< Leggenda eterna < Risveglio
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AGONIA.


 
Qui nella stanza solitaria, ov’entra
del bigio cielo tenebroso il poco
lume, e la vasta dell’estremo autunno
                           melanconia;

qui tutte le serene ore, le buone
ore, che poco, ahimè! curai nei freddi
bagliori assorta di bugiardi sogni;
                           l’ore gioconde,


fantasmi inafferrabili di morte
ore, qui tutte s’adunaro, a farmi
più acerbo e scuro questo scuro giorno
                           fatto d’angoscia.

— Ricordi? — una mi chiede — io venni prima
coi ramoscelli di speranza, i dolci
rami che pel tuo capo a me commise
                           una pia sorte.

Ti trovai rincorrente i vani fochi
delle lucciole vane, e me degnando
d’un breve sguardo, nel mister dell’ombre
                           sparir ti vidi. —

— Ricordi? — un’altra dice — io per te scesi
le contrade del sol, recando i doni
che la dea dai bendati occhi, fidati
                           per te m’aveva;


la pellegrina che alle tue dimore
veniva d’Orïente, hai tu cortese
accolta, o non piuttosto al triste occaso
                           l’occhio volgesti? —

— Di’: rammenti? rammenti? — in coro l’ombre
ripetono: — tu allor nulla curasti
di noi, le luminose, e una malvagia
                           follìa ti spinse

delle chimere tra le nebbie e i veli
a te accennanti di lontano; i canti
di quelle malïarde erravan lenti
                           fra le scogliere.

Non dove al sol danzavano gioconde
fanciulle, dietro abbandonando il capo
nell’ebrezza del riso, ai polsi strette
                           dai forti amanti,


ma sola andavi, o grande taciturna,
sotto la Luna a cogliere nel vento
di morte voci qualche eco perduta
                           tra le ruine;

e fuor dalle spezzate urne, e dai verdi
talami di selvagge erbe e di muschi,
ti sorgeano, legione avida, intorno
                           le fantasie,

le maghe che soltanto hanno soave
il nome, ma per trista arte d’ incanti
fan torbidi gli umani occhi del vero
                           alla bellezza;

ed or ci guardi lungamente e intenso
il desiderio nel tuo sguardo accende
un foco, onde traspar l’anima tua
                           per gli occhi orante,


per gli occhi stanchi ove da tempo il pianto
più non arriva. È tardi, è tardi, e invano
supplichevole, a noi tendi le braccia;
                           noi siamo spettri,

noi siamo larve; i teneri virgulti
avvizzir; dalla sorte altro comando
ormai pur troppo non abbiam che farti
                           più triste l’ora. —

O fantasmi, pietà! Sparite e l’anima
possa scordarvi! È vero; alle sottili
malìe create dal pensiero, l’impeto
                           del cor soggiacque;

l’ardor soggiacque della bella e forte
mia giovinezza in inseguir con ansia
mai paga la fuggente ala dei canti,
                           l’ala dei sogni;


ed ora stanca (oh come stanca!) io guardo
di quei vaghi e malvagi elfi il migrante
stuolo... Laggiù, nel gran deserto, l’ultimo
                           ecco è scomparso.

Ma voi, voi pure, ombre crudeli, inganni
non siete del pensiero? un sogno? un vòto
sogno voi pure?... Oh per pietà, sparite!
                           forse non mai

dall’orïente a me veniste, i rami
verdi recando e i fior, forse non mai
foste, voi pur, null’altro mai che larve
                           belle ed inique.

Via, dunque! via, fantasmi, ombre, chimere,
via dunque velenose ecati, in nome
di Dio, lasciate finalmente in pace
                           l’agonizzante!

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