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Questo testo fa parte della raccolta Sonetti romaneschi/Sonetti del 1831
MÉ NE RIDO.
E da capo Maghèlla!1 A ssentì a tté,
Chi nun dirìa che mm’hanno da impiccà?
Oh cammìnete2 a ffà strabbuggiarà:
Male nun fà, pavura nun avé.3
E che mme frega li cojjoni4 a mmé,
Si5 er bariscèllo6 me sce vò acchiappà?!7
Prima, cristo!, che mm’abbi da legà,
L’ha da discurre cór un certo che.
Anzi, come lo vedi, dijje un po’
Che Peppetto lo manna a rriverì,
Pregannolo a risceve un pagarò.
Questo è de scentodua chicchericchì,8
Che si me scoccia più li c, o, cò,9
Presto se l’averà da diggerì.
Terni, 2 ottobre 1831.
- ↑ [E siamo daccapo! E siamo alle solite! — Nell’Umbria dicono: E da capo Mechèlla!]
- ↑ [Cammìnati: avvìati, va.]
- ↑ [Proverbio.]
- ↑ Che mi cale.
- ↑ Se.
- ↑ Bargello.
- ↑ [Mi ci vuol cogliere. Con una donna, s’intende.]
- ↑ Parola insignificante, che talora si prende per “galletto„. Qui per “colpi di un uomo imbizzarrito„.
- ↑ [Cé, o, cò: così s’insegnava a leggere la sillaba co, e così le altre, compitando, non sillabando. E bisognò che cadesse il Governo temporale de’ papi, per bandire dal loro Stato questo barbaro metodo! Io ricordo benissimo che un vescovo del mio paese, Todi, proibì espressamente nel 1858 o 59 a un maestro, che lo voleva introdurre, il metodo della sillabazione!]
Note
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