< Lettere di Winckelmann
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Articolo I
Notizie de’ papiri antichi, che sono nel museo del re di Napoli a Portici.
Lettere di Winckelmann Articolo II

A r t i c o l o   I.

Notizie de’ papiri antichi, che sono nel museo del re di Napoli a Portici.


De’ volumi antichi se ne sono scavati nelle rovine d’Ercolano più di ottocento1, tutti trovati in una piccola stanza d’un palazzo di villa sotto il giardino degli Agostiniani scalzi a Portici. Quella stanza avea scrigni attorno attorno dell’altezza poco più d’un uomo per poterne cavare i libri con comodo, ed era spartita in mezzo degli scrigni della stessa altezza con un passaggio. I papiri hanno la somiglianza de’ carboni di ferrajo, con questa differenza, che pochi sono tondi; la più parte essendo poco, o meno schiacciati, e molti increspati, e raggrinzati a guisa delle corna di capra. La loro lunghezza ordinaria è d’un palmo, la grossezza è diversa; ma ve ne sono alcuni, che non sono lunghi che un mezzo palmo. Da ambidue i capi, ove rassomigliano al legno impietrito, compariscono i giri del volume. E’ da lagnarsi con Fedro2:

Sed fato invido Carbonem, ut ajunt, pro thesauro invenimus.

Piucchè sono ugualmente neri i volumi, e piucchè s’accodano alla natura de’ carboni, più facile riesce il loro scioglimento: dove si scuoprono siti, che tirano al color castagnaccio, segno è che quelli hanno patito dall’umidità sotterranea, e che sono infradiciati. Ho osservato, che in quel volume, che si sta attualmente sciogliendo, s’era insinuata una vena di terra nera, introdottavi verisimilmente dall’umido. La materia de’ volumi è papiro egizio, infinitamente tenero e sottile, da’ Greci chiamato δέλτος3, e per la sua sottigliezza non è scritto, che da una parte. Si sono conservati volumi intieri di papiro in diverse librerie; e alla Vaticana, e nell’archivio de’ Teatini a’ Ss. Apostoli di Napoli ho veduti alcuni fogli di carattere unciale, e corsivo; ma il papiro essendo grosso non pare egizio, ma sembra di quello, che nasceva in altri luoghi, come a Ravenna, secondo che riferisce Plinio4. Tre volumi sono svoltati: il primo tratta di musica, il secondo di retorica, e il terzo De vitiis, et virtutibus. Il secondo è il libro secondo d’un trattato intiero, e il terzo è il libro terzo di quest’opera citata. Si sono incontrati in questi tre volumi consecutivi composti dallo stesso autore, cioè da Filodemo, filosofo epicureo, coevo di Cicerone5, di cui Fabrizio nella Biblioteca Greca dà notizia6. Il volume della retorica pare anche da parecchie cassature, e correzioni, essere l’autografo dell’autore stesso. Di queste cassature darò qualche saggio in una notizia, che sto componendo adesso7. Non è stato un mero caso d’essersi dato di piglio a’ volumi dello stesso autore; perciocchè l’essersi scelti volumi di minor mole per isbrigarsi più presto, ed anche i più conservati, che si sono trovati appunto in un cantone della stanza mentovata, ha prodotto il buon effetto di cadere sopra i volumi d’uno stesso autore, collocati tutti insieme nello stesso luogo. Il primo, e secondo volume hanno tredici palmi di lunghezza; il terzo non arriva affatto a tanto; e quello, che si svolge ora, avrà sciolto sino a trenta palmi, e sarà probabilmente anche quello di Filodemo, se si può congetturare dal nome di Metrodoro epicureo, che vi ho letto, e che spesse volte con quello di Ermarco s’incontra ne’ primi tre. Di questo Ermarco vi è un piccolo bustino di bronzo nel museo reale8. Questi volumi sono commessi di pezzi di sei dita larghi, e aggiunti uno sopra l’altro in modo, che la giuntura ha due dita di larghezza. Molti sono voltati intorno ad un tubo tondo, e pertugiato, di ossa piuttosto, che di canna, a giudicarne dalla grossezza; ma ora non si distingue più la materia. La lunghezza di questa canna corrisponde a quella del volume, e non spunta fuora. Nella cavità si metteva un bastoncello, il quale serviva a volgere, e svolgere i volumi senza toccare il papiro. Tali bastoncelli conservati compariscono nel centro d’alcuni volumi. La canna era dunque sempre nel mezzo d’un volume voltato, e la di lui cavità è secondo ogni apparenza ciò, che dagli antichi si chiama umbilico e la canna essendo visibile da’ due capi d’un volume sarebbe da interpretarli per l’umbilico duplice. Un letterato di Napoli9 pretende, che umbilicus sia l’ornato, o un tal conio in mezzo alla legatura d’un libro quadrato, come appunto comparisce in un tal libro dipinto insieme con altre cose su d’un pezzo di muro10. Ma mi pare di trovare più somiglianza di un umbilico con una canna, che fa l’asse d’un volume. Vi è qualche probabilità, che tanto il principio, quanto il fine d’un volume sia stato attaccato ad una canna, cosicchè a misura che si andava avanzando di leggere da capo, o in fine, si andava avvolgendo il volume intorno alla canna: dico probabilità, perciocché la canna di fuora non s’è conservata in niun volume, l’integumento stesso citeriore avendo sempre patito. Questa congettura è fondata sopra due pitture antiche d’Ercolano, le quali rappresentano volumi voltati da’ due capi, e svoltati, ed aperti in mezzo: bisogna dunque che avessero due canne. Un’altra pittura rappresenta la Musa Clio con un volume in mano, su cui sta scritto il di lei nome, e ritrovato scientifico in greco ΚΛЄΙω ΙСΤΟΡΙΑΝ, avvolto nella stessa maniera, che quelli11; ed oltre di ciò fa vedere al pari di quegli stessi, secondo che suppongo, le due cavità dell’una, e dell’altra canna. Vi s’aggiunge, che l’argomento, o titolo de’ volumi, sta scritto anche alla fine, come s’è trovato ne’ tre sinora svoltati. L’intenzione era, come m’immagino, la comodità del lettore, per trovare il titolo d’un volume, voltato che fosse o dall’una, o dall’altra parte. Se non fosse stato posto il titolo alla fine, si stenterebbe a indovinare l’autore, il titolo in fronte essendo perduto col principio. E’ da osservarsi, che il titolo sta scritto rasente il fine d’un libro nello stesso carattere di quello del trattato, e dopo qualche spazio è replicato in carattere più grande. A piè del trattato della musica si legge in carattere piccolo, e grande φΙΛΟΔΗμΟΥ ΠƐΡΙ μΟΥСΙΚΗС. Oltre di quello il titolo era notato sopra un biglietto, che pendeva giù fuori dal volume, come si vede nelle pitture menzionate. In uno mi pare di leggere le seguenti lettere: PA XX AN12. I volumi sciolti sono scritti a colonne: quello della musica ne ha trentanove, quello della retorica ne ha trentotto, di cinque dita di larghezza, e di quaranta a quarantaquattro linee. Le colonne sono distinte per mezzo d’uno spazio largo un dito, e più; e la scrittura è bordata di linee a guisa di molti altri manoscritti. Quelle linee, che compariscono bianche, saranno siate rosse, tirate con minio, e avranno cangiato il colore nel fuoco. Il volume della musica è stato tagliato dopo il suo scioglimento in otto pezzi di cinque colonne, incollati poi in altrettanti quadri col cristallo davanti. Gli altri volumi dovranno essere distesi lunghi come sono. Il carattere degli scritti di Filodemo è di grandezza di quel carattere quadrato, in cui Gio. Lascaris Rindaceno ha fatto stampare alcuni autori greci rarissimi, Callimaco, Apollonio Rodio, l’Antologia, ec. M’ero figurato di trovare assai più antica la forma del carattere; perciocchè ero persuaso di trovare un Ɛ tondo, un Σ formato come un С latino, e Ω, fatto a guisa d’un ω corsivo, vedendosi queste lettere così formate nella iscrizione del vaso del re Mitridate13 nel Campidoglio14; ma Α, Δ, Λ, Μ hanno la figura, che abbozzo, , e che non si vede nelle iscrizioni del secolo primo. Io convengo, che l’A abbia quasi la stessa forma nelle medaglie antichissime della città di Caulonia nella Magna Grecia, in una stando scritto , in un altra coll’ inverso ; ma la linea, che spunta fuori sul fa la differenza, e gli dà l’aria più moderna15. In molte iscrizioni latine d’Ercolano (di greche in marmo niuna se n’è trovata) il carattere è d’una forma più moderna, che non è l’idea solita del carattere del tempo de’ primi Cesari, particolarmente in due tavole grandi di marmo, che contengono nomi di liberti. Queste iscrizioni non vanno somministrando certi indizj del tempo, in cui possono essere state fatte: io però sono di parere, che in fatti non sieno più antiche di quello, che mostra il loro carattere; imperciocchè il paese a piè del monte vesuvio non è rimasto desolato, che dopo la sommersione d’Ercolano. Ciò vien provato da medaglie posteriori, e fra le altre da una di Adriano in oro, cavate tutte dalle rovine di di quella città; come pure da un’altra iscrizione già pubblicata da monsig. Fabretti16, la quale ci dà notizia di statue cavate EX ABDITIS LOCIS per ornare i bagni dell’imperator Severo; pe’ quali luoghi ascosi io crederei, che non andassero intese, che le città sommerse d’Ercolano, Resina, Stabbia, e Pompeja. Questo marmo è stato portato da Pozzuolo a Portici17. Le lettere de’ volumi compariscono distintamente anche sopra la carta nera; e questo va comprovando, che non sieno scritte con inchiostro, il di cui principale ingrediente è il vitriolo: scritte con questo non avrebbero mancato di perdere il nero nel fuoco. L’inchiostro, che si usa oggidì, e con cui sono scritti i più antichi mss. dal IV. secolo in qua, sarebbe stato poco conveniente per una scorza così sottile: l’avrebbe rosicchiata, e pertugiata, giacchè ho osservato, che ne’ più antichi mss. le lettere sono alquanto incavate. Nel famoso Virgilio Vaticano v’è da fare questa osservazione. I volumi d’Ercolano sono scritti con una sorte di color nero a guisa dell’inchiostro della Cina, che ha più corpo, che l’inchiostro comune18. In fatti si vede il carattere alquanto rilevato, guardandolo contro il lume; e l’inchiostro, che si è trovato in uno de’ calamaj, ne dà la prova evidente. Che gli antichi abbiano macinato il loro inchiostro, mi pare d’averlo osservato in un passo di Demostene19. Lo strumento, con cui scrissero gli antichi, non era penna; ma era uno strumento di legno, come è quello, che è stato scavato, o forse d’altra materia, ma tagliato a guisa delle nostre penne20; lo che comparisce similmente da quello strumento, che si vede sopra un calamajo espresso in un’antica pittura21, con questa differenza però, che dal taglio in su sino alla punta, che va diminuendo piramidalmente, e che non è che incavato, avrà un’oncia, e mezza di piede tedesco, e la punta non ha fessura22. Il testo de’ volumi non è totalmente intero, e senza lacune; ma vi mancano ora lettere, ora parole: nè per quello vanno riputati stracci, come da taluno si fa. In materie, come quella della retorica, non sarebbe tanto difficile il supplire. In quattro anni continui non si è potuto far altro, che copiare trentanove colonne del trattato della musica, e nel copiare venti colonne della retorica è scorso un anno, e mezzo. Il P. Antonio Piagi delle Scuole Pie, che fu scrittore latino della biblioteca Vaticana, ha il segreto, e la flemma di svolgere i papiri; indi copia materialmente le lettere, e poi si passa quella copia al canonico Mazochi, che solo ad esclusione degli altri ha l’incombenza dell’interpretazione de’ papiri, ec.

  1. Martorelli De reg. theca calam. Tom. I. pag. XI. li dice seicento.
  2. lib. 5. fab. 6. vers. 56.
  3. V’è chi pretende senza darne ragione, che non sia papiro egizio, ma foglie di canne di giunco incollate le une accanto alle altre. Vedi Seigneux de Correvon Lettr. sur la decouv. ec. Tom. I. lett. 7. pag. 215.
  4. Plinio lib. 16. cap. 37. sect. 70. parla dello scirpo, e suoi varj usi; ma non dice che servisse per iscrivere. Vi è però stato il signor conte Francesco Ginanni, il quale in una dissertazione inserita nei Saggi della Società Ravennate, Tom. I. dissert. 5. p. 136. e segg. diffusamente sostiene, che lo scirpo ravennate abbia servito a quell’effetto; e vuole che ne siano fatti tutti i papiri ancora esistenti in Europa. I di lui argomenti sono, che la maggior parte di questi papiri sono scritti in Ravenna; e che lo scirpo ravennate è buono per fare quella specie di papiro da scrivervi, com’egli ne ha fatta la sperienza. Ma il silenzio di tutti gli dorici amichi, e in ispecie di Cassiodoro, accennato dallo stesso Ginanni, è una forte ragione in contrario. Cassiodoro viveva nel principio del secolo VI. quando il papiro, o scirpo ravennate doveva essere già in uso; ed era segretario di Teodorico re de’ Goti, che appunto in Ravenna aveano la loro residenza. Egli Var. lib. 11. epist. 38. descrive meglio di tutti gli antichi scrittori il papiro, e la maniera di farne la carta da scrivere, dicendo espressamente che veniva dall’Egitto, ove nasceva intorno al nilo. Lo stesso dice lo scrittore della vita di s. Augendio, o Eugendio, che scriveva in Francia nello stesso secolo VI. inoltrato, come osserva il Padre Mabillon De re dipl. lib. 1. cap. 8. n. 7., e Pietro Mauricio, abate Cluniacense, nel suo trattato Contra Judeos, riportato nella Biblioth. Cluniac. col. 1069. seg., e dal Padre Mabillon loc. cit. n. 10., fra le altre materie da scrivervi sopra non nomina altro papiro, che l’orientale, come si vedrà dalle parole, che daremo qui appresso; eppur viveva nel secolo XII. È vero che questi supposti papiri ravennati sono più grossolani di quello, che si crede papiro egizio; ed io posso assicurarlo di un pezzo di papiro, tagliato da quello esistente nella Vaticana, scritto in Ravenna nell’anno 574., con un intiero papiro egizio scritto in greco, l’uno e l’altro conservato nel museo Borgiano a Velletri. Questo, che è venuto da Alessandria, e fu trovato non ha molti anni in un sepolcro con varj altri papiri dai Turchi consumati per fumare alla pippa, è di tessitura alquanto più fina. Ma da ciò non deciderei subito, che quello fosse veramente papiro, o scirpo ravennate. Al più direi che uno è lavorato in Alessandria, l’altro in Italia, o in Roma, ove non si farà fatto tanto bello, adoprandovisi in vece dell’acqua del nilo, un glutine artefatto, come si rileva dallo stesso Plinio lib. 1?. cap. 12. sect. 22. segg., il quale inoltre aggiugne, che dalla stessa pianta se ne cavavano qualità diverse più e meno bianche, e più e meno grosse.
  5. Lo nomina De finib. lib. 2. cap. ult.
  6. Tom. iiI. lib. 3. cap. 33. pag. 814.
  7. Vuol dire la lettera sulle scoperte d’Ercolano al signor conte di Brühl, di cui parlammo nel Tomo I. pag. l. not. b., stampata nel 1762., pag. 82.
  8. Questo busto fu indi pubblicato nel Tomo 1. de’ Bronzi Ercolanesi Tavola 15., ed ivi si reca pure un pezzo dell’indicato papiro, ove si nomina Ermarco.
  9. Martorelli De regia theca calam. parerg. cap. 2. pag. 243.
  10. Ne ho data la figura qui avanti p. 17.
  11. Pitture d’Ercolano, Tom. iI. Tav. 2. Uno simile ne ha una donna in un bassorilievo della villa Albani.
  12. Leggasi Martorelli loc. cit. in additatam, pag. XXXIV., ove ne dà la figura, che noi abbiamo ripetuta, come dicemmo poc’anzi, e tenta varie spiegazioni a quelle tre mezze parole, che nel biglietto sono scritte una sopra l’altra a modo di colonna. Il codice, da cui pende il biglietto, è fatto a modo dei nostri libri, non già a rotolo.
  13. L’ω corsivo è più moderno dell’altro Ω, che fu inventato da Simonide, secondo Plinio lib. 7. cap. 56. sect. 57., 500. anni circa avanti Gesù Cristo, in luogo del quale prima si usava il semplice O, come si ha da Platone in Cratylo, oper. Tom. I. pag. 410. Il vaso di Mitridate, in cui ha quella forma di corsivo, è fatto poco prima di Augusto, avendo Mitridate cominciato a regnare 113. anni prima di Gesù Cristo, ed essendo morto 64. prima; nel qual tempo fu usata molto generalmente quella forma di lettere, che nomina Winkelmann. I paleografi la fanno cominciare dai tempi di Alessandro il Grande; come si vede nella Tavola data dallo Spanhemio De præst. & usu num. Tom. I. pag. 80., ripetuta dal P. a Bennettis Chronol. & cric. hist. ec. Tom. I. pag. 220.; come è più antica la forma del Σ così fatto, anzichè di С., come prova lo stesso Spanhemio Dissert. 2, n. 5. pag. 99. segg. Anche la forma della Ɛ tonda è dai tempi di Alessandro; l’altra è più antica, come costa dalla citata Tavola.
  14. Ne dà la figura anche Pococke Description, ec. Tom. iI. par. 2. pl. 92. pag. 207., colle lettere alquanto alterate. Fu donato dal re Mitridate ad un ginnasio, luogo, in cui si tenevano simili vali per ungersi, e per altri usi, come si tenevano anche nelle accademie, nei cinosargi, e portici, al dir di Demostene Orat. advers. Timocr. oper. pag. 791. princ. Vedi qui avanti Tom. iI. pag. 283.
  15. Vedi Tom. iI. pag. 90.
  16. Inscr. cap. 4. n. 173. pag. 280.
  17. Winkelmann ripete quella notizia nella citata lettera sulle scoperte d’Ercolano al signor conte di Brühl, pag. 16., e l’ha ricavata coll’applicazione dell’iscrizione, da Martorelli loc. cit. pag. XXXVI. segg., ove la riporta, e così spiega le parole ex abditis locis. Egli la trovò presso uno scarpellino in Napoli, che l’aveva avuta da Fregnano Piccolo, paesetto vicino a Capua; e la donò al re, che la collocò nel suo museo a Portici. Io ammetterei volentieri la detta spiegazione di quelli scrittori, se da tante altre lapidi, e documenti antichi non si rilevasse con più sicurezza, che quelle parole erano generiche, e quasi una formola solita, e solenne, per dire, che le statue erano state levate da luoghi poco frequentati, e quasi nascosti e occulti, per essere trasportate in luoghi più vistosi, e nobili, ove servissero d’ornamento; come bene aveva già osservato il canonico, poi monsignor, De Vita Thes. Antiq. Benev. Tom. I. dissert. 10. pag. 280., ove riporta una iscrizione dei tempi di Teodosio colla stessa frase, e un’altra ne dà nella serie delle iscrizioni Beneventane in fine del Tomo pag. XXVI. n. 9., in cui li legge: SATRIVS CRESCENS V. C. CVR. R. P. BN. EX LOCIS ABDITIS VSVI ADQVE SPLENDORI THERMARVM DEDIT. Molto più rende certa la cosa una legge emanata nell’anno 65. dagl’imperatori Valentiniano e Valente, registrata nel Codice Teodosiano l. 15. tit. De oper. publ. leg. 14., in cui vien proibito appunto di torsi dai piccoli paesi, e come diremmo, fuor di mano, abdita oppida, le statue col pretesto d’ornarne le metropoli, e le città più distinte, in conseguenza di un’altra legge pubblicata nell’anno 565. dall’imperator Giuliano l’apostata per proibire, che le statue, e colonne non fossero trasportate da una provincia all’altra, e registrata nel Codice di Giustiniano tit. De ædif. priv. l. 7.: Præsumptionem judicum ulterius prohibemus qui in eversionem abdicorum oppidorum Pecropolis (o come legge Gottofredo, Metropoles), vel splendidissimas civitates ornare se fingunt, transferendorum signorum, vel marmorum, vel columnarum materias requirentes. Qui è chiaro, che non si parla di luoghi sotterrati, nè delle città in questione; come non ne parla Cicerone, che visse prima, e usò la stessa espressione in Verr. act. 2. lib. 1. cap. 3.: Simulacra deorum, quæ non modo ex suis templis ablata sunt, sed etiam jacent in tenebris ab isto retrusa, acque abdita, consistere ejus animum sine furore, atque amentia non sinunt. Corrisponde alla frase ex obscuro loco, usata in altra lapida presso Fabretti cap. 7. n. 499. pag. 334. L’iscrizione, di cui si tratta, è del tenore seguente come la porta Martorelli:

    SIGNA TRANSLATA EX ABDITIS
    LOCIS AD CELEBRITATEM
    THERMARVM SEVERIANARVM
    AVDENTIVS SAEMILANVS V. C CON
    CAMP. CONST1TVIT DEDICARIQVE PRECEPIT
    CVRANTE T. ANNONIO CHRYSANTIO V. P.


    La riporta anche Mazochi Amphith. Camp. in eddit. pag.170. copiata da Fabretti; e si l’uno che l’altro legge celeritatem malamente in vece di celebritatem, come è sul marmo.

  18. Forse era della Cina l’inchiostro tanto stimato, che gli antichi facevano venire dall’India, di cui parla Plinio lib. 35. cap. 6. sect. 25., e s. Isidoro Origin. lib. 19. c. 17.
  19. Orat. de corona, oper. pag. 515. in fine, ove dice contro di Eschine: Puer in magna egestate es educatus, una cum patre ad ludum literarium sessitans, atramentum terens, & subsellia spongiis detergens, & pædagogium vertens, famuli vicem, non ingenui pueri obiens.
  20. Si servivano d’una specie di giunco, o canna, detto calamo, il quale veniva dall’Egitto, da Cnido, e da una provincia dell’Armenia. Plinio lib. 16. cap. 36. sect. 64., Persio Sat. 3. vers. 11. 12., Marziale lib. 14. epigr. 37. edit. Raderi, alias 38. S. Isidoro, il quale fioriva sul principio del secolo VII., Orig. lib. 6. cap. i?. parla delle penne d’uccello, delle quali si fa uso al presente. Non può dunque essere antica la gemma del museo reale di Francia data da Mariette Pierr. grav. Tom. iI. pl. 117., in cui vedesi una Vittoria colla penna in mano in atto di scrivere; e fanno male i pittori, ed altri artisti, i quali rappresentano gli Evangelisti, e altri antichi, colla penna all’uso nostro in mano. Il sig. ab. Requeno ha traveduto quando ha scritto nei suoi Saggi, ec. cap. 17. pag. 200., che le penne si vedeano nelle pitture d’Ercolano.
  21. Di cui ho parlato qui avanti.
  22. Il nostro Autore ha poi riflettuto nella lettera al signor Fuessli sulle scoperte d’Ercolano, dell’edizione tedesca pag. 46., e della traduzione francese, pag. 220., che il non vedersi il taglio alla punta di quello strumento di scrivere poteva credersi provenuto dall’essersi come petrificato. Che del resto gli antichi tagliassero il loro strumento da scrivere, egli lo prova con alcuni epigrammi dell’Antologia, riportati prima di lui, e illustrati da Martorelli lib. 1. c. 8. pag. 193. e pag. 208. segg., e con uno pur di Ausonio Epigr. 7. vers. 40.; e aggiugne, che la forma di esso taglio era cognita per lo stesso strumento, che tiene una delle tre Parche sopra un’urna del palazzo della villa Borghese, che rappresenta la morte di Meleagro. Per tagliare si servivano gli antichi di un temperino d’acciajo, e d’una certa specie di pietra tagliente, o affilata a modo di temperino, come si ha da quegli epigrammi dell’Antologia; e questo temperino di pietra era forse simile a quello, di cui si servivano gli Ebrei per la circoncisione.

Note

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