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CAPITOLO XXXIII.
Giuseppe Giusti.
Quando F. D. Guerrazzi, in una nota al capitolo XX della Beatrice Cenci scrisse a proposito di Giuseppe Giusti le parole: „A vero dire anima ebbe più lo interrogato Bartolini (il Guerrazzi riportava la strofa: Lorenzo, o come fai ecc. della poesia: La terra dei Morti) che lo interrogatore Giusti. Questi con braccia di Sansone scosse il luttuoso edificio della odierna società, e poi ebbe paura dei calcinacci che cascavano„ — a molti parve che dettando siffatte parole lo scrittore livornese s’ispirasse più ad uno spirito di partigianeria politica che ad un sentimento di giustizia. Come si sa, il Guerrazzi, la sua prosa qualche volta scultoria, quasi sempre acre, l’adoperava come ferro arroventato per bollare in fronte coloro che non la pensavano a modo suo, specie i moderati toscani, che egli non sapeva, nè voleva distinguere dai più brutti strumenti della servitù a base di papaveri di casa Lorena. Ma coloro che conobbero intimamente il Giusti, o poterono con serenità di giudizio mettere in confronto la sua vita di cittadino co’ suoi versi, quelle parole non istimarono soverchiamente dure: e il Carducci, di recente, non manifestò sul grande satirico toscano un giudizio diverso di quello del Guerrazzi, benchè non avesse come quest’ultimo a rimproverare ai moderati del suo paese nè la prigionia, nè l’esilio. Disgraziatamente, per la fama del Giusti, il giudizio pronunziato su di lui dal Guerrazzi non solo non era improntato ad una eccessiva severità, ma era diremmo quasi mite. Come proveremo cogli atti dell’Archivio Segreto, il Giusti non aspettò nemmeno che i calcinacci dell’edificio da lui scosso con braccia di Sansone gli cadessero intorno, perchè rinnegasse la sua opera demolitrice e con animuccia da femmina intonasse il mea culpa. Quando i primi calcinacci cominciarono a piovergli sul capo, egli già da qualche tempo ed appunto per quella sua benedetta paura dei calcinacci, aveva messo gli strali della sua musa al servizio delle persone amanti dell’ordine che in Toscana, nel 1846, quando il Giusti cominciò a tirare un frego sul suo passato di poeta rivoluzionario, ritenevano che si camminasse con passo di soverchio accelerato.
Imperocchè, ormai è risaputo, e quanto verremo narrando non farà che riconfermarlo, che se nel Giusti la strofa volava come un dardo, l’animo era pacifico e il carattere frollo. In lui la satira non era che una esercitazione letteraria. Scrisse l’Incoronazione, lo Stivale, il Brindisi di Girella, come avrebbe scritto un sonetto per gli occhi di Nice per la monacazione d’una fanciulla di famiglia patrizia, se invece di nascere nel nostro secolo, fosse nato ai tempi dei pastori e delle pastorelle d’Arcadia. Era insomma un cultore dell’arte per l’arte, o meglio della satira per la satira. L’anima del cittadino non valeva la frusta del poeta.
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Siamo però giusti: lo stesso poeta lo sapeva; e, quel ch’è meglio, lo confessava. Egli non s’atteggiò mai ad uomo d’azione. Era troppo prudente per farlo. Nel suo schizzo autobiografico diretto, sotto forma di lettera, il 14 settembre 1844, ad Atto Vannucci, scriveva: „Per quanto possano essere corse alcune voci oziose sul conto mio, dichiaro che non ho mai patito veruna molestia nè per parte del Governo, nè per parte del pubblico, e rigetto da me la nomea di vittima e di perseguitato....„ Sotto le quali parole non deve cercarsi nessun sentimento di modestia; imperocchè, il Governo Toscano, per quanto, di tratto in tratto, i versi del Giusti gli portassero via a pezzi la pelle, lo ritenne sempre come un’Aristofone perfettamente innocuo, un Giovenale da tavolino, incapace di procurargli il più leggiero grattacapo. Quanto a crederlo poi un rivoluzionario, un soggetto pericoloso, un apostolo di barricate, sullo stampo di Giuseppe Mazzini, non c’era pericolo che come tale lo ritenesse, nemmeno per un solo istante; e se qualcuno avesse tolto occasione da questa sua credenza piuttosto bonaria per metterlo in guardia, egli ne avrebbe riso di cuore. Si figuri il lettore, se il Giusti poteva essere una vittima, un perseguitato!
E sì che allora la Polizia Toscana non si limitava ad applicare qualche mese di reclusione o di confino al solo Francesco Domenico Guerrazzi, lo scrittore tribunizio. Sorvegliava accuratamente gente, che poi passò per moderata di tre cotte, come il Salvagnoli, il Panattoni, il Marzucchi, e l’ancora vivente Enrico Poggi, il venerando autore della Storia d’Italia, cui l’ufficio di sostituto alla Procura Generale non lo metteva al sicuro dei sospetti che nei poliziotti destava la sua amicizia coi liberali, segnatamente col Salvagnoli.
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Ma è tempo di mettere mano ai documenti. Negli atti segreti della Polizia appare scritto, per la prima volta, il nome di Giuseppe Giusti nel 1839, poco dopo la riunione a Pisa del primo Congresso degli scienziati. Il poeta aveva scritto allora la satira: Per un Congresso, e il Bargello di Pisa trasmettendone il 30 novembre una copia manoscritta alla Presidenza del Buon Governo, scriveva: „Per le notizie avute sembra che questa composizione provenga dalla penna di un tal dott. Giusti fiorentino (sic.).„ — Però, l’anno innanzi, un esemplare della satira: L’Incoronazione era stato trasmesso alla Presidenza del Buon Governo, ma senza che fosse accompagnato da nessuna nota illustrativa; e, bisogna confessarlo ad onore della stessa Polizia, senza che il sequestro di quel componimento in cui si tartassava nel modo che tutti sanno i sovrani d’Italia, non escluso lo stesso Granduca, suscitasse il desiderio di ricercarne l’autore per mortificarlo — stile del tempo — con un paio di mesi di confino o di carcere. Però le satire, a mano a mano che venivano scritte e poste in circolazione, erano sequestrate dalla Polizia. Così, fra gli atti del 1841 di questa, troviamo il famoso Brindisi di Girella, che allora apparve con un titolo assai diverso e che era tutto una satira personale: Ai liberali del 1831, oggi Avvocati del Fisco. L’allusione a certi liberali e sopratutto a Francesco Forti, che disertando dalle file del proprio partito aveva poco prima accettato un posto nel pubblico Ministero, era evidente. Il Giusti in seguito, quando non potè più sconfessare la paternità di quella poesia, cedendo al suo istinto di poeta satirico d’accademia, soppresse il vecchio titolo ed insieme a questo tolse alla satira ciò che forse ne formava, almeno pei toscani la maggiore attrattiva. Ma la satira, intanto, procurò al Giusti (come ci deve fare ragionevolmente supporre una frase di un rapporto del Presidente del Buon Governo, che riporteremo in seguito) una specie d’impunità per tutto ciò che egli aveva scritto o avrebbe scritto. Difatti, il Brindisi di Girella — lo stesso Bologna, che nei momenti d’ozio s’occupava di versi, ne conveniva — era un capo-lavoro di genere satirico e i buon gustai dovevano risalire sino a Giovenale, sino ad Orazio, per trovare qualche cosa di simile, specie nella plasticità scultoria delle immagini e nella forza incisiva e mordente della frase. Ora al Bologna, reazionario e gesuitante, quella poesia che metteva alla gogna certi liberali doveva piacere. Tra codesti liberali, che credevano di restare giacobini sotto la livrea granducale, c’era, come abbiamo detto, il Forti, la mente più poderosa che forse abbia avuto la Toscana nella prima metà del presente secolo. Egli, benchè avesse accettato un posto nell’amministrazione della Giustizia ed avesse sollevato contro di sè le diffidenze dei liberali, pure non seppe o non parve che si spesse spogliare agli occhi dei suoi nuovi correligionari di tutto il mio vecchio bagaglio rivoluzionario. La Polizia ne spiava attentamente le azioni, e il Bologna, che d’animo gretto com’era ne doveva invidiare l’ingegno altissimo, non poteva che prendere sotto le ali della sua protezione i detrattori di quella mente elevatissima, magari se codesti detrattori militassero in un campo diverso del proprio. Le nostre congetture, intanto, non sembrino ardite agli ammiratori del Giusti; chè, noi, nel proseguimento di questo capitolo, le documenteremo.
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Frattanto le poesie del Giusti — quelle più rivoluzionariamente ardite — erano pubblicate nell’Apostolato Popolare, giornale che nel 1842 cominciò a veder la luce a Londra sotto la direzione di Giuseppe Mazzini. Così il Brindisi di Girella, col titolo — Ai liberali del 1821 (sic) oggi Avvocati del Fisco, fu stampato nel numero del 15 agosto; l’Incoronazione, in quello del 25 settembre, ed infine Lo Stivale, col titolo: La Cronaca dello Stivale, in quello del 25 novembre. Il 20 dello stesso mese di novembre, l’ispettore di Polizia di Firenze trasmetteva alla Presidenza del Buon Governo un esemplare manoscritto della risposta a Lamartine (veramente il Giusti aveva aspettato quasi diciotto anni per rispondere al poeta francese) e conosciuta in seguito col titolo: La Terra dei Morti, ma che allora sotto il titolo di: Mummie Italiche era stata posta in giro. Le satire naturalmente non portavano il nome dell’autore; ma questo non era un mistero per alcuno, specie per la Polizia che ne faceva delle copie in magnifico corsivo inglese per l’uso della Corte, dei ministri e della Presidenza del Buon Governo. Si capisce che i ministri non ci dormivano sopra, sopratutto dopo che le poesie fecero rumorosamente la loro comparsa nel giornale del Mazzini. A Firenze, peraltro, anche prima che quel periodico si assumesse l’incarico di spargerle per l’Italia, erano state gustatissime ed avevano procurato al loro autore una celebrità per così dire mezzo clandestina. Lo spirito satirico è una delle caratteristiche più spiccate dei fiorentini, e, come si sa, in ogni fiorentino si nasconde quasi sempre un Aristofane minuscolo. La Polizia che più d’una volta ebbe ad occuparsi di codesto spirito satirico che non di rado, senza rispetto di principi e di ministri, traboccava in diffamazioni belle e buone, era impotente a reprimerlo; e il Commissario Regio, sotto il giorno 11 marzo 1842, scriveva al presidente Bologna. „Le satire sono all’ordine del giorno; esse, appena uscite dalle mani dei loro autori, sono copiate e lette anche presso le migliori famiglie, e circolano nei più splendidi simposi, come presso la marchesa Ginori, nata Garzoni-Venturi, da dove si diffondono per la città.„
Ma, come abbiamo detto, sulla pubblicità data dal giornale del Mazzini alle satire del nostro poeta, il Governo non poteva chiudere gli occhi, specie che non era del tutto sicuro che il Giusti fosse estraneo a quella pubblicazione. Difatti, il 9 maggio 1843, il ministro don Neri Corsini scriveva al Presidente del Buon Governo: „Si dice che il dottor Giusti ricevesse varie copie del N. 10 del giornale rivoluzionario: L’Apostolato Popolare per mezzo di Michele Palli, di Livorno. Non se ne precisa l’epoca, ma pare da non molto tempo.„ Lo stesso ministro l’11 gennaio di quell’anno aveva scritto al Bologna: „Sotto la data del 25 novembre 1843, è stato pubblicato a Londra il N. 8 dell’Apostolato Popolare.... ove si legge fra le altre cose il componimento poetico: La Cronaca dello Stivale, attribuito ad autore toscano e da lungo tempo già conosciuto in Toscana. (Quanta diplomazia nelle parole del Corsini, per non fare il nome d’un poeta che i ministri conoscevano benissimo!). Il detto numero circola in Italia malgrado la speciale vigilanza che si esercita generalmente per impedire l’introduzione nella penisola di quella stampa incendiaria.„ Ed ordinava investigazioni.
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Ma le investigazioni, benchè praticate con molta cura, approdarono a un bel nulla. I diffonditori del giornale mazziniano rimasero sconosciuti, e il Bologna s’affrettava a rispondere al Corsini che nel N. 10 dell’Apostolato — il numero che si pretendeva che fosse stato rimesso dal Palli al Giusti — non conteneva nessuna poesia di colui che il ministro chiamava: un autore toscano e da lungo tempo già conosciuto in Toscana.
Ma il Corsini e il Bologna, il ministro dell’interno e il capo della Polizia del Granducato, ebbero subito ad occuparsi più seriamente — almeno in apparenza — di Giuseppe Giusti e delle sue poesie. L’Austria, questa volta, faceva uscire dalla loro abituale indolenza i nostri due uomini di Stato.
L’Austria, difatti, era stata rabbiosamente sferzata dal Giusti. Sotto lo scudiscio del Giovenale toscano essa aveva trasalito e il principe di Metternich, che dal suo gabinetto di Vienna aveva imbavagliato per lunga serie d’anni il pensiero di tanti popoli, ora si vedeva ridotto a porgere le spalle ai colpi dello staffile dell’anonimo scrittore. Bisognava farlo tacere; e, com’era naturale, per siffatta operazione, il vecchio principe si diresse ai ministri del Granduca.
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Difatti, il 1 aprile 1843, il Corsini scriveva al Presidente del Buon Governo:
„Il dicastero aulico di Vienna ha designato al Governo della Lombardia certo dott. Giuseppe Giusti, toscano, come autore d’un componimento poetico intitolato: L’Incoronazione a Milano contenente, per quanto se ne dice, un’odiosa diatriba contro i sovrani regnanti d’Italia, aggiungendo poi che secondo notizie provenienti da fonte sicura lo stesso dott. Giusti si occuperebbe attualmente d’altro consimile componimento, più specialmente diretto contro la dinastia austriaca.
„Il prefato Governo della Lombardia nel partecipare a quello di S. A. I. e R. le anzidette notizie, osserva dal suo canto essere in fatto positivo che la pubblica opinione attribuisce alla penna del dott. Giusti il perverso componimento sull’Incoronazione, ed esprime la fiducia che saranno qui adottate le misure le più efficaci onde impedire l’apparizione della nuova satira, che ora mediterebbe contro la dinastia austriaca, che è pure quella del di lui sovrano.
„In tale occasione rappresenta, il Governo medesimo essere a sua notizia che il tipografo Virgilio Vignozzi di Livorno (conosciuto svantaggiosamente sotto i rapporti politici) avrebbe passato un contratto con un commesso viaggiatore nominato Pietro Rolandi, col quale impegnavasi a somministrare al detto Rolandi tutte le poesie del dott. Giusti (che si dice essere molte e quasi tutte satiriche pei Governi monarchici) per essere stampate a Londra in un sol volume e diramate poi clandestinamente nelle città della penisola.
„Incaricato di portare questi fatti a cognizione di V. S. Ill.ma ed eccitare il distinto di Lei zelo a verificare e provvedere convenientemente, mentre adempio a questo dovere, rimango in attenzione di ricevere a suo tempo una replica, che possa servire di norma a quella da darsi all’I. e R. Governo di Lombardia.„
Come si vede, era l’I. e R. Governo Cesareo che si incaricava di fare la Polizia in Toscana, visto che quello di S. A. il Granduca dormiva della grossa. Nè le informazioni da esso ricevute potevano dirsi del tutto infondate, specie riguardo alle pratiche, che si dicevano in corso, di dar fuori una edizione delle poesie, tenuto presente che sin d’allora si tentava realmente di stamparle alla macchia: la qualcosa, difatti, avvenne l’anno seguente colla edizione clandestina delle Poesie Italiane tratte da una stampa a penna.
Il Bologna, che gli atti stessi dell’Archivio Segreto mostrano come conoscesse perfettamente il Giusti e le sue poesie, nè ignorasse come il Rolandi fosse un affiliato della Giovine Italia ed a Londra vivesse in dimestichezza col Mazzini, del quale stampava gli scritti1, il Bologna, diciamo, quasi sentisse allora parlare per la prima volta del poeta di Monsummano e delle sue satire, scrisse il 4 aprile al Governatore di Livorno, perchè investigasse quanto vi fosse di vero nella denunzia fatta dall’I. e R. Governo di Lombardia intorno al tipografo Vignozzi ed alle sue relazioni col Rolandi; e concludeva: „Ed ove si pervenisse a stabilire a carico dello stesso Vignozzi un fondato sospetto di quanto gli viene obbiettato, io crederei che molto opportunamente potesse il Commissario di San Marco averlo direttamente a sè, per fargli contestazione dell’asserto suo impegno e per calcatamente ammonirlo della responsabilità a cui si troverebbe esposto, non senza fargli intendere che nella sussistenza dell’obietto, una delle conseguenze potrebbe essere quella di fargli chiudere la stamperia.„
Ma la nota del Bologna se minacciava guai, non li minacciava che per burla: e l’ebbe a capirlo l’eccellentissimo signor Governatore di Livorno, e non meno di questo il Commissario di San Marco a cui fu affidata l’inchiesta, dal momento che i guai minacciati non si sarebbero scatenati sul capo del povero Vignozzi che nel caso di fondato sospetto, e di sussistenza dell’obbietto, cose tutte che per una Polizia come quella del Granducato, che nei suoi negozî procedeva con molta prudenza, non si sarebbero potuti verificare se non a patto che due o tre testimoni le avessero attestate: cosa non molto probabile sotto un Governo la cui divisa era: lasciate correre — che il Fossombroni rettificava coll’aggiungere sottovoce: purchè non si corra troppo, nè si vada troppo avanti. Difatti, il Commissario di San Marco, proceduto che ebbe alle sue investigazioni — seppure realmente vi furono investigazioni — riferì al Governatore che egli non credeva il Vignozzi capace d’entrare in impegni pericolosi col Rolandi„ perchè poco destro e nuovo nell’arte, mentre quest’ultimo, che ha estese relazioni liberali ed è creduto emissario della Giovine Italia, se avesse avuto il proposito attribuitogli, si sarebbe diretto a persona più seria, anche perchè gli sarebbe stato facile procurarsi una collezione delle poesie attribuite al Giusti (la Polizia non sapeva o fingeva di non sapere che fossero proprio del Giusti); poichè i detti componimenti sono stati stampati sull’Apostolato Popolare (magra per non dire addirittura magrissima ragione questa, perchè non tutte le poesie del Giusti avevano visto la luce su quel foglio), giornale vietato che circola in Toscana. E se al Giusti per avventura potesse essere caduto in mente di portare alla stampa fuori di Toscana le sue produzioni, credasi pure che non si apprenderebbe mai al partito di darne incarico a Virgilio Vignozzi, ed a mani più sicure affiderebbe quell’incarico.„
Ed il dabbene Commissario, che in altre circostanze aveva dimostrato come in lui fosse la stoffa di un vero birro, conchiudeva serenamente che in vista di tali considerazioni non aveva nemmeno stimato prudente di chiamare a sè il Vignozzi per interrogarlo, con arte, sul disegno attribuitogli.
Ma era destino che il Giusti trovasse di farina impastata col miele anche i commissari a cui egli, ne’ suoi versi, non risparmiava le staffilate! E che staffilate!
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Restava al Bologna di fare una diligente ed accurata inchiesta intorno a quella certa poesia contraria alla dinastia austriaca; dinastia alla quale apparteneva, come con fine rimprovero per la Polizia toscana osservava l’I. e R. Governo di Lombardia, il sovrano del poeta; la quale poesia, ove fosse stata scritta, o si scrivesse dal Giusti, era desiderio dei rettori cesarei che andasse a finire sotto lo spegnitoio. E questa bisogna il Bologna l’affidò all’Ispettore di Polizia di Firenze, il quale se ne sbrigò alla meglio raccattando quanto sul poeta e sulle sue poesie correva per la città; e fu, in parte, su tale rapporto che il Bologna, coll’aggiunta di alcune sue osservazioni personali, imbastì la nota che sotto il 16 giugno 1846 diresse al Corsini. Nella qual nota, il Presidente del Buon Governo, dopo d’aver detto come non avesse risparmiato nessuna fatica per venire alla scoperta del vero (la quale dichiarazione in seguito a quanto abbiamo detto deve essere accettata col beneficio dell’inventrio), aggiungeva:
„Sono diverse le composizioni quasi tutte di genere satirico attribuite (anche il capo della Polizia non era sicuro che l’Incoronazione, lo Stivale ecc. fossero proprio farina del Giusti!), al dott. Giusti, nelle quali il maltalento verso i regnanti era alla pari colla mordacità ed ironia coi così detti liberali. (Qui l’allusione al Brindisi di Girella è evidente e spiega la protezione che il capo della Polizia, senza averne le apparenze, accordava al Giusti). Qualcheduno che presume d’essere bene informato pretenderebbe che non fossero tutte del Giusti e che il suo nome serva talvolta a velare qualche meno noto e più meschino scrittore.„ Passando poscia a parlare delle poesie che furono stampate sull’Apostolato del Mazzini, il Bologna, con premura d’avvocato, faceva osservare al Corsini come siffatta circostanza non deponesse contro il Giusti, mentre era probabile che il giornale rivoluzionario si fosse servito, per la stampa di esse, d’una di quelle numerose copie manoscritte che allora, di quei versi, correvano per l’Italia, e proseguiva:
„È cosa più difficile di quanto potrebbe credersi il verificare se il Giusti stia attualmente occupandosi d’un nuovo componimento di natura odioso. L’ultima sua poesia ha veduto la luce nella Rosa di maggio recentemente pubblicata in Firenze, ma dotato egli di somma facilità, intollerante di raffinare i suoi componimenti, non è solito di maturarli, meditarli a lungo (e qui il Bologna calunniava il Giusti, a meno che non avesse tirato fuori la pretesa facilità per giustificare il risultato negativo delle sue indagini); e quindi dà poco agio d’investigare ed indovinare le sue intuizioni; ed essendo per lo più l’effetto d’istantanea ispirazione, pare anche a me che non siavi da sperare di poter conoscere in antecedenza cosa la fantasia sarà per partorire di nuovo. Fornito di non comune accortezza, che degenera anche in diffidenza, sa schermirsi con molta destrezza da tutto ciò che può dargli ombra, non lasciandosi facilmente avvicinare da chi non siagli ben noto e sperimentato. È di carattere poco espansivo, non si esterna con alcuno, nè si lascia penetrare.
„Conoscendo queste sue qualità, ingerirebbe qualche sorpresa ch’egli siasi voluto fare intendere di avere il progetto di metter fuori nuove poetiche diatribe in materia così delicata ed atte a comprometterlo (E l’Incoronazione? E il Dies Irae?). I due componimenti2, che unisco in copia e che diconsi suoi, parmi che porgano una riprova del carattere e del contegno che suole spiegare e delle difficoltà d’avvicinarlo, e di rilevarne i progetti.
„La Polizia non se n’è stata inoperosa; ma di fronte al suo contegno destro e simulato, le premure e le indagini non hanno avuto seguito; l’unico argomento a suo carico limitandosi alla pubblica voce, troppo fallace in mancanza d’altri indizi per potervi basare nel caso nostro un qualche benchè mite provvedimento.„
Era un uomo coscienzioso l’illustrissimo signor presidente Bologna! Solamente la sua coscienza di galantuomo non l’aveva sotto mano tutti i giorni e quindi gli accadeva di processare in via economica gente, contro cui spesso non militava che la pubblica voce troppo fallace, la quale era pur stata sufficiente per mandare in carcere i presunti colpevoli!
Nè forse il Bologna aveva tutti i torti ad adoperare due pesi e due misure. Da esperto e consumato poliziotto, egli conosceva i suoi polli; e se processava il Guerrazzi per l’Assedio di Firenze, benchè contro lo scrittore livornese non esistesse altra prova se non la pubblica voce troppo fallace, gli è che sapeva come l’autore di quel romanzo non fosse un solitario e pacifico contemplatore di libertà. Ma pel Giusti era un altro paio di maniche. Chi circondava di tanto mistero l’opera sua, chi sapeva nascondere così rapidamente la mano che scagliava il dardo giovenalesco, non poteva mai essere un uomo pericoloso: e così lo si lasciava in pace. La mancanza di coraggio gli aveva assicurato l’impunità. Per un poeta satirico, i cui strali passavano il nemico da parte a parte, il mestiere si presentava proprio senza spine!
E il Giusti fu lasciato in pace, quantunque la sua frusta colpisse spalle di sovrani e spalle di ministri.
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Benchè per comodo della Polizia si contestasse in certa maniera al Giusti la paternità delle poesie che allora, insieme a quelle del Berchet, formavano la lettura più ricercata della gioventù d’Italia, pure il Buon Governo non cessava di spiare la condotta del poeta di Monsummano. Il Vicario Regio di Pescia, il 27 febbraio 1844, scriveva al Bologna:
„Poichè fra i miei giurisdizionali il più che abbia nome d’ingerirsi in cose politiche è il noto poeta avv. Giusti, le significo che questi trovasi attualmente a Napoli. Partì da Pescia insieme alla madre signora Ester, circa venti giorni fa colla vettura di Pietro Papini che fissò per due mesi, a lire venti al giorno. Disse d’andare a Roma ed a Napoli per vaghezza di vedere queste due metropoli e per divagarsi, stante l’essere stato preso da malumore per la morte dello zio Gioacchino e pel morso di un gatto. Si sa che si trattenne a Roma soltanto tre giorni e che ora si trova a Napoli alloggiato in via Toledo, e pensa di essere nuovamente in Roma per la Settimana Santa e di ritornare a Pescia nell’aprile prossimo.
„Può darsi che questo viaggio abbia uno scopo seriamente innocente, ma la notorietà delle opinioni antimonarchiche del Giusti, l’estensione delle relazioni e corrispondenze per rapporti letterari, l’avere condotto seco la madre, tuttochè la medesima fosse tornata da pochi mesi da Roma e la coincidenza dei movimenti di agenti rivoluzionari col viaggio, potrebbe dall’insieme il superiore dipartimento trar motivo per attaccare qualche importanza al viaggio stesso.„
Il Bologna mandò copia del rapporto del Vicario Regio di Pescia sul Satirico, come egli chiamava il Giusti, al Corsini; ma nè questi, nè la Presidenza del Buon Governo fecero un sol passo per investigare la condotta del poeta a Roma e a Napoli. Il Corsini e il Bologna erano sicuri che il Giusti, per quanto la sua musa fosse rivoluzionaria, non avrebbe mai alzato la punta di un dito per scuotere, sul terreno delle congiure e delle rivoluzioni, l’edificio che egli minava coi versi.
E da siffatta filosofica noncuranza verso la persona di colui che passava per uno dei santi padri del movimento liberale di quel tempo, neppure si ricredettero, quando in quell’anno stesso comparvero stampate le poesie di lui. Ministri e poliziotti diedero la caccia al libro, ma non si occuparono nè poco nè punto dello scrittore.
Difatti, dalla Presidenza del Buon Governo, il 31 agosto 1844, si diramava alle autorità toscane la seguente circolare riservata:
„Essendo stati riconosciuti come d’indole perniciosa e sovversiva, i tre opuscoli intitolati: Scritti Inediti d’Ugo Foscolo, stampati a Lugano nel 1844; Alice, ossia Bologna nel 1833, racconto di Ifigenia Zauli-Sajani colla data Italia 1844, ma stampato a Corfù, e Poesie Italiane tratte da una stampa a penna colla data Italia 1844, (in cui trovansi raccolte quelle che attribuisconsi all’avv. Giusti, ma contro delle quali si è già protestato rifiutandole per sue), l’I. e R. Segreteria di Stato, con dispaccio del 22 cadente mese, ha disposto che le autorità politiche facciano sentire a tutti i librai, che resta proibito loro di vendere tali libri ecc. ecc.„
E il Giusti, anche questa volta, quantunque le sue poesie girassero stampate, e da tutti i liberali gli si decretasse il titolo di Giovenale toscano, per quel suo benedetto amore del quieto vivere, si metteva in regola colla Polizia rinnegando ciò ch’era ossa delle sue ossa, carne della sua carne; e il Governatore di Livorno, il 26 agosto, cioè sette giorni prima che il Bologna diramasse la nota sopra riportata, ne informava il Buon Governo nel modo seguente: „Il dott. Giusti ha fatto stampare alcuni versi, preceduti da una dedicatoria alla marchesa d’Azeglio, ove appunto contiensi una protesta per dichiarare che non riconosce per sue la maggior parte delle poesie stampate nell’edizione del 1844.„
Ma la dichiarazione del Giusti era stata più esplicita; anzi così esplicita, da metterlo addirittura al sicuro di qualsiasi molestia da parte della Polizia.
Imperocchè, egli non rinnegò la maggior parte delle poesie dell’edizione clandestina, la quale dichiarazione, in ogni modo, avrebbe sempre lasciato il dubbio sul numero e sul carattere delle poesie da lui non riconosciute per farina del proprio sacco; ma rinnegò precisamente tutte le poesie di carattere politico contenute nell’edizione clandestina de’ suoi versi, come si scorge chiaramente dalla stessa dedicatoria alla moglie di Massimo d’Azeglio: „Tre di queste composizioni (composizioni che non avevano nulla da fare colla politica), sono state piantate là alla piena libera in un certo libro coniato di fresco (Poesie Italiane tratte da una stampa a penna), sul quale, per dirla alla popolana, entravano come il cavolo a merenda. Chi si sia preso questa scesa di testa di accodare gli scritti dati fuori col mio nome a un guazzabuglio di versi bastardi e storpiati, io non lo so....„
Come vedete, la paura della Polizia faceva uscire il sor Beppe proprio fuori dei gangheri, sino ad accordare il titolo, in pubblico ed in una lettera indirizzata alla moglie d’uno che fra poco, a proposito d’una certa pubblicazione, doveva dare prove d’un coraggio civile assai diverso dal suo, di guazzabuglio di versi bastardi e storpiati all’Incoronazione, allo Stivale, alla Terra dei Morti!....
Meno male se si fosse trattato di sottrarre la propria pelle al capestro del boia austriaco o di quello dei Borboni di Napoli; ma rinnegare la propria gloria per non subire un Avvertimento di cangiar vita, come quello che egli stesso aveva subìto quando studiava le Pandette sui tavolini dell’Ussaro, di Pisa, via, ci si permetta di dirlo, tutto ciò non ha nulla del Giovenale, e il sor Beppe ci fa una figura più che da Sansone, da pacifico e timido borghesuccio.
Peraltro, l’êra delle grandi riforme s’avvicinava a grandi passi. La Polizia, in Toscana, contro l’invadente liberalismo, si dichiarava impotente; e il Giusti, a cui non s’era torto un capello quando la reazione era in auge, ora che questa tramontava, poteva dormire tra due guanciali i suoi sonni. Di certo, l’illustrissimo signor Presidente del Buon Governo, che aveva tutt’altro da pensare che alle satire, non l’avrebbe fatto chiamare a sè per ammonirlo a cambiar vita!...
- ↑ Nel V vol. dell’Epistolario di Gino Capponi si legge una lettera colla quale quest’ultimo porgeva al Rolandi le sue congratulazioni per la stampa del Commento d’Ugo Foscolo alla Divina Commedia, e lo pregava di fare i suoi saluti al Mazzini. La lettera è del 1 febbraio 1841.
- ↑ Il mio nuovo Amico, che il Giusti in seguito rigettò perchè scritto a 18 anni quando era una mosca senza capo, e il Proponimento di mutar vita.