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CAPITOLO XXVII.
I Libri.
Si dava spietatamente la caccia ai libri ritenuti pericolosi e che dal di fuori s’introducevano in Toscana. Ma la caccia quasi sempre dava frutti meschini, imperocchè le misure della Polizia erano facilmente eluse. S’introducevano i libri nascondendoli nei falsi fondi di barili o di botti. Altri s’introducevano con frontespizî adulterini. Spesso un frontespizio della Gerusalemme Liberata, del Tasso, serviva a far penetrare di contrabbando la Storia d’Italia, del Botta, o le poesie del Berchet, e quello di un’opera del Segneri, l’Assedio di Firenze del Guerrazzi. Armatori, spedizionieri, commercianti, facchini di dogana s’industriavano ad introdurre libri proibiti. Qualche volta lo stesso introduttore ingannava la vigilanza della Polizia, distraendo l’attenzione degli agenti con false indicazioni. Si correva a sequestrare una balla di libri in un tal punto della frontiera, mentre i libri entravano da un’altra parte. Ma come sempre accadeva in Toscana, la vigilanza non era esercitata che a sbalzi. Per un mese di rigore, ne passavano cinque o sei di sicura tolleranza, e i librai ne approfittavano per riempire i loro magazzini di merce vietata e sospetta, che, come qualsiasi frutto proibito, si vendeva ad un prezzo esageratamente superiore al reale.1
Per non eccedere le giuste proporzioni di un capitolo, noi non faremo menzione che di pochi di codesti libri ritenuti altamente pericolosi dalla Polizia ed introdotti e diffusi alla barba di quest’ultima, in Toscana.
Diamo il primo posto ad una pubblicazione fatta dal Tommasèo a Parigi, nel 1835, col titolo: Opuscoli Indediti di frà Girolamo Savonarola, e col sotto titolo: Italia.
La pubblicazione era passata inosservata al Governo Toscano, quando monsignor Mi.....i, arcivescovo di Firenze, che in altro luogo abbiamo visto esercitare il nobilissimo ufficio di spia, richiamò l’attenzione della Polizia su quelli opuscoli, come risulta dal seguente rapporto in data del 19 dicembre 1835 del Fabbrini, Segretario generale del Buon Governo, al cav. Bologna: „Monsignor Arcivescovo, cui sono stato ad ossequiare, mi ha tenuto proposito in istrettissima confidenza per rassegnarne la notizia al mio superiore, che è a sua conoscenza circolare a Firenze e vendersi l’acrimoniosa e d’altri gravissimi vizî in ispecie, in fatto di politica, infetta opera di Tommasèo, che fa uno strazio orrendo dei Governi d’Italia e d’oltremonti...... Rileva il prelato che egli ha potuto avere detta opera da un cherico istruito, ma di buona e provata moralità, che la confidò al presule......„
Veramente a don Neri Corsini quella pubblicazione non era sfuggita, e con biglietto del 12 ottobre 1835 aveva scritto al Bologna: „Sarebbe bene che si prendesse una misura; ma ove circolasse in poche copie, una proibizione farebbe più male che bene, invogliando molti a procurarsela.„ Ma la denunzia dell’Arcivescovo fece cambiare proposito al Corsini, forse perchè il libro circolava troppo apertamente ed anche perchè, interpellato sul da farsi lo stesso Fossombroni, questi, il 12 gennaio 1836, rispondeva che „la riteneva come un’opera che sorpassava di gran lunga in malignità le tante altre produzioni rivoluzionarie di simile specie.„ Come era da prevedersi, in seguito a un simile responso, l’opera fu proibita e sequestrata nei pochi esemplari che si potè trovare presso i librai.
Verso quel tempo un’altra opera del Tommasèo destò l’attenzione del Governo Toscano. Erano comparse a Parigi le Confessioni o Odi dello scrittore Dalmata, e la Polizia, che dopo l’avventura capitatale a proposito della Antologia non si fidava più dei propri occhi, diede a leggere il libro ad un censore, più poliziotto che letterato, il quale emise il suo parere in una relazione da cui stralciamo i seguenti passi:
„Passo al brano; Cominciato in una Chiesa e finito al Teatro Italiano. Tutti li scritti anteriori e posteriori a questo sono allegorici, ma in questo particolarmente si scorge più qua e più là la scintilla della prima educazione di Tommasèo a lui data da un suo zio frate conventuale di S. Francesco, che credo tuttora vivente, il quale tendeva a formarsi nel talentoso nipote un dotto proselite.... Il giovine Tommasèo ne incominciò il tirocinio, ma quel fuoco di libertà che lo avvampava fino dai primi anni, lo strappò ai voti dell’innamorato suo zio frate, anche esso coltissimo. Nel seguito di questo scritto si rinviene uno svolazzìo di concetti che sono sparsi tutti di quei semi che lo alimentano nei liberi suoi pensamenti; fatto sta che sino a che egli scrive in una chiesa, come ci fa sapere, le cose vanno bene; quando poi termina si vede che il Tommasèo è al teatro. Tommasèo è una testa esaltata, mesce il profano al sacro.... L’Arcadia Romana, anche sola, poetica diatriba, basta a far concepire l’idea d’un nemico della Corte Romana. Da questo scritto si può immaginare quello che può essere il resto del libro e l’empio fine d’una testa modernamente persuasa dello spirito di rivolta. La scena è nel Serbatoio: — meno male non fu detto nella stalla; però sono sinonimi: Prelati, Arcadi, gregge, che non parlano.... Tommasèo incomincia la satirica azione con un coro d’Arcadi e procura d’imitare il parlare arcadico. Quindi parla il rispettabilissimo cardinale Bernetti, uomo a me notissimo, di tutta probità e lo calunnia di libertinaggio: Cantiam le vaghe donne! Se quel virtuoso Cardinale giungerà a leggere questa contumelia, mi sembra di vederlo abbassare la testa offrendo a Dio l’insulto e perdonando e chiedendo per esso calunniatore misericordia a Dio. Mette poi il maligno Tommasèo in ridicolo l’eminentissimo Macchi, perchè ha sempre mostrato il più vivo zelo per la religione e per i troni cattolici. Parla il coro e con grazia pastorale arcadica, satirizza quei buoni sudditi che non si stancano d’obbedire ai loro monarchi. Nei freddi inverni e nelle calde estati. — Conoscendo quel Tommasèo nelle allegoriche sue maniere d’esprimersi, io interpreto che con quel verso egli ha voluto dire essere la cecità dei popoli nella loro venerazione verso i Re da rispettarli nell’inopia (inverno) come nell’abbondanza (estate). Torna ad ingiuriare il cardinale Bernetti e il cardinale Marco y Catalan e fa dire al pro-custode dell’Arcadia e lo deride mettendogli in bocca: Bello è il monte Parnaso! Perchè non è affatto poeta, se è vero che da non molto tempo sia stato eletto a quel posto il cardinale Brignole. Deride il cardinale Castracani, a cui si attribuisce la smania d’esser Papa, col dire: Son belli i troni. Fa sortire il cardinale Odescalchi, il quale non è conosciuto pel più devoto al Papa, almeno all’attuale, con un: Il gran Pastor baciam nei piedi — lo che sa di tutta la possibile ironia, come non è davvero appropriato l’insulto all’ottimo Bernetti: E in bocca le Pimplee sorelle, le quali sono le muse; ma qui il satirico poeta intende le ragazze e le meno mature. Mette in iscena il cardinale Pedicini, ora arcivescovo di Genova, il quale avendo fatto la carriera diplomatica è molto ligio ai Monarchi. Dipinge, in ultimo, il cardinale Larabruschini, ch’è genovese, il quale essendo Camerlengo stimola il Papa a mettere nuovi dazî, e gli dice: Mungi le capre tue, intendendo i sudditi, e con quel: Picchia i caproni, intende i potenti, i ricchi, che sono d’ordinario i più ostili al Sovrano. Finisce il Tommasèo la scena, dipingendo il carattere fiero e desideroso di sangue del cardinale Rivarola da me conosciuto a Perugia e a Roma.....„
E qui il poliziotto-censore narra alcuni atti di rigore dell’eminentissimo Rivarola, quindi continua: „Si vede che il Tommasèo è bene informato del carattere di questo Cardinale, ponendogli in bocca le fiere parole: Ovver gli ammazza, li teschi a un ramo appendi ed indossa la cruenta pelle, che vale quanto il Tommasèo avesse detto: Ammazza ed appròpriati le fortune degli ammazzati (parlando a Papa Gregorio).....„
„La poesia nominata: Ad Una, ed è segnata: Firenze 1833, è diretta alla moglie del negoziante Faucci, la quale a quell’epoca si separò per tal causa dal marito.... Un’altra poesia è diretta a quella tale Giuseppa Marchesi, presso la quale il poeta viveva qui a Firenze, nel 1833.....„
Al Bologna, il parere dell’anonimo censore-poliziotto parve che peccasse d’esagerazione e forse di risentimento personale; e fece esaminare il libro da un censore-letterato, anche questo anonimo, il quale espresse il suo giudizio nel modo seguente: „Queste poesie non può dirsi che abbiano somma facilità di verso; pur tuttavia l’A. maneggia la lingua con maestria e padronanza assoluta. Non par che vi si riscontri massima, cosa, sentimento contro la religione; pare anzi che l’A. professi massime del tutto cristiane. Pur qualche cosa vi si legge di non perfettamente morale, parlandosi di baci ecc. ecc. Non vi ha dubbio poi che l’A. sia d’opinioni liberali; non ne fa però pompa, le professa, ma lo esterna quando se ne presenta l’occasione.... L’autore degli Schiarimenti (cioè, il rapporto del censore-poliziotto), ritiene che tutte le poesie sieno allegoriche; ma io avendole volute studiare non lo ritenni, perchè per quanto v’abbia meditato non mi è riuscito d’afferrare il senso occulto. Solo è probabile che nell’Arcadia l’A. si rida della Corte di Roma.„
Il libro, per quanto il secondo censore non gli fosse apertamente ostile, fu proibito.
⁂
Un libro che turbò i sonni alla Polizia del tempo, fu l’Assedio di Firenze, del Guerrazzi, e la cui prima edizione — senza nome d’autore — apparve nel 1836. Il famoso romanzo, che il Guerrazzi diceva d’aver scritto perchè non poteva combattere una battaglia, fu stampato a Marsiglia e di là introdotto in Toscana per la via di Livorno. Il Bologna, il dì 24 settembre 1836, scriveva al Granduca: „Relativameute all’introduzione nel Granducato per la parte di Livorno ed alla abbondanza della diffusione della pessima opera: L’Assedio di Firenze, il sottoscritto crede conveniente di scrivere al Governatore di Livorno, perchè fosse data a lui la primordiale istruzione per la direzione da darsi colà all’affare, riservandosi a completarla allorchè la regia Censura abbia rimesso il suo voto sull’opera; e nel contempo s’è scritto alle autorità provinciali e di sede di negozi librari perchè facciano procedere al deposito degli esemplari di tale libro. A Firenze ne sono stati raccolti una cinquantina, ma risulta che già n’era stato fatto uno smercio copioso in dettaglio a molti particolari. Essendo certo, salvo il più preciso giudizio della regia censura, che l’opera è eminentemente sovversiva, il sottoscritto ha già ordinato che sia formalmente proceduto in via economica contro gl’introduttori dall’estero in Toscana, e credo che possa convenire di fare altrettanto verso i venditori all’interno, operazioni ugualmente proposte dalla legge 28 marzo 1743.„
Il 1 ottobre dello stesso anno scriveva al Granduca: „Il padre M. Bernardini, regio censore, ha già rimesso il suo voto sopra i due primi tomi dell’Opera: L’Assedio di Firenze. Il giudizio del censore giustifica che non sia stato erroneo il giudizio pubblico sull’indole di questa pessima pubblicazione.„
E il 4 dello stesso ottobre: „Avendo il regio censore rimesso l’intiero suo voto sull’opera: L’Assedio di Firenze qualificandola pessima e pericolosissima nel doppio rapporto religioso e politico, verrà inviato al Governatore di Livorno perchè sia unito agli atti contro gl’introduttori e venditori dell’opera.„
Benchè il nome dell’autore del romanzo non fosse un mistero per alcuno, anzi corresse per le bocche di tutti, pure alla Polizia mancavano le prove che il libro incriminato fosse opera del Guerrazzi. Come si vede, i poliziotti toscani erano coscienziosi, ed è divertente ed interessante a un tempo il tener dietro, negli atti del Buon Governo, agli sforzi e agli studi fatti e tentati da quella brava gente per venirne a capo. Un commissario si ricordò di aver letto in una prefazione premessa da Giuseppe Mazzini all’Elogio di Cosimo Del Fante, del Guerrazzi, stampato a Marsiglia, come l’agitatore genovese, visitando lo scrittore livornese a Montepulciano, l’avesse trovato intento a scrivere un romanzo intorno alla caduta della repubblica fiorentina; un altro commissario trovò una singolare coincidenza fra alcune frasi dell’Elogio predetto colla prefazione posta innanzi all’Assedio. Gl’indizi, insomma, s’accumulavano per far ritenere che il Guerrazzi fosse l’autore del libro: ma la Polizia sempre scrupolosa, voleva avere in mano qualche cosa di più; per esempio, il manoscritto o parte di esso, anche perchè i soliti confidenti ne avevano promesso la scoperta e il sequestro. Perquisizioni furono fatte qua e là; ma la Polizia non potè mai avere il prezioso e tanto desiderato autografo. Però, smessa l’idea di restringere il procedimento ai soli introduttori e spacciatori del libro, come peraltro voleva la legge del 1743, il Bologna ebbe l’infelice pensiero di estenderlo anche contro l’autore, il Guerrazzi, benchè nessuna prova contro costui fosse stata raccolta. Laonde all’auditore di Governo di Livorno furono impartiti ordini in tale senso, e fu imbastito un immane processo, in cui figuravano come imputati, insieme al Guerrazzi, quasi tutti i librai della Toscana. Poi quella furia inquisitoriale, parve a un tratto sfumare, quando nuovi ordini s’impartirono perchè la processura fosse rapidamente condotta a fine. E di questa ripresa d’ostilità poliziesche contro il Guerrazzi e il suo libro, diventato ormai famoso, la causa deve ricercarsi nello zelo soverchio d’un poliziotto che allora reggeva il commissariato interno di Livorno, Filippo Zanetti, degno di vivere sotto il duca di Modena. Costui, divorato da un odio implacabile contro tutto ciò ch’era o credeva liberale, non vedeva che congiure, complotti e insidie dipingendo il Guerrazzi come capo e centro delle macchinazioni rivoluzionarie in Livorno. L’11 maggio 1837 scriveva al Bologna: „Ebbi notizia che il dottor F. D. Guerrazzi vada scrivendo un’opera peggiore dell’Assedio di Firenze nei rapporti politici e religiosi intitolata: I Vespri Siciliani. Si vuole che nei giorni festivi il Guerrazzi detti ad un amanuense il nuovo prodotto dell’esaltata sua testa, riunendosi ad un terzo piano di uno stabile in faccia alla Pensione Svizzera, donde sarebbero stati osservati operare quanto sopra, non senza molta circospezione. Vero che sia il dedotto, sarà tentata una sorpresa e si studierà ogni mezzo per non renderla frustranea.„ E il 1 giugno tornava a scrivere sul celebre romanziere: „Questo Guerrazzi è lo scandalo di Livorno in genere di liberalismo esaltato, e meriterebbe ad esempio di tutti d’essere espulso e cacciato, seppure fosse possibile, da godere il quieto vivere della Toscana.„
Alle premure fatte da Firenze, l’auditore del Governo rispondeva il 4 luglio: „Oso lusingarmi... che non si attribuirà, a mia trascuratezza il ritardo frapposto alla spedizione del noto processo contro gl’introduttori e spacciatori, nonchè contro l’autore del romanzo L’Assedio di Firenze. Mentre fin qui si è tenuto tale affare quasi in oblìo, si pretenderebbe adesso condurlo a termine con una sollecitudine impossibile.... Vorrà la S. V. Illma riflettere che trattasi d’una procedura che implica circa 30 imputati, che ha un sommario che supera le 500 pagine, con informativi di 16 quaderni.....„
Sicuro, nemmeno per una grossa congiura o per una sommossa preceduta ed accompagnata da un’ecatombe di poliziotti, si sarebbe scribacchiata tanta carta e sciupato tanto inchiostro!
Il processo fu compiuto e il Guerrazzi per la terza o quarta volta fu posto in carcere.
- ↑ La polizia aveva delle spie fra i librai e fu una di codeste spie che nel 1839 denunziò, come introduttore di libri proibiti, il Le Monnier, che allora era direttore della tipografia Borghi.