< Mantova e Urbino
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1471-1489 1502-15031


II.

(1490-1501)


Le nozze di Francesco Gonzaga con Isabella d’Este furono celebrate a Ferrara il 12 febbraio 1490[1]. Dopo la cerimonia, la sposa fu condotta per la città secondo il costume, accompagnata da tutta la Corte. Essa aveva alla sua destra il Duca d’Urbino ed alla sinistra l’ambasciatore di Napoli[2]. fu accompagnata a Mantova dai parenti più prossimi e v’entrò per porta Pradella il 15 febbraio. Grandiose furono le accoglienze e le feste: rappresentazioni, concerti, pranzi e danze, che durarono fino all’ultima notte di carnevale. Si calcolò che circa diciassette mila forestieri concorressero a Mantova in quell’occasione[3]. Tra i più cospicui figuravano il Duca e la Duchessa d’Urbino, dai quali, seguendo un uso comune a quel tempo, il Marchese s’era fatto prestare tappezzerie ed argenti, per meglio apparare il palazzo ed ornare le mense[4].

Elisabetta rimase a Mantova presso la cognata, che prima aveva solo veduta fuggevolmente. Fu allora appunto che cominciò tra loro quell’amicizia, che doveva poi durare viva e tenace per tanti anni, a traverso vicende così fortunose. Quelle due donne erano fatte per intendersi. La Duchessa compiva allora 19 anni: la Marchesa s’avvicinava ai 16. Avevano entrambe l’animo buono, l’intelletto pronto, il gusto fine per tutte le cose dell’arte, un’educazione squisita resa migliore dalle attitudini personali. Alla Duchessa, più matura e più grave di spirito, piaceva il veder sviluppare sotto a’ suoi occhi quel fiore di gentilezza, quell’ideale muliebre del Rinascimento, fresco, vivo, affascinante, che era Isabella. Ed Isabella trovava nella Duchessa una compagna ed una sorella maggiore; qualcosa che le rammentava ad un tempo la gioventù della sorella sua carnale Beatrice e la saggezza blanda della madre Leonora di Aragona. Ciò tanto più doveva esserle caro, inquantochè in casa Gonzaga non v’erano allora più donne, ed ella, sedicenne, trovavasi sola con quel brutto marito dalla faccia di negro[5], ch’ella amava sinceramente, ma che, occupato di continuo nelle faccende politiche e guerresche, non poteva essere quel compagno della giovinezza di cui essa, naturalmente, sentiva il bisogno.

Appena la stagione accennò a farsi un po’ meno rigida, recaronsi le due donne per alcuni giorni sul lago di Garda. Troviamo difatti che il 15 marzo 1490 Isabella scriveva al marito: "Hozi doppo disnare, cum bona licentia de la S.V., andarmene la illma Ma Duchessa de Urbino et io a cena a Goito. Domane a Capriana, dove venirà la moglie del S. Fracasso (Gaspare Sanseverino) et zobia andaremo sul laco de Garda, secundo l’ordine de la S.V., et de questo ne ho datto aviso a li magci Rectori de Verona per trovar le ganzare a Sermione". E il 21 marzo da Cavriana: "La illma Mna Duchessa de Urbino et io, insieme cum la moglie del S. Fracasso, andassimo a zobia a disnar a Desenzano et a cena a Tuscullano, dove stessimo la notte, et havessimo veramente gran piacere a veder quella rivera. El veneri venessimo ne le ganzare fin a Sermione et de lì quà a cavallo. In ogni loco fussimo ben vedute et acarezate, max.me dal Capitano del laco, qual ce donoe pesce et alcune altre cose, et simelmente la communità de Sallò ce mandoe a fare uno bello presente ... Domane andaremo a Goito, et marte mattina a Mantua"[6]. Così Isabella principiava le sue gite sul Garda, che furono poi così frequenti, e nessuna compagnia certamente avrebbe potuto esserle più gradita di quella di Elisabetta, dotate entrambe, com’erano, d’una insaziabile quanto elevata curiosità per i viaggi.

Per quanto non molti siano i documenti che abbiamo di quel primo sodalizio delle due giovani, è facile scorgervi l’affetto che cominciava a legarle. Nella letterina autografa d’Isabella al marito assente, letterina profumata e passionata, di cui abbiamo già dato saggio altrove[7], non erano mai dimenticati i saluti della Duchessa[8]. In aprile, quando Isabella tornò la prima volta a Ferrara, le spiacque molto di non aver seco la cognata[9]. A Mantova potè godere ancora della sua conversazione in maggio e forse nel giugno, chè poi Elisabetta, alquanto migliorata in salute, fece ritorno a Urbino. E là attendevala un gravissimo lutto. La sorella Maddalena Sforza, dopo appena dieci mesi di matrimonio, moriva di parto l’8 agosto del 1490[10] Elisabetta sentì sin nel profondo dell’anima questa perdita inattesa, onde scriveva il 13 agosto che dal gran piangere era "tutta sbatuta et lassa". Alla Marchesa, che era indisposta per una febbriciattola gastrica, ma che forse supponevasi incinta, tennero dapprima celata quella sciagura[11].

In settembre Isabella tornò sul Garda, e nonostante la gioventù e la naturale gaiezza dell’indole, dovette talora pesarle di non aver seco la compagna di pochi mesi prima. Il 18 settembre 1490 ella scrive di ciò alla Duchessa, dolendosi che non possa venire anco lei a "restaurarse in quel bel paese", e poi prosegue festosamente: "Tutti inseme gli auguraremo V.S. et chiameremola sotto la tavola quando havaremo inanti de quel bon pesce et seremo nel zardino de lo arciprete de Tuscullano".[12] Con le quali parole si tocca forse scherzosamente quel po’ di vizietto di gola, da cui la severa Elisabetta sembra non andasse immune.[13]

In autunno la Duchessa si recò a fare dei bagni e ne ebbe un grande ristoro.[14]L’anno successivo (1491) passò senza alcuna relazione notevole, tranne il viaggio del Marchese ad Urbino, nel luglio. Isabella in quell’anno aveva avuto grandi svaghi, prima pel fastoso matrimonio di Beatrice col Moro, cui assistette a Milano, poi per quello di Alfonso d’Este con Anna Sforza[15].

Il marchese Francesco era aspettato un’altra volta in Urbino nel gennaio 1492, come si ricava da una lettera di Elisabetta del 9 di quel mese, che è a stampa[16]. Ma sembra che quel viaggio non si effettuasse allora, perchè nelle lettere del 4 febbraio e del 3 di marzo, quest’ultima molto affettuosa, la Duchessa si mostra sempre impazientissima di rivedere il fratello.[17]. La corrispondenza mantenevasi viva anche con la Marchesa e consisteva per lo più in iscambi di favori e di gentilezze, in raccomandazioni di persone, in doni reciproci che quei nostri signori facevansi ben volentieri, applicando sin d’allora l’adagio francese: les petits cadeaux entretiennent l’amitié.[18]. Da Mantova veniva mandato, di solito, del pesce, specie i celebri carpioni del Garda[19]; da Urbino frutta[20]. Ma la salute della Duchessa s’era di bel nuovo guastata: essa accusava sin dal marzo disturbi gastrici (opilazione), per cui voleva recarsi ai bagni di Viterbo. Avendole il fratello spedito di nuovo il Calandra, essa lo ringraziava il 10 maggio 1492 da Gubbio, e si proponeva di menar seco l’amato castellano ai bagni.[21] La Marchesa di Mantova allora, in una lettera piena di buon senso, di affetto e di gaiezza, scrivevale (17 maggio): Una cosa me pare ricordarli per lo amore gli porto, ch’el primo bagno la cominzia a tuore sia el proponimento de guardarse da le cose triste et vivere de quelle che rendeno sanità et substantia, et sforciarsi fare exercicio movendose cum la persona a cavallo et a pede, stando in rasonamenti piacevoli, per scaciare le melenconie et affanni che per indispositione del corpo o animo gli occurressino, nè attendere ad altro che a la salute de l’anima prima et puoi ad honore et comodo de la persona, perchè altro da questo fragile mondo se può cavare, et chi non scià compartire el tempo de la vita sua passa cum molta passione et poca laude. Questo non ho dicto perchè non sapia V.S. como prudentissima intenderlo meglio di me, ma solum a ciò che sentendo ch’io anchora sia de la dispositione sua, tanto più voluntieri si adapti a volere vivere et pigliare qualche recreatione come facio io et secundo la poterà informare el Castellano; quale lo ill. S. mio consorte è rimasto contento stia apresso la S.V. finchè la serà retornata da li bagni et quanto più a lei piacerà, intendendo perhò quando la sia in deliberatione de venire a Mantua, perchè altramente, non solum se revocaria el Castellano, ma se possibile fusse renuntiaressimo la benevolentia et affinità. Et in casu che ’l Castellano cognoschi che la S.V. se alieni de volerne compiacere de la venuta sua, intendemo che per vigore de questa se habi per revocato et se ne retorni subito quà, dove non rendendo sufficiente rasone che l’habia facto dal canto suo quanto gli è stato imposto, serrà tractato como per la littera ch’el portò de mia mano, haverà inteso".[22] In quest’adorabile lettera vi è tutto il carattere d’Isabella, così impetuosa e tenace ne’ suoi desiderii, così espansiva verso gli amici del cuore.

Elisabetta in quel mentre era a Gubbio, sulle mosse per andare a Viterbo, quando ricevette colà la visita del Duca di Ferrara, che si trattenne alcuni giorni nello stato di Urbino.[23] A Viterbo Elisabetta intraprese la sua cura verso la metà di giugno: "io me ritrovo - essa dice in una lettera del 17 - a li bagni et per infino adesso non mi hanno facto troppo utile".[24] Tre settimane dopo, circa, le cose erano a miglior partito, come la Duchessa comunicava direttamente ad Isabella, da Urbino (11 luglio): "la adviso come, gratia de Dio, io son tornata da li bagni cum bono miglioramento, quantunque me sia remasta alquanto de debilità; la quale me sforzarò cum omne possibile diligentia mandare via per potermene venire in brevi giorni a stare in consolatione cum la Ex.V. et de lo illmo suo consorte et mio fratello, come è mio grandissimo desiderio".[25]. Erano peraltro sempre promesse illusorie, perchè sorgevano di continuo nuovi impedimenti. Prima la malattia del marito[26], poi le brighe col papa[27], ed altro ed altro; quantunque la Duchessa dicesse al fratello (e della sua sincerità non vi è a dubitare) "numerarò non solamente i dì, ma l’ore, che ho a stare a vedere la S.V.", e similmente alla Marchesa: "se lei numera li giorni, io numero le ore".[28]. Chiedendo dilazioni, come la vedemmo fare altra volta, la Duchessa era giunta a trattenere il castellano sino a settembre, finchè la notizia, forse sparsa ad arte, ch’egli era stato "casso dell’ufficio", non lo fece tornare a Mantova.[29]. Ma in dicembre la buona signora lo richiedeva di nuovo[30]; quantunque non le mancassero visite, anche gradite, di personaggi venuti da Mantova, quali il poeta[31] ed Alessandro Pincaro. Passò natale, passò capo d’anno, passò il carnevale del 1493 ed Elisabetta non venne. La Marchesa si disperava: "nè sciò - scriveva essa - qual cosa mi possa più indurre a recreatione in questo carnevale, parendome esser certa che tutti li concepti che per la venuta sua havea facto seranno stati exposti al vento. El tempo che io pensava spendere in letitia e consolatione inseme cum la S.V., convertirò in solitudine, standomene nel mio studiolo a dolermi de questa adversa sua valitudine, et pregharò Dio che presto la reduchi prospera, a ciò che, se pur non potremo satisfare al nostro desiderio questo carnevale, almanco ce sia concesso la proxima quatragesima".[32] Infatti una lettera del 24 gennaio annunciava ad Isabella che le acque della Porretta conferivano molto alla Duchessa, e che se, il miglioramento fosse continuato, in quaresima si sarebbe messa in viaggio.[33]

Venne finalmente l’aspettata e desiderata Elisabetta nel marzo del 1493, quantunque i soliti dolori di stomaco la avessero di nuovo molestata proprio in quella che stava per partire.[34] Già vedemmo come la Gonzaga le inviasse incontro, per rallegrarla, il poeta. Per desiderio della Marchesa mossero pure ad incontrarla i più cospicui cittadini, e lei stessa, Isabella, si recò fino a Rovere. Il 19 marzo a Mantova fu accolta "cum universale dimostratione de alegreza".[35] Poco appresso, il 23 marzo, la Marchesa partecipava alla madre di stare deliziosamente insieme con la cognata, "quale spero cum la conformità de quest’aere a la natura sua et copia de boni medici debba revalersi, et già me pare che la cominci a sentire la virtù de l’aere et le careze ch’io gli facio".[36]

Stettero insieme tutto l’aprile, in una beata comunanza di aspirazioni e di occupazioni, ma ai primi di maggio Isabella doveva portarsi, per desiderio del marito, a Venezia passando per Ferrara[37], ed era suo interesse che il viaggio si compisse presto per prevenire l’andata del Moro e non sfigurare al confronto dello sfarzo della sorella Beatrice.[38] Il 4 maggio giungeva a Ferrara, noiata questa volta assai pel tempo poco favorevole, e per l’abbandono della dolce compagna. "Appena - le scriveva - me ritrovai in barca senza la sua dulcissima compagnia venni tanto bizarra, che non sapeva che volesse. Havendo per mio conforto aqua et vento sempre contrario... molte volte me agurai in camera de V.S. a giochare a scartino"[39]. Alla sua volta Elisabetta, angustiata per l’intemperie nella quale la Marchesa era incorsa, le scriveva con molto affetto il giorno medesimo (4 maggio) "affinchè - diceva - almeno, essendo priva de la dolce sua conversatione, lo intendere nova di quella me habi a dare alcuna recreatione, advisando V.S. che dall’ora quella si partì non mi son sentita troppo bene, et per li continuati cattivi tempi maj sono uscita di camera, dove senza V.S. mi pare essere mezza"[40]. A Ferrara Isabella assisteva frattanto alle nozze della figliuola di Ludovico Uberti, che si maritava in casa Strozzi[41], nella quale occasione Ercole Strozzi fece rappresentare una sua commedia[42]. Il 15 maggio era a Venezia, ove si trattenne solo quattro o cinque giorni, uggita dagli interminabili ricevimenti ufficiali, che non permettevano alla sua giovinezza espansiva e vivace la libertà che avrebbe voluta[43]. Benedetto Capilupo informava di tutto la Duchessa, la quale, continuando ad annoiarsi sola a Mantova (il Marchese stava a Marmirolo, d’onde veniva solo qualche volta a trovarla) diceva col suo adorabile garbo alla cognata: "spesso mi ritrovo in fra dui gran desiderii, uno che continuo voria intendere quella ritrovarsi in triomphi et letitie et in li meriti onori; l’altro che voria continuo potermi godere la dulcissima conversatione sua, et quella ritornasse a reintegrare la separata nostra conversatione, senza la quale io confesso non sapere pigliare alcuno compìto piasere, et altro non desidero che essere cum V.S.: quale prego voglia far bono ritorno et accellerato quanto sia possibile, chè ho dispiasere questi caldi ve diano molestia, et desidero veniate in le comodità et che che possiamo godere insieme"[44]. S’imaginerà quindi di leggieri la gioia dell’eccellente Duchessa quando ricevette dalla quasi sorella una lettera da Vicenza, del 23 maggio, in cui la invitava ad andarle incontro a Porto Mantovano "a ciò che de compagnia godiamo quello aere bono et stiamo in consolatione a rendere conto l’una a l’altra de quanto c’è occorso doppo siamo state separate". La Duchessa attendevala infatti il 27 e le due dame si fermarono nel palazzo di Porto, "per fugire lo cativo aere del castello"[45]. Durò tuttto il giorno quel dolce sodalizio. Ai primi di luglio la Marchesa dovette tornare a Ferrara presso la madre che la bramava, e vi stette fino al 10 d’agosto. Dalla corrispondenza d’allora noi trasceglieremo quest’affettuosa letterina di Isabella:

Illme Dne Ducisse Urbini,

Illma, etc. Hozi ho una lettera de V. Ex. de XXIII instantis per la quale me avisa del suo ben stare, dil desiderio che la tene de sentire el simile di me et del presto ritorno mio. Respondendoli dico che al presente non haveria potuto recevere cosa più grata, perchè essendo stata molti dì senza lettere sue et da me ogni hora desiderate, tanto magiore contenteza me ha addutto questa, quanto sia venuta cum magiore expectatione. De la sua bona valitudine ho singular piacere et sono più che certa che la desideri la mia, per vicissitudine de l’animo et affecto mio verso essa. Questo interviene anche circa l’optato suo de vedermi retornare presto, perchè se ben sono in loco dove debitamente debbo desiderare stare longamente, nondimeno la dolcissima compagnia de V.S., ultra el rispecto de l’illmo Sr mio consorte me fa spesso pensare al ritorno, qual anchora non può sequire cum bona satisfactione de la illma Ma mia matre che va intertenendomi più che la può. In questo mezo non agravarà a V.S. ad commettere che spesso me sia scripto, ecc.

Ferrarie, 26 julij 1493
[46].

Nella disgrazia che doveva seguire poco appresso, la morte della madre (11 ottobre 1493)[47], fu certo di grande conforto alla desolata Marchesa l’avere al fianco una così tenera e devota amica come Elisabetta. La quale poi ebbe ad assistere, verso la fine dell’anno, alle prime gioie materne di Isabella, poichè il 31 dicembre 1493 nasceva appunto la sua primogenita Leonora[48], dei cui progressi noi abbiamo qui a tener conto, perchè essa pure era destinata un giorno a divenire Duchessa d’Urbino. In lei, secondo un pietoso costume del tempo, rifaceva Isabella il nome della madre estinta[49]; ma avrebbe di gran lunga preferito un maschio[50]. Nonostante i dolori morali sopravvenuti negli ultimi tempi della gravidanza, il parto riuscì felice se non agevole[51]; onde nel gennaio del 1494 Elisabetta, rimessa di nuovo in salute, riprese la via di Urbino[52]. Ed Isabella ad accompagnarla col pensiero, a scriverle teneramente: "Non posso già preterire che non la certifichi ch’io sento grande perturbatione d’animo quando penso che sono priva de cussì dolce et amorevole conversatione quanto era quella de V.S. Mentre ch’io son sta in lecto me n’è parso stranio, ma molto più me ne parerà como usisca de casa"([53])... V.S. presso a me non ha pare d’amore se non la unica mia sorella Ma Duchessa de Barrj". Il 7 febbraio informa la cognata d’essere a Marmirolo, ove si trastulla con la caccia e attende una rappresentazione che si farà in fin di carnevale[54].

I Duchi frattanto erano giunti ad Urbino, e tutti mostravansi lieti di veder la Duchessa "bella, sana et salva". Feste cordiali furono fatte loro dai sudditi: "Tutti li putti li andorono incontra fino a li confini cum le olive in mano gridando: "Feltro, Feltro, et cinctura, cinctura, et similiter tutte le donne meglio ornate che possevano ... Non pretermetterò certe representatione che furono facte infra via. Et prima, discosto da Urbino circa quatro miglia, in uno pianetto de una collina se scoversono a l’improviso li cantori a cavallo in forma de cazatori cum alcune nymphe vestite a l’anticha cum li cani a lasso, li quali subito disciolti presono alcune lepore portate vive a posta, cantando certe canzone al proposito de la tornata de loro Srie et aproximandosi a la terra, aparve la Dea de l’alegreza, la quale congratulandosi del suo tornare li pronosticò molte felicitade et prospera fortuna". Guidubaldo, superata la minorità, si svincolò compiutamente dalla tutela dell’Ubaldini, ed è bello il vederlo nella dignità mite e serena, nella, quasi diremmo, patriarcalità del suo governo. "Questo Sre ha preso totalmente l’administratione del governo del Stato, cum una incredibile satisfactione de li suoi populi, dimonstrando a ciascuno tanta humanità, clementia et gratia, che più non porieno desiderare, tenendo sua Sia uno optimo ordine. La matina depò la messa, la quale mai abandona, escie fora in lo salotto et mettesi a sedere a tavola, et lì ascolta tutte quelle persone che sono di qualche gravità, et expedite queste, se mette andare intorno a le logie prestando audientia a contadini et ad altre povere zente, et tutte le suplicatione de un dì che li sono porte, l’altro dì, prima che vada fora de cammera, insieme cum li cancellieri et uno doctore, che è m. Alexandro de Arezo de Lombardia, expedisce"[55].

Qualche mese dopo Elisabetta aveva il conforto d’ospitare essa la cognata, che, per un voto fatto nel parto, compieva un pellegrinaggio a Loreto[56]. Quando Isabella partì il 10 marzo da Mantova e recossi prima a Revere, poi a Ferrara, ove si trattenne alcuni giorni, aveva intenzione d’andare prima ad Urbino, per "stare in devotione la septimana sancta", e di là a Loreto e ad Assisi. Ma poi mutò il piano, per esserle venuto incontro ad Argenta un messo della Duchessa, il quale le disse che in un paese montagnoso come Urbino non avrebbe potuto essere convenientemente onorata in quaresima, per mancanza di pesce. Elisabetta pertanto la consigliava a recarsi prima a Loreto, e poi ad Assisi ed Urbino, nel ritorno. Ecco pertanto come aveva fissato le tappe: "Postdomane, che serrà il XXI (marzo), andarò al Cesenatico, a li XXII ad Arimine, a li 23 a Pesaro, a li 24 a Senogalia, a li 25 in Ancona, a li 26, che serà el mercore sancto, ad Loreto, dove confessata, me comunicarò la zobia mattina. De lì in due giornate per la via de S. Severino e Camerino andarò ad Eugobio. De lì ad Asiso in uno dì, l’altro a Perosa, sì per vedere quella inclita città, come perchè dovendo audire missa et disnare, serìa troppo longa giornata ritornare ad Eugobio. Da Asiso a Perosa non è se non dece milia, per una bellissima valata, per quel che intendo, et da Perosa ad Eugobio desdotto. Venirò poi de longo per la terra del Duca de Urbino, non me firmando più de dui dì in alcuno loco. Farò la via de Romagna, driciandome poi da Bologna a Ferrara per satisfare a li illmi S. miei patre et fratelli, che me pregorono facesse quella via nanti che ritornasse a Mantua".[57] E a questo disegno si attenne dapprima scrupolosamente. Soltanto da Loreto, per muovere a Gubbio, anzichè prendere la via di Camerino, tenne quella di Jesi. A Gubbio furono ad incontrarla i Duchi di Urbino, e dovè fermarsi più che le sole tre feste di Pasqua, come aveva in animo; di là procedè per Assisi e quindi fece una corsa sino a Camerino, ove dai Varano ebbe liete ed oneste accoglienze. Il palazzo di Gubbio, di cui abbiamo già toccato, le piacque assai: "Lo aparato del palazo è molto magnifico, ultra che da sè sia tanto bello et ben situato, che non sciò se vedesse mai cosa che me piacesse più de questa, per essere posto in loco che signoreza tutta la città et piano, et ha un giardinetto cum una fontana in mezo de grandissima recreacione. La città è assai bella et ben populata e molto mercantile". Delle amorevolezze poi dei Duchi non scrive nulla "perchè certo non poteria dire tanto quanto è".[58] Coi Duchi d’Urbino al fianco, il proposito di trattenersi due giorni per luogo non era effettuabile; se stette una decina di giorni a Gubbio, comprese le escursioni, ne passò meglio d’una dozzina in Urbino[59]. Fecero insieme a piccole tappe il cammino da Gubbio ad Urbino, trattenendosi specialmente a Cagli ed a Casteldurante. Dovunque apparamenti sul genere di quelli che vedemmo per le gite di Elisabetta: sulla piazza di Casteldurante le sette Virtù che recitavano versi da un carro trionfale! In Urbino, lasciamo la parola alla Marchesa: "ho ritrovato el palazzo molto più bello de quello che per la fama sua havea imaginato. Ultra la sua naturale beleza, l’hanno anche molto richamente guarnito de tapezarie, apparamenti et argenti da credenza; avisando V. Ex. che in tanti loci como sono stata fin qui nel stato suo, li apparamenti che ho ritrovato in uno loco non è stati posti in altro, et da lo primo dì ch’io gionsi ad Eugobio fin qua, sempre sono stata più honorata et le spese ogni dì più sumptuose, per modo che non sciò como se potesse fare più ad una noza. Molte volte ho temptato de fare sminuire le spese, pregandoli che domesticamente me volessino tractare, ma non è mai stato remedio che l’habiano voluto fare. Poteria ben essere che questo proceda per havere el governo lo illmo S. Duca, qual non studia in altro che in demonstrare generosità. L’ha una bella Corte adesso et vive molto signorilmente, governandose veramente cum grande humanità, gravità et satisfactione di populi. L’è ben vero che l’usa del S. Octaviano per consigliere, ma lui è quello che dà audientia, ecc."[60]. Isabella si spiccò finalmente da Urbino il 25 aprile e per la via di Romagna giunse il 30 a Bologna, ove l’accolsero con grandi dimostrazioni di simpatia i Bentivoglio[61]. Il distacco riuscì penosissimo ad Elisabetta, che trovò accenti di cordialità intima e profonda nella lettera diretta alla Marchesa il 26 aprile: "Non sciò cum che altro modo medicare al dolore che me ha dato la partita di V.S., la quale me ha lassata quasi nel termine non che me si fusse partita una cordialissima sorella, ma me si fusse partita l’anima; se non ognhora scriverli et quello che cum la bocha dire desiderarei supplir cum queste carte, dove se apertamente io li potesse demostrar el dolore che io ho preso, mi confido che haveria tanta forza che per compassione faria tornare adrieto V. S. Et se io non temesse esserli molesta, non usaria questi termini che io medema la seguitaria. Ma essendo l’uno et l’altro di questo impossibile al presente, per rispetto di V.S. non trovo altra via in questo se non strettamente pregarla che se ricordi talvolta di me che sempre la porto sopra el chore".

Nella sua permanenza in Urbino, la Marchesa ebbe occasione di entrare in più cortesi rapporti con un personaggio che già parecchie volte abbiamo nominato, Ottaviano Ubaldini, cui il duca Federico, morendo nel 1482 e lasciando l’unico figliuolo decenne, aveva affidato la tutela di Guidubaldo e l’amministrazione del Ducato, finchè l’erede raggiungesse l’età maggiore[62]. Gli storici hanno circondato questo personaggio d’un certo mistero, e gli attribuirono delle mire torbide e proditorie rispetto al nipote[63]. Ma, a dir vero, non vi sono affatto documenti che valgano a provare la grave accusa; e chi pensi come simili opinioni talvolta si formino, non sarà forse lontano dal supporre che v’abbiano contribuito da un lato la fosca ambizione del Moro, che a Milano, appunto in quello scorcio di secolo, usurpava, in condizioni analoghe, il dominio, e dall’altro la passione grande che l’Ubaldini aveva per l’astrologia e per le scienze occulte[64]. Fu tanto grande la sua reputazione di mago, che i contemporanei, a spiegare l’impotenza di Guidubaldo, immaginarono che Ottaviano l’avesse ridotto così per arte magica, acciò il dominio passasse nella propria famiglia![65].

I documenti urbinati e mantovani da noi posseduti non ci fanno mai intravvedere dissensi fra zio e nipote; anzi ogni volta che il nome dell’Ubaldini s’incontra, lo troviamo pronunciato con la massima deferenza. Quando nel 1498 venne a morte, così Elisabetta come Guidubaldo ne diedero partecipazione ai marchesi di Mantova, dimostrando il più sincero dolore. La prima infatti scriveva:

Illma et Exma Domina Cognata et soror honma,

Essendo questa matina successa la morte de lo ill. S. Octaviano mio zio quale passò da questa vita a l’altra ad hore nove cum bonissima dispositione, m’è parso el debito significarne a V. Ex. Hozi è il XV de la infirmità de sua S. qual è stata febre flemmatica. Non ne ho più presto dato adviso là, perchè li medici e tucti per lo meglioramento grande havea facto ne aspettavano la liberatione o ad minus che ’l mal suo andasse ad un certo più lungo termine.Ma el pto Sr confidando nel meglioramento desiderava sempre retornarsi ad Urbino, imaginandosi in brevi doppo lo arrivar suo esser guarito: il che e da li medici e da tucti noi altri li era contradicto assai. Nondimeno fo necessario satisfare al suo intenso desiderio et così hogi fu il quarto dì che Sua S. fo portata da li homini in un lecto da Ugobio perfino a Canthiana, dove gionto se trovò alterato per forma che tucta la nocte stecte malissimo senza mai reposarsi. Depoi fu portato qui, dove non giovando humano aiuto, immo ognhora declinando, è morto tanto catolicamente quanto sia possibile ad imaginare, cum dolor del S. et de tucti li suoi molto intenso; et io ne ho preso molto ben la parte mia come si ricerca per lo amore e le chareze che sempre me ha facte da patre. El S. intende e si prepara de farli honore come è obligato. Idio per sua clementia habia misericordia a l’anima sua.

A la Ex. V. insieme con lo S. mio ill.mo de continuo me recomando.

Callij, XXVII julij 1498.

Soror
ELISABETH FEL. DE GONZAGA
Ducissa Urbini

Guidubaldo alla sua volta informando il marchese Francesco, con lettera dello stesso giorno, si diceva afflittissimo di questo lutto domestico: «come è piaciuto a Dio questa mattina in ortu solis, hauti prima tutti li sacramenti de la Ecclesia cum tanta bona discretione et dispositione insino a l’ultimo quanto a dir se possa, è passata quella benedecta anima de questa presente vita, et lassatome cum tanto dispiacere et cordial dolore per haverlo hauto io sempre in loco de bono et honorevole patre per l’amore, fede et carità el portava ad me et a le cose mie quanto dir si possa».

Nel soggiorno urbinate è lecito supporre che il conte Ottaviano più volte abbia parlato alla Marchesa di cose astrologiche, onde in essa, che da superstizioni non era immune, nacque il desiderio di farsi comporre colà uno di quei giudizi, cui tenevano tanto i signori del tempo[66]. Come di cosa intesa ne scriveva Isabella all’Ubaldini da Bologna, il 1° maggio 1494:«Mando qui inclusa a la S.V. la natività mia, a ciò che la possi far fare el judicio, come me ha promesso». Ma per essere l’astrologo (un tal m. Jacomo) malato d’occhi, il conte non potè servirla come desiderava; solo le fece intendere che sia possibile «del currere cavalli». Rispose la Marchesa con la seguente lettera caratteristica, che figura nel copialettere:

Ill.mo. Ho inteso per la lettera de V.S. la causa che ha differito el iuditio mio, ma ho inteso et per essa lettera et per quella che l’ha scripto s Benedicto Capilupo el particulare periocolo ch’io porto de’ cavalli. Ringratione summamente V.S., la quale non me poteria havere facto cosa più grata, sì per rispecto mio, como per l’amore che vedo mi porta V.S., et lo ricordo suo serrà presso a me di tale auctorità, che ho deliberato non far più correre cavalli come soleva. Haverò ben caro che la S.V. me voglia fare chiarire in qual tempo de la età mia porto più periculo, et, se possibile è, vedere se ’l cavallo ha signo alcuno o de che pelo el sia, perchè ho già inteso da altri che anche de questo particulare si pò havere noticia in astrologia; et quanto più presto me ne avisarà tanto più li serrò obligata, non si scordando perhò de fare compire tutto el juditio mio. Nè li rincresserà raccomandarmi alli Ill. Sri Ducha et Duchessa, et a la S.V. me offero et raccomando.

Capriane, XVIII julij 1494[67].

Il giudizio, seppur capitò, stette gran tempo a venire, chè il 15 ottobre ancora non era finito; ma Ottaviano aggiungeva in nome del suo astrologo che la Marchesa «si guardi nel sexto mese dal dì de la natività sua et ne l’ultimo quarto de l’anno de dicta natività»[68]. Atterrita alquanto da queste così precise indicazioni, Isabella si astenne per qualche tempo dal correre troppo a cavallo; ma poi il suo buon senso o la sua brama giovanile di trastullarsi trionfarono, ed ella ritornò, in barba all’astrologo, a quelle abitudini di amazzone, che furono una delle sue maggiori passioni[69].

Il 1495 non ci reca grandi novità nei rapporti dei Gonzaga con Urbino. Nelle vicende politiche e nella guerra di quel travaglioso anno ebbero parte, con varia fortuna davvero, tanto Guidubaldo quanto il Marchese di Mantova. Quest’ultimo non mancò di descrivere anche alla Duchessa d’Urbino, col lirismo di buona fede dei primi giorni, quella ch’ei credeva vittoria del Taro[70], e certamente la buona sorella se ne sarà compiaciuta. Essa aveva mandato a Francesco, alcuni mesi prima, un artista di rare doti per nome Adriano, intorno al quale, purtroppo, non siamo in grado di dare alcun schiarimento. Egli era nientemeno che scultore, medaglista, poeta, improvvisatore e suonatore di lira! E pare che in tutte queste cose fosse meglio che mediocre, poichè Elisabetta, non certo facile di gusto, se ne appagava. Ecco la sua lettera, che forse permetterà ad altri, più fortunati di noi, di fornire qualche particolare sul versatile artista:

Ill.me Principes ac Exme Dne frater hon.,

Essendo che per mio naturale instinto habbia in protectione li homini virtuosi, non posso fare che ne le lor occurrentie quelli non mi siano recomendati, e però venendo Adriano fiorentino presente ostensore a la Ex. V., quanto più so e posso gli lo recomando, e pregho sia contenta aceptarlo a li suoi servitij, rendendomi certa che li suoi portamenti insieme con le operatione seranno tal che epsa ogni dì se ne chiamerà meglio servita e satisfacta. Et azò che V. Ex. sia informata de li suoi progressi li notifico come ell’è stato per alcun tempo per servitore e familiare del Sermo Re Ferdinando, et essendo mò fora de la sua servitù e destituto del suo presidio per casone de la contraria fortuna sostenuta, ha novamente collochata omne sua speranza ne la V. Ex., elegendovi per unico signor nel suo vivente, il che summopere desidera e precipue sapendo el cordial amore qual è stato sempre intra epso signore Re et la pta V. Ex. la quale azò sappia del suo mestiero li significo come ell’è bon scultore e ha qui facte alchune medaglie molto belle, preterea è bon compositore de sonecti, bon sonatore de lira, dice improviso assai egregiamente. Conclusive per circa tre mesi che è stato qui ne ha dato piaxere assai et intra le altre suoe virtù Io reputo bono, integro e leale quanto alchuno altro...

Urbini, ... maij 1495.

Quella sorella che ama la S.V.
quanto lei medesima
ISABETA, manu propria.[71]

Il 9 novembre del 1495 Isabella attendeva a Mantova la Duchessa ed insieme il marito, e la sorella di lui, Chiara di Montpensier. Vennero infatti tutti tre; Francesco Gonzaga, glorioso per la guerra mossa al Re di Francia e per ricupero di Novara. Ma stettero uniti ben poco, chè prima del 20 febbraio 1496 Elisabetta ripartiva alla volta dei suoi Stati[72], e Francesco erasi già recato nel Regno di Napoli ad un’impresa «periculosa e difficile», come la Marchesa scriveva alla cognata, lamentandosi per quelli abbandoni. A svagarsi alquanto essa invitava a venirla a trovare da Ferrara i buffoni Galasso e Frittella[73]. E’ ben vero che le rimaneva vicina l’altra cognata Chiara, alla quale portava un affetto pienamente ricambiato[74], ma le tristi vicende dei tempi per cui il marito dell’una combatteva appunto contro il marito dell’altra, dovevano rendere in quel momento penosa la loro relazione[75]. Maggiore distrazione doveva darle la bambina Leonora[76], ma anche queste gioie materne erano un po’ oscurate dal dispetto della Marchesa per l’altra femmina che in quell’anno mise alla luce[77]. Nuove tristezze portava l’impresa napoletana, per essersi malato gravemente di febbre il marito. Appena potè, egli si accinse al ritorno, e Isabella gli andò incontro ad Ancona[78]. Il giorno prima, presso Fano, si trovò con la Duchessa d’Urbino e col conte Ottaviano[79].

Nè mancò in quell’anno sciagurato qualche altro rapporto fra le due Corti. Da Mantova venne raccomandato nella primavera del 1496, ai Duchi d’Urbino, quel conte Ludovico Canossa che, accettato alla Corte dei Montefeltro[80], figura tra i personaggi principali nel dialogo del Cortegiano, e che in seguito doveva essere chiamato ad alte cariche ecclesiastiche e diplomatiche[81]. Nel novembre veniva a trovare la Marchesa Emilia Pia, accompagnata da una letterina della Duchessa[82].

Note

  1. MURATORI, Rerum Ital. Script., XXIV, 281; FRIZZI, Storia di Ferrara, Ferrara, 1848, IV, 161-62.
  2. Da relazione inedita di Girolamo Stanga, in data Figarolo, 13 febbraio ’90.
  3. Cfr. VOLTA, Storia di Mantova, II, 230-31 e D’ARCO, Notizie d’Isabella Estense, Firenze, 1845, p. 31.
  4. Nel copialettere del Marchese, L. 134, v’è la seguente notevole lettera:
    Ill.mo ecc. Ho ricevuta la lettera de la S.V. et visto quanto per essa la me significa de la descriptione facta de li arzenti suoi et tapezarie, de che la può accomodarmi per el bisogno de queste mie noze secundo la lista data a Benedicto Codelupo la quale s’è havuta: ringratio quanto posso la Ex.V. de la comodità che la me ne fa, che mi redunda ad grandissimo acunzo per essere bona summa et belle cose; et se ultra le annotate ne la lista la V.S. potesse etiam compiacermi de la tapezaria sua de la historia troiana per poter apparare la sala dove se farà la festa come serìa il pensier mio, et così de li antiporti suoi belli et de qualche tapeti da terra et anche de più vasi d’arzento grandi che la potesse per ornare la credenza restaria da lei molto satisfacto et contento et fariame cosa grata. Prego ben la S.V. voglia haverme excusato se li paresse in richiederla tropo copioso, chè lo facio a segurtà et cum fiducia per la fede grande che ho in quella: a la quale de continuo me offero et recc.o et ipsa bene valeat. Mant. 19 jan. 1490.
    Gli arazzi ov’era rappresentata la storia trojana furono tra i più famosi del palazzo Urbinate e noi abbiamo già avuto occasione di nominarli, parlando poc’anzi di quel magnifico edificio. Li vanta specialmente Antonio Mercatelli nel suo poema ed il COLUCCI (Antichità picene, XXI, 76) dice che costarono ben diecimila ducati. Di quel prestito delle tappezzerie s’era già trattato nel dicembre ’89, come può vedersi da una lettera d’Elisabetta ormai più volte citata (FERRATO, p. 61). Nè i Montefeltro erano i soli cui in quella congiuntura ricorresse Francesco per tappezzerie ed argenti. Si rivolse eziandio a Sigismondo d’Este, a Marco Pio di Carpi, a Giovanni Bentivoglio.
  5. Vedasi la magnifica terracotta del Museo di Mantova, che lo rappresenta riprodotta, tra altri, dal MÜNTZ, Histoire de l’art pendant la Renaissance, II, 277.
  6. Ambedue le lettere sono tra le originali della Marchesa.
  7. Vedi il nostro lavoro Delle relazioni di Isabella d’Este Gonzaga con Ludovico e Beatrice Sforza, Milano, 1890, p. 12; estr. dall’ Archivio storico lombardo.
  8. Vedi specialmente la lettera del 6 aprile, firmata Quella che è desiderosa de continuo veder la S.V. Isabella da Este da Gonzaga de man propria.
  9. Cfr. la lettera 23 aprile nel L. 136 del copialettere del Marchese. Elisabetta rispose di esserne dispiacente essa pure, ma "tuttavia è forse stato el meglio perchè me sento migliorata assai".
  10. Cantò quella morte Antonio Agnelli in un poemetto latino, che si conserva in un codice Capilupi. Cfr. ANDRES, Catal. mss. Capilupi, Mantova, 1797, pp. 179-183. Di Maddalena fece un ritratto il Mantegna, dacchè nell’inventario di libri e quadri di Giovanni Sforza, compilato nel 1500 figura: "La testa dell’illma M. Magdalena de man del Mantegna in profilo". Vedi VERNARECCI, La libreria di Giovanni Sforza, signore di Pesaro, in Archivio storico per le Marche e per l’Umbria, III, 522. Di questo ritratto, per quanto ci consta, gli storici dell’arte non hanno notizia. Conoscono invece le medaglie, registrate anche dall’Armand.
  11. Beatrice de’ Contrari al Marchese, 11 agosto ’90: "Ho inteso lo mesto et doloroso caso de la ill.ma Ma Maddalena... Perfino a questa hora ho facto stare la cosa secreta che la ill.ma Ma Marchesana non la ha intesa, et etiam farò stare fino a tanto che V.S. scriva quanto se habia da fare circha ciò, perchè conoscendo la ill.ma Marchesana ne li termini che è mo’, et sapiendo quella de cordial.mo core amare la ill.ma Ma Maddalena dubito non agiungerà male a male".
  12. Copialettere del Marchese, L. 136. Quella riviera era considerata un vero paradiso. Stefano Sicco scriveva da Cavriana il 20 marzo ’90, a proposito della prima gita da noi menzionata: "le pte Madonne se mantennero galiarde a l’acqua et a cavallo... vedendo sempre zardini cum grandissimo piacere, che ogniuno de li habitanti se sforzava farli più careze, tra’ quali fu uno de Caravazo chiamato Fermo che voleva pur ch’el zardino suo fusse posto a sachomanno da Ma Marchesana et tutta la compagnia, et donoli de li cedri et pomi ranzi ecc."
  13. L’8 dicembre ’90 Isabella raccomanda alla cognata di non mangiare più quelle cattive cose, di che la vedeva ghiotta. Essa pure, la Marchesa, s’è corretta, con beneficio della salute. In fatti il 18 agosto la madre rimproverava Isabella di procurarsi del male col soverchio appetito per le frutta "et altre cose triste".
  14. In una lettera del 13 dicembre ’90 dice che i bagni le hanno fatto così bene, che le pare "veramente esser resusitata da morte a vita".
  15. Vedi le succitate nostre Relazioni con gli Sforza, pp. 13 e segg.
  16. FERRATO, op. cit., pp. 62-63.
  17. FERRATO, op. cit., pp. 65 e 67.
  18. Possono vedersi riguardo a ciò specialmente le lettere d’Elisabetta pubblicate dal Ferrato, che sono numerose pel 1492. Si badi peraltro ch’egli commise nella pubblicazione di quei documenti molti errori di lettura, alcuni dei quali fanno oltraggio al senso. Ne additiamo parecchi, per saggio: - Nella lettera 57, a p. 65, in luogo di Gian Maria et Mainoldo deve leggersi G. Maria Riminaldo; nella lettera 62, a p. 70, non Or la opilatione, che non dà senso, ma De la opilatione; quivi pure il testo dice lunidì proximo che verà existimo mettermi ad camino, ed il Ferrato stampa un comicissimo che verà Augustino!! Nella lettera 67, p. 74, non me rescrisse, ma me respuse; nella lettera autografa 68, a p. 75, va letto quando intendo del suo e dal poeta la Ex. V. intenderà, e nella pagina seguente v’è tal confusione rispetto al castellano, che è una pietà, essendo stato omesso di pianta il nome di Joan. P. Arrivabene, il vescovo d’Urbino. Così nella lett. 72, p. 81, non avendo letto a dovere, il F. fa tal pasticcio di carpioni e di pistacchi, che lo digerirebbe appena uno struzzo. Insomma di quelle lettere non si può valersi senza una accurata collazione.
  19. FERRATO, pp. 64 e 81. Cfr. la nostra nota 2 a pag. 47 delle Relazioni con gli Sforza.
  20. Il 28 marzo ’92 Elisabetta accompagna ad Isabella una spedizione di fichi (FERRATO, p. 67). Erano fichi secchi. La Marchesa risponde il 13 aprile: "Ho receputo insieme cum la lettera de la S.V. li fichi che la me ha mandato, quali me sono stati gratissimi et per suo amore ho principiato a goderli; in cambio de li quali mando a lei due forme de formazo da pesi cinque l’una, che sono le più belle si sono ritrovate in questa terra, a ciò che la S.V. habia memoria de me quando se manzarà grasso, como ho io de essa adesso che se manza de macro, benchè desideraria che la venese in qua per godere inseme di queste et altre cose per qualche tempo, et aciò che ne l’aere suo nativo potesse purgarse et liberarse in tutto da quella poca opilatione che intendo ha". Copialettere d’Isabella, L. II.
  21. FERRATO, p. 69.
  22. Copialett. d’Isabella, L.II. Ivi segue una lettera (18 maggio) al Castellano, ove è detto, dalla forma in fuori, lo stesso. Isabella gli dà licenza di rimanere presso la cognata, "purchè, come gli scrivemo, ne observi la promessa de venire; chè quando senza urgentissima causa mutasse sententia, non solamente vui havereti a retornare subito a casa, ma certificarla che nè vui nè altro per opera nostra gli serrà più mandato et lo cordiale amore che li portiamo se debilitaria multo".
  23. FERRATO, p. 70; risposta nel Copialettere d’Isabella, L.II, 26 maggio ’92.
  24. La lettera è datata ex Balneis Viterbij e non già ex Balneo Eugubii, come ha letto, spropositando al suo solito, il FERRATO, p. 71.
  25. FERRATO, p. 72. Nello stesso senso e quasi con identiche parole al fratello nella lettera successiva là pubblicata. Come appare da quanto scrive la Marchesa (Copialett., L II, 26 maggio), Elisabetta aveva promesso di venire a Mantova "al tempo de’ fasanazi", vale a dire in autunno, o ad estate inoltrata.
  26. Lett. 5 agosto ’92. FERRATO, pp. 73 e 74.
  27. Lett. del sett. ’92. FERRATO, pp. 75 e 76.
  28. FERRATO, pp. 76 e 80.
  29. Vedi FERRATO, pp. 72, 73, 76.
  30. FERRATO, p. 78.
  31. FERRATO, p. 75. Il poeta tornava allora (sett. ’92) da Urbino a Mantova. Chi era codesto misterioso personaggio più d’una volta menzionato nei documenti mantovani? Che dovesse essere un musicista lo si dedurrebbe, non foss’altro, da un brano di lettera del segretario Antimaco al Marchese (3 febbr. ’92): "Questa nocte io feci dire al poeta che per tempo questa matina il dovesse venire a la Ex. V. insieme col fiorentino che canta in lira". Ma ne abbiamo documento anche più esplicito. Allorchè nel marzo ’93 Elisabetta venne a Mantova, essa desiderò di "havere in bucintoro el poeta per sua recreatione", onde la Marchesa glielo inviò "aciò cum una lyra sua possi condurre alegramente V.S." (Copialettere d’Isabella, L.III). Quanto Elisabetta lo prediligesse, lo si può ricavare dal fatto, che anche nel 1495 Isabella glielo inviò (Copialett., L. V, 16 ag.) e fors’anco nel 1499, se è lui quel poetino cui il 16 ott. la Duchessa affidava una lettera. Ma dovremo rassegnarci a non conoscerne il nome? Il 1° agosto 1530 da Pesaro dà notizia a Jacopo Calandra di maioliche vedute in Urbino Gio. Francesco alias el Poeta (V. CAMPORI, Notizie della maiolica e della porcellana di Ferrara, ecc., Pesaro, 1879, p. 111). Il 24 settembre 1514, da Urbino Alessandro Picenardi detto del Cardinale, scrive al Marchese: "Et questo lo dissi al poeta mio fratello et bon servitore a V. Ex. et non potendo venir io, lui subito si dispone a venire a Mantua, a visitar quella". Quindi, se una improbabile omonimia non turba la nostra congettura, il poeta suonatore di lira, caro ad Elisabetta, si sarebbe chiamato Gio. Francesco Picenardi.
  32. 15 gennaio ’93. Copialett. d’Isabella, L. III.
  33. FERRATO, . p. 80-81.
  34. Lett. al Marc. 7 marzo ’93. FERRATO, pp.81-82.
  35. Copialett. d’Isabella, L. III; 16 e 20 marzo ’93.
  36. Copialett., L. III.
  37. Il Marchese era a Venezia in marzo e poi di nuovo in aprile, e là si occupava anche degli affari del Duca d’Urbino. Vedi in proposito la lettera d’Elisabetta, 26 aprile, da Mantova, che non è già diretta a lui, come sbadatamente pone il FERRATO nel pubblicarla (Op. cit., pp. 82-83), ma al comun fratello Giovanni.
  38. Di ciò distesamente nelle nostre Relazioni con gli Sforza, pagina 70 e segg.
  39. Copialett., L.III. Questo documento producemmo già nelle citate Relazioni, p. 73m n. 1. Che cosa veramente fosse lo scartino, per cui le due dame avevano singolare predilezione, non sapremmo dire con sicurezza, benchè ci sorrida il pensiero che potesse essere qualcosa di simile all’attuale ècartè. Certo era un giuoco favorito a Mantova in quel tempo. Da Padova, il 20 maggio ’93, la Marchesa ordina a Francesco Bagnacavallo "duo para de carte da scartino" accusa al medesimo ricevuta il 1° dicembre di quell’anno (Copialett., L.IV). Il 7 settembre 1495 il Marchese, dal campo, chiede alla moglie di fargli avere "fino a due para de scartini, a ciò possiamo passare el tempo cum mancho pensero". Il 9 luglio 1509 Tolomeo Spagnoli comunica da Mantova che la Marchesa "sta molto bene e si spassa il caldo dil dì "giocando a scartino". Tali esempi si potrebbero moltiplicare. L’anonimo autore del Diario Ferrarese, parlando di giuochi che costumavano in Ferrara nel dicembre 1499, scrive: "Si usa et costuma di giocare a carte molto, come a falsinelli, a rompha, a risuscitare li morti, a scartare et a mille diavolamenti". (MURATORI, Rerum Ital. Script., XXV, 376). Borso da Correggio, riferendo il 28 agosto ’93 i giuochi cui prendeva parte Beatrice Sforza, dice: "L’esercitio nostro è questo. La matina si cavalca un poco, al dopo disinare, a scartino, a resuscitar morti e imperiale fin a l’hora de dormire". (Relazioni con gli Sforza, p.84). Nel 1495 Ludovico il Moro pregava Ercole d’Este d’inviargli a volta di corriere 12 paia di scartini e due anni dopo si doleva col cardinale Ippolito, che don Alfonso non "li havesse mandato certe carte da scartino ch’el ge haveva promesso". (VENTURI, in Arch. stor. lombardo, XII, 254). A Ferrara infatti ed a Mantova, l’industria delle carte da giuoco dipinte a mano era assai progredita nel secolo XV, e verso la fine di quel secolo e nel successivo a Ferrara facevansi anche molte carte impresse. Cfr. CAMPORI, Le carte da giuoco dipinte per gli Estensi, pp. 11-12. Che lo scartino si giocasse con le carticelle e non coi naibi o trionfi (CAMPORI, op. cit., p.13 e RENIER, Tarocchi di M.M.Boiardo, Modena, 1889, pp.7-8 e 9, n. 1) ci sembra quasi indubitabile. Isabella, del resto, si dilettava anche di giuochi meno innocenti dello scartino, come il flusso. Battista Guarino in certa sua lettera del 2 febbraio 1493 le dice: "Ma la V.S. farà pensiero di avere perso qualche posta a fluxo, over a scartino" (LUZIO, Precettori d’Isabella, Ancona, 1887, p.22). Il 16 novembre 1502, Tolomeo Spagnoli scrive al Marchese: "La ill.ma Ma ha convertito il tempo che la giocava a fluxo in vedere giocare a scacchi, ma lei non giocha mai, il che procede perchè la ne scià molto pocho". In seguito divenne valente anche in quel difficile giuoco, e meritò che il Vida le dedicasse il suo noto poema. Il flusso era giuoco assai rischioso; Stazio Gadio il 31 ottobre 1515 comunicava alla Marchesa che a Milano Lorenzo de’ Medici (poscia duca d’Urbino) giuocando a flusso col re di Francia e con altri "in pochi giorni tirò circha 600 scudi". Il flusso è frequentissime volte nominato nei documenti e nelle opere a stampa del Rinascimento (Vedi Crusca sotto flusso e frussi). Giuoco maladetto lo chiamano i Canti carnascialeschi. Il confonderlo con la primiera, che la Marchesa preferiva nell’età avanzata (ne abbiamo documenti del 1527 e 1538), non è giusto, quantunque vi fosse realmente una figura della primiera chiamata flusso. Vedi su ciò specialmente il Commento al Capitolo sul giuoco della primiera del Berni, in BERNI, Rime, poesie latine lettere, ediz. Virgili, Firenze, 1885, pp. 365 e 393. Ma in quello stesso tanto fortunato Commento il flusso è nominato, col trentuno, come giuoco da donne, diverso dalla primiera (p. 377), sicchè crediamo poterne concludere che oltre alla menzionata figura della primiera, il nome flusso significasse un altro giuoco, affatto distinto. Come appunto distinti indica i due giuochi l’ARETINO nel Ragionamento del gioco (Terza parte dei Ragionamenti, Venezia, 1589, c.91r, 148v e 149r, 161r); come distinti li nomina il RABELAIS, in Gargantua, L.I, cap.22 (flux e prime) ed anche il GARZONI, Piazza universale, Venezia, 1617, c. 244r. A Isabella piaceva anche di giuocare a nichino. Giangiacomo Calandra informava Federico il 16 nov. 1516: "Gli exercitii de S. Ex. (vostra madre) sono le littere a le hore consuete, le solite orationi ed hore, et qualche volta spassa il tempo con gioco con questi S. et gentilhomini, et alle volte a nichino per spasso con questi gentilhomini, ecc". Di questo giuoco non ci riuscì di trovare indizio altrove. Sarebbe forse il giuoco à la nicuqe nocque, che compare nel luogo menzionato del Gargantua? In questo caso sarebbe giuoco di tavoliere.
  40. FERRATO, pp. 83-84. Egli stampa "mi pare esser mossa"!
  41. "M.Tito [Strozzi] se fece grande honore de representatione, apparati et feste", scrive il 10 maggio alla Duchessa (Copialett., L.III). E’ noto come Tito Vespasiano Strozzi, che fu giudicato il miglior poeta latino di Ferrara al suo tempo, fosse in rapporti cordialissimi con gli Estensi, dai quali ottenne segnalati favori. Vedasi ora la diligente biografia che ne scrisse R. ALBRECHT, Tito Vesp. Strozza, Leipzig, 1891. La sposa era Simona degli Uberti, e lo sposo Guido, figlio di Tito Vespasiano. Cfr. LITTA, Famiglie, Strozzi di Firenze, tav. V.
  42. Al marito, 10 maggio: "Dopo disnar fu representata una comedia novamente composta per M. Hercule Strozo, cum certe moresche in mezo, che fu veramente de gran piacer, et ritrovosseli el S. mio patre cum gran populo". (Copialett., L. III). Questa commedia, di cui non s’ha altra notizia, registra anche il D’ANCONA, Origini del teatro, II, 131, n.3, il quale per altro prende equivoco nel credere che fosse rappresentata pel Moro, che allora non era peranco a Ferrara. Tito Strozzi era particolarmente amico (come il suo signore) degli spettacoli scenici, onde un suo congiunto ebbe a dire: "fu ancora splendido e magnifico in fare spettaculi comici nella sua propria abitazione, con apparati e conviti regi, e presente il signor Duca e tutto il populo di Ferrara: per il che si vide quanto fosse liberale". LOR. STROZZI, Vite degli uomini illustri della Casa Strozzi, ediz. P.Stromboli, Firenze, 1892, pp. 59-60.
  43. Per questo viaggio vedi le Relazioni con gli Sforza, pp. 73-77.
  44. 18 maggio ’93. FERRATO, p. 85.
  45. Copialett., L.III; alla Duchessa e al marito, 28 maggio.
  46. Copialett. L.III.
  47. Vedi su di ciò le citate Relazioni con gli Sforza, pp. 85-86.
  48. Atto di nascita: "Die ult. Decembris hora xvj jam pulsata nata est infans femina Elionora, Violantes et Maria nominata, que baptizata fuit ecc. Fuerunt compatres Mag.eus Dom. Paulus Barbus Patricius Venetus capit. Verone pro Ser.mo Domino Venet., Mag.eus Dom. Lud.eus de Fogliano pro D.L.co Sfortia, ecc".
  49. Il 14 febbraio ’94, dando notizia di sè e della bimba alla zia, la Regina d’Ungheria, dice: "Renovarò in lei el nome de la felice memoria de la mia exma matre, quando se baptizarà" (Copialett., L.IV). Il battesimo solenne non aveva ancora avuto luogo. Il 9 gennaio ’94 il Marchese invitava come padrino Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici, il quale rispondeva con questa lettera:
    Illme Dne mi max. hon. - Non potrei exprimere quanta consolatione et piacere habbia presa della nata figliuola ad V. Ill.ma S., nè quanto io me li reputi obligato degnandosi quella per ineffabile sua benignità da servitore assumermi in suo compatre. Alla quale solemnità, se come serìa mio debito et desiderio, non serò presente excusimi appresso V.S. la mala valitudine, che per occasione di scesa calda et sottile con una febbre accidentale continua m’ha distenuto in casa dall’entrata del mese in quà. Della quale benchè per gratia de Dio sia alquanto alleggerito, et ogni segno tenda ad liberatione et bona fine, pure per esser la infermità contratta di verno in questa aria sottile contraria alle scese, mi serà necessario stare in buona guardia bon spatio di giorni. Ma quello che non potrò io penso satisfaccia Gioanni mio unico fratello, al quale scriverò che doppo il votivo cammino di S.M. dell’Oreto ove al presente si ritrova pigli la volta di Mantua. Il che ad epso serà car.mo per far suo debito et per vedere le vostre regione; nè io potrei substituire vicario più ad me adherente, nè ad V.S. più caro et accepto. Ringrazio summamente V.S. dello avviso et della assumptione, pregando N.S. Dio ve ne conceda de maschij, et della presente figliuola vi doni quella contentezza che la S.V. desidera. Così la supplico si degni raccomandarmi et offerire alla Illma sua consorte mia hon.da madonna et comatre. Del ritratto al naturale della città di Parigi se è con ogni diligentia investigato, nè si truova in Fiorenza chi lo habbia; di che per amore di V.S. mi dispiace assai. Agnolo del Tovaglia vostro servitore ha tolto carico scriverne al suo cugnato, et io ancora per questa causa ad altri amici mei ne scriverò me lo mandino per il primo corrieri, et ad V.S. subito che lo haremo se invierà. Alla quale m’offero parat.mo se in altra cosa posso compiacerli, quam Deus ex sententia fortunare dignetur. Flor. die XVI jan. 1498 (st. fiorent.; st. com. 1494). E.V.D. Sr Laurentius de Medicis.
    Le ragioni politiche per cui in quell’anno il Gonzaga stimò opportuno rivolgersi a quei Medici nemici a Piero s’intendono facilmente (vedi LITTA, Famiglie, Medici, tav. XII, e CAPPONI, Storia della Repubblica di Firenze, III, 4 e 39). Giovanni de’ Medici (il futuro padre di Giovanni da le Bande Nere), delegato dal fratello, veniva a Mantova alla fine di febbraio (Vedi lettera di Lorenzo 23 febbraio ’94). Il 2 marzo Isabella comunicava al marito: "El mag.co Johanne di Medici è venuto questa mattina quà a disnar: l’ho facto allogiare in corte et .... dopo disnare è venuto a visitarme, io l’ho acarezato et factoli vedere la camera et Triumphi .... et anche la nostra puttina" (Copialett. L:IV.). I Trionfi sono naturalmente quelli del Mantegna. Quanto al "ritratto al naturale della città di Parigi", nominato nella lettera di Lorenzo, sarà agevole vedervi uno di quei disegni topografici, di cui i Gonzaga amavano tanto ornare le pareti dei loro palazzi (cfr. LUZIO, in Archivio storico dell’arte, I, 276 e segg.). Per avere il disegno di Parigi nel 1497 il Marchese si rivolse a Giovanni Bellini (LUZIO, ibid., p.277). Anche Isabella, molto più tardi (nel 1523) desiderava disegni di Costantinopoli e del Cairo. BERTOLOTTI, Architett., ingegn. e matemat. in relaz. coi Gonzaga, Genova, 1889, p. 28; estratto dal Giornale Linguistico.
  50. Vedi nel lib. IV del copialettere d’Isabella le lettere alla sorella ed al padre, 1 e 2 gennaio ’94. Nella prima dice "L’haverà inteso como ho parturito una putta, la quale insieme cum mi sta bene, avenga che la non sia stata secondo el mio desiderio. Pur doppo cussì è piaciuto a Dio l’haverò cara". Maggiore fu il suo dispiacere allorchè il 13 luglio 1496 partorì una seconda femmina, nella quale rinnovò il nome della madre del marito, Margherita (v. copialettere, lib.VI). Il Marchese quella volta mostrò prendersela con più spirito della moglie, poichè rallegrandosi il 29 luglio del parto felice, aggiungeva: "Nè accade che per essere stata femmina noi nè altri ne restino freddi, però che se mai patre si chiamò contento di figlia, noi se chiamiamo et di questa et de l’altra, sperando che N.S. Dio, como ne ha concesso de le femine, ne darà ancora de li maschi, et noi siamo ben acti a posserne fare". La piccola Margherita, ciò nonostante, pensò meglio di volarsene al cielo la notte che precedette il 23 settembre, ond’è che i genealogisti ignorarono affatto la sua esistenza. Il buon Capilupo la lodava molto, e il 21 luglio, scrivendo al Marchese, dicevagli: "questa putina ... è nasciuta più bella che non fece la illma Ma Eleonora et ha qualche similitudine di V.Ex.". Leonora cominciava già ad invidiarla e sfoggiava, con compiacenza dei circostanti, il suo spirito infantile.
  51. Il 2 febbraio 1494 la Marchesa rimanda a Ferrara una pietra de Aquila e scrivendo al Prosperi dice che sebbene quella pietra la si vanti "molto a proposito a facilitare il parto", non ha punto mostrato per lei "la virtù sua", perchè "nui senza grandissima difficultà non se ne scaricassimo". (Copialett., lib.IV.). Ciònonpertanto non intepidì la fede di Isabella in quel genere di pietre, dacchè sul principio della seconda gravidanza (19 dic. ’95) partecipava al marito: "De le due petre de l’Aquila che ho, una ne porto de continuo adosso, l’altra mando a la Ex. V. secundo che me la recercha". La credenza superstiziosa nei vantaggi, per le partorienti, della cosidetta pietra aquilina o etite vive ancor oggi tra i nostri volghi. Quel curioso amuleto suole essere una pietra vuota di dentro, che ne contiene un’altra. Cfr. C. PIGORINI-BERI, Costumi e superstizioni dell'Appennino Marchigiano, Città di Castello, 1889, p. 268-70. Tale credenza trovasi pure oggi nel Veneto ed in Sicilia e fu dottrina medica nei secoli scorsi, come ci scrive il dotto quanto gentile dottore G. Pitrè. Cfr. F. MARZOLO, I pregiudizi in medicina, Milano, 1879, p. 25: "L’etite, o pietra dell’aquila, ha virtù di facilitare il parto e d’impedire l’aborto, a seconda che si applica alla parte inferiore o superiore del corpo".
  52. Vedi Diario ferrarese, in R.I.S., XXIV, 287. Nel dicembre ’93 era andato a prenderla Guidubaldo.
  53. Questa lettera è del 2 gennaio (copialettere). Il puerperio era stato felicissimo e la Marchesa girava già nel palazzo. Uscì per recarsi alla messa il 27 gennaio. "El doppo disnare sentendosi bene et desiderosa pigliare de l’aiere, montò a cavallo et andò fin sul Te a solazo, et doppo voltezando un pocho per la terra, che fu de gran recreatione ad tutto el populo, se ne tornò de bona voglia al castello. Domane matina vole andare a Sta Maria de gratia ad desfare un suo voto". Così Beatrice de’ Contrari al Marchese.
  54. D’ANCONA, Origini, II, 365.
  55. Sono brani di lettere, che Sigismondo Golfo scrisse da Urbino il 22 e il 23 gennaio ’94.
  56. Del voto e del viaggio toccammo brevemente anche nelle Relazioni con gli Sforza, pp. 94-95.
  57. Lettera da Ravenna al marito, 19 marzo, nel copialettere lib. IV.
  58. Lettera 30 marzo da Gubbio al marito, nel cit. copialettere. Da queste lettere interessantissime non facciamo che spigolare qualche notizia. Più diffusamente ce ne occuperemo, se un giorno ci verrà fatto di scrivere uno speciale lavoro sui viaggi d’Isabella.
  59. Delle dilazioni a cui cortesemente la forzavano i Duchi è parola nella seguente letterina autografa al Marchese:
    Illmo Sr mio, Non bisognava che la S.V. facesse scusa cum de me de non me respondere de sua mano per esser ocupato col S. Don Alfonso, perchè a me basta che la me faci scrivere per un canzeliero, non desiderando io altro che de intendere el suo ben stare, del quale ogni hora voria sentire; e confesso che se la commetterà che spesso ne sia avisata che la non me poteria fare maggiore gracia. Io non mi posso partire questa settimana de qui, per non me volere dare licentia el S.D. e Madona D. quali me fanno tanto honore che più non se poteria dire, como meglio per altre mie intenderà. A la S.V. me recomando, e pregola me aricomandi a m. Zuan Maria. In Urbino adì XVI de avrille.
    Quella che l’ama quanto se stessa
    ISABELLA, mano pp.
    La prima lettera autografa, in quel viaggio, la scrisse il 1° aprile da Gubbio, firmando Quella desidera vedere la S.V. Isabella da Este mano pp. Anche quella breve letterina della ventenne gentildonna è affettuosissima. Francesco pure teneva informata la moglie de’ fatti suoi e della bimba, cui prodigava le sue tenerezze paterne. In una lettera originale del 31 marzo dice: "Heri andassimo a la camera de la nostra figliolina, et hebimo piacere vederla alegra et sana, facendola vestire in presentia nostra de li suoi vestimenti de damasco biancho, secundo l’ordine vostro, che gli stavano tanto ben del mondo et lei ne faceva gran festa. Questa matina di novo la siamo andata ad vedere et trovandola dormire non l’havemo voluta descidare". (voce dialettale mantovana: svegliare). Di ciò anche Silvestro Calandra il giorno stesso, e aggiunge che il Marchese è andato a prendere Alfonso d’Este, per condurlo "a solatio a falchoni". Ecco le ragioni per cui Francesco non poteva scrivere di sua mano. Per la tenerezza paterna del Marchese è anche notevolissimo certo suo biglietto, con cui accompagnava alla piccola Leonora, l’8 agosto 1498, il dono d’una lepre: "Questa matina essendo montato ad cavallo a piacere ed imbatendomi in una lepora, l’havemo presa cum li nostri cani. Dove, aciochè tu participi de la nostra caza, te mandamo per il presente corero la dicta lepora, ad fin che te la godi, per amore nostro". Cfr. PELISIER, La politique du marquis de Mantove, La Puy, 1892, p.4, n. Violante de’ Preti poi, informava giornalmente Isabella della salute e dei vezzi della piccola Leonora, nonchè della nutrice di lei e delle feste che alla bambina venivano fatte. Più tardi, il 16 luglio, il povero Teofilo Collenuccio figlio di Pandolfo, che doveva lasciar la vita a Fornovo, vantava pure la gran leggiadria di quella fanciulletta, e diceva scherzosamente d’insegnarle a ballare la mazzarocca ed il matterello. Vedasi Giorn. stor. d. lett. it., XI, 304.
  60. Sempre lib. IV del copialettere.
  61. Vedi nel copialettere la lettera 30 aprile ’94 da Bologna. Isabella era allora stretta da doppia parentela ai Bentivoglio. Annibale Bentivoglio aveva preso in moglie Lucrezia, figlia naturale d’Ercole I d’Este e Giovanni Gonzaga era marito a Laura Bentivoglio.
  62. Di Bernardino Ubaldini della Carda, conte di Mercatello e di Aura Montefeltro, figlia naturale di Guidantonio, nacque Ottaviano, che fu in istrettissimi rapporti d’amicizia col grande Federico. Narra Vespasiano da Bisticci che il solo Ottaviano aveva, con Guidubaldo, il permesso di accedere alle stanze ove dimoravano le figliuole di Federico (Vite, ediz. Bartoli, p. 103). Essendo il Duca figliuolo illegittimo, si suppose ch’egli nascesse realmente Ubaldini, fratello carnale quindi ad Ottaviano, e che Guidantonio, non avendo prole maschia, lo adottasse. Che quest’opinione si accreditasse, cercò in ogni guisa Ottaviano, e infatti autorevoli testimoni sincroni, come VESPASIANO (Vite, pag. 110) e Giovanni Santi (Cfr. SCHMARSOW, in Vierteljahrschr. cit., II, 176), lo dicono fratello di Federico. I più autorevoli storici urbinati non lo credono. Intorno alla grave questione si veda la memoria speciale di A.M. ZUCCHI-TRAVAGLI, Della nascita di Federico duca d’Urbino, in COLUCCI, Antich. Picene, XXI, 91-147, e UBALDINI, Storia, I, 212-222.
  63. Vedi nel volume citato del COLUCCI le pp. 142-148. Specialmente aspro contro Ottaviano è l’UGOLINI, II, 43-44. Il BALDI (Guidobaldo, I, 21-23) che pur ne sospetta, non tace che nelle accuse lanciate contro di lui può aver avuto parte anche "l’invidiosa e puerile malignità delle corti". Cfr. MARCOLINI, Op. cit., pp. 190-92.
  64. Lo attestano gli storici tutti. E a questo proposito un altro fatto va richiamato. E’ noto come nella biblioteca di Urbino Melozzo rappresentasse rappresentasse le sette arti liberali, che tanto v’erano coltivate. Quattro soli di quei dipinti sono giunti sino a noi; due ora si trovano nella Galleria Nazionale di Londra, e due nel museo di Berlino. Lo Schmarsow dà riprodotti in fotografia i quattro dipinti. Quelli di Berlino rappresentano la Dialettica e l’Astrologia: innanzi alla prima sta inginocchiato lo stesso Federico, innanzi alla seconda sta un uomo barbuto dal profilo energico, secondo lo SCHMARSOW (Melozzo, p.87) congettura essere Ottaviano Ubaldini. Accoglie quest’opinione plausibile W. BODE nell’ottimo Verzeichniss der Gemülde des K. Mus. zu Berlin, Berlin, 1891, p.175, ove parla con l’usata esattezza scrupolosa dei dipinti urbinati. Anche Federico Montefeltro amò l’astrologia, ma molto più la reale, che la giudiziaria. Cfr. BALDI, Federico, III, 270.
  65. Vedemmo come di questa voce si facesse interprete il Bembo. Lo seguirono gli altri sino al BALDI, Guidobaldo, I, 103-4. I moderni naturalmente non ci credettero, ma ne trassero argomento per indurre la cattiva reputazione morale di cui Ottaviano godeva. Vedi UGOLINI, II, 63.
  66. Sui giudizi astrologici così bene sfruttati poi dall’Aretino, vedi LUZIO, Pietro Aretino ne' primi suoi anni a Venezia, Torino, 1888, p. 5. Quantunque i veri centri dell’astrologia fossero a Bologna, Padova e Milano, anche i signori di Mantova non mancarono di appassionarvisi. Vedi F.GABOTTO, Bartol. Manfredi e l’astrologia alla corte di Mantova, Torino, 1891. Noi pubblicammo altrove (Relaz. con gli Sforza, p. 138) un brano di lettera di B. Capilupo alla Marchesa, d’onde si deduce (seppure il Capilupo era bene informato) che essa apprendesse dal Moro certe superstizioni astrologiche, come quelle relative alla combustione della luna. Ma s’ingannerebbe chi credesse che soltanto da allora Isabella prestasse fede all’astrolgia. Lo smentiscono i documenti del 1494, che stiamo per addurre. E già prima, nel gennaio ’94, sappiamo che ad Isabella mandavansi da Ferrara i giudizi del famoso Pietro Bono Avogario (LUZIO, op. e l. cit., n.3), il più notevole astrologo degli Estensi nel sec. XV, che godeva fama per tutta l’Italia. Copiose notizie su di lui in GABOTTO, Nuove ricerche e docum. sull’astrologia alla Corte degli Estensi e degli Sforza, Torino, 1891, p. 25-28; cfr. anche p.18.
  67. I giudizi personali riguardavano quasi sempre abitudini da lasciare o pericoli da schivare, e s’intende come il farli non dovesse costare grande fatica. Così p. es. Antonio da Camera, che dimorò anche in Mantova parecchio tempo, scrivendo un giudizio a Francesco Sforza, gli raccomanda il 27 febbraio 1452 di guardarsi specialmente dal veleno (p.10), e più specificatamente il 14 giugno 1457 «maxime per mano di femmina». Documen. milanesi pubblicati dal GABOTTO, Nuove ricerche, p. 10 e 12.
  68. Maestro Jacomo era d’umore balzano; e l’Ubaldini, scusandosi con Isabella se il giudizio tardava troppo, dice che «havendo a far cum simili cervelli quale el suo bisogna aver patientia...» Avrebbe potuto ordinare il giudizio a un altro astrologo, Mre Paolo, «ma per essere impedito in questa permutazione de soi benefitij et asumptione sua a lo Episcopato de Fossombrone non li haveria possuto attendere per niente». Questo astrologo era indubbiamente Paolo di Middelburgo, olandese che avendo dovuto fuggire dalla sua patria, riparò prima in Padova, ove insegnò nello studio, quindi in Urbino. Quivi fu protetto da Federico e da Guidubaldo, ed essendo egli ecclesiastico fu nominato abate di Castel Durante (Urbania) e poi il 30 luglio 14949 vescovo di Fossombrone. Presiedette al Concilio Laterano (1512-1518) e morì nel 1533. Di lui Bern. Baldi scrisse una biografia tuttora inedita, che si legge in un codice della bibl. Boncompagni in Roma. Copiose notizie diede del nostro vescovo e astrologo G. UZIELLI, Paolo Dal Pozzo Toscanelli iniziatore della scoperta d'America, Firenze, 1892, pp. 108 segg. Riferisce l’Uzielli che il Paciolo, dedicando nel 1494 a Guidubaldo la sua Summa di arithmetica, scrive a proposito dell’astrologia: «De la quale el principe oggi fra mortali è il Sr Ottaviano vostro barba, insieme con il Rev. Vescovo foro-sumproniese Paolo de Mildeburgo» (p.112)
  69. Indizi posteriori delle credenze astrologiche della Marchesa non mancano, ma tutto induce a credere che essa vi si lasciasse andare più per abitudine che per vera e salda convinzione. Jacopo d’Atri scrive al Marchese il 24 novembre 1497 che Isabella aspetta di sbrigare una pratica, perchè «domane alle 13 hore è la coniunctione sive combustione de la luna». Il 2 nov. ’99 da Ferrara le mandava un giudizio Stefano della Pigna, nel quale, tra l’altro, si pronosticava la nascita, per l’anno dopo, d’un maschio ... e infatti nacque Federico. Per altre relazioni astrologiche del Pigna col Marchese, vedi GABOTTO, B. Manfredi, pp. 36-38, il quale produce anche altri documenti astrologici mantovani posteriori a quel tempo. Persino quando morì alla Marchesa, con suo gran dolore, la cagnolina Aura, ed ella le ordinò una «bella sepoltura», volle «metere di sua mano la prima pietra a XX hore per calculo astrologico!» Lettera di G.I. Calandra a Federico del 30 agosto 1511.
  70. Lettera 16 luglio ’95 pubblicata da noi nell’articolo Francesco Gonzaga alla battaglia di Fornovo, Firenze, 1890, pp. 21-22; estratto dell'Archivio storico italiano.
  71. Solamente la firma è autografa. Un altro musicista (nativo di Urbino questo) trovavasi allora presso i Gonzaga: il cappellano Bernardino d’Urbino, che non aveva tante virtù come Adriano, era solo prete e cantore. Il 6 ottobre 1495 lo troviamo fra i cantori che vanno a dar piacere al Re di Francia, il quale si fa descrivere da lui li lineamenti d’Isabella (Cfr. nostre Relaz. con gli Sforza, pp. 115-16). Pare che anche s’intendesse di contrappunto e componesse, o almeno riducesse, della musica. Lo si ricava da quanto modestamente egli scriveva da Gonzaga il 24 maggio ’94 alla Marchesa: «Ho inteso per m. Zohanfrancesco quanto ha desiderio la S.V. havere canti novi, e esso Pallazo me domandò uno strambotino de Marchetto, facto poci di a Mantua. Benchè a noi non para troppo solenne, como sia el mando volontiera a la Ex.V. e insieme con quello una calata che se canta forte asai a Roma, e anchora noi l’inpiastramo un pocho; perchè so che la S.V. la farà parere bona, la mando, benchè io l’abia tolta e notata per udirla dire, e poi li ho gionto quelle consonante; ma el contralto l’à facto uno che havemo qui». Che sia da identificarsi col Bernardino musico, a contemplazione del quale il Bellincioni compose una barzelletta (Rime, ed. Fanfani, II, 205), può darsi, ma non osiamo asserire. Egli non è da confondersi col Bernardino Piffero, alla cui fama certo giovò, molto più che il merito suo, l’aver dato la luce ad un musicista celebre, il Tromboncino. Vedi CANAL, Musica in Mantova, Venezia, 1881, p. 12. L’ultimo giorno del 1495 il duca Guidubaldo raccomanda ai Gonzaga Mr Pietro Spagnolo, «actegiatore del figliolo del Re di Spagna»
  72. Il 20 febbraio era a Ferrara, come attesta il Diario ferrarese, in R.I.S., XXIV, 321.
  73. Vedi il nostro articolo Buffoni, nani e schiavi dei Gonzaga ai tempi d’Isabella d’Este, Roma, 1891, p. 24; estratto dalla Nuova Antologia. Ivi si troveranno copiose notizie di entrambi quei buffoni.
  74. Chiara era la maggiore tra le figlie di Federico Gonzaga, nata, come notammo, nel 1464. Nel gennaio 1481 andò sposa a Gilberto di Borbone, duca di Montpensier, e nel corteggio che la accompagnava in Francia erano il conte Cristoforo e Luisa Castiglione, i genitori di Baldassarre (A. BEFFA NEGRINI, Elogi historici di alcuni personaggi della famiglia Castigliona, Mantova, 1606, p. 350). Intorno alle bizzarre pratiche astrologiche osservate per quel matrimonio, vedasi una lettera dell’astrologo Giovanni de’ Cattani, pubblicata da F. GABOTTO, B. Manfredi, pp. 31-32. Da quel connubio nacquero sei figli, tre maschi e tre femmine, di cui il più famoso è Carlo, connestabile di Borbone (MAS LATRIE, Trèsor de chronologie, Paris, 1889, col. 1647). Pei rapporti di Chiara col fratello Marchese vedansi le lettere pubblicate dal FERRATO nelle cit. Lett. ined. di donne mantovane. Per la simpatia che la legava ad Isabella vedi le nostre Relaz. con gli Sforza, p. 132, n. 2. Nella lettera di Chiara ivi menzionata (Lione, 13 maggio ’97) la Montpensier si firma «Quella che non piglia spiacer de vedire niente poy che priva sono di vedire V.S.».
  75. E’ noto come le garbatezze che il Marchese usò a Gilberto, quando egli infermò, fossero uno dei capi d’accusa per cui cadde in disgrazia dei Veneziani (vedi Relaz. con gli Sforza, p. 132). Gilberto morì a Pozzuoli nel ’96. Due anni dopo, il medico di Chiara pensò di rimaritarla col Moro, rimasto vedovo anch’esso e che aveva gran deferenza per lei (cfr. PÉLISSIER, Les amies de Lud. Sforza, Paris, 1891, pp. 13-15; estr. dalla Revue historique). Chiara spirò il 2 giugno 1503. Vedi nel L.XVI del copialettere d’Isabella la lett. 12 giugno di condoglianza al Marchese. Il 17 giugno Elisabetta si lamentava da Venezia che la fortuna, non sazia d’averle tolto lo Stato, «me habbi incomenzato a privar del sangue mio e de tanta sorella, la quale la haveva in loco de madre» (autografa).
  76. Cresceva piena di vezzi, ed il Marchese lontano l’aveva sempre nel cuore. Il 18 ottobre Antimaco gli scriveva: «Mna Leonora ... se racomanda a la Celsne. V. che li voglia far havere una bella putina vestita de seta da potersela tener apresso in lecto, perchè quella che l’ha adesso è tutta strazolenta». La graziosa letterina che Isabella finse scritta nel 1495 al babbo dalla filia adhuc lactans fu da noi riferita nel citato articolo su Francesco Gonzaga a Fornovo, p. 43.
  77. Relaz. con gli Sforza, pp. 119-120. Ne toccammo anche poc’anzi. Notìficoli, scrive il 25 luglio al Marchese il Capilupo, como la parturitte ne la camera sua, dove parturitte anche l’altra volta, et fu la cosa tanto presta, che poche donne gli potero intervenire... La non ha voluto fare metter fora la cuna bella nè alcuno de li altri apparamenti, per reservarli, credo, ad uno maschio.
  78. Relaz. con gli Sforza, p. 120.
  79. Lett. 6 ott. ’96, nel L. VI del copialettere.
  80. Lettere di accettazione di Guidubaldo e di Elisabetta del 17 aprile e 19 maggio 1496.
  81. Vescovo di Bayeux e di Tricarico, nuncio papale in Francia, conservò amicizia costante pel Castiglione, come risulta dall’epistolario di quest’ultimo. Vedi specialmente G. ORTI-MANARA, Intorno alla vita e alle gesta del conte Ludovico Canossa, Verona, 1846. Cfr. anche RENIER, Notizia di lett. ined. del conte Bald. Castiglione, Torino, 1889, per nozze Solerti-Saggini, p. 17. Noi abbiamo una curiosa lettera del Canossa a Isabella, in data di Roma, 7 giugno 1505, che pubblicheremo altrove, nella quale egli, considerando che in Roma v’è più dovizia di cose antiche che di moderne, esorta la Marchesa a fare il viaggio, e così dei baratti utili potrà arricchire la sua grotta ed il suo camerino. «Forsi non seri male», le dice argutamente, «che de signora deveniste mercante».
  82. Data, Urbino 19 nov. ’96. Emilia Pia è troppo celebre perchè sia necessario parlarne qui lungamente. Figliuola di Marco Pio di Carpi, sorella di Gilberto III, cugina di Alberto Pio, zia di Veronica Gambara; educata da Giovanni Della Porta; sposata nel 1487 ad Antonio Montefeltro, figliuolo spurio del grande Federico, il quale la lasciò vedova nel 1500; castissima, come vanta la sua medaglia molte volte riprodotta; dotta, gentile, elegante, come attestano le sue numerose amicizie, tra cui specialmente onorevoli quelle del Bembo e del Castiglione, che non rifinirono di lodarla in versi ed in prosa; sorella del cuore ad Elisabetta, che la portava seco dovunque, e quindi a buon diritto locotenente di essa a presiedere le conversazioni del Cortegiano, madonna Emilia è certamente tra le più amabili e onorate dame del nostro Rinascimento.
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