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A Bellosguardo
San Matteo, 22 novembre 1629
Amatissimo Signor Padre.
Ora che alquanto è mitigata la tempesta dei nostri molti travagli, non voglio tralasciar di farne consapevole V. S., sì perché ne spero alleggerimento d’animo, come anco perché desidero d’esser scusata da lei, se già due volte gli ho scritto così a caso e non in quella maniera che dovevo. Perché veramente ero mezza fuori di me, mediante il terrore causato a me e a tutte l’altre dalla nostra maestra, la quale, sopraffatta da que’ suoi umori o furori, due volte ne’ giorni passati ha cercato d’uccidersi. La prima volta con percuotersi il capo e il viso in terra tanto forte, ch’era divenuta deforme e mostruosa; la seconda volta con darsi in una notte tredici ferite, due nella gola, due nello stomaco e l’altre tutte nel ventre. Lascio pensare a V. S. qual fosse l’orrore che ci sopraprese, quando la trovammo tutta sangue e così malconcia. Ma più ci da stupore che, nell’istesso tempo che si era ferita, ella fa romore perché si vadia in cella, domanda il confessore, e in confessione gli consegna il ferro ch’adoprò, acciò non sia visto da alcuno (se bene, per quanto possiamo conghietturare, fu un temperino); basta che apparisce ch’ella sia pazza e savia nel medesimo tempo, e non si può concluder altro se non che questi sono occulti giudizi del Signore, il quale ancora la lascia in vita, quando per ragioni naturali doveva morire, essendo le ferite tutte pericolose, per quanto diceva il cerusico; ché perciò siamo state a guardarla continuamente giorno e notte. Adesso siamo qui tutte sane, per grazia di Dio benedetto, e lei si tiene in letto legata, ma con le medesime frenesie, che perciò stiamo in continuo timore di qualche altra stravaganza.
Dopo questo mio travaglio voglio accennarle un’altra inquietudine d’animo sofferta da me. Dappoi in qua che V. S. per sua amorevolezza mi donò i 20 scudi che gli domandai (poiché alla presenza non ardii di dirle liberamente l’animo mio, quando ultimamente mi domandò se ancora avea avuto la cella) e ciò è ch’essendo io andata con i danari in mano a trovar la monaca che la vendeva, ella, ch’era in molta necessità, volentieri avrebbe accettati detti danari, ma di privarsi per amore della cella non si risolveva, sì che non essendo accordo infra di noi, non ne seguì altro, non pretendendo io altro che la presente comodità di quella stanzuola. La quale per aver accertata V. S. che avrei avuta, e non essendo sortito, ne presi grandissimo affanno, non tanto per restarne priva, quanto perché ho dubitato che V. S. si tenga aggirata, parendomi d’averle detto una cosa per un’altra, ancorché tale non fosse il mio pensiero; né mai avrei voluto aver questi danari, perché mi davano molta inquietudine. Che perciò, essendo sopravenuta alla madre Badessa certa necessità, io liberamente gliene prestai, ed ella adesso, per gratitudine e sua amorevolezza, m’ha promesso la camera di quella monaca ammalata; ch’io raccontai a V. S., la quale è grande e bella, e valeva 120 scudi ed ella si contenta di darmela per 80, che in questo mi fa grazia particolare, sì come in altre occasioni m’ha sempre favorita. E perché essa sa benissimo, c’hio non posso arrivare anco alla spesa di 80 scudi, s’offerisce di pigliar a questo conto i 30 scudi che già tanto tempo il convento ha tenuti di V. S,. purché ci sia il suo consenso, del che non mi par quasi di poter dubitare, parendomi che non sia da sfuggir questa occasione, essendo massime con molto mio comodo e satisfazione, la quale già so quanto a V. S. sia di gusto. Pregola adunque che mi dia qualche risposta, acciò io possa dar satisfazione alla madre Badessa, che dovendo fra pochi giorni lasciar l’offizio va di presente accomodando i suoi conti.
Desidero anco di sapere come V. S. si sente adesso che l’aria è alquanto rasserenata, e non avendo altro, gli mando un poco di cotognato condito di povertà, cioè fatto con mele, il quale, se non sarà il caso per lei, forse non spiacerà agli altri; alla cognata non saprei che mandarle, già che niente gli piace. Pure se avessi gusto a cosa alcuna fatta da monache, V. S. ce lo avvisi, che desideriamo di dargli gusto. Non mi sono scordata dell’obbligo che tengo con la Porzia, ma per ancora non m’è possibile il far cosa alcuna. Intanto se V. S. avrà avuti gli altri ritagli promessimi, avrò caro che me li mandi, aspettandoli io per metterli in opera con quelli ch’ho avuti.
Aggiungo di più che, mentre scrivo, la monaca suddetta ammalata ha avuto un accidente tale che pensiamo che sia per morire in breve; a tal che mi bisognerà dar il restante dei danari a Madonna, acciò possi far le spese necessarie per il mortorio.
Mi ritrovo nelle mani la corona d’agate donatami da V. S. la quale a me è superflua e inutile, e parmi che starebbe bene alla Cognata. La mando adunque a V. S., acciò veda se si contenta di pigliarla, e in cambio mandarmi qualche scudo per questo mio bisogno, che, se piacerà a Dio, credo pure che sarà l’ultimo di tanto gran somma; e per conseguenza non sarò più astretta ad infastidir V. S. ch’è quello che più mi preme. Ma infatti non ho, né voglio aver altri a chi voltarmi, salvo che a Lei e a Suor Luisa mia fedelissima, la quale per me si affatica quanto può; ma finalmente siamo riserrate e non aviamo quell’abilità che molte volte ci bisognerebbono. Benedetto sia il Signore che non lascia mai di sovvenirci; per amor del quale prego V. S. che mi perdoni se troppo l’infastidisco, sperando che l’istesso Signore non lascierà irremunerati tanti beni che ci ha fatti e fa continuamente, che di tanto lo prego con tutto l’affetto, e Lei prego che mi scusi se qui saranno degli errori, chè non ho tempo per rileggere questa lunga diceria.
sua figliuola Affezionatissima
S. Maria Celeste.