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CLIX. — Al medesimo
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CLIX. — Al signor De l’Isle Groslot.1


Le lettere mie del precedente dispaccio, per l’assenza del signor ambasciatore Foscarini, non saranno capitate a V.S. nel tempo ordinario: spero però che non saranno smarrite. In quelle le diedi conto di aver ricevuto le sue delli 29 settembre; siccome per lo spaccio presente ho ricevuto le ultime, che sono delli 11 ottobre.

Se vogliamo pigliar le cose passate per argomento delle avvenire, avendo veduto cotesto regno in pessimo stato, e miracolosamente salvato, dobbiamo sperare che al presente ovvero si conserverà nel buono dove si trova, o se pur declinasse, più facilmente sarà restituito. Temo ben l’andata di Espernon a Roma; e mi ricordo, perchè io era là allora,2 del molto male che fece Nevers vecchio, quando vi andò.

Osservo li andamenti di Condé, e mi pare che mirino a seguir li esempi de’ suoi maggiori, e ho qualche speranza che in fine si possa far riformato. Dirò bene che lo sarà, se sarà savio, come si può credere che sarà, avendo consiglio di Bouillon; e forse da Dio benedetto viene permesso cotesti leggieri discorsi, per cavarne di gran bene. Li rumori e gelosie tra li grandi sono accidenti inseparabili ad uno Stato che si ritrova senza principe vigilantissimo e stimatissimo; ma che Conchini entri in questi pensieri, mi pare cosa tanto estraordinaria, che non posso finire di maravigliarmene.

La decaduta di Sully mi duole, essendoli restato affezionato per la sua costanza nella Religione; e finalmente, credo che non siano tanto cattivi li consigli di Villeroy e Jeannin: più temo Sillery come adulatore, e li Gesuiti come spagnuoli. Thou è appresso di me in così gran concetto, che più tosto dirò esser buona l’imbriachezza, che Catone cattivo. Sto con estremo desiderio aspettando quello che succederà nel litigio dell’Università con Gesuiti, poichè sarà indizio della buona o cattiva speranza; e perchè è necessario che siano fatte belle arringhe in questo proposito, le quali saranno per certo simili da ambe le parti alle scritture uscite all’Anticotone, e alla arringa della quale non si farà mai risposta che vaglia; e se io fossi amico del padre Cottone, io lo consiglierei a non publicar altra risposta, per non tirarsi addosso maggior tempesta. Ma che può fare il Padre, che non fosse portare una picciola candela nella luce del sole? Il che non sia detto per negare, ma, mostrata l’insufficienza, per aspettar comando che non superi le forze.

Per dire a V.S. alcuna cosa d’Italia, ogni giorno più siamo incerti se sarà guerra. Li Spagnuoli vanno sempre più implicandosi, e interessando l’onore: è indubitato che siano per fuggir la guerra, senza rispetto di onore. Il duca di Savoia non ha altro fine che fare guerra. Tiene per certo che il figlio non farà niente in Spagna: egli vorrebbe attaccarla, ma la regina si promette per difesa, non per offesa; onde egli fa tutto il possibile per esser attaccato. Venezia desidera quiete, perchè è proprio della moltitudine; ma li savi3 vorrebbono guerra. Non si maraviglierà V.S. che il zelo sia cessato, perchè aveva fine mondano; ed è cessato dopo che il papa tace, e lascia correr tutto, sì che mai (dico senza iperbole) alcun de’ suoi comportò tanto: e però alla Repubblica piace lo stato presente.

Io mi trovo in gran perplessità, del modo come sarà continuata la nostra comunicazione di lettere, se quella di Torino non sarà buona; e stupisco della causa perchè monsignor Castrino non abbia dato quella di V.S. al signor Foscarini. Io scriverò al signor Barbarigo il cattivo incontro che ha avuto la prima sua, e ne la scuserò; ma per questo non credo che V.S. deverà restar di trovar qualche altra via di far dar in Parigi al corriere lettere direttive a lui. Particolarmente il signor Domenico Molino resta con molto dispiacere che quella comunicazione non s’introduca, sperandone egli di là molti beni. Egli bacia la mano di V.S.; il che fa ancora il P.M. Fulgenzio, e io con maggior affetto di loro.

Per dirle alcuna delle nuove d’Italia, la gente di Milano invernerà; e già sono in parte preparati, in parte si preparano gli alloggiamenti. Hanno di nuovo dato gli archibugi alli Allemanni, che sino ad ora non avevano avuto. Il contestabile che s’aspetta per governatore di quello Stato e armi, conduce seco due mila Spagnuoli; nudi però, secondo il solito di quella nazione, la quale a Milano si provvede di vesti.

Tentavano gli Spagnuoli di fortificarsi in Lamora, terra che possedono per indiviso col duca di Savoia: per il che, egli ha mandato gente a Cherasco là vicino. Ma in Correggio, che è tra Mantova, Ferrara e Modena, la guarnigione spagnuola s’è impadronita della fortezza. Li ministri di Spagna in Italia tutti riprendono il fatto, e dicono che si renderà: il capitano però, a farlo, vuole ordine di Spagna.

Il marchese di Castiglione, della casa di Mantova, che si trova ambasciatore cesareo in Spagna, tratta di vendere la sua terra a quel re; la quale essendo situata tra Brescia e Mantova in luogo opportuno, dà che pensare a tutti, eccetto a chi tocca.

Il pontefice incomincia a provvedere a queste cose,4 avendo dato l’arcivescovato di Bologna, di rendita di 15 mila scudi, al suo nepote. La Grermania non sta meglio, dove l’imperatore non ha meno sospetti gli amici che gl’inimici, e le diffidenze sono assai grandi. Si tiene che quelle tra’ palatini si componeranno, e che Neuburg cederà la tutela.

La lega ecclesiastica sollecitamente si provvede: però la vicinità del verno potrebbe far riuscir le cose in fumo. Il che Dio voglia, quando sia secondo il suo santo beneplacito: il quale prego che conservi V.S. in buona sanità; alla quale facendo fine, bacio la mano.

Di Venezia, li 9 novembre 1610.



  1. Edita, come sopra, pag. 304.
  2. Fra Paolo erasi più volte recato a Roma, per uffici o incombenze risguardanti il suo Ordine; cioè nel 1585 e nel 1597. Vi soggiornò, la prima volta, per circa tre anni.
  3. Il Sarpi (giacchè ci sembra di riconoscere in questa Lettera lui stesso, a malgrado dell’espressione: “Ma che può fare il Padre ec.„), intende qui i savi in politica, non quelli in economia; i savi al modo del Machiavelli, non al modo di coloro che cercano sopra ogni cosa la quiete (se cangrenosa non monta) e l’agiatezza delle nazioni. Ma una disputa di tal sorta, non è materia da frettolose e brevi noterelle.
  4. Per ironia ed antifrasi, dacchè pensavasi solo alle cose private, quando il sovrano dei sovrani (secondo la dottrina gesuitica) avrebbe dovuto pensare alle pubbliche. In quanto alle nomine di tal fatta, a mostrare con che spirito si facessero, se religioso o mondano, e a non essere tacciati di malignità o di calunnia, ci piace riportare le parole stesse che intorno a ciò si leggono nell’Ughelli: Scipio cardinalis Burghesius, Pauli V nepos, tertius archiepiscopus bononiensis renunciatua est anno 1610, die 25 mensis octobris. Hanc ecclesiam ad duos annos absens administravit, reservataque sibi prædivite annua pensione, in favorem sequentis (di Alessandro Ludovisi) illam renunciavit.


Note

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