< Lettere di Winckelmann
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A r t i c o l o   II.


Il papiro egizio pare essere stato non solo al tempo di Filodemo la materia più comune per consegnarvi gli scritti, e per conseguenza meno cara della carta pecora; ma ancora alcuni secoli dopo1. Un codice mss. di s. Agostino posseduto dal Petavio, avea fogli di papiro, e di carta pecora vicendevolmente messi, secondo che riferisce il Mabillon2. Cosa sia avvenuto di quello mss. non si sa: nella biblioteca Ottoboniana, aggiunta alla Vaticana, che già fu della regina di Svezia, la quale comprò quella del Petavio, non si trova più. Quanto al giudizio del carattere per fissarvi certe epoche, quello, che si cava dalla di lui forma, non è privo d’ogni fondamento. Aggiungo oggi altre nuove riflessioni alle passate. La firma del carattere nel nome dell’artefice del Torso di Belvedere, segnato ΑΠΟΛΛωΝΙΟΣ, non lascia dubitare, che quell’insigne frammento, che è nell’ideale superiore a tutte le antiche sculture, non sia fatto dopo, che l’arte cominciò a declinare, e questo fu nell’olimpiade cl. in circa3. Ma in ogni tempo si sono sollevati ingegni felici, che hanno saputo alzare la fronte dalla corruttela comune. La medaglia più antica, nella quale si trova Ω scritto ω, per quanto ho potuto rintracciare, è del re Polemone di Ponto4 in argento coll’epigrafe, ΒΑСΙΛɛωС ΠοΛɛΜωΝΟС, che sta nel museo de’ Francescani a S. Bartolomeo all’Isola. Voler giudicare dall’eleganza sola del carattere può indurre in errori. Ho veduto medaglie sì nel museo Faucault a Napoli, come in quello della regina di Svezia presso il duca di Bracciano in Roma, le quali appartengono ai re di Ponto, con un carattere elegante, ma di un disegno, e impronto piucchè barbaro. Ma anche sull’eleganza farebbero da stabilirsi certe regole: per esempio i punti, o globetti all’estremità delle lettere greche cominciano al tempo di Alessandro il Grande, e fanno il carattere meno elegante, che non era prima. Se Dio mi presta la vita, ho destinato di scrivere una Paleografia di medaglie5. Io venero peraltro il gran merito, e la fecondità del fu march. Maffei, che era un uomo da non sbigottirsi punto delle difficoltà, che incontrava spinosissime, e di una fiducia eroica nell’imbarcarsi nella letteratura greca, che non avea che assaporata: di che ho testimonj in voce, e in iscritto. L’uomo non ha che una testa, dice Platone. Ma torniamo al nostro proposito. Il poco comodo, che godo, mi ha fatto smarrire lo sbozzo intorno ai papiri; ma può darsi, che mi venga alle mani per un’altra volta. Vi parlerò ora per tanto del metodo di svolgere i papiri, del che parmi di non avervi più parlato. La machina, fu cui si lavora, è un tavolino fatto a guisa de’ torchi de’ legatori di libri. Questo tavolino va girando fu d’una vite di legno, che gli ferve di piede. E’ composto di due tavole: quella di sotto è il tavolino, su cui si lavora: quella di sopra meno larga, e grossa ha cinque, o sei tagli fatti a foggia di graticola, o per meglio dire di quelle tavolette, che usano i trinari circonforanei, che fanno fettucce sui cantoni delle strade di Roma. Per quelli intagli vanno su tirati fili sottilissimi di seta non torta, avvolti intorno a certi bischeri per allentarli, e tirarli; e quella tavoletta s’alza, e scende per mezzo di due viti di legno. Foderato un pezzo di papiro colla vescica, la quale usano i battitori d’oro6, ma divisa e spartita di nuovo per renderla più morbida, e tagliata in pezzetti minuti quadrati di grandezza di due minuti d’un’oncia in circa (i quali vengono attaccati al papiro per via d’una colla, che ferma la vescica, e nel tempo stesso stacca un foglio dall’altro), si tira a poco a poco per istaccare un foglio dall’altro con l’ajuto di fili di seta attaccatigli colla stessa colla, e avvolti a’ bischeri. Nell’operare resta il volume appeso, e posato su due perni di ferro piantati nel tavolino, ai capi de’ quali sono attaccati due ferri concavi a mezza luna, foderati di bambace per sostenere il volume senza fregarlo, ec.

  1. Lo fu almeno sino al principio del VI. secolo ai tempi di Cassiodoro, com’esso scrive Var. lib. 11. epist. 38., ove ne descrive la pianta, e la maniera di prepararlo; e dice che erano andati in disuso i libri di tavolette incerate. Dagli altri scrittori, che ho nominati qui avanti pag. 188. si può cavare che fosse ancora usato molto dopo. Il Maffei Istoria diplom. pag. 77. nol vuole usato dopo il secolo IX. Vedi anche Donati Dei Dittici, ec. lib. 1. cap. 1. pag. 10. not. f., il P. a Bennettis Chron. & critica histor. ec. Part. I. Tom. I. prolegom. §. XXXIV. pag. 65., e l’eruditissimo P. Fabricy teologo casanatense . ec. pag. 262. La carta, che usiamo al presente, fatta di stracci di lino, o di canape, ha avuto la sua origine dalla Cina, ove si è fatta, e si fa ancora oggidì colla seta, che vi abbonda. Nell’anno 651. dell’era volgare ne fu introdotto l’uso in Samarcanda nella Persia; e quindi l’anno 706. nella Mecca, sostituendo alla seta il cotone, prodotto ricchissimo del paese. Di là si sparse per l’Africa, e nell’Europa, ove giugneva il dominio arabo. L’abbracciarono i Greci, e per lungo tempo ne conservarono l’uso. Gli Arabi di Spagna adoprarono o da principio il cotone, e col tempo in vece di esso il lino; del quale si hanno sicure memorie e libri scritti in Ispagna nel secolo XII. Non molto dopo fu ricevuta questa carta di lino in Italia, e in altre parti di Europa. Questa è la storia, che ne fa il sig. abate Andres Dell’orig. progr. e stato attuale d’ogni letter. Tom. I. cap. 10. pag. 210. segg. Dal passo dell’abate Cluniacense, nominato qui avanti, come è inteso dal P. Mabillon loc. cit. n. 16., e da Adriano Valesio nelle note al panegirico di Berengario Augusto, si rileva, che la carta di stracci di panni fatti di lino, o canape, anziché di altra materia, fosse già comune in Europa, o almeno in Francia, nel secolo XII.: Legit, fa dire egli ad un Ebreo, Deus in librum Thalmuth, Sed cujusmodi librum. Si tales, quales quotidie, in usu legendi habemus, utique ex pellibus arietum, hircorum, vel vitulorum, sive ex biblis, vel juncis orientalium paludum; aut certe ex rasuris veterum pannorum, seu ex qualibet alia sorte viliore materia compactos, & pennis avium, vel calamis palustrium locorum qualibet tinctura insectis descriptos.
  2. loc. cit. n. 11.
  3. Vedi Tom. iI. pag. 282. seg. Nell’iscrizione dell’Ercole di Farnese si vedono le lettere come dice qui Winkelmann, e come si è detto poc’anzi. Vedasi nel Tomo iI. Tavola VII., e si legga lo stesso Tomo pag. 285.
  4. Il volto è senza barba, e giovane. Viveva al tempo di Augusto.
  5. Vedi Tom. I .pag. lxiij. not. a.
  6. In Roma almeno l’usano.

Note

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