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LVI. — A Giacomo Leschassier
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LVI. — A Giacomo Leschassier.1


Non ricevo mai lettere della S.V. eccellentissima, ch’io non tocchi con mano com’Ella possieda conoscenza intera d’ogni modo che valga a reprimere l’audacia dei romaneschi. Sul principio delle nostre disputazioni, trattandosi della immunità delle persone di Chiesa, mi toccò ad appiccar zuffa da solo con tutti i giureconsulti di Padova. E prima venne la volta de’ più rigorosi, che fondavano il privilegio sul giure divino; e dei più moderati dappoi, che sebbene scartassero tanta pretesa, pure asseveravano (come Soto e Covarruvias) aver potuto e potere un papa, di proprio moto, anche a malgrado dei re e principi, sottrarre la chieresía al loro potere. Di loro insulse obiezioni mi passo; ma davano per invitta ragione lo aver più Concilii di Francia e Germania statuito molti punti d’esenzione; conchiudendo che tanto più dovesse ciò stare in facoltà del romano pontefice. Ed io replicavo, che i Sinodi della Gallia, Germania e Spagna, essendo stati adunati da principi e discutendo cose per loro proposte, anco le sanzioni dei medesimi alla regia autorità s’appoggiavano e da essa emendavansi: che non tanto aveano stabilito e governato faccende di Chiesa, come di politica eziandio; e in buona copia e di gran peso: quali sarebbero la successione regia, la fedeltà al potere, e altri molti punti che si riferiscono per comune giudicio all’amministrazione d’uno Stato. Soggiungevo che simili radunate riuscivano e Concilii di chiesa e comizi del regno. Grande allegrezza mi ha cagionato il vedere dalle sue lettere del 12 gennaio, ch’Ella si sia riscontrata con me.

La giurisdizione sui negozi temporali o sui delitti, che i vescovi esercitarono in Grecia, Francia o Germania, venne lor tutta dai principi; e la ebbero siccome magistrati della repubblica, e non come ministri di religione: dipoi, a’ successori di quelli nel reame, pieni fino agli occhi di superstizione, la tolsero quelli di mano, come cosa propria e come un debito di religione. E i vescovi erano saliti a gran possanza non solo in Francia, ma in Italia pure, e massime nel ducato di Milano; dove assumevansi titolo di magistrati imperiali. E quasi non ci ha pur ora un vescovo di quel dominio e del Venetolombardo, che non seguiti a chiamarsi duca e conte: conservazione di vocaboli che dà segno dell’antichità della cosa. I Veneziani soli li vollero fuora da ogni civile ingerenza; e fu nostra buona ventura. Che se una porzione soltanto di ciò si occupassero, sarebbe spacciata per noi, come fin d’oggi avremmo ad accorgerci.

Voi non conosceste per fermo l’aggiogamento alla signoria romanesca; ma dalla parte dei vescovi non lo sperimentaste leggero. Vi padroneggiavano di guisa, che sotto il governo di San Lodovico IX tutta la nobiltà del regno e i duchi Burgundo, Britanno e di San Paolo furono forzati a stringer lega fra loro per oppugnare quella tirannide. La qual lega, sebbene Innocenzo VI con donativi a principi, e collazioni di beneficii ecclesiastici a’ loro cognati ed affini, brigasse di rompere, stiè tuttavia salda fino a che venne approvata dal re. Nè di poco momento sono gli esempi di Bertrando e di un altro socio (il cui nome m’è uscito di mente), i quali sostenevano cotal giurisdizione impartita in dono dai re, non per quell’autorità, ma per iscritture stiracchiate e canoni. Ma che voi non abdicaste mai i diritti di libertà, si pare da ciò, che tutti incontanente ubbidiste al re. Quante volte ho pensato di farmi barriera ai sovrastanti abusi, mi davano uggia gl’Inglesi; stantechè mi dia gran sospetto quella sterminata potenza dei loro vescovi, comunque al principe subordinata; in guisa che, quand’essi dieno in un re nullafaciente o in un arcivescovo armeggione, il potere sovrano sarà messo in fondo, e i vescovi agogneranno assoluta signoria. E se non valgano a strapparla soli, faranno causa comune col papa. Parmi vedere nella Inghilterra già insellato un destriero, e preconizzo che fra breve ci monterà su il cavaliere antico. Ma tutto è regolato dalla divina Provvidenza.

Da lunga pezza desideravo sapere se in Francia i Gesuiti abbiano scuole e presiedano a convitti di giovani; ed Ella mi ha contentato. Gran cosa è che a Parigi sia loro interdetto l’insegnamento: se ne struggerebbero dappertutto, ma la fortuna non dice ad essi sempre bene. Se spesso mettono in giro dicerie di licenza d’insegnare riavuta, ciò interviene non solo perchè delusi nell’espettativa s’ingannano e ingannano (com’io terrei), ma perchè con questi falsi rumori dispongono gli animi a poco a poco, acciò non si frammetta ostacolo ai loro sforzi. Coll’assiduo rincalzo della fama, ben taluno rimette d’energia, e per poco non si accomoda alla cosa come se fosse fatta. So che in altre occasioni per simil destrezza rabbonirono parecchi accaniti nemici. E a tal giuoco ricorrono quando preme ad essi venire a capo di cosa che stimino altrui discara. Si guardano dall’urtar di fronte la pubblica opinione; ma con bugiarde novelle, mirano prima di tutto a scemarsi il numero dei nemici.2 Vedete il loro contegno qua. In grande e pomposo foglio alla reale, fecero stampare a Roma un catalogo di tutte le famiglie e collegi della Compagnia, e ci contarono anche i convitti che possedevano in questi dominii, dai quali furon cacciati; ma gli contrassegnarono d’un asterisco, e in fine del foglio scrissero: I collegi designati coll’asterisco, non ancora ci vennero resi. Come prima il catalogo si scoperse, molti la trangugiavano male, e dicevano: Oh gli sfacciati, che francamente sentenziano doversi loro tai luoghi restituire! Ma molti di poi si calmavano sul riflesso: C’è da maravigliarsi che cerchino per tal modo di fare i loro interessi? Vedo che anche i più susurroni son fatti balordi. In seguito verran fuori con qualche trappola; e qua rimessi, chi sa che cosa mulineranno? Ma se lo voglia e permetta Iddio, faranno un buco nell’acqua.

Lessi con diligenza e ponderai l’istoria del consiglier Bigami. Avesse il ciel voluto che la lite si fosse sbrigata e finita coll’arresto! Ma se il nunzio ha tremato per se, basta. Con gran piacere ricevei i carmi dell’Oiselio; i quali non avevo ancora veduti: sì grande rinomanza hanno! Nè gli ho letti per ora; ma come prima potrò, ho in animo di scorrerli tutti, perchè vedo di gran voglia tutto che a’ Gesuiti si riferisca. E dell’avermegli inviati la ringrazio con tutto il calore.

Per quest’invernali impacci delle vie, sì tardi ci giunge il corriere, che m’è forza riscrivere a gran fretta e senza le debite cure. La prego però a menarmi buone le mie fanfaluche. Ogni dì più cresce la soma degli obblighi che le ho per le sue moltiplici cortesie; nè veggo modo a sdebitarmene mai. Abbia, la supplico, in luogo dell’opera la volontà. Stia sana, e vogliami lo stesso bene. Tanti saluti di cuore a Casaubono.

Venezia, 3 febbraio 1609.



  1. Stampata in latino, tra le Opere dell’autore ec., pag. 47.
  2. Se sottili i Gesuiti, nou meno sembrerà il Sarpi sottile nello interpretar l’arti loro.


Note

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