio, fuor balzando,
Battaglia mai non dia. —


La lepre disse: O signore, tutto questo è vero. Ora i guerrieri combattono per la propria terra o per disperazione. Ma colui, riparatosi in luoghi difficili s’è ritirato in una fortezza, e noi vi abbiamo un ostacolo. Quando un nemico si sta in una fortezza, è difficile da prendersi. Perchè è stato detto:


Quell’opra che non fanno
Mille elefanti e mille
Cavalli per un re,
Acconciamente sola
Una fortezza fe’.
Un solo arcier che stia
Alto sui muri, atterra
Cento nemici in guerra;


Però delle fortezze
Lodi gli esperi fanno
Che tai regole sanno.
Per consiglio, una volta, del maestro
E d’Hiraniacasìpo per timore,

Indra fe’ una fortezza ed aiutollo
Visvacarma celeste architettore118.

Vince quel sire a cui, dono prescelto,


Indra concede una fortezza. A mille
Perciò contansi in terra i luoghi forti.

Da tutti si può vincere quel re


Che privo di fortezze si restò,
Sì come il serpe che i denti perdè,
O l’elefante a cui l’umor stagnò119. —


Avendo udito ciò, Basuraca disse: Cara mia, anche se sta in una fortezza, mostrami quel furfante perchè io lo spacci. Perchè è stato detto:


Quei che un nemico o qualche malattia
Cessar non fa come si mostri appena,

D’uno o dell’altro al crescere ne resta
Oppresso, ancor che vigoroso ei sia.

Ma chi conosce
Il suo valore


E generoso
Monta in furore,
Tutti i nemici
Da solo uccide
Come già i Csatri
Il Briguide120. —


La lepre disse: Così è, ma quel potente è stato veduto da me, nè si conviene andare al mio signore quando non ne conosca ancora le forze. Perchè è stato detto:


Chi pur non conoscendo il suo valore
Nè quei del suo nemico, innanzi va

Avido e ardito, corre a morte come
Farfalla che nel fuoco perirà.

Chi, benchè forte,
Corre a combattere
Col suo nemico


Di lui più forte,
Tornasi a dietro
Tutto scornato
Come elefante
Che di suo zanne
È defraudato. —


Basuraca disse: Oimè! a che questo tuo affaccendarti? Mostrami colui anche s’egli sta nella sua fortezza. — La lepre disse: Se così è, allora il re mi segua. Così dicendo gli entrò innanzi. Come giunse a una cisterna, disse a Basuraca: Chi mai, o signore, può resistere alla tua maestà? Ecco che quel furfante, come t’ebbe veduto da lontano, è entrato nella sua fortezza. Vieni adunque, perchè io te lo mostri. — Avendo udito ciò, Basuraca disse: Mostrami subito subito, o amico, quella fortezza. — La lepre allora gli mostrò la cisterna, e quello sciocco di leone, quando vide in fondo alla cisterna e nel mezzo dell’acqua la propria immagine, mandò un ruggito e quel ruggito, per l’eco, ritornò raddoppiato dal fondo. Perchè egli, udendo quel suono e pensando: Costui è più forte! — , avventandoglisi sopra, si uccise. La lepre allora, con animo lieto venendo a rallegrar tutti gli animali, lodata da loro abitò conforme al piacer suo in quella selva. Perciò io dico:


Ha possanza chi ha del senno.
Dello stolto ov’è il poter?


Nella selva un leon fero
Una lepre fe’ cader.


Se, pertanto, così vuoi, io, andando là, col valor dell’ingegno mio separerò i due amici. — Carataca disse: Amico, se è così, sia felice il tuo viaggio! Facciasi da te come desideri. — Damanaca allora, quando vide Pingalaca starsi solo senza Sangivaca, fattogli un inchino, se gli sedette dinanzi perchè Pingalaca gli disse: Ehi! perchè mai ti fai veder così di rado? — Damanaca disse: il re non aveva alcun bisogno di noi; però non son venuto. Vedendo tuttavia che vanno in rovina le faccende del re, io, nel mio smarrimento, col cuore turbato son venuto per parlarti. Perchè è stato detto:


Dica ogni cosa, bella o brutta sia,
Sia lieta o triste, anche non dimandato,


L’uomo a colui che punto ei non vorria
Veder d’un tratto a terra rovinato. —


Udendo allora quel discorso pieno di significato, Pingalaca disse: Che vuoi tu dire? Parla! — E quegli disse: O signore, Sangivaca va macchinando insidie contro di voi. A me che ho la sua fiducia, egli ha detto così in un luogo appartato: «O Damanaca, io conosco omai il forte e il debole di Pingalaca. Però io, come l’avrò ucciso, sarò il re di tutti gli animali con te per ministro». — Pingalaca, udendo quel terribile discorso che gli parve un colpo di fulmine, tutto costernato non diceva nulla, e Damanaca, vedendo lo stato dell’animo suo, andava pensando: Costui è preso ancora dall’affetto per Sangivaca. Il re si rovina per cotesto suo ministro. Perchè è stato detto:


A un sol ministro
Su tutto il regno

L’autorità
Quando un re dà,
Orgoglio il prende
Per gran stoltezza
Ed ei dell’obbedire, in quel suo vampo,
Sente stanchezza.

Di lui già stanco
In fondo al core

Di libertà
Desìo verrà.
Per tal desìo
Di far da sè.
Insidiando andrà la vita ancora
Del suo buon re.


Intanto cosa mai si convien fare? — Ma Pingalaca, avendo raccolto la mente, in qualche modo potè dire: O Damanaca, Sangivaca è un servitore che ci è caro come la nostra vita. Come mai potrebbe egli insidiarmi? — Damanaca disse: O signore, il dire servo o non servo è cosa che non va. Perchè è stato detto:


Chi del suo re non ama
Il bene, un uom non è.
Però, a piaggiarlo intenti,


I furbi e i turbolenti
Si stanno attorno a un re. —


Pingalaca disse: Amico, quanto a Sangivaca, il mio pensiero non si è punto mutato, intanto, è stato detto egregiamente:


Ben che di mali piena,
La vita è sempre cara,
E se male anche adopra


Quei che fu caro un dì,
Caro sempre riuscì. —


Damanaca disse: Qui appunto sta il malanno, perchè è stato detto:


Quando con troppo affetto
Guarda a qualcuno un re,


Sia nobile, sia abietto,
Gran personaggio egli è.

Del resto, per qual mai eccellenza di virtù il re si tiene al fianco cotesto Sangivaca che n’è al tutto privo? Intanto, se tu, o signore, ti pensi che per esso potrai annientare i tuoi nemici, questo da lui non si potrà mai fare, perchè egli è un erbivoro mentre i nemici del re sono carnivori. Perchè adunque con l’aiuto di lui non saranno mai vinti i tuoi nemici, tu, dopo averlo riprovato, mandalo a morte. — Pingalaca disse:


Di tal di cui fu detto all’adunanza
Ch’egli è la virtù stessa.


Non si riveli nessuna mancanza
Da chi teme tradir la sua promessa.


D’altra parte, io, persuaso dalle tue parole, gli ho dato un salvacondotto. Come dunque potrei mandarlo a morte? Egli ci è tutto amico, nè io ho alcun corruccio contro di lui. Ora è stato detto:


Il nemico non merta di morire
Poi che ha raggiunto la felicità121.


Chi velenosa pianta fe’ fiorire,
Se la recide, ingiusta opra farà.


E poi:


Non si dee da principio il nostro affetto
Porre in ciascun che ci dimostri amore.

Ma, posto allor che sia, di giorno in giorno
Mostrar gli si dovrà sempre favore.

Se avvien che abbassi alcuno alcun mortale
Che prima sollevò, scorno produce.
Chi a terra piana sta, del cader mai
Dentro al suo cor temenza non induce.


E poi:


Qual pregio è mai
Di suo ben stare
Se alcun coi servi
Bene si sta?


Pur, riti coi servi
Bene si sta,
Saggio dai saggi
Si chiamerà.


Perciò, anche s’egli va macchinando insidie, io non gli devo fare alcun male. — Damanaca disse: O signore, non è questo costume di re che si tolleri chi va macchinando insidie. Perchè è stato detto:


Quei che il ministro suo non manda a morte

Che di beni l’uguaglia e di balia

E il suo debol conosce, astuto e forte,
E nel suo regno ha mezza signoria,
Da sè stesso procacciasi la morte.


Con questo, per quest’amicizia tua ogni consuetudine di re è stata da te abbandonata, onde, appunto perchè vengon meno le consuetudini tue, tutti i tuoi sudditi con l’animo si sono allontanati da te, perchè Sangivaca è un erbivoro e tu e i servi tuoi siete carnivori. Intanto, per il tuo comando del non uccidere gli erbivori, donde mai i tuoi potranno aver provvista di carni? Però tutti i tuoi cortigiani, mancando di carne, come ti avranno abbandonato, si disperderanno per la selva. Tu pure avrai il tuo malanno dalla compagnia di colui nè li ritornerà mai più come prima il talento di andare a caccia. Perchè è stato detto:


A quei servi ch’egli ha in cura,
A quei servi ond’è assistito


(Dubbio in ciò non fu sentito)
E l’uom si fa d’egual natura.

E poi:


Se sopra un ferro ardente
D’acqua cade una stilla,
Segno alcun non ne resta,
Ma come perla brilla
Di loto ad una roglia
Ove sopra si accoglia.


Se per benigna stella
Cade in marina conca,
Perla si fa novella.
Così, da compagnia
Di medi, infimi ed alti,
Merto dell’uom s’avvia.


E poi:


Si guastano e corrompono
Del bazzicar pel vizio con gli stolti

I più avveduti ancora.

Bisma potè discendere
Le altrui vacche a rubar, di Duryodana
Stando nella dimora122.


Perciò appunto i saggi evitano la compagnia della gente dappoco. Perchè fu detto:


Gente accoglier non si dee
Di cui l’indole è mal nota.


Or, d’un cimice per colpa,
Un pidocchio ebbe la morte. —


Pingalaca disse: Come ciò? — E quegli disse:

Racconto. — In un certo paese, un re aveva un letto bellissimo, dove, in mezzo a due lenzuola bianchissime, abitava un pidocchio bianco di nome il Cammina-lento. Succhiando il sangue del re, egli là si stava a passar felicemente il tempo. Però, un giorno, un cimice di nome l’Infuocato, errando qua e là, capitò in quel letto. Al vederlo, il pidocchio, con viso turbato, così gli disse: O l’Infuocato, come mai sei tu venuto in questo luogo insolito? Intanto che nessuno non t’ha ancor veduto, vattene via subitamente. — L’altro disse: Caro mio, non è questo il modo di parlare a chi ci viene in casa, anche se ci è inferiore. Perchè è stato detto:


«Vieni! t’accosta! siedi e sta su allegro!
Vedere a che non ti fai da gran tempo?

Che nuove hai tu? son lieto del vederti,
Ma di salute sei debole molto!».
Tal discorso a’ più saggi si conviene

Volger sempre anche a gente inferïore,
Ove alcun giunga in casa. I sapïenti
De’ padri di famiglia afferman questo
Esser debito sauro, ed è pur questa
Del paradiso la diritta via.


Oltre a ciò, io ho già assaggiato il sangue di molti uomini che, per difetto dei cibi, era di gusto ora salato, ora piccante, ora amaro, ora mordente, ora acido; ma non ho mai assaggiato sangue che fosse dolce. Perciò, se tu mi fai grazia, possa io con la lingua procacciarmi questo piacere con l’assaggiare il sangue dolce, che s’è generato nel corpo di questo re in forza delle diverse specie di cibi colti, bolliti, succiabili, masticabili. Perchè è stato detto:


Ugual si estima il gusto della lingua
Per un sovrano,

Per un pezzente;

Però la gente
Suda e fatica sol per questo obietto,
Chè questo è in terra l’unico diletto.

E poi:


Se il lavoro piacere e diletto
Alla lingua non desse quaggiù,


Ad altrui niun sarebbe soggetto,
Servo alcun non vedrebbesi più.


Ancora:


Se qualcuno il falso ciancia,
Se altri piaggia chi n’è indegno,


Se alcun migra in altro regno,
Tutto è per amor di pancia.


Io adunque, venuto in tua casa, tormentato dalla fame, devo chiedere a te il mio mangiare, nè si conviene che tu solo ti sostenti col sangue di cotesto re. — Ciò udendo, il Cammina-lento rispose: O cimice, io vo succiando il sangue del re, ma quand’egli è entrato nel sonno. Tu invece hai nome l’Infuocato e sei impaziente. Se però vorrai gustar con me del sangue del re, fermati qui e succhiane quanto vuoi. — L’altro disse: O caro, così farò. Mi prenda la maledizione degli Dei e del mio maestro se io succhierò di quel sangue prima che tu ne abbi assaggiato. — Mentre essi così parlavano fra loro, il re, venuto al suo letto, si pose giù per dormire. Allora il cimice, per l’impazienza eccitata dalla voglia della lingua, lo morsicò che ancora era desto. Ora, si dice a proposito:


Non può cangiarsi per insegnamenti
La sua propria natura, e fredda torna

Acqua, anche ben scaldata, immantinenti.

Anche se il fuoco
Si raffreddasse


E se la luna
In fiamme andasse,
Dell’uom non mai
L’indole propria
Cangiar potrai.


Ma il re, come se fosse stato tocco da una punta d’ago, lasciando il letto, balzò in piedi all’istante e gridò: Oh! guardate! Nelle coperte o nelle lenzuola c’è un cimice o un pidocchio che mi ha morsicato! — Gli eunuchi allora che là si trovavano, sciorinando subitamente le coperte e le lenzuola, tutte le esaminarono attentamente. Ma intanto il cimice nella sua prontezza era corso in fondo al letto, mentre il Cammina-lento che s’era ficcato in una piega dei panni, fu veduto e ammazzato. Però io dico:


Gente accoglier non si dee
Di cui l’indole è mal nota.


Or, d’un cimice per colpa,
Un pidocchio ebbe la morte.


Per queste ragioni, tu devi mandare a morte Sangivaca; se no, egli ti ammazzerà. Perchè è stato detto:


Quei che abbandona
I famigliari
E gli stranieri
Fa suoi compari,


La morte avrà
Qual l’ebbe già
Re Cacudruma. —


Pingalaca disse: Come ciò? — L’altro disse:

Racconto. — In una parte d’una foresta abitava uno sciacallo di nome Ciandarava. Un giorno, preso dalla fame, per voglia di mangiare, entrò in una città; ma i cani di città, come l’ebbero veduto, correndogli attorno da tutte le parti con latrati, già stavano per addentarlo coi denti acuti, perchè egli, sul punto d’esser divorato, temendo della vita, si cacciò dentro la casa d’un tintore che era vicina. Là stava preparata una gran tinozza piena di tinta azzurra, dentro la quale egli, attorniato dai cani, venne a cadere. Quando ne uscì, ecco che era tutto tinto di color d’azzurro. Tutti quei cani allora, non riconoscendolo più, se n’andaron qua e là dove vollero, e Ciandarava, cercando d’andare in luogo lontano, s’incamminò verso la foresta, e il color d’azzurro non era ancora sparito. Ora, è stato detto:


Delle femmine e dei granchi,
Dell’ortica e dell’azzurro,


Degli stolti e farabutti,
Basta un tocco sol per tutti.


I leoni allora e le tigri, i leopardi, i lupi e gli altri animali tutti che abitavano la selva, vedendo quella bestia non più veduta prima, simile ad un albero di tamala del color del veleno ond’è tinta la gola di Siva123, turbati di spavento, da tutte le parti cominciarono a fuggire, dicendo: Oh! donde mai è venuta questa bestia non più veduta prima? Poichè non si sa qual sia il suo costume e la sua forza, fuggiam più lontano che si possa! — Ora è stato detto:


Il saggio, se desìa
La sua felicità,
Di tal, di cui non sa


Costume, indole, stirpe,
Mai non si fiderà.


Ciandarava, come vide che tutti erano presi da spavento, disse: Oh! oh! bestie, perchè mai, al vedermi, fuggite spaventale? Non temete! Brahma che oggi stesso mi ha procreato, mi ha detto: «Poichè fra gli animali non vi è alcun re, tu oggi sei da me consacrato nella signoria di tutte le bestie, col nome di Cacudruma. E però tu, discendendo in terra, sii custode di loro tutti». Io allora son venuto qui. Intanto, tutti gli animali devono starsi sotto la mia protezione, io sono il re Cacudruma, fatto re degli animali nei tre mondi. — Udendo cotesto, il leone e gli altri animali, salutandolo col dirgli: O signore! o principe! — , gii si schierarono dattorno. Al leone allora fu dato da lui l’ufficio di ministro, alla tigre l’ufficio di prefetto della stanza reale, al leopardo quello di procacciare il betel odoroso per uso del sovrano, all’elefante l’ufficio di guardiano delle porte, alla scimia l’ufficio di reggere l’ombrella regia; ma agli animali della sua stessa famiglia non fece neppure un motto; anzi tutti gli altri sciacalli con cattive maniere furono discacciati. Mentre egli adunque faceva da re, il leone e le altre fiere, ammazzando gazzelle, gliele traevano dinanzi, ed egli, nel suo diritto di sovrano, spartendole, ne porgeva all’uno e all’altro. Così passando il tempo, avvenne che un giorno, nell’ora ch’egli era venuto nell’adunanza degli animali, si udì da un posto lontano il fracasso d’ima schiera di sciacalli che urlavano. Udendo quelle voci; levatosi su con arricciati i peli del corpo e con gli occhi pieni di lagrime di gioia, ad alta voce cominciò ad urlare. Il leone allora e gli altri animali, udendo quella chiara voce, avvedutisi ch’egli era uno sciacallo, stando alcun poco col viso vergognoso a terra, si dicevano l’un l’altro: Oh! noi ci siam lasciati guidare da questo miserabile sciacallo! S’ammazzi adunque! s’ammazzi! — Lo sciacallo, come udì quelle voci, benchè cercasse di fuggire, su quel luogo stesso dal leone e dagli altri animali fu sbranato e morto. Però io dico:


Quei che abbandona
I famigliari
E gli stranieri
Fa suoi compari,


La morte avrà
Qual l’ebbe già
Re Cacudruma. —

Avendo udito ciò, Pingalaca disse: O Damanaca, qual fondamento è in tutto questo per dire che colui m’insidia alla vita? — E l’altro disse: O signore, egli stesso oggi ne ha fatto il divisamente dinanzi a me, dicendo: «Domani mattina ammazzerò Pingalaca». E il fondamento n’è questo. Doman mattina, a un dato momento opportuno, egli, con occhi rossi, con labbra enfiate, guardando qua e là, postosi in un luogo solitario, ti starà a mirare con occhi minacciosi. Come avrai veduto cotesto, dovrai fare ciò che ti si conviene. — Così avendo parlato, fattogli un inchino, s’incamminò per andar da Sangivaca, e Sangivaca vedendo ch’egli veniva adagio adagio con aspetto turbato, con rispetto gli disse: Benvenuto, amico! Da lungo tempo non ti sei fatto vedere. Stai tu bene? Parla, perchè io possa offrirli, poichè sei venuto in casa mia, anche ciò che è impossibile a darsi. Perchè è stato detto:


Quei son ricchi, quei son savi,
Quelli in terra son migliori,


Di cui van gli amici in casa
Domandandone favori. —


Damanaca disse: Oh! come mai può star bene chi serve altrui! Perchè è stato detto:

     
Di chi a principi serve, in man d’altrui

Son le sostanze e trepida è la mente,

Nè sicuro egli è mai de’ giorni sui.


E poi:


Da chi serve per denaro,
Vedi il frutto nel servire!


Libertà di lor medesmi,
Stolti! ei lasciansi rapire.


E ancora:


Il nascere è la prima
Nostra infelicità;
Ratto sorviene allora
La trista povertà.
Il pan quotidiano


Vini dalla servitù.
Oh! miseria, miseria,
Che cresce sempre più!
Benchè vivi, da Viasa124
Detti èn morti questi cinque125:


Il mendico, l’ammalato,
L’imbecille, l’esiliato,
Chi a servire è condannato.
Non mangia a sua voglia,
Si leva non desto126,

Non parla sicuro,
Eppur vive127 chi è servo anche con questo!

Il servir, da chi il vero non favella,
Un vivere da cani s’addimnnda;

Ma il can sen va dove il desìo l’appella,
Il servitor dove altri gli comanda.

Il dormir sul nudo suolo,
L’esser magro e mangiar poco,
Il serbar la castità,


Cose uguali al penitente
E a chi servo è della gente.
Differenza sola sta
Nel dover che l’uno ha in sè,
Nel mal far che l’altro fe’128.
Quand’egli non dilunghi da giustizia,
Il caldo, il freddo e tutti gli altri i mali

Che sopporta chi serve,
Valgon ben poco ad acquistar dovizia.

Che far d’una stiacciata
Bene impastata,

Ghiotta, rotonda e molle,
Se dovette servir chi aver la volle? —


Sangivaca disse: Dunque che vuoi tu dire? — E l’altro disse: Amico, non si conviene ai ministri svelar segreti. Perchè è stato detto:


Quei che posto in ufficio di ministro
Il segreto tradisce del suo sire

E del suo prence guasta alcun disegno,
Scenderà in luogo d’eterno martire.

Quel ministro che del re
Il segreto disvelò,

Al suo prence morte diè
(Così Narada129 già sentenziò)
S’anche il ferro non trattò.


Io tuttavia che ti son legato da vincolo d’affetto, posso svelar quel segreto in quanto che tu, per mia raccomandazione, sei stato accolto nella famiglia del re. Perchè è stato detto:


Un dì, Manu dicea questa sentenza:
Se muore alcun per troppa confidenza


Ch’ebbe in un altro, dassene a costui
La prima colpa nel morir di lui.


Questo Pingalaca, adunque, ti vuol male; anzi, oggi stesso, in presenza mia e a quattr’occhi130, ha detto: «Domani mattina, come avrò ucciso Sangivaca, sazierò, ciò che non ho fatto da gran tempo, tutto il mio corteggio di animali». Io allora gli ho detto: Signore, non è bello che si procacci alcuno il proprio sostentamento col tradimento degli amici. Perchè è stato detto:


Se un Bramano alcuno uccise
E ne fa la penitenza,
Ritornar può puro ancor;


Ma non già chi a morte mise
L’uomo in ch’ebbe confidenza,
Anche dando argento ed or. —


Egli allora mi rispose con ira: «O malvagio! Sangivaca è erbivoro e noi siamo carnivori. Però fra noi è inimicizia naturale. Come dunque si può tollerar vicino un nemico? Intanto, esso dev’esser mandato a morte con arti amichevoli131 e con altri modi; nè, come sarà ammazzato, noi avremo in ciò alcuna colpa. Perchè è stato detto:


S’anche in isposa
N’ebbe una figlia,
Dall’uom ch’è saggio,
Ucciso sia
Il suo nemico
Quand’ei nol possa
Per altra via,


Chè averne colpa
Mai non potrìa.
Di lecito o d’illecito
Cura il guerrier non prende
Quando a pugnar discende;
Di Drona il figlio uccidere
Dristadiumna potea
Che dormente giacea132». —


Io pertanto, avendo saputo il suo divisamente, son venuto da te, nè ho io colpa d’aver tradito la fede di colui, avendoti fatto conoscere il suo più intimo pensiero. Tu, intanto, farai ciò che ti parrà meglio. — Sangivaca allora, come ebbe udito quel discorso che gli parve terribile come la caduta d’uua folgore, per alcun tempo stette come smemorato. Riavutosi poi della mente, con certa freddezza disse: Oh! quanto egregiamente fu detto:


Sempre dietro a scapestrati
Van le donne volentieri;
I potenti sono ingrati,
E si stan coi barattieri
Le ricchezze, e i nembi a prova
Su montagne inaccessibili
Spander sogliono la piova133.
Lo stolto che pensa:
«Deh! come apprezzato


Son io dal mio re!» — ,
Davvero! che un bue
Dev’esser stimato
Che i corni perdè!
Meglio all’uom viver ne’ boschi,
Meglio andar limosinando.
Meglio viver faticando,
Meglio in letto star languendo,
Che campare altrui servendo!


Io intanto non mi sono adoprato bene nel fare amicizia con colui, perchè è stato detto:


Fra due che han stato eguale,
Fra due d’egual famiglia,


Non già fra ricco e povero,
Nozze e amistà si appiglia.


E poi:


Con le gazzelle le gazzelle vanno,
Coi cavalli i cavalli, i buoi co’ buoi,


Coi matti i matti, con i savi i savi;
Quei che hanno indole egual, società fanno.


Ora, se io, andando da lui, cercassi di farmelo favorevole, egli non mi renderebbe la benevolenza di prima. Perchè è stato detto:


Chi contro alcuno
Per cagion vera
D’ira s’accende,


Alla primiera
Quiete ritorna
A stento, se


Quel più non è134:
Ma a chi di cruccio
Senza ragione
È tutto pieno,


Soddisfazione
Convenïente
Può dar la gente?

Oh! quanto giustamente si dice:


Dei servi diligenti — che fanno lor servigi,

Del bene altrui curanti, - al vero sempre ligi,
Lontani dagl’inganni, — i torti sono certi,

Se piglian qualche abbaglio; — sempre i meriti incerti.

Però il servir padroni — è affar pericoloso
Come di chi s’affida - a un mare tempestoso.


E poi:


Favor di gente
Che ama d’affetto,
Quaggiù sovente
Torna a dispetto,
Mentre l’offesa
D’altri, d’un tratto,
È accetta e intesa
Qual gentile atto.
Poi che de’ principi
Incomprensibili
Sono le menti,


Di differenti
Umor ricetto,
Davver! che altissima
Ombra e mistero
È di chi serve
Il ministero,
Qual ben comprendere
Mai non potrà
Nemmen chi tutte
Le scienze sa.


Ora io ho bene indovinato che Pingalaca è stato aizzato contro di me da quelli de’ suoi aderenti che non sanno sopportare il favore concesso a me. Però egli così parla di me, mentre io non ho alcuna colpa. Peichè è stato detto:


Quel favor che concede ad altri un re,
Gli altri servi non ponno sopportare,


Come donne elle soglionsi crucciare
Per favor che altra donna135 ebbe per sè.


Ed è appunto così, perchè, quando sono attorno al re persone di merito, non si concede alcun favore a chi non ne ha. Perchè è stato detto:


Ogni virtù di gente che ha virtù,
Resta coperta da chi n’ha di più.


Fiamma di cero che di notte splende,
Cessa, ratto che il sol pel ciclo ascende. —


Damanaca disse: Amico, se così è, per te non c’è timore. Quantunque aizzato contro te da quei malvagi, ti si ritornerà benevolo alle tue parole. — E l’altro disse: Oh! tu non dici il vero! perchè con gente cattiva, anche se di poco conto, non si può reggere in alcun modo. Costoro, ordinando qualche trappola, giungono sempre a colpire. Perchè è stato detto:


Il lecito e l’illecito
Molti birbanti scaltri
Che vivono di trappole,
Adopran contro gli altri,


Qual d’un cammello a danno
Il corvo e i soci suoi
Un giorno adoprato hanno. —


Damanaca disse: Come ciò? — E l’altro disse:

Racconto. — Abitava già in una selva un leone di nome Madotcata che aveva per cortigiani un leopardo, un corvo e uno sciacallo. Un giorno, mentre andavano qua e là, fu veduto da loro un cammello di nome Cratanaca che s’era dilungato dalla sua carovana. Disse allora il leone: Oh! cotesto animale non fu mai veduto da noi! però si cerchi se egli è selvatico o domestico. — Il corvo, udendo ciò, disse: O signore, egli è domestico e dicesi cammello ed è animale che può essere mangiato da te. Però si uccida. — Il leone disse: Io non uccido chi viene in casa mia, perchè è stato detto:


Quei che ammazza chi fidato
E senz’ombra di sospetto
In sua casa è capitato,
Fosse il suo nemico stesso,


Tal delitto ha perpetrato
Qual se avesse uccisi cento
Sacerdoti in un momento.


Perciò, datogli un salvacondotto, s’accompagni qui da me acciocchè io lo dimandi della cagione del suo venire. — Così il cammello, datagli fidanza e salvacondotto, da quegli animali fu menato al cospetto di Madotcata. S’inchinò e si mise giù; poi, dimandandolo il leone, raccontò tutti i casi suoi incominciando dal suo smarrirsi dalla carovana. Allora il leone disse: O Cratanaca, tu non andrai mai più al villaggio e non farai più vita dura col menar pesi, ma qui, in questa selva, brucandone le erbe verdi come smeraldo, starai ad abitar con me. — Cratanaca, rispondendo di acconsentire, aggirandosi senza timore fra quegli animali, si trovò molto bene. Ma un giorno Madotcata ebbe una battaglia con un grande elefante selvatico e toccò una ferita dai colpi di quelle zanne simili a clave. Fu ferito, anzi per poco non fu morto. Per tale infermità del corpo egli non poteva muovere un piede, e però il corvo e tutti gli altri animali, presi dalla fame per la mancanza del suo aiuto sovrano, soffrivano gran disagio. Ma il leone disse loro: Orsù! cerchisi in alcun luogo qualche animale col quale io, come l’abbia ucciso benchè venuto in questo stato, provvegga al vostro mangiare. — I quattro animali incominciarono ad andare attorno; ma poichè non videro nulla, il corvo e lo sciacallo si consigliarono fra loro. Lo sciacallo disse: O corvo, a che tanto andare attorno? Poichè c’è qui questo Cratanaca affidato da nostro signore, ammazziamolo e procacciamo il sostentamento a tutta la corte. Il corvo disse: Tu dici bene. Ma dal re gli è stato dato un salvacondotto per il quale non può essere ammazzato. — Lo sciacallo disse: O corvo, io consiglierò nostro signore e farò in modo che l’ammazzerà. Tu sta qui finchè io, andando a casa e avuto il consenso del re, non faccia ritorno. — Così avendo detto, si mosse in gran fretta per andar dal leone; anzi, venutogli nel cospetto, disse: O signore, noi siamo andati attorno per tutta la selva, ma non abbiam potuto accostarci ad alcuna belva. Ora, che faremo noi che per la fame non possiam nemmeno muovere un piede? Intanto, nostro signore si deve pur pascere di ciò che più gli si confà. Se però egli dà il suo assenso, ecco che oggi si può far passabile provvigione con la carne di Cratanaca. — Ma il leone com’ebbe udita quella parola crudele, rispose con ira: Oibò, oibò! vile mariuolo! se tu dici ancora ciò, io ti ammazzo nel momento. Poichè gli ho dato il salvacondotto, come mai io stesso potrei mandarlo a morte? Perchè è stato detto:


Non di vacche o di terre il donativo
E non di pane (han detto i sapienti)

Tanto ha merto quaggiù quanto fra gli altri
Doni l’ha quello che ti dà franchigia.

Tanto valgono le offerte
Falle con dispendio e onore

Quanto ad un salvar la vita
Che sia preso da timore.


Ciò udendo, lo sciacallo disse: O signore, se, dopo datogli il salvacondotto, si fa ammazzare, la colpa è tua; ma se invece egli per devozione verso il re dà la vita, allora non c’è colpa. Perciò, se egli stesso si dà da uccidere, devesi uccidere, ovvero si deve ammazzare alcuno di noi, perchè nostro signore che si suol pascere di ciò che più gli si confà, per la fame verrà presto ad uno stato di debolezza estrema. Ora, che si fa di questa nostra vita se non va spesa per la salute del re? Se accadesse alcuna cosa spiacevole a nostro signore, noi tutti, uno dietro l’altro, ci getteremmo nel fuoco. Perchè è stato detto:


L’uom ch’è signore e capo di famiglia,
Con tutta cura vuolsi riguardare.

Morto lui ch’è il sostegno della casa,

Gli è come quando le ruote del carro,
Rottosi il mozzo, non posson girare. —


Avendo udito ciò, Madotcata disse: Se così è, fa tu quello che ti pare. — Com’ebbe inteso, lo sciacallo; venendo in gran fretta, cosi parlò alle belve: oh! oh! trista condizione di nostro signore! Egli è omai con l’anima alla gola. Perciò a che questo andare attorno? Senza di lui, chi ci difenderà in questa selva? Ma noi intanto, suvvia! poichè egli afflitto dalla fame già si parte per l’altro mondo, facciamogli offerta della nostra persona perchè almeno possiam così sdebitarci di tante sue grazie sovrane. Perchè è stato detto:

     
Se al prence incoglie una sventura e inerte

Si sta un servo a guardar lieti che aitante,

All’inferno andrà poi quel tristo servo. —


Allora, in un momento, tutti quegli animali, venendo con occhi pieni di lagrime presso Madotcata, fattogli un inchino, si sedettero, e Madotcata, come li ebbe veduti, disse: Avete dunque trovato o veduto alcun animale? — Di mezzo ad essi, allora, il corvo prese a dire: O signore, noi siamo andati attorno da per tutto, ma non abbiam nè trovato nè veduto alcun animale. Oggi però nostro signore, mangiando di me, si sostenga in vita, in modo ch’egli n’abbia conforto. Intanto, io avrò raggiunta la via del cielo. Perchè è stato detto:


Se pel suo principe
Alcun morrà
Servo fedel,
A grado altissimo


Scevro da morte
E da vecchiezza
Ei giungerà
Nell’alto ciel.

Avendo ciò udito, lo sciacallo disse: Oh! tu sei di troppo piccolo corpo! nè, perchè mangi di te, nostro signore può sostentar la vita. Anzi v’è peccato in ciò. Perchè è stato detto:


Perchè vigor non dona e perchè scarsa,
Di cornacchie la carne

Non mangian cani mai.

A che adunque mangiarne
Se nutrimento alcuno non ne avrai?


Da te, intanto, è stata dimostrata la tua fedellà verso il tuo signore e ti sei sdebitato verso di lui del cibo che t’ha dato, e ti tocca omai l’augurio buono per questa e per l’altra vita. Ma fatti da una parte perchè io pure dia un consiglio al signore mio! — Fatto ciò, lo sciacallo, inchinandosi con gran rispetto, disse: O signore, oggi, sostentando la tua vita col corpo mio, fammi toccar grado in questa e nell’altra vita. Perchè è stato detto:


Dei servi la vita
Dipende dal re
Ch’ei propria si fe’
Con ciò che spende.


Però non è colpa
Nessuna di lui
Se dei servi sui
La vita ci prende. —


Avendo udito ciò, il leopardo disse: Oh! tu hai parlato egregiamente. Tuttavia anche tu sei di piccolo corpo e della stessa specie del leone, e perchè hai come lui gli unghioni, non puoi essere mangiato da lui, perchè è stato detto:


Di cosa non mangiabile
Non mangi il sapïente
S’anche all’estremo giunge
La vita sua languente,


Chè anche da lieve briciolo
Di questa veramente
E dell’eterna vita
Ogni speme è tradita.


Intanto, tu hai mostrato la tua nobiltà; però anche qui si dice a proposito:


Perciò appunto i re sovrani
Fan dei nobili raccolta
Ei non mutan di maniera.


Della lor mortal carriera
Perchè prima e in mezzo e in fine


Perciò fatti da una parte perchè io possa propiziarmi il mio signore! — Fatto ciò, il leopardo inchinandosi così parlò a Madotcata: O signore, si sostenga oggi la tua vita con la vita mia; mi si dia imperitura sede in paradiso e spandasi la mia fama gloriosa per la faccia della terra. A questo punto noti c’è da dubitare, perchè è stato detto:


Dei servi che fedeli
Morian pel lor signore,
E chiaro in terra il nome. —


Le splendide dimore
Eterne son ne’ cieli


Cratanaca allora, avendo udito tutto ciò, pensò: Costoro han detto le belle parole, nè però un solo è stato ucciso dal padrone. Io pure gli voglio parlare in un momento opportuno in modo che questi tre approvino il mio dire. Così avendo pensato, disse: Oh! tu hai detto bene! Pure anche tu hai gli unghioni; come dunque nostro signore potrebbe mangiar di te? Perchè è stato detto:


Quell’opre ree che medita
Contro i congiunti suoi
Pur con la mente alcuno,


Egli avrà un giorno poi
In questa vita e in quella.

Però fatti da una banda acciocchè io possa parlare a nostro signore. — Fatto ciò, Cratanaca facendosi avanti e inchinandosi, disse: O signore, questi non possono essere mangiati da te; perciò con la vita mia oggi si sostenga la tua e possa io conseguir grado di perfezione in questo e nell’altro mondo. Perchè è stato detto:


Offerenti136 e anacoreti
Mai non toccan l’alto grado
Che raggiungon que’ discreti


Servi che pel lor signore
Dàn la vita con ardore. —


Com’ebbe detto ciò, ecco che ad un cenno del leone sbranatogli il ventre dal leopardo e dallo sciacallo e cavati gli occhi dal corvo, Cratanaca finì la vita e fu divorato da tutti quei birbaccioni astuti. Perciò io dico:


Il lecito e l’illecito
Molti birbanti scaltri
Che vivono di trappole,
Adopran contro gli altri,


Qual d’un cammello a danno
Il corvo e i soci suoi
Un giorno adoprato hanno. —


Fatto questo breve racconto, Sangivaca così riprese a dire a Damanaca: Intanto, amico mio, io ho riconosciuto che questo re ha una corte di birbanti e che perciò non può esser servito da gente per bene. Perchè è stato detto:


D’un prence che ha una corte di birbanti,
Non son le genti amanti.


Egli è qual cigno che va via via
Di nibbi in compagnia.


E poi:


Quel re si può servir che un nibbio sia,
Quando sian come cigni i suoi ministri.


Ma da quel prence d’uopo è fuggir via
Ch’è quale un cigno e nibbi ha per ministri.


Certamente egli è stato messo in ira contro di me da qualche maligno, però egli parla così. Così è appunto. Perchè è stato detto:


Da poc’acqua scavati anche disgregansi
I fianchi ai monti. Quanto più degli uomini

Che volentieri le calunnie ascoltano,
Le menti fatue soglionsi commovere!

La gente sciocca
Cui negli orecchi
Veleno tocca


Di ciarle e biasimi,
Che mai non fa?
Si fa mendica
In religione,
Beve la zozza
Nei teschi nudi
Delle persone137.


Intanto, si dice a proposito:


Il serpe, anche se pesto sotto i piedi
E duramente rotto da un bastone,

Uccide l’uom ch’egli coi denti tocca.
Oh! quanto più crudel, quanto più duro

È il costume dell’uom! Tocca costui
In un orecchio alcun138, d’un altro intanto
Viene apprestando la rovina estrema.


E poi:


Oh! quanto del malvagio,
Simile a reo serpente139,
D’altri in far la rovina
È il modo differente!


Agli orecchi attaccato
S’è di costui e intanto
L’altro è bell’e spacciato.


Poichè le cose vanno così, che s’ha da fare? Io ne domando a te che mi sei amico. — Damanaca disse: A te starebbe bene l’andare in altro paese per non restar così ai servizi di siffatto re dappoco. Perchè è stato detto:


Quando ha offeso il suo signore,
Anche andando ben lontano
Non si addorme l’uom di core.


Di colui, accorto e desto,
A raggiunger l’offensore
Sempre il braccio è teso e presto.


Perciò, tranne l’azzuffarmi con lui, non v’è altro buon partito. Perchè è stato detto:


Quei che vònno andare in cielo,
Con loro atti da contriti,
Con lor cento ricchi doni,
Con lor bagni ai sacri liti,
Non raggiungon l’alte sedi
Cui raggiungono all’istante
Que’ valenti di gran core
Che lasciarono la vita
Della pugna nel fragore.
L’andare in cielo dopo morte e in vita
Bel nome aver, son due cospicui doni

Difficili a ottener, concessi ai forti.

Soltanto due viventi
Fanno quaggiù nel mondo
Miracoli e portenti140,


Il penitente errante
E chi pugnando è ucciso
Quando spingeasi avante.
Quando scorra sulla fronte
Caldo il sangue ad un eroe
E scendendo gli entri in bocca,
Nel guerriero sacrifizio141
Del licor142 che si consacra,
Parte debita gli tocca.
Quel premio che si ottiene dalla gente
Oro offerendo et altri doni, a torme

Saggi preti onorando, e con offerte
Molte di sacrificio acconciamente,
Amicamente, a’ sacri liti andando,
Abitando nell’eremo e bruciando


Primizie sugli altari, anche de’ mesi
Compiendo i voti143 ed altri opere pie,

Quel premio, in un momento da’ gagliardi
S’ottien che cadean morti combattendo. —


Avendo udito tutto questo, Damanaca pensò: Questo furfante è deliberato a far battaglia; ma ove egli, co’ suoi corni aguzzi, ferisca nostro signore, ne nascerà un gran malanno. Io perciò con accorgimento lo ridurrò a tale ch’egli vada in altro paese. — E disse: Amico, tu hai parlato giustamente. Ma che è mai una battaglia tra signore e servitore? Perchè è stato detto:


Come un più forte
Nemico vegga,
A sua difesa
L’uomo provvegga
Ma il forte spieghi


Il suo valore
Come la luna,
Nei dì d’autunno,
Il suo splendore.


E ancora:


Quei che incomincia
A far battaglia
E il suo nemico
Non sa che vaglia,


Tutto si perde
Come fe’ il mare
Col picchio verde. —


Sangivaca disse: Come ciò? — Damanaca incominciò a raccontare:

Racconto. — In una terra vicina al mare abitava già una coppia di picchi. Con l’andar del tempo, la femmina, venuta al suo tempo opportuno, concepì. Come poi venne al momento di deporre le ova, essa disse al maschio: Caro mio, omai è tempo che io deponga le ova. Si pensi adunque a qualche luogo sicuro, laddove io possa deporle. — Il picchio disse: O cara, è dilettoso questo luogo vicino al mare. Qui adunque le deponi. — E quella disse: Nei giorni della luna piena, il flusso del mare giunge fin qui. Esso strascina con sè anche gli elefanti più furiosi. Cerchisi perciò altrove e lontano un altro luogo. — Ciò udendo, il picchio disse udendo: O cara, tu non hai detto bene. Qual potere ha il mare perchè egli possa recar danno alla mia prole? Non hai tu udito cotesto?


Nel fuoco terribile
Che fulgido levasi
Per l’inaccessibile
Sentier dell’etere,
Qual uomo è sì stolido
Che si caccerà
Di sua volontà?
Leon dormente simile alla morte,
Che già fiaccò d’un elefante ardente

D’amore il capo madido d’umori144,
Qual uom destar vorrìa, se non chi brama
Del re dei morti di veder la chiostra?

Chi mai, scendendo
Dei re di morte
Nella presenza,
Alla sua sorte
Senza temenza
Può dir: Se in te
È tal virtù,
Via! togli su
La vita a me?
Quando a mattina
Rigida spira
Mista di ghiaccio


La brezzolina,
Qual uom che sa
Il pro’ ed il contro,


Scacciar vorrà,
Spargendo altr’acqua,
Il freddo che ha?

Però tu, senza alcun timore, fa di deporre le ova. Perchè è stato detto:

     
Dai saggi è detta sterile la madre,

Ben che feconda, quando il figlio suo,

Di danno per timor, lascia il suo loco.


E poi:


Oh! nascer mai non possa il scellerato
Che, del disprezzo dal malor vessato,


Vive pur anco, punto non vivendo145,
E chi lo partorì viene affliggendo! —


Mentre il picchio così parlava, la femmina, che conosceva il vero, parlando secondo capacità, diceva: Oh! cotesto è molto giusto, cioè:


A che serve il parlar grave?
Degli augelli o re, ti fai
Ben ridicolo quaggiù!


Questa è grossa! Anche un lepratto
Pari a quei d’un elefante
I bocconi manda giù!146


Il picchio disse: Che se ne fa, del mare? — Il Mare, come udì cotesto, pensò: Vedi superbia di questo verme di uccello! Intanto, si dice a proposito:


Il picchio dorme e i piè ritrae per tema

Che caschi il cielo sovra lui. Oh! dove,

Dove nel mondo orgoglio non si vede
Nato di sè da troppo alto concetto?147


Ora io per curiosità voglio vedere il valore di costui. Che potrà farmi egli se gli porto via le ova? — Così avendo pensato, stette ad aspettare. Allora, come ebbe deposto le ova, essendo andata la femmina del picchio a cercarsi da mangiare, il mare, approfittando del riflusso, se le portò via. Quando la femmina tornò, vedendo vuoto il luogo dove aveva deposto le ova, piangendo disse al picchio: Oh sciocco! t’era pur già stato detto prima da me che le ova sarebbero andate disperse nel riflusso del mare e che dovevamo andar più lontano! Ma tu, nella tua sciocchezza, per desiderio di far tutto per te, non hai seguito il mio consiglio. Eppure, si suol dire a proposito:


Degli amici che vònno il nostro bene,
Chi non segue il consiglio, in quella guisa


Della sciocca testuggine si perde
Quando dal legno suo si fa divisa. —


Il picchio disse: Come ciò? — E la femmina disse:

Racconto. — Abitava in mio stagno d’acque una testuggine di nome Cambugriva. Erano suoi amici due cigni di nome Sancata e Vicata che, avendo concepito grandissima affezione per lei, continuamente, venendo alla riva dello stagno, stavano con lei a raccontare certe storie di re, di sacerdoti e di sapienti, e poi, al tramonto del sole, se ne ritornavano al loro nido. Ma poi, con l’andar del tempo, quello stagno, per mancanza di pioggia, a poco a poco venne a seccare. Però i due cigni, afflitti di quel tristo caso, dissero alla testuggine: Amica, tutto questo stagno omai è diventato un pantano. Che dunque sarà di te? Noi intanto siam costernati d’animo. — Ciò udendo, la testuggine disse: Oh! noi non possiam più vivere per il manco dell’acqua! Si pensi intanto a qualche espediente! Perchè è stato detto:


Mai non si perda in tempo di sventura
La fermezza del cor, chè a lieto fine

Chi ha fermo cor pur giunge. In mar, se infrantoHa il timone il nocchiero, osa pur sempre
Con quel suo legno valicar quel mare.

Pei consanguinei
E per gli amici,


Una sventura
Quando lor tocchi,
Con molta cura
L’uom sapiente
Fa quanto può.
Manu148 cotesto
Sentenziò.


Perciò si procacci da voi alcuna corda molto forte o un bastone leggero o altro, e si cerchi intanto uno stagno d’acque abbondanti, perchè voi, mentre io mi sarò attaccata a quel bastone leggero coi denti, sollevandomi dall’una e dall’altra estremità, mi portiate a quella palude. — I due cigni dissero: Amica, noi faremo così; soltanto tu devi far voto di non parlare; se no, tu cadrai dal bastone e andrai in pezzi. La testuggine disse: Davvero! che da oggi in poi, finchè andando per l’aria non si raggiunga quello stagno, io terrò il voto del silenzio! In sèguito di ciò, la testuggine, mentre andava per aria, vide giù abbasso una città, mentre gli abitanti, vedendola menata così per l’aria, con meraviglia dicevano: Oh! qualche cosa di simile ad una ruota è portata via da due uccelli! Mirate, mirate! — E la testuggine, udendo quelle grida, rispose: E che è cotesto gridare? — , ma, perchè volle parlare, in mezzo alle parole cadde dall’alto e fu fatta a pezzi dai cittadini. Perciò io dico:


Degli amici che vônno il nostro bene,
Chi non segue il consiglio, in quella guisa


Della sciocca testuggine si perde
Quando dal legno suo si fu divisa. —


La femmina soggiunse:


Felicemente
Passano i giorni
L’opportunista,


E il previdente;
Solo si perde
Il fatalista. —


Il picchio disse: Come ciò? — E quella cominciò a raccontare:

Racconto. — In uno stagno d’acque abitavano già tre pesci, il Previdente, l’Opportunista e il Fatalista. Un giorno, certi pescatori che di là passavano, dissero: Questo stagno abbonda di pesci, nè è stato mai frugato da noi. Intanto, ecco che per oggi ci siam procacciato il desinare. Se non chè è l’ora del tramonto; però domani per tempo s’ha da venir qui. Tale il nostro pensiero. — Il Previdente allora che aveva udito quel loro discorso, simile per lui al cadere d’una folgore, chiamando a raccolta tutti i pesci, disse: Oh! avete udito voi ciò che han detto i pescatori? Andiamo, suvvia! questa notte a qualche altro stagno vicino. Perchè è stato detto:

     
Da nemico possente fugga via

Il debole, e si chiuda in un castello

Quei che di scampo non ha un’altra via.


I pescatori, venendo qui all’ora dello spuntar del giorno, certamente faran man bassa su tutti i pesci. Questo ho io in mente, e però non conviene che da noi si resti qui soltanto un’ora. Perchè è stato detto:


I saggi, da cui via s’è ritrovata
D’andar lontano con propizia sorte,


Non vedono la patria devastata.
Di lor stirpe non vedono la morte. —


Avendo udito ciò, l’Opportunista disse: Oh! tu hai detto il vero! Anch’io voglio far cotesto. Perciò, vadasi altrove. Perchè è stato detto:


Corvi, gazzelle ed uomini dappoco,
Che sono abietti e vivon di male arti,


Per timore d’andarne in altre parti,
Trovan la morte al lor nativo loco.


E ancora:


Poi che dovunque
È via di scampo,
Deh! perchè adunque,
Per falso amore
Del natìo loco,
Alcun si muore?


«Il pozzo è questo
Del padre mio!»,
Dice cotesto
Gente baggiana
E beve intanto
Acqua malsana. —


Ma il Fatalista, come ebbe inteso tutti quei discorsi, con una gran risata disse: Oh! voi non vi siete ben consigliati! Perchè, come mai ci conviene abbandonare, soltanto per alcune parole di quei pescatori, lo stagno che già fu dei padri e degli avi nostri? Se per noi è giunto il termine della vita, la morte c’incoglierà anche andando altrove. Perchè è stato detto:


Ciò che non si custodisce,
Custodito è dagli Dei;
Ciò che ben si custodisce,
Va in malora per gli Dei.


Nella selva abbandonato
Senza scorta altri si vive;
Con gran cura riguardato
In sua casa altri non vive.


Perciò, io non verrò. Voi intanto fate ciò che vi pare. — Avendo così risaputo il divisamento di colui, il Previdente e l’Opportunista uscirono con tutta la loro famiglia. Alla mattina, intanto, i pescatori, frugando con loro reti, disertarono di pesci lutto quello stagno, presovi dentro il Fatalista. Perciò io dico:


Felicemente
Passano i giorni
L’opportunista


E il previdente;
Solo si perde
Il fatalista. —

Avendo udito tutto questo, il picchio disse: Cara mia, poichè tu mi stimi un fatalista, vedrai ciò che posso fare, perchè io col becco mio farò seccare questo furfante di mare. — La femmina del picchio disse: Oimè! a che una guerra col mare? Tu non puoi far guerra con lui. Perchè è stato detto:


Di gente debole
In proprio danno
Ritorna l’ira;
Così una pentola


Troppo scaldata
Ne’ lati suoi
Resta bruciata.

Il presuntuoso che del suo nemico
Non conosce il poter, dirittamente

A morte corre come la farfalla

Che s’affretta a perir nel fuoco ardente. —


Il picchio disse: Cara mia, non dir così. Quelli che hanno virtù di potere anche se piccoli, superano i grandi. Perchè è stato detto:


Contro a’ nemici pieni di vigore
Van drittamente gli uomini di core,


Come oggi ancor contro la luna piena
Dritto sen va Rahù149 di tutta lena.


E poi:


D’un orrido elefante
In suo vigore altero,
Di bruno umor stillante
Le gole in amor fiero,


D’acute zanne armato,
Calcar col piè la testa
Suole un leon chiomato.


E poi:


Cadon sul monte i rai
Del giovinetto sole150;
Accompagnarsi a gente


Di gran conto e possente
Anche vecchiezza suole.


E poi:


È grosso un elefante
Ed obbedisce al pungolo;
Ora, che è mai il pungolo
Appresso all’elefante?
Quando la lampa è accesa
Si fuggono le tenebre,
Or, dinanzi alle tenebre
Che è mai la lampa accesa?


Caggiono d’alto i monti
Se li colpisce il fulmine.
Ora, che è mai il fulmine,
Che è mai presso que’ monti?
Tale è forse se mai
Il valor suo dispiegasi;
Ma di chi resta immobile,
L’esito quale è mai?


Però io con questo mio becco farò seccare tutta l’acqua di lui. — La femmina disse: Caro mio, mentre il Gange, raccogliendo novecento fiumi, continuamente va scorrendo, e così fa l’Indo, come mai col tuo becco che non può contenere che una stilla d’acqua, asciugherai il mare che si riempie di ottocento correnti? A che questo tuo parlare, a cui non si può dar fede? — Il picchio disse: Cara mia.


Della felicità prima radice
È il rimanersi sempre imperturbato.

Dal becco mio di ferro, oh! come mai,

I lunghi dì e le notti lavorando,
Non sarà questo mar tutto seccato?

E poi:


Fin che l’uomo non farà
Opra degna d’uom valente,
Ignorato resterà
Ogni pregio suo eccellente.


Sul suo carro come andò
Questo sol co’ rai fiammanti,
Delle nubi sgominò
Gli atri cumuli vaganti. —


La femmina disse: Se di necessità tu hai da far guerra col mare, ti ci metti almeno accompagnato dai tuoi amici, chiamando a raccolta gli altri uccelli. Perchè è stato detto:


Di molti, ben che deboli,
Invitta è l’alleanza.
Di paglie si suol torcere


Corda che una gran bestia
Di avvincere ha possanza.


E poi:


Pel picchio e per la passera,
Per la mosca e la rana,
Con forza irresistibile


Di vasta carovana,
Andava, ben che forte,
Un elefante a morte.


Il picchio disse: Come ciò? — E quella disse:

Racconto. — Abitava già in una selva una coppia di passeri che aveva fatto il suo nido sopra un albero di tamala151. Con l’andar del tempo era venuta loro speranza di prole, quando, un giorno, un elefante selvatico e furioso, tormentato dal caldo, se ne venne, per goder dell’ombra, sotto quell’albero di tamala, anzi, per il soverchio del furore, traendo a sè con l’estremità della proboscide quel ramo dell’albero su cui stavano i passeri, lo spezzò, per la qual rottura tutte andaron disperse le ova della passera; soltanto, perchè era destino che dovessero vivere ancora, il passero e la passera non vi perdettero la vita. Ma la passera, che aveva patito la rottura delle sue ova, intanto, pur facendone gran lamenti, non poteva consolarsene. Allora un uccello, di nome il picchio, che ne ebbe uditi i pianti, essendo molto amico di lei, afflitto di quel suo dolore, accostandosele le disse: O signora, a che questo inutile lamentare? Perchè è stato detto:


Per cosa morta o perduta o svanita
Non mostrano dolore i sapïenti.


Però si estima che in cotesto appunto
Dai saggi son gli stolti differenti.


E poi:


Per cose di quaggiù non si vuol piangere,
E chi ne piange veramente è stolido.


Ei da un malanno altro malanno pigliasi,
Egli a goder di due fastidi acconciasi.


E ancora:


Poi che chi è morto le torbide lagrime,
Contro sua voglia, de’ parenti pigliasi,


Ove per esso non si deve piangere,
Opre, giusta il poter, pietose facciansi. —


La passera rispose: Cotesto è pur vero, ma intanto da quel malvagio di elefante, preso da furore, è stata distrutta tutta la mia figliuolanza! Che se tu mi sei veramente amico, pensa tu alcun modo per dar morte a quello scellerato, perchè almeno, fatto ciò, possa cancellarsi questo mio dolore della perdita della prole. Perchè è stato detto:


Penso che un uomo sia
Veracemente tale
Che il cambio a ciascun dia,
A questo e a quello eguale,


A chi nella sventura
Di lui si prese cura
E a chi di lui ridea
Nella fortuna rea. —


Il picchio disse: Tu hai detto il vero, perchè è stato detto:


Amico è quei che in tempo di sventura
Serbasi tal, ben che di estrania gente.


Ciascun, quando propizia è la ventura,
Dicesi amico a ogni mortal vivente.


E poi:


Amico è quei che è tal nella sventura;
Figlio è quel sì che de’ parenti ha cura;


Servo è quei che conosce il suo dovere;
Sposo è colui che appaga la mogliere.


Vedi tu intanto la potenza dell’ingegno mio! Io ho per amica una mosca che si chiama Vinarava. Chiamando costei con me, andrò e farò in modo che quel malvagio e scellerato di elefante resti ucciso. — Egli adunque, recatosi dalla mosca insieme alla passera, disse: Amica, questa passera amica mia è stata offesa da un malvagio di elefante col farle rompere le ova. Intanto, tu devi darmi aiuto mentre io cerco il modo di ammazzarlo. — La mosca disse: Caro mio, e che si dice mai a questo proposito? perchè è stato detto:


Per averne il contraccambio,
Agli amici alcun favore
Si suol fare.


All’amico dell’amico
Che potrassi dall’amico
Mai negare?


Questo è pur vero. Ma io ho per mia grande amica una rana di nome Meganada. Come avrem chiamata anche lei, faremo ciò che s’ha da fare. Perchè è stato detto:


Mai non falliscono
Gli espedienti
Che già pensarono
I sapïenti


Che san le regole,
Di mente dotta,
Che irreprensibile
Han la condotta. —


Così questi tre, andando presso di Meganada, le raccontarono tutto quanto l’accaduto, e quella disse: Oh! che può mai un miserabile elefante contro una gran schiera di gente indignata? Seguasi intanto questo mio consiglio! Tu, mosca, nell’ora del mezzogiorno entrando in un orecchio all’elefante infuriato, farai come un suono di liuto, per il quale egli starà con gli occhi chiusi per desiderio d’ascoltar quel dolce suono. Allora egli, come gli saran stati cavati gli occhi dal becco del picchio, fatto cieco e tormentato dalla sete, quando udrà la voce mia e delle mie compagne che sarem sull’orlo d’un burrone senza fondo, pensandosi che là sia uno stagno d’acqua, ci verrà dietro. Accostandosi al burrone, vi cadrà e morrà. Così deve farsi in società perchè il nemico resti disfatto. — Essendo pertanto ordinata ogni cosa in questa maniera, il furioso elefante, come ebbe socchiuso gli occhi per il piacere del ronzio della mosca, e gli ebbe poi perduti per il becco del picchio, nell’ora del mezzogiorno errando qua e là tormentato dalla sete, poichè si fu messo a camminare seguitando la voce della rana, accostatosi a un gran burrone, vi precipitò e morì. Perciò io dico:


Pel picchio e per la passera,
Per la mosca e la rana,
Con forza e irresistibile


Di vasta carovana,
Andava, ben che forte,
Un elefante a morte. —


Il picchio disse: O cara, sia adunque così! Io con tutta una turba di amici farò seccare il mare. — Così avendo deliberato, radunando intorno a sè anitre, gru, cigni, pavoni e altri uccelli, disse: Oimè! ch’io son stato ingiuriato dal mare col portarmi via le mie ova! Perciò si cerchi modo di farlo asciugare! — Ma gli uccelli tutti, preso consiglio, risposero: Noi non possiamo far asciugare il mare! Perchè è stato detto:


Il debol che a combattere
Va preso a vertigine
Nemico potentissimo,


Come elefante tornasi
A cui le zanne caddero.


Ma nostra signora è l’aquila Garuda152. Però le si faccia conoscere il nostro misero stato, perchè, crucciata per la distretta de’ suoi consanguinei, si sdebiti col nemico; ovvero, se per sentimento della propria dignità non si prenderà cura di noi, non sarà male in ciò, perchè è stato detto:


Chi all’onesto servitore
O all’amico suo sincer
O al potente suo signore


O alla fida sua moglier
Svela il proprio suo malanno,
Vive poscia senza affanno.


Vadasi adunque da Garuda che è la nostra signora. — Fatto ciò, tutti quegli uccelli, con volti turbati, con occhi pieni di lagrime, con voci piagnolose, accostatisi a Garuda, incominciarono questo lamento: Oh delitto! oh delitto! Ecco che, pure essendo tu la nostra signora, il mare si ha portato via le ova di questo buon picchio! Intanto, ecco rovinata tutta la famiglia degli uccelli, perchè altri ancora, ad arbitrio, saranno uccisi dal mare. Perchè è stato detto:


Anche se illecita,
Imita l’opra
Questo di quello
Ov’ei la scopra153.


La gente sèguita
D’altri il sentiero,
Nè punto ha cura
D’esser nel vero.


E poi:


Da ladri e da furfanti
Che han vita infame e ria,
Da furbi e da birbanti,


Da simile genìa,
I sudditi vessati
Vônno essere guardati.

E ancora:


Un re che difende
I sudditi suoi,
Per dritto si prende
Il sesto de’ redditi.
Ma a torto quel sesto
Si prende da lui
Se i sudditi sui
Non cura difendere.
Quel fuoco, da corruccio suscitato
Di oppresse genti, sol si spegne allora

Che il buono stato e la famiglia, ancora
Dell’oppressor la vita ha consumato.

Di chi non ha congiunti
Congiunto è un re sovrano;
Di quei che occhi non hanno,
Pupilla è un re sovrano;
Di tutti quei che vanno
Del giusto per la via,
È veramente padre
Un re sovrano e madre.
Cura adoprando,
Il re difenda


Le genti sue,
Ove egli intenda
Ricchezze aver;
Di doni e onori
Sia largo come
Di freschi umori
Largo a’ suoi fiori
È il giardinier.
Come le molli e tenere
Erbette e le radici

Rendono al tempo debito
I frutti lor con cura custodite,
Così lor frutti rendono
Le genti ben guardate e ben nutrite.

Oro e grano,
Perle e carri
D’ogni sorta,
E qualunque
Altro oggetto
Pur che sia,
Al suo re sempre si dia
Dalla gente. —

L’aquila Garuda allora, avendo udito tutto ciò, afflitta per la sventura del picchio e presa dall’ira, pensò: Oh! questi uccelli hanno detto il vero! Perciò noi oggi andremo e farem seccare il mare. — Intanto ch’essa così pensava, sopraggiunse un messo di Vistiti e disse: O divino augello, io son stato mandato presso di te dal beato Narayana154, il quale, per faccende degli Dei, devo oggi andare alla città di Amaravati155. Però tu vieni tosto. — L’aquila Garuda, come ebbe inteso, rispose al messo con alterigia: O messaggiero, e che vuol farsi il beato Vistiti d’un miserabile servo come me? Ma tu ritorna e digli che si procacci in luogo mio un altro servitore per trasportarlo. Fàgli intanto il mio saluto. Perchè è stato detto:

Non serve il sapiente a quei che ignora
Le sue virtù, nè frutto alcun produce
Sterile campo, bene arato ancora. —


Il messaggiero disse: O Garuda, nulla di simile è mai stato detto da te contro il beato Visnù! Però dimmi quale ingiuria egli l’ha fatto. — Garuda disse: Il mare per la protezione che ha del beato Visnù, ha portato via le ova del nostro servitore il picchio. Perciò, se egli non punisce il mare, io non sarò mai più il suo servitore. Tale è il mio divisamento, e tu devi manifestarlo a lui. Vanne adunque tosto presso il beato Visnù. — E Visnù allora, come intese dalla bocca del messo che Garuda era adirata per amor proprio offeso, pensò: È giusta l’ira di Garuda! Ma io andrò da lei e con ammonimenti e con segni d’onore la menerò con me. Perchè è stato detto:


Quei che ha cara la sua felicità,
Un servo di gran cor, fedele e destro,

Mai non offenderà;

Anzi mai sempre, come il figlio suo,
Con sè il tenendo l’accarezzerà.


E ancora:


Come il re sia soddisfatto,
Rende onore a’ servi suoi.


Che onorati il contraccambio
Con la vita gli dàn poi. —


Così adunque avendo pensato, se ne venne in gran fretta presso di Garuda in Rucmapura156, e Garuda, come vide il beato Visnù entrar nella sua casa, col volto dimesso per la vergogna e inchinandosi, disse: Vedi, o beato, che il mare, inorgoglito della tua protezione, mi ha fatto ingiuria portando via le ova di un mio servitore. Io mi son trattenuta per il rispetto del beato mio signore; se no, io oggi stesso l’avrei ridotto a terra secca. Perchè è stato detto:


Opra che del signore
Porti fastidio e pena
In qualche guisa al core,


Servo di casa fare
Non osa mai, la vita
Dovessegli costare. —


Il beato Visnù, come ebbe udito, disse: O Garuda, tu hai detto il vero. Perchè è stato detto:

Punir per alcun fallo un servitore
Al signor s’appartien, chè la vergogna
Non è del servo, ma del suo signore.


Però tu va perchè, togliendo le ova al mare, le rendiamo al picchio per recarci poi ad Amaravati. — Essendo seguito cotesto, il beato Visnù, come ebbe minacciato il mare ponendo una saetta infuocata sull’arco, gli disse: Rendansi, o malvagio, le ova del picchio, se no, io ti ridurrò a terra secca. — Allora, dal mare intimorito furon date indietro quelle ova che poi il picchio portò alla femmina sua. Perciò io dico:


Quei che incomincia
A far battaglia
E il suo nemico
Non sa che vaglia,


Tutto si perde
Come fe’ il mare
Pel picchio verde.


Perciò, l’uomo non deve mai perdersi di coraggio. — Avendo udito ciò, Sangivaca continuò a domandare: Amico, come mai si può conoscere che colui è crucciato con me? Io son pur stato veduto da lui per tutto questo tempo con favore e con affetto sempre crescente, nè mi son mai avveduto d’alcun mutamento in lui. Ma pure, cerchisi modo perchè io per la salvezza mia, possa ammazzarlo. — Damanaca disse: Amico, che c’è qui da conoscere? Questi sono i segni. Se egli stara a guardarti con occhi rossi, aggrottando le ciglia in modo che le rughe gli faccian triangolo sulla fronte, leccandosi le basette, allora sarà segno ch’egli è crucciato con te. Ma, se egli ti guarda in altra maniera, allora tu hai ancora il suo favore. Tu intanto fammi sapere tutto cotesto, io torno a casa. Tu pensa a non tradire il segreto. Però, se al cader della notte tu potrai andare, lascia questo paese. Perchè è stato detto:


Per la famiglia
Una persona
Lasciar si può;
Per un villaggio,
Una famiglia;


Per una gente,
Tutto un villaggio;
Ma, per sè stesso,
Al suol natìo
Dicasi addio.

Guardi alcun le sue ricchezze
Per riparo alla sventura;

Le ricchezze adoperando,
La sua donna egli abbia in cura,
Ma, sè stesso per salvare,
La mogliera e le ricchezze

Pronto sia mai sempre a dare.


Chi è oppresso da un potente, o deve lasciare il suo paese o deve sottomettersi. Tale è la regola. Però tu devi lasciar questo paese o salvarti adoperando i diversi modi a ciò. Perchè è stato detto:

Il savio anche perdendo moglie e figli
Sua vita salvi, chè d’umani corpi,
Salva la vita, ei può aver copia ancora157.


E poi:


Come alcun caduto sia,
Di levarsi abbia pensiero
Con un mezzo pur che sia,
Sia malvagio, sia sincero.
Chi si trova in agiatezza,
Quegli adopri con rettezza.
Ecco lo stolido
Che per dottanza


Ch’egli ha di perdere
Vita e sostanza,
Crucciasi e affannasi!
Sè stesso intanto
Perde; con ciò
D’ogni sua cosa
Privo restò. —

Così avendo parlato, Damanaca se ne venne da Carataca, e Carataca, come l’ebbe veduto, gli domandò: Andando là, che hai tu fatto, amico. — Damanaca disse: Da me è stato gettato il seme della sapienza. Il resto dipende da ciò che dispone il destino. Perchè è stato detto:


S’anche il destino è avverso,
Faccia chi è sapiente,
Per afforzar sua mente


E le peccata sue per cancellare.
Ciò che gli tocca a fare.

E poi:


Sempre all’uom ch’è diligente,
Lieta sorte s’accompagna.
«Oh il destin!», così la gente
Ch’è più stolida, si lagna.


Del destin non ti curando,
Uom ti mostra come può’.
Non riesci t’adoprando;
E qual colpa avra’ tu in ciò? —


Carataca disse: Dimmi adunque qual seme di sapienza hai tu gettato! — E l’altro disse: Io, con le mie parole, ho posto tal divisione fra que’ due che tu non li vedrai mai più starsi a consiglio insieme in un medesimo luogo. — Carataca disse: Oh! tu non hai fatto bene sospingendo in un mare di corrucci questi due che erano felici e avevano il cuore tocco da scambievole affetto. Perchè è stato detto:


Quei che mena alla via della sventura
Uom ch’è felice e senza noie e affanni,


Misero è fin dal principiar degli anni
Del viver suo, nè in ciò dubbio si dura.


Con questo, che tu ti compiaccia dell’aver divisi così due amici, nemmeno ciò ti sta bene, perchè chiunque è buono a fare il male, ma non a fare il bene. Perchè è stato detto:


Uom ch’è dappoco,
L’opera altrui
Ben sa guastare,
Non prosperare.


Possa di vento
Una gran pianta
Ben sa schiantare,
Non sollevare. —


Damanaca disse: Oh! poichè tu parli così, tu non sai le regole della sapienza, perchè è stato detto:


Chi, come sorto sia, non sa domare
Il suo nemico o un morbo soffocare,


Se l’uno o l’altro crescere potrà,
Ben che valente, morto ne sarà.


Ora, egli è nostro nemico da che ci è stato tolto il nostro grado di ministro, intanto, è stato detto:


Quei che del padre tuo, dell’avo tuo,
Cerca il loco rapirti, è tuo nemico,


Nemico natural da toglier via,
Anche se teco ei s’è mostrato amico.


Con ciò, mentre in tutta fiducia l’ho tratto qui con un salvacondotto, io poi sono stato rimosso per colpa sua dal mio ufficio di ministro. Perchè giustamente si suol dire:


Ove a un tristo accesso dia
In sua casa un uom dabbene,
Quei, che appunto ciò desia,
La rovina ne ordirà.
Uom, perciò, di mente eletta


Che in sua casa gente abietta
Entri mai, mai non vorrà.
Voce pubblica proclama
Che padrone della casa
Si fa il ganzo di madama.


Ora, io perciò appunto ho ordito contro di lui tal disegno, che o lascierà questo paese o avrà la morte. Di questo, nessun altro fuor di te ha conoscenza. Intanto, io ho ordinato tutto ciò per mio bene. Perchè è stato detto:


Assunto un cor spietato
E un dire inzuccherato.


Uccidasi il nemico.
Precetto indubitato.

E poi, Sangivaca, come sarà stato ucciso, potrà essere mangiato da noi. Intanto, prima cosa sarà questa, l’esserci sbarazzati di un nemico; poi, riavremo l’ufficio e avremo di che sfamarci. Essendoci dinanzi questi tre guadagni, a che mi vai biasimando come se fossi uno stolido! Intanto, è stato detto:


Per propria utilità, per far dispetto
Al suo nemico, se, come ne’ boschi


Fe’ Ciaturaca un dì, non mangia il savio,
Egli ha perduto il ben dell’intelletto.


Carataca disse: Come ciò? — E l’altro disse:

Racconto. — C’era una volta in una selva un leone di nome Vagiradanstra. Abitavano con lui in quella medesima selva, essendo suoi servitori che andavano sempre con lui, uno sciacallo e un lupo, uno di nome Ciaturaca, l’altro Craviamuca. Un giorno, in un recesso della selva, il leone uccise una cammella che, vicina al parto, appunto per la doglia del partorire, là si era accovacciata, dilungatasi dalla sua carovana. Così avendola uccisa, nel momento ch’egli ne apriva il ventre, ecco uscirne vivo e baldo un piccolo cammello. Il leone, che ornai s’era saziato con le carni della cantinella, menato a casa con amore quel piccolo cammello derelitto, gli disse: O caro, tu non hai da temere nè da me nè da alcun altro; perciò vanne tu ora a diporto, come più ti piace, per questa selva insieme a Ciaturaca e a Craviamuca. Intanto, poichè tu hai gli orecchi simili a pali aguzzi, il nome tuo sarà l’Orecchiaguzzi. — Dopo cotesto, tutti e quattro, abitando in un solo luogo, godendosi a vicenda e in maniere diverse della felicità dello stare insieme, là si restarono, intanto che l’Orecchiaguzzi, giunto all’età giovanile, non abbandonava mai il leone. Ma poi, un giorno, Vagiradanstra ebbe battaglia con un furioso elefante, dal quale egli, nell’impeto del furore, fu ferito di tal maniera per tutto il corpo con colpi di zanne, che, soltanto per voler del destino, non ne restò ucciso. Allora, perchè, rotto il corpo da quei colpi, non poteva muoversi, tormentato nella strozza dalla fame, così parlò a que’ suoi servitori: Cerchisi alcun animale, col quale io, come l’abbia ucciso benchè in questo stato, possa scacciar la mia e la vostra fame. — Inteso ciò, tutti e tre andarono qua e là per la selva fino all’ora del tramonto, ma non incontrarono alcun animale. Ciaturaca allora pensò: Se quest’Orecchiaguzzi si ammazzasse, noi tutti potremmo satollarci per alcuni giorni. Ma nostro signore, e per l’amicizia e per avere egli ricorso alla sua protezione, non l’ammazzerà. Io però con tale accortezza ammonirò nostro signore ch’io farò in modo ch’egli l’ucciderà. Perchè è stato detto:

Nulla è quaggiù che de’ savi la mente
Far non possa, o disfare, o conseguire;
Ciascun però l’adopri acconciamente. —


Così avendo pensato, disse all’Orecchiaguzzi: O l’Orecchiaguzzi, poichè nostro signore, privo del necessario, è crucciato dalla fame, egli e noi tutti indubbiamente dovrem morire. Ma io voglio dire una parola in vantaggio di nostro signore. Ascolta adunque. — L’Orecchiaguzzi disse: Dilla subito, amico, perchè io senz’alcun dubbio l’eseguirò. Fatto il bene di nostro signore, sarà per me come se io avessi fatto cento opere buone, Ciaturaca disse: Offrigli, amico, la tua persona per riaverla poi due volte, sì che tu abbi una doppia persona e nostro signore abbia modo di sostentar la sua. — Udendo ciò, l’Orecchiaguzzi disse: Se così è, dicasi pur questo per mio vantaggio e facciasi intanto il desiderio di nostro signore, ma si cerchi, a tal fine, il testimonio della Giustizia divina. — Così avendo deliberato, tutti e tre se n’andarono dal leone. Ciaturaca allora disse: O signore, oggi non abbiamo incontrato alcun animale. Intanto, il divino sole è disceso al tramonto. Però, se nostro signore gli offre doppia persona, l’Orecchiaguzzi, per tale doppio accrescimento, gli offre la sua persona, pur col testimonio della Giustizia divina158. — Il leone disse: Se così è, così sta molto bene; a tal fine, facciasi in testimonio la Giustizia divina. — Come il leone ebbe dello queste parole, l’Orecchiaguzzi ebbe squarciato il ventre dal lupo e dallo sciacallo e fu ucciso, Vagiradanstra allora disse a Ciaturaca: O Ciaturaca, finchè io non ritorni dopo essere andato al fiume e dopo aver fatto l’abluzione di rito e adorato gli Dei, tu resta qui con attenzione. — Così avendo detto, entrò nel fiume. Andato via il leone, Ciaturaca pensò: In qual modo potrei io mangiarmi da solo questo cammello? — Così avendo pensato, disse a Craviamuca: O Craviamuca, tu hai fame; perciò, finchè nostro signore non torni, tu mangi della carne del cammello. Io poi, nel cospetto di nostro signore, ti discolperò. — Così, intanto che Craviamuca, avendo udito ciò, potè mangiarsi un cotal poco di carne, Ciaturaca si mise a gridare! Oh! oh! Craviamuca, nostro signore ritorna! Cascia il cammello e va lontano, ch’egli non sospetti che tu n’hai mangiato! — Dopo questo, il leone ritornò. Stando egli ad osservare il cammello, ecco che il cammello aveva strappato il cuore. Perciò, aggrottando le ciglia, disse con fiero cipiglio: Ohè! chi dunque ha fatto di questo cammello un avanzo qualunque? Suvvia! ch’io l’ammazzi perciò! — Intanto ch’egli così parlava, Craviamuca guardava in faccia a Ciaturaca come per dire: Suvvia! di’ qualche cosa perch’io sia salvo! — Ma Ciaturaca ridendo disse: Oh! dunque tu che sotto i miei occhi hai divorato il cuore del cammello, ora mi stai guardando in viso? Cogli ora il frutto d’una trista pianta! — Udendo ciò, Craviamuca, per timor della vita, fuggi lontano e il leone restò sul luogo. Intanto, per voler del destino, venne a passare per quella via una gran carovana di cammelli carica di merci. Al collo del cammello che era a capo della carovana, era legata una grossa campana, della quale udendo il suono fin da lontano, il leone disse a Ciaturaca: Si cerchi, o caro, che sia questo terribile suono che ora si ode e non si è mai udito innanzi. — Inteso ciò, Ciaturaca, come fu andato alcun poco per la selva, ritornando da lui subitamente, gli disse tutto conturbato: O signore, si parta, si parta, se pure tu vuoi partire! — E il leone disse: A che, amico, mi fai paura? Parla! che è mai cotesto? — Ciaturaca disse: O signore, il Re della giustizia è crucciato con te e dice: «Da colui che pur mi chiamò in testimonio, mi è stato ucciso inopportunamente il mio cammellino. Perciò io mille volte mi ripiglierò da lui il mio cammello». Così avendo divisato, egli facendo gran conto del suo cammello, legata al collo del cammello che è capo della carovana, una campana, raccolta una turba di cammelli, padri e nonni, crucciati dell’uccisione del cammellino, è venuto qui per punire il suo nemico. — Il leone allora, quand’ebbe veduto tutto ciò da lontano, abbandonato il cammello morto, per timor della vita fuggì lontano, e Ciaturaca adagio adagio si mangiò la carne del cammello. Perciò io dico:


Per propria utilità, per far dispetto
Al suo nemico, se, come ne’ boschi


Fe’ Ciaturaca un dì, non mangia il savio,
Egli ha perduto il ben dell’intelletto. —


Partito così Damanaca, Sangivaca incominciò a pensare: Oimè che ho fatto io, per cui s’è potuto fare amicizia tra un erbivoro e un carnivoro! Perchè anche questo si dice bene a proposito:


L’uom che s’accosta a gente inaccessibile,
E serve a chi servir non è possibile,


Come la mula che divenne gravida,
Di morir presto è reso suscettibile.


Che fo io intanto? Dove vado? Come potrò star tranquillo? Tornerò io ancora presso di Pingalaca? Forse egli mi salverà, avendo ricorso alla sua proiezione, nè mi ucciderà. Perchè è stato detto:


Anche a chi di far bene in terra studiasi
Se in forza del destin sventure incolgono,

Per rimediarvi da chi è saggio ed abile
Espedïente adoprisi valevole,

Giacchè per tutto il mondo è reso celebre
Questo proverbio: «A chi col luoco scottasi
Molto giova le fiamme d’olio aspergere159,
Anche se il fuoco allor più forte levasi».


E poi:


Sempre quaggiù si coglie da’ mortali
Che bene opràr, che fùr leali e buoni,

Dell’opre il frutto, quale, o lieto o tristo,

All’uom procaccia il suo stesso costume.
Ciò ch’essere dovea, così s’avvera,
Nè luogo è dato a dubitar di tanto.


E poi, s’io vado altrove, ecco ch’io avrò la morte da qualche cattiva bestia carnivora. Meglio dunque averla dal leone. Perchè è stato detto:


Coi più potenti
A gareggiare
Chi s’arrabatta,
Più grave tocca
Poi la disfatta.
Ma pur dei denti


D’un elefante
Degna di lode
È la rottura,
Un monte a fendere
S’ei s’avventura160.

E poi:


Se soggiace a un più potente,
Gloria il debol si procaccia,
Come l’ape, cui, amante


Dell’umor161, d’un colpo schiaccia
Dell’orecchio un elefante. —


Così avendo divisato, egli adagio adagio, andando a balzelloni, venuto presso la dimora del leone, intanto che guardava, andava mormorando fra sè: Oh! anche questo è stato detto a proposito:


Quale una casa che abitan serpenti,
Quale una selva ch’è di fiere ingombra,

Qual stagno ombrato di loti fiorenti,
Tutto infestato dagli alligatori,

Entrano con terror timide genti,
Sì come il mar, la casa de’ signori
Che piena è tutta d’uomini codardi,
Di vili d’ogni risma e bugiardi. —


Mentre così andava mormorando, avendo veduto Pingalaca in quell’aspetto che Damanaca gli aveva detto, egli, insospettito, raggruppatosi del corpo, senza inchinarglisi, si pose giù in un luogo alquanto discosto. Pingalaca allora, come vide ciò, credendo alle parole di Damanaca, con ira gli saltò addosso. Ma Sangivaca, lacerato alla schiena dalle dure unghie di Pingalaca, come l’ebbe ferito al ventre con le corna, potè discostarsene alcun poco; e poi, desideroso di ferirlo con le corna, si avanzò per far battaglia. Vedendo allora quei due che, desiderosi di ammazzarsi l’un l’altro, parevano, per il molto sangue, due alberi fioriti di palasa162, Carataca, con accento di rimprovero, così disse a Damanca: O stolto, poichè tu hai gettato la discordia fra questi due, tu non hai fatto bene! Tutta questa selva ora per te se n’andrà in iscompiglio. Però tu non sai la regola vera del costume, perchè da quelli che la sanno, così appunto è stato detto:


Quei che le regole
Sapendo curano

Cose difficili
Che aspri, gravissimi
Castighi adducono,
Nè senza incomodo
Curar si possono,
Ma sì v’attendono
Con fare affabile,
Amico e docile,
Quei son ministri che han da stare in corte.

Ma quei che agognano
Cose illegittime

Che poco fruttano
E nulla valgono,
Con sforzi ed impeti
Che pena mertano,
Essi, adoprandosi
In riprovevole
Guisa, d’un principe
In gran periglio adducono la sorte.


Intanto, se nostro signore sarà ucciso, che si fa di questa tua sapienza da ministro? Se poi Sangivaca non resta ucciso, anche questo è un male, perchè, oltre il periodo della vita di nostro signore, c’è la rovina di tutti noi163. A che dunque, o sciocco, desideri tu l’ufficio di ministro? Tu non sai guidar le faccende in via d’amicizia, perciò è inconsulta questa tua voglia che ti fa scegliere gli espedienti della violenza. Perchè è stato detto:


La regola che Brahma ha proclamata,
Fa che amistà s’adopri nel principio;

Ultima vïolenza è collocata.

Di tutto vïolenza è la peggiore,
Vuolsi però che sempre sia evitata.


E poi:


Dove con la dolcezza
Si può toccar la meta,
Eviti la durezza
Chi è dotto e savio al paro.


Se del fegato il male
Con zucchero s’acqueta,
Adoperar che vale
Il citrïolo amaro?164.


E poi:


Quei che sa fare,
D’ogni faccenda
Al cominciare
Affabil modo
Deve adoprare,


Chè tutte imprese
Condotte a fine
Con far cortese,
Mai da sconfitta
Non sono offese.


E poi:


Non per luna e non per sole,
Non per erba che traluce165,
Non per fuoco, ma per atti


D’amicizia, si conduce
A sparir la nebbia trista
Che con l’odio l’uom s’acquista.


Non è poi degna cosa che tu desideri l’ufficio di ministro, perchè tu non sai quali vie si debbano seguire dai ministri. Ora, l’ufficio di ministro è di cinque maniere, cioè comprende i mezzi per intraprendere gli affati, l’abilità nel trattar uomini e cose, l’arte di conoscere i tempi e i luoghi, il modo di ovviare ai possibili danni, la buona riuscita negli affari. In questi casi c’è consuetamente pericolo di rovina per il principe o per il consigliere, ovvero di tutt’e due insieme. Perciò, se ancora è possibile, si pensi qualche modo per impedire il danno minacciato. Nell’aggiustar cose difficili, si fa conoscere appunto il senno dei ministri. Ma tu, o sciocco, non sai far nulla di ciò, perchè il tuo senno se n’è ito via. Ora, è stato detto:


Morbi in curar letiferi,
Cose in unir diverse,
Di consiglieri e medici


La sapïenza emerse.
Ma, se ben sta la gente,
Chi non è sapïente?


E poi:


Uom ch’è dappoco,
L’opera altrui
Ben sa guastare,
Non prosperare.


Forza di topo
Una gran pentola
Sa rovesciare,
Non sollevare.


Con questo, non è colpa tua, ma sì colpa di nostro signore che crede alle parole d’uno di poco senno come te. Perciò è stato detto:


Quei re che piaccionsi
Di gente abietta
Nè la via seguono
Ch’uom di corretta
Ragione addita,
In loco ficcansi


Che non ha uscita,
Loco difficile,
Vero malanno,
Quale una gabbia
Di tutto danno.


Ora, se tu diventerai suo ministro, nessuna persona onesta vorrà starsi con lui. Perchè è stato detto:


Anche se un prence è un’arca di virtù,
Ma scellerati consiglieri egli ha,

A lui le genti non ricorron più,

Che ha dolci l’acque, ma nido si fea
Com’a un lago tranquillo non si va
D’alligatori di natura rea.


Nostro signore intanto, abbandonato da ogni persona onesta, presto sarà perduto. Perchè è stato detto:


Di quei re che sollazzo soglion prendere
Di servi che lor contano le favole


Varie piacenti, e un arco non san tendere,
Fan tripudio i nemici e sono in giubilo.


Ma a che cercar d’istruirti, sciocco come sei? Sarebbe tutta una pazzia, non un’opera utile. Perchè è stato detto:


Cosa inflessibile
Alcun non pieghi,
Rasoio a un ciottolo
Alcun non freghi.


Sappilo, sappilo!
È Sucimuca!
A gente indegna
Mai non s’insegna! —


Damanaca disse: Come ciò? — E l’altro disse:

Racconto. — Era già in un paese montuoso una brigata di scimie. Una volta, nella stagione dell’inverno, esse, col corpo che tremava tocco da un vento impetuoso, vessate da una pioggia fredda, noiate dallo stillar di nuvole piovose, non potevano aver pace in alcun modo. Ma poi, alcune fra loro, avendo raccolto certi frutti di gungia166 che luccicavano come scintille di fuoco, nel loro desiderio d’averne, si posero tutte intorno a soffiarvi sopra. Allora, un uccello di nome Sucimuca, vedendo quel loro inutile affaticarsi, disse: Oh! sciocche tutte voi! Non son scintille di fuoco, ma si frutti di gungia. A che cotesto inutile affaccendarsi? Non ve ne verrà alcun riparo al freddo! Cerchisi piuttosto qualche luogo della selva dove non sia vento, o qualche spelonca, o qualche luogo riparato nel monte! Oggi si vedono in cielo troppe grosse nuvole! — Una vecchia scimia gli rispose: A che questo tuo sbracciarti, o sciocco? Sta zitto piuttosto! Perchè è stato detto:


Con quei che ostacoli
Ha in ciò che fa,
Col giocatore
Che perduto ha.


Non parli il saggio
Se pur gli sta
A cor la sua
Felicità.

E poi:


A cacciator che invan s’è affaticato,
A un matto che in miseria è rovinato,


Se stoltamente alcun rivolge un motto,
Veracemente egli è bell’e spacciato. —


Ma colui, non badando punto a ciò, senza restarsi mai andava dicendo alle scimie: Oh! perchè faticate voi inutilmente? — Perchè egli non cessava dal cicalare, una scimia adirata per l’inutile fatica, afferratolo per le ali, lo sbattè contro una rupe ed egli morì. Perciò io dico:


Cosa inflessibile
Alcun non pieghi,
Rasoio a un ciottolo
Alcun non freghi.


Sappilo! sappilo!
È Sucimuca!
A gente indegna
Mai non s’insegna.


E poi:


Ammaestrar gli stolti
Riesce ad aizzarli,
E punto a mansuefarli.


Bevon latte i serpenti,
E fa quel latte intanto
Che lor veleno aumenti.


E ancora:


A certa gente od a cert’altra gente
Dar non si vuol consigli veramente.

Vedi! per colpa d’una scimia stolta,

Senza nido è rimasa
La passera che bella avea la casa! —


Damanaca disse: Come ciò? — E l’altro disse:

Racconto. — C’era una volta in un paese selvoso una pianta di sami167, dove abitava una coppia di passeri selvatici che avevan fatto il loro nido, sospesolo al vertice della pianta. Un giorno, nell’ora ch’essi due si stavano là tanto bene, un nembo di nuvole d’inverno cominciò lungamente a piovere. Allora una scimia, noiata dal vento e dalla pioggia, col corpo fradicio, battendo i denti e tutta tremante, accostatasi alla radice di quella pianta, là si accoccolò. Vedendola starsi così, la femmina del passero gridò: O amico,


Avendo mani,
Avendo pici,
Alla figura
Un uom tu sei.


Ti cruccia il freddo,
Sciocco, e perchè
Una casuccia
Non fai per te? —


Udendo cotesto, la scimia le rispose con ira: Oh vil creatura! E perchè non fai tu silenzio? Oh impudenza di costei! Perchè ha una casa, si ride di me. Intanto,


Ha il becco aguzzo ed il costume rio,
È sgualdrina e favella dottrinale,


Va cicalando e non teme di male.
Ucciderla perchè non dovre’ io? —


Così avendo brontolato fra sè, disse: A che, o sciocca, ti dài pensiero di me? Ora, è stato detto:


Parlar debbe il sapïente
Solo a chi glien fa dimando,
Solo a chi gli pone mente.
Il rispondere a chi mai


Non si mosse a interrogar,
Tanto val quanto i suoi guai
In un bosco raccontar168. —


Ma a che tante parole? Mentre la passera, orgogliosa per la sua casa, così andava parlando alla scimia, la scimia, montata sull’albero, le mandò in cento pezzi il nido. Perciò io dico:


A certa gente od a cert’altra gente
Dar non si vuol consigli veramente.

Vedi! per colpa d’una scimia stolta,

Senza nido è rimasa
La passera che bella avea la casa. —


Tu intanto, o sciocco, sebbene stato istruito dai maestri, non hai imparato nulla. Ma la colpa non è tua, perchè la dottrina serve soltanto a crescer pregio nei buoni, non negli stolti. Perchè è stato detto:


Che giova sapïenza collocata
In loco indegno? Ell’è come celata


Face sotto a una pentola
Tutta cieca e di sopra coverchiata.


Tu perciò, avendo acquistato una sapienza falsa, non avendo dato ascolto alle mie parole, non sai nemmeno ciò che fa per te. Tu sei adunque un aborto. Perchè è stato detto:


Un figlio o è nato al mondo solamente,
O è nato in modo, che hassi egual valore,

O è nato in più, come quaggiù si dice
Dai saggi, od è un aborto veramente.

S’egli in virtù pareggia la sua madre,
Nato è soltanto, ma se ugual si mostra
Al padre, ha ugual valor; di più169, se nato
È in più. L’aborto è tra le cose ladre170.


Anche è stato detto: «Rama non conosce la gazzella dorata171». E poi:


Lo stolto il suo malanno
Considerar non cura,
Ei, che degli altri gode
In udir la sventura.


Sovente, nella pugna,
Allor che il capo è tronco,
Saltella ancora e guizza
Il deformato tronco.


Oh! anche questo si suol dire bene a proposito!


Un savio per dottrina e un mentecatto!
Ecco due che da me son conosciuti.


Fe’ il poco senno che nel fumo il padre
Dal proprio figlio a soffocar fu tratto. —


Damanca disse: Come ciò? — E l’altro disse:

Racconto. — Avvenne già che in un certo paese abitavano due amici, il Savio e il Matto. Un giorno, il Matto così pensò: Io, baggiano, son sempre qui oppresso dalla povertà. Prendendo adunque con me il Savio e andando in altro paese, quando avrò fatto un bel guadagno con l’aiuto di lui, poichè l’avrò truffato del suo, vivrò felice. — Però all’altro giorno così disse al Savio: O amico, quando sarai vecchio, quale opera bella li ricorderai di te? Non avendo veduto paese straniero, qual cosa racconterai ai tuoi figli e ai tuoi nipoti? Perchè è stato detto:


Perde il frutto del suo nascere
Chi pel mondo non andò


E le varie lingue e gli abiti
Fuor di qui172 non imparò.


E poi:


Capacità, ricchezza, sapïenza
Di niuna guisa l’uom s’acquisterà


Fin che di terra in terra per il mondo,
Volenteroso in core, ei non andrà. —


Il Savio, udendo quel discorso, con animo tutto lieto, salutato dai genitori e dai congiunti, in un giorno fausto, parti col Matto per un altro paese. Là, con l’aiuto del Savio, cacciandosi di qua e di là, dal Matto fu acquistata una gran ricchezza. Allora, i due amici che avevan fatto gran guadagno, con desiderio pensarono di ritornarsi a casa. Perchè è stato detto:


Per quelli che ricchezza e sapïenza
Acquistaro abitando altro paese,


Di cento miglia alla distanza è pari
Quella donde il vociar d’alcun s’intese173.


Come si vide vicino al suo paese, il Matto così disse al Savio: Amico, non conviene che portiamo a casa tutto questo denaro, perchè ce ne domanderanno i famigliari e i parenti. Perciò, come l’avremo sotterrato qui in alcun luogo nascosto della selva, presone soltanto un poco, potremo entrare in casa nostra. Quando poi ce ne sarà bisogno, venendo qui, potrem levare il denaro dal luogo. Perchè è stato detto:


Oh! s’anche piccola,
Uom che ha saggezza
A gente estranea
La sua ricchezza
Non dee mostrar,


Chè anche d’un monaco
Dell’or lucente
Suol lo spettacolo
L’alma e la mente
Scompaginar.


E poi:


Come in ciclo dagli augelli
E dai pesci giù nel mare
E qui in terra dalle fiere


Suolsi l’esca divorare,
Così quei che ricchi sono,
Ciascun muove ad assaltare. —


Avendo udito ciò, il Savio disse: Ebbene, amico, si faccia così! — Fatto, i due, tornati alle loro case, vissero contenti e felici. Ma poi il Matto, andato di notte nella selva, quand’ebbe ripreso lutto il denaro e ricolmato la buca, ritornò a casa sua, e al mattino, portatosi dal Savio, gli disse: O sozio, noi abbiamo una famiglia numerosa e siamo in angustie per manco di denaro. Andando adunque a quel posto, togliamcene un poco. — E l’altro disse: Così si faccia, amico. — Ma, quand’ebbero scavato in quel posto, ecco che essi videro vuota l’olla dei denari, perchè subito il Matto, battendosi il capo, gridò: Da te, o Savio, e non da altri è stata portata via la nostra sostanza, tanto più che la fossa è stata ricolmata! Rendimi ora la metà dell’avere, o io ne renderò informata la famiglia reale. — L’altro disse: Oh! non dir così, o malvagio. Io son veramente savio, nè io faccio di questi ladronecci. Perchè è stato detto:


Il sapïente guarda l’altrui donna
Come fosse sua madre e i beni altrui


Come zolle di terra e gli altri tutti
Riguarda sì come gli eguali sui. —


Così disputando se ne vennero al tribunale, e gridavano ingiuriandosi l’un l’altro. Ma quando i giudici ordinarono un giudizio di Dio, il Matto cominciò a gridare: Oh! questa maniera di processo io non l’ho mai veduta, perchè è stato detto:


Documenti si voglion procacciare
Allor che viene alcuno a disputare.

Se mancano, si cercan testimoni;

Se mancan testimoni, appella a Dio
E al suo giudizio l’uom ch’è saggio e pio.


Intanto, in questa faccenda mia, stanno in testimonio gli Dei della selva che dichiareranno quale di noi due è il ladro e quale l’onesto. — Dissero allora i giudici: Oh! tu hai parlato a proposito! Perchè è stato detto:


Quando in alcuna disputa
Un teste si trovò
Anche se vil di nascita,
Nessun mai provocò


Al giudizio di Dio;
Oh! quanto meno allora
Che in testimonio sta
La stessa Deità!


Con ciò noi abbiamo per questa faccenda una curiosità grande. Domani adunque, all’alba, si deve andar da voi due con noi insieme a quel luogo della selva. — Il Matto allora, venuto a casa sua, così parlò a suo padre: Babbo, tutta quella bella somma di denari è stata rubata da me al Savio ed essa diverrà del tutto nostra soltanto per una tua parola, altrimenti ne va la vita. — E l’altro disse: Figlio mio, di’ sùbito quella parola perchè io, pronunciandola, ti assicuri i denari. — Il Matto disse: Babbo, in quella selva c’è un albero di sami che ha una gran cavità nel mezzo. Tu ora devi cacciarviti dentro; domani mattina poi, quand’io farò l’attestazione della verità, tu griderai: «Il Savio è il ladro!» — Dopo cotesto, il Matto, fatte di gran mattino le abluzioni di rito, preceduto dal Savio e dai giudici, venuto ai piedi di quell’albero di sami, gridò ad alta voce:


Il sol, la luna, il fuoco, il cielo, il vento,
L’acqua, la terra, il cor, la mente, i due

Crepuscoli, col giorno e con la notte,

Con la Giustizia ancor, sanno dell’uomo
La condotta che sia nell’opre sue.


O beata divinità della selva, quello che di noi due è il ladro, tu lo manifesta! — Allora il padre del Matto che si stava nel cavo dell’albero, gridò: Udite! udite! Quella somma di denaro è stata portata via dal Savio! — Avendo inteso ciò, mentre tutti i giudici, con occhi spalancati per la meraviglia, andavano cercando nei loro libri la pena dovuta al Savio per aver rubato i denari, il Savio, ricinta quella cavità dell’albero di sami con materie atte ad alimentare il fuoco, vi appiccò la fiamma. Divampando il fuoco, ecco balzar fuori dalla cavità dell’albero, col corpo mezzo abbruciato, con gli occhi strabuzzati, cacciando dolorosi lamenti, il padre del Matto. Tutti allora l’interrogarono: Oh! che è questo? — Così dimandato, egli, come ebbe loro raccontato ciò che il Matto aveva fatto, mori, e i giudici, fatto impiccare il Matto ad un ramo dell’albero di sami, lodando molto il Savio, gli dissero: Oh! quanto giustamente si suol dire:


Pensi a ciò che gli giova il sapïente
E pensi ancora a ciò che danno apporta,


Sotto gli occhi all’airone imprevidente
Dalla faina fu sua stirpe morta. —


Il Savio disse: Come ciò? — E quelli dissero:

Racconto. — C’era una volta in una selva un albero di fico abitato da molti aironi, in una cavità del quale abitava un nero serpente che si manteneva col divorare i piccini dell’airone ancora implumi. L’airone, vedendosi divorare i suoi piccini, disperato di aver discendenza, venne alla sponda d’uno stagno e là si stette con gli occhi pieni di lagrime e col capo chinato in giù. Allora, un granchio, vedutolo in quell’atteggiamento, gli disse: Babbo, perchè piangi tu? — E l’airone disse: Che ho da fare, caro mio? Io sono uno sventurato. I miei piccini e tutta la mia famiglia mi son divorati da un serpe che abita nella cavità di un fico, e io qui sto piangendo, addolorato di questa mia sventura. Dimmi ora tu se c’è qualche rimedio per impedir tutto cotesto. — Il granchio, quand’ebbe inteso, pensò: Costui è nemico nato di tutti noi e però gli darò io tal consiglio che sia vero e falso nello stesso tempo, onde poi anche tutti gli altri aironi vadano in malora. Perchè è stato detto:


Con parola di latte recente,
Con un cor che pietade non sente,


Un nemico si atterra, e con lui
Vanno a morte i satelliti sui. —


E disse poi: Babbo, se così è, tu fa di spargere alcuni pezzetti di carne di pesci dalla porta della tana della faina fino al buco dove sta il serpe. La faina, andando dietro a quella traccia, ammazzerà quello scellerato. — Fatto ciò, la faina, andando dietro a quei pezzetti di carne di pesce, quand’ebbe ammazzato il serpente nero, a tutto suo agio si mangiò anche tutti gli aironi che erano sull’albero. Perciò noi diciamo:


Pensi a ciò che gli giova il sapïente
E pensi ancora a ciò che danno apporta,


Sotto gli occhi all’airone imprevidente
Dalla faina fu sua stirpe morta. —


Così dal Matto si era pensato a ciò che giova, non a ciò che fa danno, ed egli n’ebbe il frutto. Perciò io dico:


Un savio per dottrina e un mentecatto!
Ecco due che da me son conosciuti.


Fe’ il poco senno che nel fumo il padre
Dal proprio figlio a soffocar fu tratto.


Così da te, o sciocco, si pensò a ciò che giova, non a ciò che fa danno; però non sei un galantuomo, ma soltanto ti sei comportato qui da malvagio. Tale mi ti sei fatto conoscere dall’aver messo in pericolo la vita di nostro signore; in ciò si è fatta veder manifesta la tua malvagità e la tua falsità. Ora, si suol dire egregiamente:


Chi mai, quand’anche il voglia, de’ pavoni
Veder potrà scoverto il deretano,


Finchè, lieti all’udir nube che tuoni,
Non muovono a danzar con gaudio insano?174.


Intanto, poichè tu hai condotto a questo punto nostro signore, qual conto farai tu d’un nostro pari? Perciò, non è punto bello che tu stia con me. Perchè è stato detto:


Là dove i topi
Una stadera
Si rosicchiàr
Qual mille pesi
Può carreggiar,


Che un falco rubi
Un ragazzetto,
Inclito re,
Dubbio non è. —


Damanaca disse: Come ciò? — E Carataca cominciò a raccontare:

Racconto. — C’era una volta in una città il figlio d’un mercante, di nome Nanduca, e v’abitava anche un altro mercante di nome Lacsmana. Costui un giorno, avendo perduto il suo avere, divisò di passare in altro paese. Perchè è stato detto:


Uom dappoco è quei che sta,
Poi che tutto scialacquò,
Nel castel, nella città


Dove i beni ch’ebbe già,
Per suo merto guadagnò.


E poi:


La gente biasima
Tal che lamentasi
Là ’ve godersela


Un dì potè
Unicamente
Pensando a sè.


Ora, in casa sua stava una stadera, già stata acquistata da’ suoi vecchi, atta a sostenere un gran peso di metallo, perchè egli, depostala in casa di Nanduca, partì per altro paese. Poi, quand’ebbe viaggiato lungo tempo e a sua voglia in quel paese straniero, ritornato alla sua città, così prese a dire al mercante Nanduca: Mi si renda, o mercante, la stadera del deposito. — Ma l’altro disse: Oh! essa non c’è più. La tua stadera è stata mangiata dai topi. — Udendo ciò, Lacsmana disse: O Nanduca, tu non hai alcuna colpa se essa è stata mangiata dai topi. Il mondo è così, e nessuna cosa vi rimane eterna. Ma io ora voglio andare al fiume per fare un bagno; e però manda tu con me questo tuo piccino di nome Danadeva perchè mi porti gli arnesi del bagno. — E Nanduca che temeva di Lacsmana per avergli rubato la stadera, disse a suo figlio: O caro, tuo zio Lacsmana vuol andare a fare un bagno nel fiume. Togli adunque gli arnesi del bagno e va con lui. — Oh! quanto a proposito si suol dire:


Qual uom s’induce a fare altrui favore

Per sua devozïone?175



Sol per lusinghe il fa, sol per timore,

O per altra cagione.


E poi:


Dove senza ragione manifesta
Altri ad altri soverchio omaggio presta,


Molto si dee temer, chè poi procura
Qualche vantaggio alfin quella paura.


Intanto, il figliuolo di Nanduca, tolti con sè gli arnesi del bagno, tutto contento se n’andò con Lacsmana. Dopo ciò, Lacsmana, quand’ebbe fatto il bagno, pose Danadeva, il figliuolo di Nanduca, in una grotta sulla sponda del fiume, chiuse l’entrala con una gran pietra, indi in gran fretta se ne venne alla casa di Nanduca. Il mercante allora così lo domandò: O Lacsmana, dimmi subilo dov’è il mio piccino che è venuto con te al fiume. — E l’altro disse: Un falco l’ha portato via dalla riva del fiume. — Il mercante disse: Oh bugiardo! come mai un falco può portar via un ragazzetto? Rendimi adunque il mio bambino o io ne informerò la famiglia del re. — Lacsmana disse: Oh dicitor di verità! un falco non può portar via un ragazzetto, ma nemmeno i topi possono mangiare una stadera che può sostenere un gran peso di metallo. Rendimi adunque la mia stadera se tu vuoi il tuo piccino. — Così disputando, vennero tutt’e due alla corte, dove Nanduca ad alta voce si mise a gridare: Oh delitto! oh delitto! Il mio piccino m’è stato portato via da questo ladro! — I giudici allora dissero a Lacsmana: Rendi il figlio del mercante. — E Lacsmana disse: Che ho da fare? Sotto a’ miei occhi un falco l’ha portalo via dalla riva del fiume. — Udendo cotesto, quelli dissero: Oh! tu non dici il vero. Come mai un falco potrebbe portar via un fanciullo di quindici anni? Lacsmana allora disse ridendo: Oh! ascoltate una mia parola!


Là dove i topi
Una stadera
Si rosicchiâr
Qual mille pesi
Può carreggiar.


Che un falco rubi
Un ragazzetto,
Inclito re,
Dubbio non è. —


E quelli dissero: Come ciò? — Lacsmana allora raccontò tutta l’avventura della stadera sino alla fine. Come dai giudici, che ne risero, fu intesa tutta la faccenda di Nanduca e di Lacsmana, ambedue, riconciliatisi a vicenda con la restituzione della stadera e del piccino, restarono appagati. Perciò io dico:


Là dove i topi
Una stadera
Si rosicchiâr
Qual mille pesi
Può carreggiar.


Che un falco rubi
Un ragazzetto,
Inclito re,
Dubbio non è. —

Carataca ripigliò a dire: Tutto questo, o sciocco, è stato fatto da te perchè non potevi sopportare che a Sangivaca fosse stato dato da Pingalaca il suo favore. Oh! quanto a proposito questo si suol dire:


Sempre e sempre qui si biasima
Dal plebeo chi nacque nobile,
E si lacera dal povero
Chi la sorte ha favorevole;
Dall’avaro quel ch’è prodigo,
Dal birbante i galantuomini,
E chi è ricco tocca il biasimo
Da chi spiccioli non ha.


L’uom che per bruttezza è orribile,
Biasma quei che han viso amabile,
E chi è discolo vitupera
Tal cui legge è norma e regola;
Sempre intanto da chi è stolido
Si vitupera e si biasima
Chi è più saggio e chi più sa.


E poi:


Non vedon di buon occhio
Gli stolti i sapïenti,
Odiano i poverelli
I ricchi possidenti,


I discoli hanno in uggia
Chi penitenza fa,
Dell’altre l’onestà.


E tu, o baggiano, hai guastato ciò che molto bene era stato ordinato. Intanto, è stato detto:


A uno stolido amico è preferibile
Un nemico avveduto, accorto ed abile.


Un prence intanto dalla scimia uccidasi.
Con l’aita d’un ladro i preti salvatisi. —


Damanaca disse: Come ciò? — E l’altro disse176:

Racconto. — Un re aveva sempre con sè una scimia per la molta fedeltà addetta al servizio della sua persona, non essendole nemmeno impedito di potere entrare nel gineceo di lui, tanto era venuta nella sua fiducia. Un giorno, essendo il re entrato nel sonno, mentre la scimia agitando il ventaglio gli faceva vento, una mosca venne a posarsi sul petto di lui, la quale, benchè scacciata più e più volte col ventaglio, sempre e sempre vi ritornava. La sciocca scimia allora, impetuosa per natura, montata in ira, afferrò una spada acuta e con quella le menò un gran colpo. Ma la mosca volò via e il re, aperto il petto da quella spada di taglio acuto, morì. Perciò, da quel principe che vuol avere vita lunga, non si deve mai tenere un servo che sia balordo. Intanto, in una città dimorava un Bramino molto sapiente, il quale, in una vita precedente177, era stato ladro. Costui, avendo veduto quattro preti che erano venuti da un altro paese a quella città e vi avevano venduto molte loro derrate, cominciò a pensare: Oh! con qual arte mai potrei io pigliarmi quel loro denaro? — Mentre egli così pensava, recitando in loro presenza alcuni detti piacevoli, di soave pronuncia, molto gradevoli, trovati già in libri dottrinali, ispirò fiducia di sé nella loro mente e cominciò a far con loro amicizia. Intanto, bene a proposito si suol dire:


Disonesta è la donna schizzinosa;
È fredda l’acqua che del sal contiene;


Inganna l’uom di mente cavillosa;
È ciurmador chi bei discorsi tiene.


Avendo adunque fatto l’amicizia, quei preti che avevano venduto quelle loro derrate, compraron gemme di gran prezzo, le quali quand’essi ebbero nascoste, sotto agli occhi dell’altro, dentro la polpa delle gambe178, si prepararono a ritornare al loro paese. Allora il Bramino malvagio, vedendo ch’essi si apprestavano a partire, restò turbato di molti pensieri nella mente. Oh! cotesti denari non si lasciano acciuffar da me! pensava. Ma io andrò con costoro, a un certo punto della strada darò loro del veleno, e come li avrò fatti morire, mi piglierò tutte le gemme. — Così avendo divisato, messosi a lamentar dolorosamente in loro presenza, disse: Voi dunque, amici miei, avete intenzione di partire e mi lasciate qui solo! L’anima mia che era legata a voi con la catena dell’affetto, tanto si è turbata al solo sentir parlare di separazione che non le è data pace in alcun luogo. Ma voi fatemi grazia e menatemi con voi come vostro compagno. — Avendo udito qulle sue parole, essi, tocchi nell’anima di pietà, partirono con lui per il loro paese. Lungo la via, mentre tutt’e cinque passavano per un villaggio, ecco che certi corvi cominciarono a gridare: Oh! oh! Chirati179, accorrete, accorrete! Giungono viandanti con gran ricchezze! Ammazzateli e togliete loro l’avere! — E i Chirati, come ebbero udito il gridar dei corvi, venendo in gran furia, tempestaron di bastonate i preti, tolsero loro le vesti e le frugarono, ma non vi trovarono alcun denaro. Allroa dissero: O viandanti, i corvi, prima d’ora, non hanno mai detto il falso, perciò presso di voi in qualche modo si deve trovare del denaro. Mettetelo adunque fuori, ovvero noi, come vi avremo ammazzati tutti, vi scorticheremo e cercandovi membro a membro, piglieremo il denaro. — Il prete ladro, quand’ebbe inteso così fatto discorso, così fatto discorso, così diviso nella sua mente: Se costoro, come avranno ammazzati questi preti e frugandoli nel corpo, si piglieranno le gemme, essi uccideranno me ancora. Perciò, facendomi loro veder per il primo a non avere alcuna gemma, io salverò i miei compagni. Perchè è stato detto:


A che, stolto, hai paura della morte?
Essa non lascia chi ha di lei paura!


O in questo giorno o al finir di cent’anni,
D’ogni vivo quaggiù morte è sicura.


E poi:

Chi per Bramini e per giovenche180 muore,
Di questo sole il disco oltrepassando
Grado ha su in ciel d’altissimo splendore. —
Avendo così pensato, O Chirati, egli disse, se così è, ammazzatemi voi per il primo e cercate! — Come fu fatto cotesto, ecco che egli fu trovato privo di gemme e gli altri quattro furono liberali. Perciò io dico:


A uno stolido amico è preferibile
Un nemico avveduto, accorto ed abile.


Un prence intanto dalla scimia uccidesi,
Con l’aita d’un ladro i preti salvansi. —


Mentre questi due così parlavano fra loro, Sangivaca, come ebbe combattuto un’ora con Pingalaca, ferito dai poderosi artigli di costui, cadde morto a terra. Guardando allora quel morto, Pingalaca, tocco nel cuore dalla memoria delle sue virtù, disse: Oimè! come ho fatto male, io malvagio, ammazzando Sangivaca, perchè non v’è opera più trista del mancar di fede! Però è stato detto:


L’uom ch’è reo d’ingratitudine,
Chi gli amici suoi tradì,
Chi la data fè dimentica,
Fin che in ciel l’astro del dì
E la luna splenderanno,
All’inferno sempre andranno.
Campi devastano
O un prence ammazzano;
Un servo uccidono
O un dottor massimo;


Il ver non dicesi
Allor che affermasi
Che questi mali
Son pari e uguali,
Chè si ricupera,
Se si perdè,
La terra ancor,
Ma non la fè
D’un servitor.


Intanto costui, nell’assemblea, è pur stato sempre lodato da me. Che dirò io ora nel cospetto degli altri? Però è stato detto:


Se qualcuno ha proclamato
Savio un altro nel senato,


Poi noi biasmi, s’ha timore
D’esser della sua fede traditore. —


Lamentandosi egli così, gli si accostò tutto contento Damanaca e gli disse: O signore, questo tuo costume è ben vile se ti addolori per avere ammazzato questo roditor d’erbaggi che ti tradiva! Ciò non si conviene punto ai monarchi, perchè è stato detto:


Se il padre, se il fratello, se il figliuolo,
Se il tuo amico o la stessa tua consorte,


La vita ti minacciano con dolo,
Mandali pur, chè non è colpa, a morte.


E poi:


Prence pietoso,
Prete goloso,
Sozio riottoso,
Servo accidioso,
Donna impudente,
Sopraintendente


Che non fa niente,
Idiota gente
Che mai non sa
Che fa o non fa181,
Tu fuggirai
Fin che potrai.


Ancora:


L’umor de’ prenci è molto variabile
Come l’umor delle sgualdrine pubbliche

Che ora dicono il vero, or falso parlano,
Ora son aspre, or dolce ti favellano,

Or son pietose, or sono inesorabili,
Or sono avare ed or spendono e spandono,
Ora son larghe, or gran denari ammucchiano


Ancora:


Non si onora quaggiù in terra,
S’anche grande e liberale,
Chi non fe’ qualche gran male.


Però adorano le genti
I serpenti, — non l’augello
Che ne suole far macello182.


E poi:


Quelli tu piangi che pianger non dèi
E li rammenti ancor quai saggi molto.


I sapïenti non fan pianti e omei
Per chi è vivo o per chi da morte è colto. —


Così, allora, confortato da colui, Pingalaca, scordatosi il dolore di Sangivaca, creato suo ministro Damanaca, regnò felicemente. Così è finito il primo libro del Panciatantra, opera dell’inclito Visnusarma, che ha il titolo della scissione degli amici.


  1. Cioè dà meno di quel che dovrebbe dare.
  2. Col nome di Chirati (kirâtâs) si designano genti barbare e non ariane.
  3. Alla sua divinità tutelare.
  4. Il proprietario della cosa impegnata.
  5. Cioè offerte, doni, al dio tutelare per ammenda.
  6. Alla lettera: oro e altro.
  7. Nel suo paese natio.
  8. Città sulle sponde della Yamuna.
  9. Gl’Indiani, in certe occasioni solenni, avevano in uso di liberar certi animali dalla servitù e di lasciarli andar sciolti dove più volevano.
  10. Il dio Siva si rappresenta nell’atto di cavalcare un toro.
  11. Mucchi di terra sgretolata dalle formiche.
  12. Per farsene difesa.
  13. Passo molto oscuro. Il Benfey traduce: Il seguito del leone è vile e pigro. Traduzione giusta, ma a senso. Il Fritze fa delle due parola sanscrite kâkarukâh (Ed. Cale, kâkaravâh) e kimvrittâç-ca due nomi propri. Sembra, come si vede in altri luoghi di queste favole, che qui si riferiscano due detti caratteristici di certa gente. Certa gente vile e dappoco ha timore se un corvo gracchia, e, spaventata per nulla, domanda a ciascuno che incontra, che è stato? Donde i due soprannomi (che importano viltà) dati dal leone al suo seguito: Gracchia il corvo! e Che è avvenuto? — Se pure ho inteso bene.
  14. Sorta d’albero indiano.
  15. Nome d’un albero indiano.
  16. S’intende per un giorno e una notte.
  17. Nutrendoli, proteggendoli.
  18. Gli avanzi delle offerte sacrificali.
  19. Dottrina indiana del rinascere dopo morte. Chi è stato infingardo, potrebbe rimediare, rinascendo, al suo diletto; ma è meglio esser buono e operatore in questa vita in cui ora si è.
  20. Perchè sollevano, con la pioggia, dagli ardori della stagione estiva.
  21. Perchè è sempre visibile sul bianco.
  22. Il Malaya, alta montagna dell’India.
  23. L’ombrello bianco, segno di dignità.
  24. Cioè intendono la voce del padrone.
  25. Servendo al principe.
  26. Albero indiano, arka, adoperato in medicina, ma pericoloso per certe sue qualità.
  27. Chi va a servire in corte.
  28. Il sacerdote domestico di corte e il ciambellano.
  29. Il comando ricevuto.
  30. Cioè ha in orrore il giuoco.
  31. Per difenderlo.
  32. In segno di ossequio.
  33. Dalla nostra educazione buona o cattiva.
  34. Perchè il serpente ha le scaglie e il re porta le maglie per la difesa del corpo.
  35. Perchè i serpenti si lasciano incantare e i re si lasciano infinocchiare, ovvero credono nella magia.
  36. Insegna del regio portinaio per impedire che alcuno entri o s’accosti.
  37. Il ciandrakânta (amante della luna) è una pietra favolosa, preziosissima, che risplende soltanto al chiaror della luna.
  38. Gli Abiri (Abhirâs) popoli dispregiati e rozzi.
  39. Cioè non se ne conosce la differenza.
  40. Cioè di quelli che potrebbero occupare alti uffici.
  41. Cioè fa loro soltanto donativi d’oro o di uffici o di titoli d’onore.
  42. Avendo o godendo il favore del re.
  43. Nei primi quindici giorni del novilunio.
  44. Dûrvâ, panicum dactylon, erba volgare (De Gubernatis, Piccola Enciclopedia indiana). Per pelo di giovenchi pare si debba intendere, secondo il Benfey (nota 90), una specia d’erba dei prati.
  45. Credenza superstiziosa indiana.
  46. Nomi indiani di erbe.
  47. Cioè non possono aver resistenza, anche se riunite, come un tronco di legno.
  48. Il dio o genio della preghiera e della eloquenza.
  49. Il muggito del loro Sangivaca. Vedi sopra.
  50. Vedi sopra.
  51. Il demone Vritra desiderava il regno del mondo, ma il dio Indra, venuto a patti con lui, dopo avergli giurata la fede, lo mise a morte per ragoini sofistiche desunte da quei medesimi patti.
  52. Diti fu la madre dei demoni Daitya che, ingannati dal re degli Dei Indra, furono poi disfatti da lui.
  53. Quando gli elefanti sono in amore, cola loro per le guancie un umore particolare di cui le vespe sono avide.
  54. Nome della sposa di Siva.
  55. Uno dei sette Rishi o sapienti divini, messaggero degli Dei.
  56. Vuol dire che la donna è virtuosa soltanto quando non ha occasione di darsi al male.
  57. Perchè si cibano di cadaveri.
  58. Il giogo o asta che sostiene la bilancia, e che per poco si muove.
  59. Andando a caccia per far preda e cibarsi.
  60. Cioè tradimento, corruzione, violenza.
  61. Vedi la nota di sopra.
  62. Il serpente è sacro al dio Siva, il topo è sacro a Ganesa che è il dio del sapere, il pavone è sacro a Cumara dio della guerra, e il leone è sacro a Durga moglie di Siva, nata sui monti. Questi quattro animali che pur stanno in casa di Siva, sono inimicissimi fra loro, e però qui sono assunti a rendere immagine del modo, in cui l’uno insidia l’altro.
  63. Nel mondo.
  64. Il figlio di Ambica è il re Dritarastra, uno dei principali eroi del Mahabharata.
  65. La parola del testo mahâmâtra significa ministro, consigliere, e anche guardiano d’elefanti.
  66. Nel senso di avvenuti per colpa di chi ne ha avuto il danno.
  67. Sillaba mistica, espressione di profonda meditazione e di devozione verso gli Dei, le persone e le cose sante.
  68. Con la fronte, col petto, con le spalle, con le mani, con le gambe.
  69. Secondo certe dottrine indiane, l’uomo rinasce più volte; soltanto per meriti grandi si può troncare la serie dolorosa delle diverse esistenze e tornar nel nulla.
  70. È gran merito essere indifferenti per le cose di quaggiù quando si è ancor giovani. L’essere indifferenti quando si è vecchi, non è gran merito.
  71. Il saggio mostra calma di vecchio, pure essendo giovane.
  72. I Sudra e i Ciandala, caste infime indiane.
  73. Cioè della casta bramanica.
  74. Cioè: Om! venerazione a Siva! che in sanscrito consta di sei sillabe. Vedi sopra.
  75. Il Linga, cioè il phallus.
  76. S’intende che un ospite, capitato in quell’ora, non può essere respinto.
  77. Strame e paglia per dormire.
  78. In senso di stanza.
  79. I valentuomini, cioè i padroni di casa.
  80. I Fuochi sono i santi fuochi sacrificali; Indra è il signore degli Dei; i Padri, le anime sante degli antenati; l’Autor dell’essere, il Creatore, Brama.
  81. Nome dell’amante.
  82. Cioè nell’assenza dei loro mariti.
  83. Cioè non curano punto.
  84. Cioè per il marito.
  85. Qui è un giuoco di parole intraducibile. Vâruni-samgagiâvasthâ significa lo stato di chi troppo s’accosta ai liquori inebrianti, se si prende vâruni nel senso di bevanda; e significa lo stato del sole venuto al tramonto, se si prende vâruni nel senso di Occidente. Allora, il sole somiglia ad un ubriaco, perchè le mani gli tremano (kara significa nello stesso tempo mano e raggio), getta via le vesti (abbandona il padiglione del cielo), perde forza e diventa rosso, che son tutti i segni dell’ubriachezza.
  86. Perchè mangiano erbe e rami spinosi e duri e li colgono in luoghi difficili, e non ne temono e non ne soffron danno.
  87. Il dio dei morti.
  88. Antico saggio, maestro dei demoni e reggente del pianeta Venere.
  89. Vedi sopra.
  90. Si baciano alle donne le labbra, ma il cuore, per la sua durezza e ferità, si comprime dagli uomini coi pugni.
  91. I poeti sogliono dire che le donne hanno occhi di gazzelle. Qui è detto con ironia e per ischerno.
  92. Per intendere questo passo, bisogna notare che le parole del testo possono avere e hanno senso doppio. Così durezza del petto che, nel senso materiale, è pregio della donna giovane e fresca, significa anche durezza di cuore; lo stesso dicasi delle altre qualità donnesche qui enumerate. Il poeta poi conclude che la turba dei vizi delle donne si crede turba di virtù, facendo un giuoco di parole con gana, turba, e guna, virtù.
  93. Traduzione congetturale, perchè la parola del testo, ghatikà o ghatakà, s’interpreta assai diversamente, ora fantasmi (Benfey), ora pentole (Fritze), ora alberi di fico (Commento sanscrito dell’Edizione di Calcutta).
  94. Quando sono in amore.
  95. Giuoco di parole. Râga, in sanscrito, significa tanto affetto quanto colore.
  96. Si può tradurre anche occhi leggiadri, perchè la parola mima significa bello, leggiadro, e anche sinistro in senso materiale e in senso morale. Con questo doppio senso, il poeta vuol accennare alla bellezza funesta delle donne.
  97. Frutti e fiori belli da vedere, ma velenosi, e perciò simili alle donne.
  98. Vedendosi incolpato ingiustamente.
  99. Per arderlo dopo morto.
  100. Tumori rigonfi sul capo degli elefanti innamorati, da cui stilla umore.
  101. Nome dell’aquila di Visnu.
  102. Tutte insegne del dio Visnu.
  103. Antico saggio che scrisse di cose d’amore.
  104. Moglie di Visnu, dea della felicità.
  105. In cui basta, perchè esso sia legale e riconosciuto, il consenso dei due amanti.
  106. A chi si darà in isposa.
  107. Il sole nell’eclissi si considera dagli Indiani come in battaglia con Rahu che è un mostro aereo. Il sole qui è detto difender la luna, venuta a lui per soccorso, dagli assalti del mostro. Oscurandosi, come avviene nell’eclissi, è segno che ne è restato vinto; ma è bella la sua sconfitta, toccata da lui per difendere chi è debole, cioè la luna.
  108. Alla lettera: sulla via di Visnù o d’Indra, cioè del paradiso.
  109. Vuol dire che Visnù, per aver presente l’aquila, non fece che ricordarla nel pensiero, senza chiamarla, e l’aquila dovette venire.
  110. Nome del quarto asterismo lunare.
  111. Celebre astrologo indiano.
  112. Saturno
  113. Chi ha commesso qualche colpa, per farne la penitenza suol mettersi attorno alla cintura molti teschi di morti, come fanno i seguaci di Siva. Ora, la terra, sparsa di ossa e di cenere dei morti di fame nella siccità, somiglia appunto ad uno di questi rei penitenti.
  114. Incerta la traduzione di alcuni di questi nomi. Anche il Benfey (nota 239) dice d’aver tradotto per congettura.
  115. Il saggio non tracanna ingordo l’elixir, ma lo beve adagio e a sorsi.
  116. Gl’indiani fanno il fuoco soffregando insieme due pezzi di legno.
  117. Cioè dei propri meriti computati in cielo.
  118. Indra re degli Dei. Il suo maestro è Brihaspati. Hiranyacasipu è un demone. Visvacarma è l’architetto e il fabbro degli Dei.
  119. L’umore che cola dalle gote degli elefanti quando sono in amore.
  120. Rama, figlio di Giamadagni, discendente da Brigu, sterminatore della casta dei Csatri o re guerrieri.
  121. Parole di Brahma agli Dei quand’essi, vessati dal demone Taraca, volevano farlo uccidere.
  122. Bisma e Duryodana, due eroi dell’epopea indiana.
  123. Siva, avendo trangugiato del veleno, ne ha la gola ancora tinta.
  124. Viasa (Vyasa), antico sapiente a cui si attribuisce la composizione del Mahabharata.
  125. Cioè sono considerati come morti al mondo.
  126. Cioè si alza da letto senza essersi levata la voglia del dormire.
  127. Cioè pare non possibile che chi è servo, pur con tanti malanni, tolleri la vita.
  128. Il servitore fa e patisce per il sentimento del proprio dovere; il penitente patisce per la sua vita peccaminosa antecedente.
  129. Antico sapiente mitico.
  130. Il testo dice catushkarnatayô, cioè a quattr’orecchi.
  131. In principio del libro è stato detto dei diversi modi con cui si può ammazzare alcuno; tra essi è pur quello dell’usar fintamente dell’amicizia, cioè col tradimento.
  132. Ciò si racconta nel Mahabharata.
  133. E non sui campi coltivati.
  134. Cioè quando sia stato tolto di mezzo.
  135. S’intende di più mogli dello stesso marito secondo l’uso orientale.
  136. Gente che fa offerte e sacrifici agli Dei.
  137. Per dire che fa qualunque pazzia. È questo il costume dei religiosi mendicanti indiani di bere in teschi nudi.
  138. Cioè calunnia alcuno presso di un altro.
  139. Eguale al serpente nel mordere, ma differente nel modo.
  140. Qui si traduce a discrezione una parola difficile. Il testo dice
    [testo sanscrito]sûryamandalabhedinau, che vuol dire: due che spaccano il disco del sole. Così traduce anche il Benfey, che ha: Die durbrechen der Sonne Kreis in dieser Welt.
  141. Sacrifizio fatto agli Dei per render grazie della vittoria.
  142. Il Soma, la sacra bevanda sacrificale.
  143. Cioè mangiando un boccone di più al giorno fin che la luna cresce, e un boccone meno fin che la luna scema.
  144. L’umore che cola dalla fronte agli elefanti in amore. Vedi sopra.
  145. Vivendo indegnamente, è come se non vivesse.
  146. Pare un proverbio per dire che poco vale lo sputar sentenze e il prometter gran cose e il presumer troppo.
  147. Pare voglia dire che il picchio teme di tutto, anche delle cose impossibili, ma è superbo e presume troppo, come, del resto, fanno tutti.
  148. Mitico legislatore indiano. Vedi sopra.
  149. Il mostro che tenta di afferrar la luna; simbolo degli eclissi. Vedi sopra.
  150. Cioè appena ch’è spuntato.
  151. Nome di un albero indiano.
  152. L’aquila di Visnù. Vedi sopra.
  153. Quando la sappia.
  154. Visnù.
  155. La città degli Dei, sede di Indra.
  156. Città dell’oro, sede di Garuda.
  157. Cioè può avere altra moglie e altri figli. Sentenza brutale!
  158. Passo oscuro nei diversi testi.
  159. In omaggio al dio Fuoco.
  160. Perchè ha il coraggio di mettersi a grandi imprese.
  161. L’umore che cola dalle tempie degli elefanti in amore.
  162. Nome di un albero indiano.
  163. Se pure va inteso così questo passo alquanto oscuro.
  164. Secondo i medici indiani, il mal di fegato, nei casi leggieri, si può curar con lo zucchero, nei gravi col citriolo, anzi col futto della Trichosanthes dioeca (Fritze).
  165. Si deve intendere qualche erba che noi non conosciamo. Il Commento indiano spiega con tra-gyotir-latâ, pianta rampicante che ha le foglie (paglie?) lucenti.
  166. Albero indiano.
  167. Nome indiano d’una pianta.
  168. Dove nessuno gli risponde: perciò, opera inutile.
  169. Cioè maggior valore.
  170. Passo molto oscuro e difficile che non si sa bene cosa voglia dire. Tutt’al più il senso se ne afferra molto confusamente. La traduzione stessa del Benfey non dà molta luce.
  171. Allusione al fatto narrato nel Ramayana quando Rama si lasciò ingannare da una gazzella dorata che lo trasse fuor di via, mentre Ravana gli rapiva la moglie Sita.
  172. In paese straniero.
  173. Cioè la breve distanza da cui si può ancora udire il gridar d’alcuno.
  174. Modo proverbiale. Il deretano dei pavoni (cosa brutta in tanta loro bellezza) non si vede se non quando saltellano, e ciò all’avvicinarsi di qualche temporale allorchè si rallegrano per la vicina pioggia. Così la malvagità umana non si fa conoscere che in certe date occasioni.
  175. Cioè soltanto perchè sia affezionato a lui.
  176. La novella che segue non è nel testo del Kosegarten. Ha un fare differente dalle altre, e forse è spuria. Io l’ho tradotta, trovandola nel testo di Calcutta.
  177. Secondo la dottrina indiana della Metempsicosi.
  178. Cioè facendovi un taglio per riporvi le gemme e aspettando che la ferita sia rimarginata.
  179. Popolazioe selvaggio di cacciatori.
  180. Animali sacri.
  181. Che non sa cosa si faccia o non si faccia.
  182. Si riferisce al culto dei serpenti, venuto forse dal terrore. L’augello che ne fa sterminio, è l’aquila.

Note

    Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.