< Lettere (Isabella Teotochi Albrizzi)
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XVI XVIII


All’Abate Sartori Canova[1]


Mio gentilissimo amico,

Venezia, 28 Marzo 1812.

Io non posso più trattenermi dallo scriverle, e dal dirle che l’Elena, avvezza già in ogni tempo a produr malanni, fa ora anche a me, donna (trionfo nuovo per essa) girare il capo. Non saprei dirle quanto mi tantaleggino le voci che odo da quanti la veggono. Oh la bella Elena che avrete! È un capo d’opera! Soggetto e lavoro greco! Ha nella fisonomia tutta la bellezza ed il sapore che Omero seppe farci vedere senza descrivercela; e mille e mille altre belle e peregrine cose mi dicono e mi scrivono, ed io intanto, poveretta, in mezzo a queste dolcissime felicitazioni me ne sto come un cieco fra i capi d’opera, o un affamato a bocca chiusa. Che far dunque se non che rivolgermi a lei che con tanta cortesia e cordialità fu il primo a darmi il lieto annunzio di sì generoso e caro dono? Fervidissimamente quindi me le raccomando, ond’ella prieghi in mio nome il nostro divino Canova a mandarmela sollecitamente. Mi tenga per iscusata, e creda pur che la mia modestia e la mia discrezione, hanno già operato le meraviglie facendomi tacere fin’ora.

Un’altro dono prezioso aspetta con impaziente desiderio l’Accademia, e noi tutti, avidissimi delle cose del nostro Fidia; ed è il di lui busto poco fa modellato, di cui si dice, per raccogliere ogni elogio in una parola, respirare l’anima di lui. Me lo saluti quel meraviglioso ingegno, ed ella, con la sagacità ed amabilità che l’è propria, gli dica quanto occorre della mia impazienza per ottenerne il desiderato effetto, nascondendogli il di più che le paresse ardito troppo. Mi creda con pienissima stima, e riconoscenza.


La sua serva ed ammiratrice
Isabella Teotochi Albrizzi.

Note

  1. Inedita al Museo e Biblioteca di Bassano.
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