Questo testo è completo, ma ancora da rileggere.
Traduzione dall'inglese di Federico Garrone (1896)
1838
Questo testo fa parte della raccolta Edgar Allan Pöe




MISS PSICHE ZENOBIA





La «signora Psiche Zenobia» piccola conversazione letteraria, è un gioiello di satira arguta e piacevole.

Col porre in ridicolo gli scrittori ignoranti, che credono far mostra d’ingegno esponendo stramberie sconclusionate; col mettere in berlina gli scribacchiatori zotici e vanitosi, i quali riescono ad imporsi al pubblico volgare rubacchiando qua e là, ed a sproposito, e idee ed espressioni ai grandi maestri, filosofeggiando a dritta ed a rovescio senza criterio, ma con stupefacente presunzione, l’audace ed astuto autore ha, nel tempo istesso, fatta la migliore delle apologie dei propri lavori, i quali invece, originali e fantasiosi, hanno sempre una forte e larga base di erudizione, di filosofia e di logica.

Questa piccola conversazione letteraria può essere definita «la caricatura della maniera di Pöe», caricatura tanto più ammirevole, tanto più efficace, tanto più interessante inquantochè è uscita dalla penna dello stesso Pöe 1.

Lo spirito caustico e comico, l’osservazione sottile, la verve facile e schietta ed onesta, la modernità meravigliosa dello scopo e della forma, fanno dell’articolo un vero monumento d’arte letteraria.

I traduttori hanno cercato di mantenere la più coscienziosa fedeltà all’originale, ma non hanno potuto ridare, nella lingua italiana e nell’anno 1894, certe efficacie locali e contemporanee, certe sfumature, certe allusioni a personalità od a giornali, certi giuochi di parole, che però non riuscirà tanto difficile l’intuire dalla forma stessa e dal contesto della narrazione, la quale fu ideata da Edgardo Allan Pöe nell’anno 1838 e pubblicata a Boston, nella rivista mensile The American Museum, col titolo originale di The Signora Zenobia - Literary Small Talk.





Miss Psiche Zenobia




In nome del Profeta — dei fichi!!

(Grido del mercante di fichi, turco).


Non esiste persona al mondo che non abbia sentito parlare di me. Io sono la signora Psiche Zenobia. Questo è un fatto del quale sono sicura.

Non ci sono che i miei nemici, i quali si ostinino a chiamarmi Suky Snobbs 2.

Io so, da fonte certa, che Suky è nient’altro che la corruzione del vocabolo greco ― Psiche — che vuol dire l’anima (cioè io, perchè io sono tutta anima) e qualche volta anche «une abeille» 3, parola che evidentemente allude al mio aspetto esteriore, nella mia nuova toilette di raso cremisi, col mantelletto arabo bleu-ciel, colle agrafes verdi e con sette volanti en oreillettes color arancio.

Quanto a Snobbs, so pure che questa parola è semplicemente una corruzione di Zenobia, e che Zenobia era una regina. (Anch’io! — il dott. Money- penny 4 dice sempre che io sono «la regina dei cuori»).

Zenobia, come Psiche è greco purissimo; mio padre era greco, e, per conseguenza, io ho diritto a questo nome patronimico di Zenobia, e niente affatto a quello di Snobbs. Io sono la signora Psiche Zenobia.

Come dissi, tutti mi conoscono. Io sono quella signora Psiche Zenobia, così meritatamente celebre quale segretaria-corrispondente della «Philadelphia, Regular, Exchange, Tea, Total, Jung, Belles Lettres, Universal, Association, To, Civilise, Humanity».

Fu il dott. Money-penny che ci compose questo titolo, e l’ha scelto, dice lui, perchè è sonoro come un barile da rhum vuoto. (Il Dottore qualche volta è volgare, ma è profondo).

Noi accompagnamo la nostra firma colle iniziali della Società, a somiglianza della R. A. S. (Reale Società delle Arti), oppure della D. U. C. S. (Società per la diffusione delle utili cognizioni).

Vale a dire che facciamo seguire al nostro nome le iniziali P. R. E. T. T. Y. B. L. U. E. B. A. T. C. H.; una lettera per ciascuna parola.

Il Dottore pretende che queste iniziali indicano il nostro vero carattere; ma, parola d’onore, io non so cosa voglia dire 5.

Malgrado i buoni uffici del Dottore, e lo zelo ardente spiegato dalla Società per farsi conoscere, essa non aveva avuto un grande successo sino a che io non ne ebbi fatto parte. La cagione proveniva da ciò, che i suoi membri, nella discussione, adoperavano una forma troppo leggera. Il giornale, che compariva ogni sabato sera, si raccomandava più per la buffoneria che per la serietà. Non era che panna montata!

Nessuna ricerca delle cause prime, dei primi principii. Nessuna ricerca di nulla. Non la menoma attenzione a questo punto capitale: «La convenienza delle cose».

In una parola tutto era volgare, basso, assolutamente basso! Nessuna investigazione, nessuna lettura; niente metafisica, nulla di quello che i dotti chiamano «idealismo» e che gli ignoranti amano meglio stimatizzare col nome di «Cant» 6. (Il dottore Money-penny dice che io dovrei scrivere Cant colla K; ma io me ne intendo).

Appena entrata nella società, cercai d’introdurvi un miglior metodo di pensiero e di stile, e ognuno sa come io vi sia riuscita.

Ora noi sul P. R. E. T. T. Y. B. L. U. E. B. A. T. C. H., pubblichiamo degli articoli buoni, tanto quanto quelli che compariscono nel «Blackwood».

Dico il «Blackwood», perchè sono convinta che i migliori scritti, su qualsivoglia soggetto, sono quelli che si pubblicano su questa «Rivista» 7, così meritatamente celebrata.

Noi li prendiamo ad esempio in tutto, cosa che ci porrà in grado di conquistare una rapida notorietà.

Dopo tutto, non è poi tanto difficile di comporre un articolo sulla foggia del vero «Blackwood», purchè si sappia sceglier bene. Non parlo degli articoli politici.

Nessuno ignora più come questi si fabbrichino, dacchè il dott. Money-penny l’ha spiegato.

Il sig. Blackwood ha un paio di cesoie da sarto, e tre commessi gli stanno vicini pronti ai suoi ordini.

Uno gli porge il Times; l’altro l’Examiner, ed il terzo il «Gulley’s New Compendium of Slang-Whang» 8.

Il sig. Blackwood non fa che tagliare e distribuire. È l’affare di un momento; nient’altro che Examiner, Slang-Whang, e Times; poi Times, Slang-Whang ed Examiner, ed in fine Times, Examiner e Slang-Whang.

Ma la vera importanza del «Blackwood» gli viene dai suoi articoli di miscellanea ed i migliori di tali articoli sono quelli che entrano nella categoria di ciò che il dott. Money-penny chiama: Les excentricités (abbiano, o no, senso) e che gli altri dicono: Articoli a sensazione.

Sono una specie di lavori che da gran tempo io aveva imparato ad apprezzare; ma non fu che dopo la mia ultima visita al sig. Blackwood (a cui ero stata inviata in deputazione dalla società) che ho potuto rendermi conto, in modo esatto, del metodo perfetto della loro fattura.

Questo metodo è semplicissimo, ma tuttavia meno semplice di quello adoperato per gli articoli politici.

Introdotta presso il sig. Blackwood, gli esposi il desiderio della società. Egli mi ricevette con grande cortesia, mi fece entrare nel suo gabinetto, e mi spiegò chiaramente tutto il procedimento.

«Mia cara signora, mi disse, evidentemente colpito dal mio aspetto maestoso, perchè io aveva in quel giorno indosso la mia veste cremisi colle agrafes verdi, ed i volanti color arancio, mia cara signora, vogliate sedervi.

«Ecco quanto si deve fare:

«In primo luogo lo scrittore di articoli a sensazione deve avere dell’inchiostro nerissimo, ed una penna assai grossa e colla punta smussata.

«Ed osservate bene, miss Psiche Zenobia — continuò dopo una lunga pausa e con un fare energico e solenne che mi impressionò — osservate bene!... questa penna, non deve, mai, essere tagliata!

«In ciò, o signora, sta il segreto, l’anima dell’articolo a sensazione. Potrei aggiungere che uno scrittore, per quanto di genio, non ha mai scritto, con una buona penna, intendiamoci bene, un buon articolo.

«Voi potete esser certa che un manoscritto che si può leggere, non è mai degno d’essere letto.

«Questo è uno dei principii fondamentali della nostra fede, e se voi avete qualche difficoltà ad accettarlo, noi possiamo senz’altro por fine alla nostra conversazione».

Ed egli tacque.

Ma siccome, naturalmente, io ci tenevo a continuare la conferenza, così approvai subito, e tanto più volentieri, in quanto che, da gran tempo, avevo esperimentata la verità delle sue asserzioni.

Egli parve soddisfatto, e continuò le sue istruzioni:

«Vi parrà forse una pretesa da parte mia, o miss Psiche Zenobia, che io vi proponga a modello dei vostri studi un nostro articolo od una collezione dei nostri articoli, ma tuttavia mi sembra utile il richiamare la vostra attenzione su qualche caso.

«Vediamo!

«Abbiamo avuto «il morto vivente» articolo importantissimo; la relazione delle sensazioni provate da un gentiluomo nella sua tomba, prima di rendere l’anima, articolo pieno di gusto, di terrore, di sentimento, di metafisica e di erudizione. Voi giurereste che l’autore nacque e fu allevato in una bara...

«Poi abbiamo avuto «la confessione di un mangiatore d’oppio» articolo di grande effetto; splendida immaginazione, filosofia profonda; speculazione sottile, molto brio con un sufficiente contorno di cose perfettamente inintelligibili; una salsa squisita che è scivolata giù deliziosamente per la gola del lettore. Si diceva che fosse stato scritto da Coleridge. Invece, no! Esso fu composto da «Juniper» il mio babbuino favorito dopo una gran bevuta di gin olandese, ed acqua calda senza zucchero. (Io non avrei mai creduto ciò, se altri, fuorchè il signor Blackwood, me lo avesse raccontato).

Dopo ci fu «L’esperimentalista involontario» tratta di un gentiluomo cotto in un forno, e ne uscì sano e salvo, non senza aver provata terribile paura...

«Poi «Il giornale di un medico defunto» il cui gran merito è di aver mescolato un linguaggio da energumeno con un greco insipido, due cose che interessano straordinariamente il pubblico.

«In ultimo abbiamo pubblicato «L’uomo nella campana», un articolo, signora Zenobia, che io non saprei raccomandare abbastanza alla vostra attenzione.

«È la storia di un uomo che si addormenta sotto una campana di una chiesa e che viene svegliato dai rintocchi funebri.

«Egli diventa pazzo, e, per conseguenza, tirando fuori il suo libro di note, vi scrive le sue sensazioni.

«Le senzazioni, ecco tutto!

«Se per avventura voi doveste annegarvi, o se foste impiccata, registrate le vostre sensazioni, e ve le pagheranno 10 ghinee al foglio.

«Se volete ottenere dell’effetto, miss Zenobia, curate, curate le sensazioni!»

Non mancherò di farlo, risposi.

«Benissimo, continuò, vi debbo pure accennare alle particolarità di quello che si può dire un vero «Blackwood a sensazione», e voi mi permetterete di ritenere questo genere di composizione come il migliore sotto tutti i rapporti. La prima cosa a farsi è di mettervi voi stessa in una situazione anormale, nella quale nessuno, prima di voi, si sia trovato.

«Il forno, per esempio, è già buono. Ma se non avete sotto mano il forno o la campana, se non vi conviene buttarvi giù da un pallone, od essere inghiottita in un terremoto, o cader nel fuoco, bisognerà vi accontentiate di immaginare semplicemente una qualche consimile avventura. Però io preferirei che voi aveste un fatto vero a dimostrare.

«Nulla aiuta così bene l’immaginazione come lo aver fatto, sopra sè stesso, l’esperienza del proprio soggetto, poichè, voi lo sapete bene, la verità è sempre più strana della finzione, e giunge più sicuramente allo scopo».

Io lo interruppi per dirgli che avevo un fortissimo paio di legacci da calze, e che, al bisogno, me ne avrei potuto servire per impiccarmi.

«Bene, rispose, fatelo; per quanto l’impiccagione sia un po’ troppo usata. Forse si potrebbe trovare di meglio. Potreste provare a prendere una scatola di pillole del Brandert, e scrivere le vostre sensazioni.

«Del resto le mie istruzioni si possono applicare, colla medesima efficacia, a tutte la varietà di avventure sgradevoli; così, tornando a casa, voi potreste rompervi la testa, o essere rovesciata da un omnibus, o morsa da un cane arrabbiato, od annegarvi in una grondaia... Ma veniamo al procedimento.

«Quando avrete bene fissato nella vostra mente il soggetto, dovrete pensare al tòno, od allo stile della narrazione.

«Vi è il tono didattico, il tòno entusiastico, il tòno naturale, tutti e tre volgarissimi.

«Ma vi è però il tòno laconico, o breve, che è molto alla moda, e che consiste nell’esprimersi con corte sentenze; per esempio: Non si può essere troppo concisi; Non si saprebbe essere troppo bizzarro;.... Null’altro che punti, mai paragrafi.

«Poi c’è lo stile elevato, per interiezioni. È raccomandato dai nostri migliori romanzieri. Le parole devono turbinare e ronzare come una trottola. Un tale ronzìo tien luogo di senso. È lo stile migliore che ci sia, se lo scrittore non ha tempo di pensare. Il tono metafisico è pur esso eccellente. Se conoscete una qualche parolona, è il caso di adoperarla. Parlate di scuole Joniche ed Eliastiche, di Archinto e di Alcmone, accennate alla oggettività ed alla soggettività. Non temete di dir troppo male di un certo Locke. Fate allusione alle cose in modo generico, e, se avete lasciato sfuggire una qualche assurdità troppo grossa, non mettetevi in pena per cancellarla. Basta che mettiate una nota in fondo alla pagina, in cui direte che avete preso la profonda osservazione alla «Kritik der reinen Vermuft» oppure alla «Metaphisische Aufausgsgrunde der Naturwissenschaft» 9. Ciò passerà per erudizione e per... franchezza.

«Ci sono varii altri tòni tutti egualmente celebri; ma io non ve ne ricorderò più che due: Lo stile trascendentale, e lo stile eterogeneo.

«Nel primo il merito consiste nel vedere entro la natura delle cose molto più in là degli altri. Questa seconda vista fa un grande effetto, quando è bene adoperata. In questo caso evitate i paroloni. Impiegate le espressioni più semplici e scrivetele a rovescio. Consultate i poemi dello Chamning, e citate quello che egli dice «di un piccolo uomo grasso che aveva la seducente apparenza di una pentola». Dite qualche cosa della Divina Unità; ma, per l’amor di Dio, non parlate dell’Infernale Dualità. Studiatevi anzitutto di insinuare; fate credere, ma non affermate mai nulla. Se avete a parlare di una fetta di pane col burro, non adoperate queste parole: pane e burro, ma qualche altra che vi si avvicini. Voi potrete, per esempio, alludere ad un pasticcietto di grano nero, arrivare sino ad insinuare una pasta di tritello d’avena, ma mai pane e burro».

Lo assicurai che non l’avrei detto mai più.

Egli mi abbracciò.

«Quanto allo stile eterogeneo, continuò, è semplicemente una miscela giudiziosa, in proporzioni eguali, di tutti gli altri; e perciò tutto quello che vi ha di profondo, di grande, di bizzarro, di piccante, di bello entra nella sua composizione.

«Ed ora supponiamo che voi abbiate scelto l’argomento e lo stile.

«La parte più importante, l’anima, direi, di tutto il componimento, richiede ancora tutta la vostra attenzione. Voglio parlare della riempitura.

«Non si può credere che una dama od un gentiluomo abbiano trascorsa tutta la loro vita à divorar libri; eppure è indispensabile sopra tutto che il vostro articolo abbia un’aria di erudizione, o che almeno offra dei segni evidenti di una estesa conoscenza letteraria. Ebbene io vi porrò in grado di vincere anche questa difficoltà».

Egli aprì a caso quattro o cinque libri: «Ecco, disse, voi non avete a far altro che a gettare i vostri occhi sulla prima pagina del primo libro che vi capita fra le mani per trovarvi mille bricciole d’erudizione e d’arguzia; e cioè quello che occorre, come sfondo, ad un vero articolo alla «Blackwood».

«Prendete nota mentre io leggo.

«Farò due divisioni: Fatti originali per confronti; Espressioni originali da introdursi a seconda dell’occasione.

«Scrivete!»

Io scrissi sotto la sua dettatura:

«1° Fatti originali per confronti: — In origine non vi erano che tre Muse: Melete, Mnemone ed Aede; la meditazione, la memoria ed il canto».

«Voi potete trarre un gran partito da questa bella frase, se saprete adoperarla a proposito. Essa non è molto conosciuta e sembra una frase scelta. Nell’usarla però convien darvi l’apparenza di cosa improvvisata.

Altro esempio: — «Il fiume Alfeo passò sotto il mare, e ne uscì senza che la purezza delle sue acque ne fosse turbata».

«Questa è un po’ vecchia, ma ben vestita e ben presentata potrà ancora avere un’aria di freschezza ed interessare.

«Ecco qui qualche cosa di meglio:

«L’iris della Persia sembra possieda per taluno un dolce e penetrante profumo, mentre per altri esso è assolutamente senza odore».

«Questa è una frase gentile e delicata! Girandola un poco se ne può fare una maraviglia. Noi troveremo ancora qualche altra frase sulla botanica. Non v’è cosa che serva di più, specie se vi si aggiunge una riga di latino.

«Scrivete:

«L’Epidendrum Ilos Aeris dell’isola di Giava produce un bellissimo fiore, e vive anche se sradicata. Gli indigeni la sospendono con una corda al soffitto e ne godono il profumo ancora per qualche anno».

«Questa è una espressione interessantissima! E basta pei confronti.

Espressioni originali da introdursi a seconda delle occasioni: — «Il venerato romanzo chinese Ju-Kiao-Li...

«Eccellente! Usando giudiziosamente di queste poche parole, farete prova di una conoscenza rara della lingua e della letteratura chinese.

«Però è assolutamente indispensabile di conoscere anche lo spagnuolo, il tedesco, il latino ed il greco.

«Vi darò un campione per ciascuna di queste lingue.

«Avvertite che qualunque citazione è buona a raggiungere lo scopo. Sta al vostro ingegno adattarla al soggetto.

«Scrivete:

«Aussi tendre que Zaïre, francese, allusione alla frequente ripetizione della frase: «La tendre «Zaïre» nella tragedia di questo nome».

«Ben usata, questa citazione proverà non solo che conoscete la lingua, ma che ne leggete i classici, e proverà pure il vostro spirito. Per esempio, potrete dire che il pollo che mangiate (in un racconto ove racconterete di essere morta, strangolata da un osso di pollo) non era tanto tenero quanto Zaira.

«Scrivete.

                         Van muerte tan escondida
                         Que non te sienta venir
                         Porque el plazer del morir
                         No me torne a dar la vida.

«Questo è spagnuolo di Don Miguel de Cervantes: «Vieni presto, o morte; non mi lasciar vedere che tu vieni, affinchè la gioia di morire non mi restituisca a vita!». Voi potrete introdurre questa citazione molto a proposito quando vi contorcerete col vostro osso di pollo negli spasimi dell’agonia.

«Scrivete:

               Il pover’uom che non se n’era accorto
               Andava combattendo, ed era morto.

«Questi versi, voi lo indovinate, sono italiani! dell’Ariosto; e voglion dire che nel calore della battaglia un eroe non s’era accorto d’essere stato bravamente ucciso, e continuava a combattere benchè morto. L’applicazione del passaggio va da sè al caso vostro, perchè io spero bene, o mis Psiche, che non scorderete di sballottarvi almeno una buon’ora dopo essere stata strozzata!

«Vogliate scrivere:


               Und sterb’ich doch, si sterb’ich denn
               Durchsie! — durchsie!

«Questo è tedesco purissimo; nientemeno che dello Schiller: «E se muoio, almen morrò per te... per te!».

«Qui è evidente che vi rivolgete alla causa della vostra sciagura, al pollo! Ed in verità, qual gentiluomo, o qual dama, di senso, non consentirebbe, dico io, a morire per un cappone bene ingrassato secondo il vero sistema Molucca, farcito di capperi e di funghi e servito con una gelatina d’arancio a mosaico? (Voi troverete questo piatto da Tortoni).

«Scrivete, ve ne prego:

«Abbiamo qui una frase latina poco comune, e cortissima (in latino nulla è troppo breve): «Ignoratio Elenchi». Un tale ha commesso un «ignoratio elenchi», vuol dire che ha compreso le parole della proposizione, ma non il senso, l’idea. Si tratta dunque di un imbecille, di un povero scemo al quale vi raccomandate, mentre vi dibattete col vostro osso, e che non giunge a comprendere bene quello che gli chiedete.

«Scaraventategli in faccia il vostro «ignoratio elenchi» e di un colpo lo annientate. Se osasse replicare, voi potrete servirgli del Lucano (ecco il passo) dove parla dei puri Anemonæ Verborum, delle parole anemoni. L’anemone ha una grande vivacità di colore, ma non ha profumo. Se volesse poi fare il rodomonte, allora voi lo potrete confondere colle Insonnia Iovis, colle insonnie di Giove, parole che Silio Italico applica ai pensieri gonfiati e presuntuosi.

«Dopo ciò non gli resterà che girare su sè stesso e morire.

«Volete avere la cortesia di scrivere?

«In greco abbiamo qualche cosa di abbastanza grazioso, per esempio, di Demostene:

«ἄνηρ ὁ φευγων αι παλιν μαχεσεται», che si può tradurre: «Colui che fugge può pugnare ancora, ma non lo può chi è morto» . In un articolo alla Blackwood nulla fa più effetto del greco. Persino la stessa stranezza della forma dei caratteri dà allo scritto un aspetto di profondità. Scusate, signora, guardate l’aria severa di questo ipsilon! e quel Pi, certamente dev’essere un vescovo! e quel Tau come graziosamente si biforca!»

Queste furono press’a poco le istruzioni che il signor Blackwood mi fornì. Oh! finalmente, anche io ero dunque in grado di scrivere un vero articolo alla Blackwood! Decisi di mettermi subito all’opera.

Congedandosi da me, il signor Blackwood mi fece la proposta di comprare l’articolo che avrei scritto, ma siccome non poteva offrirmi che 50 ghinee la cartella 10, così credetti meglio di farne approfittare la società, e declinai l’offerta.

Il signor Blackwood mi testimoniò tutta la sua considerazione, e mi trattò davvero con la più squisita affabilità. Le ultime sue parole lasciarono nel mio cuore una profonda impressione, e me ne ricorderò sempre, spero, con riconoscenza.

«Mia cara miss Zenobia, mi disse colle lacrime agli occhi, posso io fare qualche altra cosa per cooperare al buon successo della vostra lodevole intrapresa? Vediamo! lasciatemi pensare! ... Forse voi non riuscirete convenientemente ad affogarvi, ed essere strangolata da un osso, o ad essere morsa... Oh! ma aspettate!... Ma sicuro!... Ed io non ci pensavo! Ma li ho io, nel cortile, due mastini selvaggi... Tom! e Peter!... In cinque minuti divoreranno voi, il vostro mantello, e tutto... Oh! benissimo!... e, mi raccomando, attenti alle sensazioni!...»

Ma siccome io avevo gran premura e non potevo perdere neppure un minuto, così fui costretta, con mio vivo dispiacere, a prender congedo più bruscamente, lo confesso, di quello che avrebbe voluto la stretta convenienza.

Mia prima cura, lasciato ch’ebbi il sig. Blackwood, fu quella di cercare una qualche singolare avventura, in cui cacciarmi, conformemente alle sue istruzioni, e quindi corsi tutto il giorno a traverso la città, nella speranza di imbattermi in qualche avvenimento strano e nuovo che rispondesse all’intensità dei miei sentimenti, e che mi permettesse di adoperarlo nell’articolo di grande effetto che avevo in animo di scrivere.

Fui fortunata, e nel pomeriggio riuscii nell’intento. Fu allora che mi accadde l’originalissimo caso, di cui l’articolo alla Blackwood che segue, scritto nello stile eterogeneo, è la sostanza ed il risultato:


Articolo alla Blackwood di Miss Zenobia




Quale sventura, o mia buona signora

vi ha così privata della vita?      

Comus.


Il pomeriggio era queto e tranquillo; ed io mi incamminai per la gentile città di Edina.

Era nelle vie una confusione, un tumulto spaventevole. Gli uomini parlavano. Le donne gridavano. I fanciulli strillavano. I carri stridevano. I cavalli nitrivano. I gatti facevano il sabba. I cani danzavano.

Danzavano? — È egli possibile? — Sì! Danzavano! Ahimè!, pensai, per me è passato il tempo di danzare! I cani danzavano; ed io, io non lo potevo più! Essi saltavano, ed io piangevo! Essi capriolavano ed io singhiozzavo!

Commoventi e mesti pensieri, che non potranno a meno di rammentare all’erudito lettore lo squisito passo sulla convenienza delle cose che si trova al principio del terzo volume dell’ammirevole e venerando romanzo chinese, il Io-Go-Stow.

Nella mia solitaria passeggiata a traverso la città, io avevo due umili, ma fedeli compagni. Diana, la mia cagnetta! la più dolce delle creature. Una ciocca di peli le scendeva sopra un occhio e lo copriva completamente, ed un nastro celeste le era elegantemente annodato intorno al collo. La sua statura era appena di cinque pollici, ma però la sua testa era da sola più grossa di tutto il resto del corpo.

La sua coda tagliata cortissima dava all’interessante animale un’aria di innocenza oltraggiata che la faceva ammirare da tutti.

L’altro compagno era Pompeo! Pompeo, il mio negro! Oh! soave Pompeo, potrò io mai scordarti? Io avevo passato il mio sotto al suo braccio. Egli non era alto che tre piedi (io amo mettere i punti sugli i) e poteva avere 70 anni; fors’anche 80. Aveva le gambe incurvate ed era alquanto obeso; la bocca aveva larga e le orecchie non piccole; però i suoi denti sembravano perle, ed i suoi occhi, grandi, largamente aperti, erano di un delizioso color bianco. La natura gli aveva negato il collo, e le sue caviglie (come in tutti quelli della sua razza) posavano nel mezzo della parte superiore del piede.

Egli vestiva con notevole semplicità. Tutto il suo abito consisteva in un colletto alto nove pollici, ed in un soprabito di drappo scuro, quasi nuovo, che in altri tempi aveva servito al grande e robusto ed illustre dott. Money- penny.

Questo soprabito era di un taglio severo! Era ben fatto! Era quasi nuovo! Pompeo lo teneva rialzato con ambe le mani affinchè le falde non trascinassero nel fango.

La comitiva, come dissi, si componeva di tre persone, di cui due ora sono conosciute. Ma ve n’era una terza! questa terza persona ero io! Io sono la signora Psiche Zenobia!

In quell’occasione io indossava un abito di raso cremisi con una mantelletta araba color del cielo. La veste era abbellita da fermagli di nastro verdi e da sette volanti di color aranciato.

Io ero la terza persona della comitiva! C’era la cagnetta guercia! c’era Pompeo! c’ero io! Noi eravamo tre; così, si asserisce, in origine, non vi erano che tre Furie: Malty, Mommy e Hetty; vale a dire la Meditazione, la Memoria ed il Violino.

Appoggiata al braccio del galante Pompeo, e seguita a rispettosa distanza da Diana, io scendeva una delle più popolari e ridenti contrade di Edina allora deserta; quando, ad un tratto mi si parò innanzi una chiesa, una cattedrale gotica, vasta, veneranda, con un alto campanile, la cui cima si perdeva nelle nubi.

Quale follìa si impadronì allora di me? Perchè sono io andata così incontro al mio triste destino? Perchè mi prese l’irresistibile desiderio di salire quella torre vertiginosa? Dove era dunque il mio angelo custode?

Ve ne sono ancora di tali angeli? Sì! Oh! il monosillabo pieno di turbamento! qual mondo di mistero, di scienza, di dubbio, di incertezza si racchiude entro le tue due lettere!

Le porte aperte della chiesa mi attiravano! Entrai! e, senza sciupare i miei volanti color d’arancio, penetrai nel vestibolo. Così, si racconta, l’immenso fiume Alberto passa intatto, a secco, sotto il mare.

Le scale non finivano più. Esse giravano. Sì! giravano e montavano sempre!

Sortii per respirare, ed allora notai un fatto troppo importante, sotto il punto di vista morale e metafisico, perchè io possa tacerlo.

Già da qualche tempo avevo osservato dei singolari movimenti nella mia Diana. Ma in quello istante mi accertai... Sì, non potevo ingannarmi, ero nel pieno possesso delle mie sensazioni. Non v’era più dubbio! Diana sentiva un topo! Anche Pompeo lo constatò. Un topo era stato sentito e sentito da Diana!

Ma che cosa è mai dunque la tanto vantata intelligenza dell’uomo! Il topo era , vale a dire in qualche luogo. Diana lo aveva sentito, ed io, ahimè! io non lo potevo sentire.

Nella stessa maniera l’Iris prussiano ha per taluno un grato e soave profumo, mentre per altri è completamente senza odore.

Giungemmo finalmente in cima! Pompeo mi tese la mano, ma nel fare questo gesto lasciò cadere le falde dell’abito! Ma non si stancheranno dunque mai gli Dei di perseguitarmi?

Le falde dell’abito caddero e si attorcigliarono ai piedi di Pompeo, e lo rovesciarono.

Egli precipitò in avanti e la sua testa colpendomi in mezzo al petto, mi lanciò lunga e distesa con lui sul duro e sporco pavimento del campanile.

La mia indignazione scoppiò pronta, tremenda! Lo presi furiosamente con ambo le mani per i capelli, e gli strappai una enorme quantità di quella materia nera, cresputa e ricciuta, che gittai lontano con tutti i segni del più profondo disprezzo. Quella lana cadde in mezzo alle corde e vi restò!

Pompeo non disse una parola; ma mi guardò e sospirò! Gran Dio! quale sospiro! Ebbi rimorso della mia azione e guardai con raccapriccio quella ciocca di peli che pendeva dal cordame, e mi parve vivesse! mi parve fremesse di sdegno!

Non altrimenti l’Happidandy Ilos Aeris di Giava produce un bellissimo fiore che ha vita anche se la pianta è sradicata. Gli indigeni la sospendono con una fune al tetto della casa, e ne godono, per lunghi anni, il dolce profumo.

Giunti alfine tutti nella stanzetta del campanile, ci accorgemmo che non v’erano finestre. La poca luce penetrava da uno spiraglio quadrato largo poco più di un piede ed alto sette piedi dal suolo. Un immenso ingranaggio di ruote e di macchine dall’aspetto cabalistico si trovava di faccia al foro, ed a traverso dello spiraglio passava un’asta di ferro che partiva dal macchinismo.

Fra le ruote ed il muro non v’era che uno spazio appena sufficiente pel mio corpo; ma come salire lassù? Oh! non vi sono difficoltà pel vero genio! Chiamai Pompeo e gli ordinai di starsene fermo, ritto sotto all’apertura, e, salendo sulle sue spalle, riuscii a passar la testa ed il collo attraverso al finestrino. Oh! il meraviglioso panorama! Io mi abbandonai tutta al godimento sublime!

Non mi perderò a descrivervi la città di Edimburgo. Tutti furono ad Edimburgo, tutti conoscono la classica Edina! Mi limiterò ai principali particolari della mia pietosa avventura.

Dopo avere alquanto soddisfatta la mia curiosità e studiata così dall’alto la fisionomia generale della città, rivolsi la mia attenzione ad esaminare la chiesa e la delicata architettura della torre su cui mi trovavo. Rimarcai che il foro pel quale la mia testa poteva passare giusto, giusto, si apriva nel quadrante di un gigantesco orologio. Dalla strada dove fa l’effetto di un largo buco da chiave come si vede nei quadranti degli orologi da tasca. Senza dubbio il vero scopo dell’apertura era quello di permettere al braccio di un impiegato di accomodare, occorrendo, le sfere dell’orologio. Osservai con sorpresa le enormi dimensioni di quelle sfere, di cui la più lunga era almeno dieci piedi e larga da 8 a 10 pollici. Erano fatte in acciaio massiccio, e pareva che i bordi ne fossero affilati.

Dopo aver notato questi dettagli, e qualche altro particolare, rivolsi di nuovo il mio sguardo alla stupenda prospettiva che avevo dinanzi, e mi assorbii nelle mie contemplazioni.

Fui disturbata dalla voce di Pompeo, che mi dichiarava non poter più resistere, e mi pregava di scendere dalle sue spalle! Era assurdo! e glielo dissi. Egli insistette, ed allora, in termini perentorii, gli replicai che era un imbecille; che aveva commessa un Ignoramus eclench-yre, che le sue idee non erano che Insommary Bovis, che infine le sue parole non valevano neppure un’Ennemye warry borʼem. Egli rimase soddisfatto!

Da circa una mezz’ora io era immersa nella contemplazione dello spettacolo bellissimo, quando fui d’improvviso svegliata da qualche cosa di freddo che mi premeva dolcemente sulla parte superiore del collo!

Inutile dire la commozione intensa che ne risentii! Non poteva essere Pompeo che avevo sotto i piedi, non Diana, cui avevo ordinato di starsene seduta graziosamente sulle zampe di dietro, là giù, in un angolo. Cosa era dunque, Dio mio?

Ahimè! Non lo seppi che troppo presto! Voltando leggermente il capo, mi accorsi, con terrore, che l’enorme, lucente sfera (quella delle ore), come una scimitarra, nel corso della sua rivoluzione oraria, era discesa sul mio collo! Compresi che non c’era un minuto da perdere! Cercai di ritirare il capo. Troppo tardi! L’orrenda trappola, in cui la mia testa era stata presa, si rinchiudeva sempre più, con una rapidità che sfugge all’analisi. Non è possibile descrivere l’angoscia di un simile istante! Alzai le mani e provai con ogni mia forza di smuovere la barra di ferro! Inutile! Era come se avessi provato di muovere la cattedrale istessa!

E la lama scendeva, scendeva sempre!

Chiesi soccorso a Pompeo, ma egli mi rispose che lo aveva offeso, e che ben mi stava.

Inviai un grido supremo a Diana. Ella mi mandò un bow-vow-vow, che voleva chiaramente significare che io le avevo ingiunto di non muoversi.

Ogni speranza di aiuto mancava; ed intanto la pesante e terribile falce del tempo (compresi allora la forza letterale di questa citazione classica) non si fermava! Già aveva spinto il suo filo per un pollice nella mia carne, e le mie sensazioni diventavano confuse ed indistinte. Talora mi pareva di essere a Filadelfia presso al potente dott. Money-penny; tal’altra nel gabinetto del sig. Blackwood, ricevendo le sue preziose istruzioni. Poi il dolce ricordo di antichi giorni migliori si presentò al mio spirito, e sognai il felice tempo in cui il mondo non era che un deserto, e Pompeo non era ancora interamente crudele!

Il tac-tac della macchina mi divertiva. Mi divertiva perchè, in quel punto, le mie sensazioni confinavano col benessere perfetto, e le più insignificanti circostanze mi davano piacere.

Ma ad un tratto provai un ineffabile dolore, e compresi la mia miserevole posizione. La lama era entrata per due pollici nel mio collo. Io invocai la morte liberatrice, e le mie labbra mormoravano gli squisiti versi del grande poeta spagnuolo, Miguel de Cervantes:

               Vanny, buren, tan escondida
               Querry no te senty venny
               Pork and pleasure, delly morry
               Nommy, torny, darry, widdy!

Un nuovo argomento di terrore, tale da impressionare i più forti, si produsse. I miei occhi, sotto la terribile pressione, uscivano letteralmente dall’orbita!

Mentre pensavo al pericolo di perderli, uno di essi uscì fuori dalla mia testa, cadde ed andò a fermarsi nella grondaia che incominciava la cima dell’edificio.

Ma la perdita di quest’occhio non mi fece tanto effetto, quanto l’aria insolente di indipendenza, e di sprezzo, colla quale esso mi guardava. Era lì, nella grondaia, precisamente sotto al mio naso, e la sua tracotanza sarebbe invero stata ridicola, se non fosse stata rivoltante.

Mai avevo veduta una simile sfrontatezza! Questo contegno, da parte del mio occhio nella grondaia, era non solamente irritante per la manifesta insolenza, e per la vergognosa ingratitudine, ma altresì sconveniente in modo eccessivo pel fatto della simpatia che esiste fra i due occhi della medesima testa anche se divisi. Diffatti, io fui obbligata, malgrado la mia ripugnanza, ad aggrottare le sopraciglia, a strizzar l’occhio in armonia perfetta con quell’altro, scellerato, che giaceva sotto di me.

Fui sollevata da quest’oppressione solo quando se ne andò anche l’altro.

Egli, cadendo, prese (forse per premeditata intelligenza) la stessa strada del primo.

Tutti e due si fermarono, vicini, nella grondaia.

In quel punto la lama era entrata per lo spessore di quattro pollici e mezzo nel mio collo, il quale non era più attaccato al busto che da un sottile lembo di pelle.

Le mie sensazioni furono allora quelle dell’assoluta felicità! Io sentivo che, fra cinque minuti, sarei tolta dalla incomoda posizione in cui mi trovavo.

Non m’ingannai, perchè a 5 ore e 25 minuti precisi, dopo il mezzodì, l’enorme lama aveva compita quella parte della sua terribile rivoluzione sufficiente per tagliare il poco che ancor rimaneva del mio collo.

La mia testa ruzzolò lungo le pareti del campanile, si fermò un attimo nella grondaia, poi, d’un tuffo, balzò giù in mezzo alla via.

Debbo confessare che in quel momento le mie sensazioni rivestirono il carattere il più strano, o, meglio, il più misterioso, il più inquietante, il meno comprensibile.

Quando io avevo ancora la mia testa io credeva che quella fosse il mio io, che quella fosse la vera signora Psiche Zenobia. Ebbene, no! Ora mi persuadevo che era il corpo, non il capo che costituiva la mia reale identità. Per chiarire bene le mie idee a questo riguardo, cercai la mia tabacchiera nella tasca dell’abito, ma nel prenderla e nel tentare di aspirare una presa del suo delizioso contenuto, m’accorsi subito che mi mancava un oggetto indispensabile, e quindi buttai la tabacchiera giù, alla mia testa.

Essa aspirò voluttuosamente una presa, e m’inviò un sorriso riconoscente. Poi mi indirizzò anche una allocuzione che non potei comprendere che in modo alquanto vago, mancandomi le orecchie. Sentii però abbastanza per capire che essa era sorpresa al più alto grado di vedermi ancor viva. In fine essa citò le nobili parole dell’Ariosto:

               Il pover hommy che non sera corty
               And have a combat tenty, erry, morty,

paragonandomi così a quell’eroe che nel calore della pugna, non accorgendosi d’esser morto, continuava a battersi con instancabile valore.

Nulla oramai mi impediva di scendere dal mio osservatorio. Mi lasciai cader giù!

Non ho mai potuto sapere che cosa Pompeo abbia visto di tanto particolarmente singolare in me; ma è un fatto che aprì la bocca da un’orecchia all’altra, chiuse gli occhi come se avesse voluto rompere delle noci colle ciglia, e, raccolte le falde del soprabito, si lanciò giù per le scale e scomparve.

Scaraventai alle calcagna del miserabile le veementi parole di Demostene:

            Andrew O’Phlegeton, you really wake haste to fly.

poi mi volsi alla cara del mio cuore, al mio vezzoso idolo da un occhio solo, alla mia Diana dal folto pelame!

Ma, ahimè! quale orribile visione colpì il mio sguardo? Non era forse un topo quello che scivolava in quel buco?

Non eran forse quelle le ossa rosicchiate del tenero angioletto mio, crudelmente divorato dal mostro?

Gran Dio! Non è forse l’anima fuggita, l’ombra della mia ben amata quella che io vedo là, assisa, con tanta grazia, in quel canto?

Ascoltiamo: Esso parla, il fantasma! e, Numi del cielo in tedesco ella parla, nel tedesco di Schiller:

               Unt stobly duk, so stubly dun
               Duk she! Duk she!

Oh! le sue parole sono vere! Sì!... E se io muoio, per te muoio! per te!

Soave creatura! Anche tu ti sei sacrificata per me!

Senza cane, senza negro, senza testa, che mai rimane ora alla sventurata signora Psiche Zenobia?

Ahimè!... nulla!

Ho detto.

F. G.

  1. Così, in tempo più vicino a noi, un altro grande, Riccardo Wagner, volle, nei Maestri Cantori, fare la caricatura della musica dell’avvenire che gli sciocchi schernivano, impotenti a comprenderla; e volle pure lanciare ancor più in su, colla splendida creazione, la musica sua, la maniera di concepire musicalmente, che egli, il maestro altissimo, aveva creato.
  2. Pedante pretenziosa. — Nella pronuncia il suono si avvicina molto a quello di Psiche Zenobia.
  3. Le parole in francese sono in questa lingua anche nell’originale.
  4. Moneta da un soldo.
  5. Pretty-blue-battch (P. R. E. T. T. Y. B. L. U. E. B. A. T. C. H.) letteralmente: graziosa infornata azzurra (!).
  6. Cant, Gergo: Kant, il celebre filosofo tedesco autore della «Critica della Ragione pura».
  7. Magazine.
  8. Frastuono demagogico.
  9. Critica della ragione pura. — Elementi metafisici di scienza naturale.
  10. 1500 lire.


Note

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