Questo testo è completo, ma ancora da rileggere.
Traduzione dall'inglese di Federico Garrone (1896)
1844-1849
Questo testo fa parte della raccolta Edgar Allan Pöe




MARGINALIA




I «Marginalia» sono note, pensieri, impressioni abbozzati e buttati giù in quella forma compendiosa e semplice che Goëthe prediligeva, e sono, per la maggior parte, scritti critici e filosofici.

Abbiamo scelti i 45 che seguono, fra i molti, ritenendoli i più originali ed i più interessanti pel lettore italiano.

Dei «Marginalia» null’altro diciamo, e per una ragione, che la prefazione l’ha fatta lo stesso Pöe.

In essi è tutta la sua anima d’artista.



Marginalia




Comprando i miei libri, io cerco sempre di sceglierli con larghi margini, non già che ciò m’importi per la cosa in sè stessa, ma perchè vi trovo il vantaggio di poter così scribacchiarvi su i pensieri che la lettura mi suggerisce, la mia adesione od il mio dissentimento a quanto dice l’autore, od anche dei semplici commenti critici.

Quando le mie annotazioni sono troppo lunghe per contenersi nello spazio di un margine io le affido ad un foglio di carta che insinuo fra le pagine, e fisso con gomma.

Può darsi che sia una mania, ma io ci piglio gusto, ed il piacere, checchè ne dica il sig. Mill associato al sig. Buntham, costituisce sempre una specie di profitto.

Le note marginali non sono memoriali e non ne hanno i difetti. «Quello che io metto sulla carta, dice Bernardino di S.t Pierre, io lo tolgo dalla mia mente, e per conseguenza lo scordo.»

Osservazione perfettamente giusta. Per sbarazzarsi di un ricordo, non v’ha di meglio che immobilizzarlo scrivendolo. E quindi le note marginali, messe giù non per memoria, differiscono dagli appunti commemorativi per la natura e per lo scopo; anzi non hanno scopo di sorta. Ed è ciò che dà loro valore.

Esse valgono sempre un po’ più che i commentari accidentali e passeggeri, più che i pettegolezzi letterari. Questi alle volte non sono che parole dette così... per parlare; mentre che le note marginali si scrivono perchè si sente il bisogno di alleggerirsi il cervello di un’idea che, forse impertinente, forse triviale, forse ingenua, non è però meno un’idea, e non una di quelle concezioni embrionali, che aspettano per manifestarsi una speciale circostanza favorevole.

Oltre ciò nelle note marginali noi parliamo a noi stessi, e, quindi, arditamente, francamente, con originalità, con abbandono, senza pregiudizi, alla maniera di Geremia, di Taylor, di Thomas Browne, di sir William Temple, di Burton l’anatomista, di Buttler il logico, e di tanti altri del buon tempo passato, troppo preoccupati del loro soggetto per pensare allo stile, il quale poi, messo così fuori di causa, diventa uno stile ammirevole, uno stile a modello di una semplicità e snellezza assolutamente marginale.

La scarsità dello spazio è tutt’altro che un inconveniente. Noi siamo per questo obbligati, per quanto esteso sia il nostro concepimento, a rivaleggiare in concisione con Montesquieu, con Tacito (eccettuo l’ultima parte dei suoi annali) ed anche con Carlyle.

In un pomeriggio piovoso, poco tempo fa, sentendomi troppo distratto per mettermi ad un lavoro serio, cercai di togliermi la noia di dosso prendendo, a caso, qualche volume nella mia biblioteca, non molto considerevole, a dir vero, ma abbastanza scelta e svariata. Forse avevo un po’ la testa a rovescio, ma la pittoresca apparenza dei miei scarabocchi attrasse la mia attenzione. Quei commenti, così, in fila disordinata, mi piacquero. Giunsi persino a desiderare che altra mano che la mia avesse così sconciati i miei libri pel piacere di scorrerne le annotazioni. Da ciò ad immaginare che potessero avere un qualche interesse anche per altri non v’era gran strada. La transizione è così naturale, che anche i sigg. Lyell, Murchison e Featherstonehaugh l’avrebbero ammessa.

La grande difficoltà consisteva nello scindere le note dal libro, il contesto dal testo, senza nuocere alla loro chiarezza. Anche colle pagine stampate sotto gli occhi, le mie annotazioni sembravano gli oracoli di Dodona, o quelli del Lionfronte Tenebroso, o, meglio, agli esercizi dello scolaro di Quintiliano, i quali erano necessariamente sublimi, se il maestro stesso non riusciva a comprenderli.

Io ho grande fiducia nella intelligenza e nella immaginazione dei miei lettori; ma tuttavia, in certi casi, nei quali la fede istessa non riuscirebbe a far muovere la montagna, ho creduto bene di rifare la nota per modo che essa conservasse almeno l’ombra del senso originale, e quando il testo commentato era assolutamente necessario, lo citai; quando il titolo del libro esaminato era indispensabile, lo diedi. Insomma, come un eroe da romanzo in imbarazzo, risolvetti di lasciarmi guidare dagli avvenimenti.

Quanto alle varie opinioni espresse nello zibaldone che segue; quanto al dire se tutto ancora mi va, o se oggi una parte mi spiaccia, quanto alla possibilità che io abbia, sino ad un certo punto, cambiato parere, ed alla impossibilità che io ne abbia cambiati parecchi; su ciò, dico, mi tacerò, imperocchè su certi argomenti la prudenza non è mai troppa.

Sarà però bene avere presente che un calembourg non è buono se non è spaventevole, e che il senso essenziale della nota marginale è il non senso.


Edgar Allan Pöe.



I.

Calunniare un grand’uomo è, pei mediocri, il mezzo più sollecito per arrivare essi stessi alla grandezza. È probabile che lo scorpione non sarebbe mai diventato una costellazione senza il suo coraggio di mordere Ercole al tallone.

II.

I giornalisti mi sembrano costituiti come gli Dei del Valhalla, che si facevano in pezzi ogni giorno, e che tutte le mattine si alzavano in perfetta salute.

III.

Certamente si troverà questa associazione di idee molto singolare; ma io non ho mai potuto assistere alla rappresentazione di un’opera italiana, a questo va e vieni di gente che gesticola e canta, senza immaginarmi di essere ad Atene, e di sentire quella tragedia di Sofocle, nella quale l’autore mette un coro di polli d’India a piangere la morte di Meleagro.

A questo proposito osservo che non vi è un’oca al mondo, che, in fatto di furberia, non si crederebbe offesa d’essere paragonata ad un pollo d’India.

IV.

Non è per nulla irragionevole che, in un’esistenza futura, noi non possiamo considerare questa vita come un sogno.

V.

Se dovessi definire brevemente la parola Arte, io la direi la riproduzione di quello che i sensi scorgono nella natura, a traverso il velo dell’anima.

L’imitazione della natura, per quanto esattissima, non permette a nessuno di prendere il sacro nome di artista...

I grappoli di Zeusi nulla avevano d’artistico, se non a volo d’uccello, e la stessa tenda di Parrasio non giungeva a nascondere quanto mancava di genio a questo pittore.

VI.

Quegli non è realmente coraggioso, il quale teme di parere, o d’essere (quando gli convenga) un vile.

VII.

X.... preferisce essere maltrattato dai critici all’essere dimenticato. Non lo si potrebbe quindi biasimare se ringhia all’occasione, come potrebbe fare un cane che si bombardasse d’ossa.

VIII.

Quando Luciano descriveva la sua statua «Una superficie di marmo pentelico pieno all’interno di sordidi cenci», doveva avere una vista profetica delle nostre grandi istituzioni finanziarie.

IX.

Una causa produce certamente un effetto. Ma, in morale, è altrettanto vero che il ripetersi di effetti tende a produrre una causa!

Questo è il principio di quello che tanto vagamente diciamo un’abitudine.

X.

La perfetta armonia di un’opera di immaginazione, è un torto agli occhi degli sciocchi, perchè dà loro l’illusione della facilità.

Essi (gli sciocchi) arrivano a chiedersi come mai le combinazioni loro presentate non siano state tentate prima.

XI.

Vi sono due modi plausibili per spiegare l’etimologia dell’aggettivo «piangente» applicato al salice.

1º Che ciò proviene dalla disposizione dei lunghi rami pendenti che dànno l’idea di acqua cadente goccia a goccia; 2º basando l’espressione sopra una verità della storia naturale, poichè il salice esala insensibilmente un considerevole vapore che si condensa al freddo, e precipita qualche volta in una fine pioggerella.

Ebbene, riescirà facile il determinare molto esattamente la tendenza di uno spirito, il grado del senso della causalità che egli possiede, osservando quale di queste due derivazioni adotterà.

La prima senza dubbio è la vera, poichè gli epiteti comuni, volgari, provengono dai fenomeni comuni, notati da tutti, senza preoccupazione della esattezza dell’osservazione.

Ma nove filologi su dieci s’attaccheranno invece alla seconda spiegazione unicamente per la sua originalità e per la singolare precisione con cui il fatto sembra adattarsi alla parola.

XII.

Paulus Iovius, il quale viveva in quegli oscuri tempi, in cui le penne a punta di diamante erano sconosciute, giudicava bene quando, credendo di fare della rettorica, diceva del suo Stilus che era aliquando ferreus, aliquando aureus.

Fra gli autori moderni, i quali per scrivere, non si servono che di penne d’acciaio o d’oro, ve ne saranno certamente che, per la posterità, daranno a queste il nome di penne d’oca, e, poveretti, crederanno anch’essi di fare della retorica.

XIII.

Un francese, che potrebbe anche essere Montaigne, ha scritto: Io non penso mai, se non quando mi siedo per scrivere.

E appunto questo del non pensare se non quando ci si siede per scrivere il motivo del grande numero di opere mediocri che ci affligge. Forse la citazione contiene più di quanto non sembri a prima vista. Certo, l’atto di scrivere, tende per sè stesso a logicizzare il pensiero; quando io non sono soddisfatto di un concepimento del mio cervello ritenendolo vago, ricorro subito alla penna allo scopo di ottenere, col suo aiuto, la forma, il seguito, la precisione di cui abbisogno.

Quante volte non sentiamo dire che il tale od il tal’altro pensiero è inesprimibile. Io non credo che un pensiero, propriamente detto, non possa essere reso col linguaggio. Credo piuttosto che quando si prova difficoltà a rappresentarlo con parole, vi sia, nell’intelligenza, un difetto o di deliberazione o di metodo. Quanto a me non ho mai avuto un’idea che io non abbia potuto mettere in parole, ed anzi la esprimo con maggior precisione di quella con cui l’avevo concepita.

Come ho detto, il pensiero diviene più logico per lo sforzo necessario a riprodurlo scritto. Tuttavia vi sono certe fantasie di una squisita delicatezza che non sono idee, e per le quali sinora non ho potuto trovare un linguaggio. Adopro la parola «fantasie» così, a caso, semplicemente perchè debbo pure usare una qualche designazione. Ma il senso che comunemente si dà a questo vocabolo, non è applicabile neppure approssimativamente all’ombre di cui voglio parlare.

Esse mi sembrano più psichiche che intellettuali. Esse si elevano dall’anima, — ahimè! quanto raramente — nei momenti di tranquillità assoluta, quando la salute del corpo e dello spirito è perfetta; e solamente in quell’istante in cui i confini del mondo reale si confondono con quelli del sogno.

Io non ho coscienza di queste fantasie se non quando sono per addormentarmi, e quando sento di essere in quel punto. Mi sono convinto che una tale condizione di tempo non esiste che durante un attimo inapprezzabile, e tuttavia queste ombre sono innumerevoli.

Non sono dunque pensieri poichè al pensiero è necessaria la durata.

Queste fantasie dànno un’estasi voluttuosa, così lontane dalle più voluttuose del mondo reale o di quello dei sogni, quanto il Cielo, nella teologia degli antichi Normanni, era lontano dall’Inferno.

Tali visioni contemplo con un terrore che affievolisce e tranquillizza l’estasi. Le contemplo così per la convinzione (che sembra far parte dell’estasi stessa) che esse sono di una natura oltrepassante la natura umana; che esse sono uno sguardo nel mondo degli spiriti ed arrivo a questa conclusione (se è possibile usare una tale parola) per una intuizione istantanea, riconoscendo nelle sensazioni che provo un carattere d’assoluta stranezza. Dico assoluta, imperocchè in quelle impressioni psichiche nulla ricorda le impressioni ordinarie. È come se i miei cinque sensi fossero sostituiti da cinque miriadi di sensi sublimati.

Ma la mia fiducia nella potenza della parola è così intensa, che, talvolta, ho creduto possibile il dar corpo a tali effimere fantasie.

L’esperimento che ho tentato a questo scopo mi permise di provocare, quando il mio stato corporale e mentale è sano, il momento in cui io vedo tali fantasie; vale a dire che ora io posso, fuorchè sia malato, accertare che questo stato, se lo voglio, si produrrà tra la veglia ed il sonno.

Mentre prima, anche nelle circostanze più favorevoli, questa certezza mi mancava, ora io posso essere sicuro che proverò l’estasi, e posseggo anche il potere di obbligarla a prodursi.

Ma le condizioni proprie sono sempre rarissime, senza di che io avrei già fatto scendere il cielo sulla terra.

In seguito sono giunto ad impedire che l’istante, di cui ho parlato, di passaggio tra la veglia ed il sonno, svanisca; non già che io possa prolungare l’estasi, fare che l’attimo non sia più attimo; ma io posso, quando la visione si dilegua, tornar sveglio e fissarla nel dominio della memoria, trasportando le mie impressioni, o, più propriamente, il loro ricordo per modo che durante un breve lasso di tempo mi riesca di rivederle e di sottoporle all’esame.

Giunto a tanto io non dispero di poter mettere in parole una parte delle mie visioni sufficiente a dare la concezione crepuscolare della loro natura ad una certa classe di intelligenze.

Non voglio, così parlando, far credere che io supponga che queste fantasie, queste visioni psichiche siano limitate a me solo, e non siano invece comuni a tutta l’umanità, imperocchè su ciò è ben certo che io non ne so nulla.

Quello che è certo si è che un racconto, anche imperfetto, delle mie visioni, sbalordirebbe le umane intelligenze per la novità assoluta delle cose descritte e pei pensieri che esse suggerirebbero, come è certo che se giungessi a trattare un tale soggetto, il mondo sarebbe obbligato a riconoscere che finalmente ho scritto un’opera originale.

XIV.

È meraviglioso osservare quanto i prodotti della immaginazione migliorino passando l’Oceano. Precisamente come i vini.

Noi abbiamo avuto l’onore di essere saccheggiati senza quartiere in Europa; ma siccome le nostre novelle ne profittavano, almeno nella stima dei nostri compatrioti, così non abbiamo reclamato. I nostri scritti non attirarono l’attenzione del pubblico se non quando la <«Miscellanea» di Bentley, od il «Charivari» di Parigi gli ebbero pubblicati come roba loro.

La «Boston Nation» ci aveva mosso severi rimproveri perchè avevamo scritto «La fine della Casa Usher». Ebbene, poco dopo, essendosi Bentley appropriato questo racconto pubblicandolo senza firma, la «Nation», scordandone il vero autore, non solamente la lodò ad nauseam, ma la riprodusse in toto.

XV.

Scott, nella sua «Eloquenza presbiteriana», narra un’antica favola poco conosciuta, nella quale vien bandito un concorso di canto fra l’usignuolo ed il cuculo, essendo giudice l’asino.

Quando ciascuno dei due uccelli ebbe cantato come meglio sapeva, l’arbitro dichiarò che l’usignuolo era un cantatore incomparabile, ma che, per una buona canzone popolare, meglio valeva il cuculo.

Il giudice dalle lunghe orecchie è il tipo perfetto di quella schiera di critici, i quali non sanno fare altro che raccomandare la moderazione, in cui fanno consistere la suprema perfezione letteraria; gente che dileggia Tennyson e porta Addison alle stelle.

XVI.

Il progresso che in questi ultimi tempi hanno fatto le «Riviste», non deve essere considerato una decadenza del gusto e della letteratura americana, come certi critici pretendono.

È invece un segno dei tempi; è il primo indizio di un’êra che spingerà verso tutto quello che è breve, condensato, spontaneo; un’epoca in cui si abbandonerà tutto quanto è faragginoso; è il trionfo del giornalismo, è la fine della dissertazione. Ora ci occorre artiglieria leggera, non pesanti cannoni.

Oltrecciò il patrimonio del pensiero s’è arricchito; abbiamo maggior copia di fatti; v’è più a riflettere.

Vogliamo mettere il maggior numero di idee nel minor spazio possibile, e svolgerle rapidamente.

Da ciò il nostro giornalismo attuale; da ciò anche le nostre «Riviste letterarie».

XVII.

Dite tre o quattro volte al giorno ad un farabutto che egli è un fior di probità, e voi riuscirete a farne, per lo meno, un modello di borghese rispettabile.

Accusate invece un onest’uomo di essere una canaglia, e gli ispirerete l’ambizione perversa di provarvi che non siete del tutto in errore.

XVIII.

Il tiraborse ordinario ruba un portamonete e tutto è detto. Egli non si gloria della somma che il suo furto gli ha procacciato, e non accusa la persona derubata di ladroneccio. Questi sono titoli di preferenza che il ladro comune ha sul ladro letterario. A mio avviso non v’è spettacolo più ripugnante di quello che offre il plagiario pavoneggiantesi, il cuore orgogliosamente agitato pel ricordo di applausi che egli sa dovuti ad un altro.

La purezza, la nobiltà, l’idealità della gloria meritata fanno, coll’azione turpe del rubare, un contrasto che dà al delitto di plagio il più detestabile aspetto.

Ci ripugna di trovare nello stesso individuo, assieme al desiderio nobile di gloria, la propensione bassa alla rapina.

È appunto quest’anomalia, questo disaccordo che ci stomaca.

XIX.

È notevole che nel breve racconto della «Creazione», Mosè adopera l’espressione hara elohim (gli dei creò) più di 30 volte, mettendo il sostantivo al plurale ed il verbo al singolare.

Nel Deuteronomio però vi è il singolare: Eloah, Dio.

XX.

Gli Svedemborgisti mi scrivono d’aver constatato che quanto io ho narrato nella mia novella: La Rivelazione Magnetica è assolutamente vero, per quanto essi da prima fossero disposti a dubitare della mia sincerità.

Ma io non ho mai sognato, io, di dubitarne!

Il mio racconto è una finzione pura dal principio alla fine!

XXI.

Quando io penso agli strani soliloqui, agli «a-parte» delle moderne commedie, non posso fare a meno di considerare come rispettabilissimi anche gli spedienti adoperati dai commediografi chinesi.

«Quando un generale sulla scena, a Pechino od a Canton, — dice David — riceve l’ordine di partire per la guerra, brandisce lo scudiscio, prende in mano un paio di redini, corre tre o quattro volte in giro, in mezzo ad un frastuono spaventoso di gonghi, di tamburi e di trombe. Poi si ferma, ed annunzia al pubblico che è arrivato.»

XXII.

Il naso del pubblico è la sua immaginazione. È dunque per questo naso che lo si potrà sempre e facilmente menare.

XXIII.

Camoëns-Genua, 1798.

Ecco un volume, il quale per le sue minuscole perfezioni, e per la sua esattezza tipografica potrebbe portare per epigrafe la frase del Corano: «In questo libro non v’è errore.»

Perchè non si può dire errore la semplice spostatura di un O.

Però io sono contento di aver scoperto questo O quanto Colombo od Archimede!

Dopo tutto, poi, che cos’è la scoperta di un continente, o la condanna di qualche orefice?

Non vale forse più un buon O spostato, e tutto un gregge di Arghi bibliomani che non seppero trovarlo in tanti anni!

XXIV.

Se qualche ambizioso volesse rivoluzionare d’un tratto il mondo del pensiero, dell’opinione e del sentimento umano io gliene offro il mezzo.

La via ad una gloria immortale è aperta dritta avanti a lui. Non ha che a scrivere ed a pubblicare un piccolissimo libro dal titolo semplice, qualche parola appena: «Il mio cuore messo a nudo». Ma il piccolo libro deve mantenere tutte le sue promesse.

Non è strano che in mezzo alla folla di uomini pazzamente assetati di notorietà, inquieti di quello che di essi, come d’un feticcio, potrà dirsi dopo morte, non ve ne sia uno solo che abbia tanta audacia da scrivere questo libriccino?

Scriverlo, dico. A migliaia sono quelli che, fatto il libro, si metterebbero a ridere se venisse lor detto che, viventi, non avrebbero osato di pubblicarlo; ma bisogna scriverlo! Questa è la difficoltà! Nessun uomo oserà mai di scriverlo; nessun uomo saprebbe scriverlo, quand’anche lo osasse.

La carta si accartoccerebbe e si consumerebbe al contatto della sua penna infuocata.

XXV.

Credo che i romanzieri in generale potrebbero trovar profitto imitando i Chinesi, i quali, benchè costruiscano le loro case facendo prima di tutto il tetto, tuttavia hanno abbastanza buon senso per cominciare i loro libri dalla fine.

XXVI.

Non si comprende l’ostinazione dei nostri migliori scrittori a voler parlar sempre del coraggio morale, come se vi potesse essere un coraggio che non lo fosse.

L’aggettivo è applicato erroneamente al soggetto anzichè all’oggetto. L’energia che domina la paura, sia poi la paura di ciò che minaccia la nostra persona o di ciò che minaccia la nostra posizione, non può naturalmente essere che un’energia mentale, un’energia morale.

E poi parlando di coraggio morale s’implica l’idea di un coraggio fisico.

Tanto varrebbe parlare di un pensiero corporale o di un’immaginazione muscolare.

XXVII.

Il numero delle nostre «bas bleu» si moltiplica all’infinito. Bisognerebbe per lo meno decimarle.

Che non vi sia proprio un critico tanto energico da giustiziarne una qualche dozzina in terrorem.

Occorrerebbe, ben inteso, che per far ciò egli si servisse di lacci di seta, come si usa in Ispagna per i grandi di sangue bleu: de sangre azula.

XXVIII.

Nel mondo materiale avvengono dei fatti che hanno una meravigliosa analogia coi fenomeni del pensiero.

È perciò che prende una certa apparenza di verità questa affermazione dei retori, in fondo falsa, che una metafora od una similitudine possa servire tanto a confermare un asserto, quanto ad abbellire una descrizione.

Il principio della forza d’inerzia, per esempio, secondo il quale il momento necessario per vincere una resistenza è proporzionale a quello conseguente a questa vittoria, sembra essere identico in fisica ed in metafisica.

Parimenti come in fisica è certo che un corpo considerevole è mosso più difficilmente che un corpo piccolo, e che l’energia viva che ne risulta è proporzionale a questa difficoltà, così si può in metafisica ammettere che le intelligenze le più vaste, le più forti, le più costanti nel loro slancio siano le più lente a muoversi, le più imbarazzate, le più esitanti nei primi passi del loro movimento.

XXIX.

Quanti critici dimenticano, ahimè! il sensatissimo consiglio di Tenion che: «le ministre de l’instruction lui même doit parler français.»

XXX.

Un buon argomento a favore del Cristianesimo è questo: «I peccati contro la carità sono i soli per cui un uomo, al letto di morte, può essere indotto a sapersi ed a sentirsi colpevole.»

XXXI.

Quando noi ci attaccheremo meno ai pregiudizi e più ai principii, quando considereremo meno le qualità e più i difetti (a rovescio di quanto taluno suggerisce) allora noi saremo migliori critici di quello che siamo ora.

Gli elogi che noi prodighiamo ad un’opera casualmente buona, provengono dalla nostra intelligenza che non percepisce nulla di meglio.

«Quegli che mai non vide il sole — dice Calderon — non può essere biasimato se crede che nessun splendore superi quello della luna; quegli che non ha mai veduto nè sole nè luna, non deve essere rimproverato se si entusiasma davanti alla luminosità, per lui incomparabile, della stella del mattino.»

Perciò il dovere del critico è di fare ogni sforzo per vedere il sole, anche quando l’orbita se ne trovasse molto in alto sopra l’orizzonte ordinario.

XXXII.

Si può, con tutta sicurezza, ammettere che l’eloquenza di Demostene produceva un effetto maggiore di quello dei nostri oratori, e nello stesso tempo non ammettere che l’eloquenza greca fosse superiore alla moderna.

I Greci erano un popolo impressionabile; non abituati alla lettura, poichè non possedevano libri stampati; per conseguenza le perorazioni a viva voce avevano sul loro spirito l’enorme ascendente del nuovo.

Essi dovevano sentire profondamente quella acuta emozione che produce la prima favola udita sulla intelligenza nascente dei fanciulli, emozione che si consuma a misura che essi sentono ripetere le stesse cose, e rinnovarsi le medesime fantasie.

La più bella filippica dei Greci sarebbe stata fischiata alla Camera dei Lord in Inghilterra, mentre una improvvisazione di Sheridan o di Brougham avrebbe trasportato all’entusiasmo tutti i cuori e tutte le intelligenze di Atene.

XXXIII.

A proposito di citazioni, come è ammirevole quella che circolava per Parigi quando Vigal e Bouchardon eressero la statua di Luigi XV «Statua Statuae!» Statua della statua!

XXXIV.

L’artista appartiene alla sua opera,

non l’opera all’artista.     

(Novalis.)

Nove volte su dieci il cercare di comprendere il significato di una sentenza tedesca è un perdere il proprio tempo, o, per dir meglio, si può da ciascuna di quelle sentenze tirar fuori il senso che si vuole.

Se nell’aforismo di Novalis, citato in margine, si intende che l’artista è schiavo del proprio soggetto, e che deve su quello limitare le sue idee, io non posso prestar fede ad una asserzione che mi pare prodotto di uno spirito estremamente prosaico.

Fra le mani del vero artista il soggetto non è che un masso di materia da cui la volontà o la bravura dell’operaio può fare quello che vuole. È la materia che è schiava dell’artista. Essa gli appartiene. Il genio, senza alcun dubbio, si è manifestato scegliendola.

Essa non ha necessità d’essere fina o grossolana in modo astratto; ma precisamente così fina o così grossolana, così plastica o così rigida quanto occorre per l’oggetto che si deve eseguire, o, più esattamente, per l’impressione che l’oggetto stesso è destinato a produrre.

XXXV.

Per conversar bene, bisogna possedere la fredda prudenza del talento: per parlar bene l’ardente abbandono del genio.

Tuttavia vi sono uomini di genio che talvolta parlano bene, tal’altra no: bene, quando non sono stretti dal tempo ed hanno un uditorio simpatico; male, quando temono di essere interrotti, o sono irritati di non potere esaurire il loro soggetto in un solo discorso.

Il genio brilla a tratti. Esso è frammentario. Il vero genio ripugna dall’incompleto, dall’imperfetto. Preferisce tacere piuttosto che dir cosa che non sia definitivamente decisiva.

···········

L’influenza del conversatore è, in generale, più accentuata che quella dell’oratore.

I buoni conversatori sono più rari che i mediocri oratori. Di questi ultimi ne conosco molti. Di conversatori veri cinque o sei solamente; e la maggior parte ci obbliga a maledire la nostra stella che non ci fece vivere in quella terra africana, di cui fa menzione Eudossio, dove i selvaggi, non avendo bocca, non l’aprivano naturalmente mai.

Eppure certi individui di mia conoscenza, quando anche non avessero la bocca, troverebbero ancora il modo di chiacchierare col naso, come, del resto, fanno anche adesso.

XXXVI.

È strano che la parola τχηύ (fortuna) non si trovi una sola volta in Omero, benchè la fortuna sia l’idea fondamentale del dramma greco.

XXXVII.

Il dramma è la principale forma della letteratura imitativa, e quindi tende a generare in chi lo coltiva la propensione al plagio.

Di tutti gli imitatori, gli autori drammatici sono i più cattivi, i meno coscienziosi ed i più incoscienti; e ciò da che mondo è mondo.

Euripide e Sofocle non furono che l’eco di Eschilo. Terenzio non è che Menandro, e delle sole dieci tragedie romane che siano sopravvissute (quelle attribuite a Seneca) nove sono d’argomento greco.

Questo basterebbe per spiegare la decadenza del dramma, se a tale strombazzata decadenza si dovesse credere.

Ma così non è; al contrario in questi ultimi cinquant’anni il dramma ha materialmente progredito, ma siccome nello stesso tempo tutti gli altri generi letterari e le arti hanno corso infinitamente più in fretta, e tanto più in quanto che c’era minore imitazione, così pare che il dramma sia in regresso.

XXXVIII.

Io comincio a credere con Horsley, che il popolo non abbia nulla a che vedere nelle leggi, fuorchè per obbedirvi.

XXXIX.

Nell’Antigone, ed anche in altri drammi antichi, mi sembra regni una certa aridità.

Questa aridità, che i pedanti vogliono sforzarsi a considerare come semplicità studiata e supremamente artistica, non è, invece, che il risultato della inesperienza.

È nella scultura greca che la semplicità risponde ai nostri desiderii, perchè quest’arte è semplice per sè stessa e pei suoi elementi; ed anche perchè la scultura modella le sue forme su quelle che s’hanno davanti agli occhi ogni giorno.

Ne consegue che le arti semplici arrivano alla perfezione sino dall’origine, mentre le complesse esigono inevitabilmente l’esperienza lunga e lentamente progressiva del tempo.

I Greci ritenevano perfetto il loro dramma poichè per essi rispondeva a ciò che è scopo di qualunque dramma — li commuoveva — ; ma se si cita questo fatto come prova della perfezione assoluta del loro teatro, è ben facile obbiettare che la loro arte ed il loro sentimento artistico erano necessariamente allo stesso livello.

XL.

Nella preoccupazione di particolari di poca importanza noi giungiamo a scordare delle generalità essenziali.

Per esempio B*** ha mosso alti lamenti per certi errori di stampa rilevati in un suo libro, ed ha poi risparmiato al suo editore il rimprovero, che costui meritava due volte piuttosto che una, pel più grosso errore di tutti: quello di avergli stampato il libro.

XLI.

Un gentiluomo ed un naso rincagnato sono incompatibili.

«Quegli solo che può vivere disoccupato, senza lavoro manuale, che ha il portamento, le funzioni e la fisonomia di un signore, quegli solo merita di essere chiamato e considerato un gentiluomo.» (La Repubblica d’Inghilterra di sir Tommaso Smith).

XLII.

I moderni riformatori della filosofia che avviliscono l’individuo pel maggior bene delle masse, e la nuova legislazione che interdice il piacere per garantire il benessere, mi fanno tornare alla mente una vecchia legge feudale, la quale, per impedire che venissero turbati i nidi delle pernici, proibiva, sotto pena di ammenda, di lavorare la terra, e di condurre il bestiame al pascolo.

XLIII.

Defoe avrebbe meritata l’immortalità anche se non avesse scritto il Robinson Crusoë.

Pur tuttavia gli altri suoi numerosi ed eccellenti lavori sono pressochè scomparsi agli occhi del pubblico di fronte al grande splendore delle avventure toccate al marinaio di Yorck.

Quale gloria maggiore di quella di cui gode da tanto tempo avrebb’egli potuto desiderare? Il suo libro è diventato un oggetto famigliare in quasi tutte le case della cristianità. Pur tuttavia l’ammirazione universale non fu mai accordata con minore conoscenza e discernimento. Non v’è un uomo su dieci, su cinquecento, che non creda, sfogliando il libro, che nessuna molecola di genio e neppure di talento mediocre sia occorso per scriverlo.

Non si considera il Robinson Crusoë come una opera letteraria.

Defoë non prende ai suoi lettori nessuna delle loro idee. Robinson le ha tutte.

La potenza che ha fatto il miracolo è dimenticata a cagione dell’effetto del miracolo stesso.

Noi leggiamo con intenso interesse, poi, chiuso il libro, siamo convinti che l’avremmo potuto scrivere noi stessi senza alcuna difficoltà.

Quest’impressione è la conseguenza della magica verosimiglianza dell’opera.

L’autore di Crusoë ha dovuto possedere al più alto grado quella che si dice la facoltà di identificazione, quell’impero della volontà sulla fantasia, che gli impose di perdere la propria individualità per assumerne una fittizia.

Questa facoltà contiene il potere di astrazione, e con una tale chiave, noi possiamo in parte comprendere l’ascendente misterioso che ha, per tanto tempo, esercitato su noi il suo volume.

Ma con ciò non è ancora completa l’analisi del nostro interessamento.

Defoë deve moltissimo allo stesso suo soggetto.

L’idea di un uomo che vive assolutamente solo, benchè spesso intravveduta, non era ancora stata messa in opera in modo così perfetto.

XLIV.

Qualche volta mi sono compiaciuto di immaginare quale sarebbe la sorte di un uomo dotato, per sua sventura, di una intelligenza di gran lunga superiore a quella dei suoi contemporanei.

Naturalmente egli avrebbe la coscienza di questa sua superiorità, e non potrebbe, essendo conformato come gli altri uomini, fare a meno di manifestare questa coscienza.

Per tal modo si creerebbe innumerevoli nemici.

E poichè le sue opinioni, le sue speculazioni sarebbero differenti da quelle di tutti gli altri, evidentemente sarebbe considerato come un pazzo.

Doloroso ed orribile supplizio. L’inferno non può inventare tormento più grande di quello di essere ritenuti per infinitamente deboli appunto perchè si è infinitamente forti.

E poi certo che uno spirito generoso, provante realmente i sentimenti che gli altri si limitano a professare, deve inevitabilmente rimanere incompreso, essendo per tutti inintelligibili le cause delle sue azioni.

Nella stessa maniera il genio si dirà fatuità; un eccesso di sentimento cavalleresco, l’ultima espressione della bassezza e così di seguito per tutte le altre virtù.

Questo soggetto è ben triste.

XLV.

L’enorme moltiplicarsi dei libri in ogni ramo dello scibile umano, è uno dei più grandi flagelli dell’età nostra.

Esso è uno dei più serii ostacoli all’acquisto di ogni conoscenza positiva.

F. G.

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