< Monarchia < Libro II
Questo testo è completo.
Dante Alighieri - Monarchia (1312)
Traduzione dal latino di Marsilio Ficino (1468)
Libro II - Capitolo V
Libro II - Capitolo IV Libro II - Capitolo VI
Che colui che diriza el pensiero suo al bene della repubricha diriza el pensiero al fine della ragione.

Colui che diriza el pensiero suo al bene della repubricha diriza el pensiero al fine della ragione. E ·cche ·ccosì seghuiti in questo modo si dichiara: la ragione è una proporzione reale et personale tra huomo et huomo, la quale, quando s’osserva, conserva la humana congreghatione, et quando è corrotta la corronpe (inperò che quella descritione che ·ssi fa ne’ Digesti non dice proprio quello che ·ssia ragione, ma discrive quella secondo el modo d’usarla); adunque, se quella difinitione bene conprende la sustanza et lo effetto, et el fine di c[i]a-scuna congregatione è per cagione de’ buoni conpagni, è necessario che ’l fine di qualunque rag[i]one sia el bene comune, ed è inpossibile che ·ssia rag[i]one quello che none atende al bene comune. E però Tulio nella Prima rettoricha dice che ·ssenpre si vuole interpetrare le leggi a utilità della repubricha. Et se le leggi non si dirizano a utilità di coloro che ·ssono sotto la legge, hanno solo el nome di leggi, ma in verità non possono essere leggi; inperò che conviene che le leggi uniscano gli huomini insieme a utilità comune. Per la qual cosa Senacha bene dice nel libro delle Quatro virtù morali che «lla leggie è huno vincolo della sotietà humana». è adunque manifesto che ·cchi attende al bene della repubrica attende al fine della ragione. Adunque se’ Romani attesono al bene della repubrica, si potrà veramente dire che abbino atteso al fine della ragione. Et che quello popolo abbia atteso a detto bene sottomettendo a ·ssé el circulo della terra, e sua fatti lo dichiarano; ne’ quali, rimossa hogni cupidità, che ·ssenpre alla repubrica è nemicha, amando la pace con libertà insieme, quel santo, pietoso et glorioso popolo si vede avere dispreg[i]ato e propri comodi, acciò che proccurassi le cose publiche per la salute della humana generatione. Honde rettamente è scripto: «Lo ’nperio romano nasce dal Fonte della pietà ».

Ma perché della intentione di tutti quegli che operano per eletione nessuna cosa è manifesta a ·cchi di fuori riguarda, se non pe se·gni exteriori, e’ sermoni si richieghono secondo la subgetta materia, secondo che di sopra è detto, assai in questo luogho aremo se delle intentioni del popolo romano segni indubitabili ne’ colleggi et nelle private persone si mostrano. De’ collegi, pe’ quali li huomini pare che ·ssieno leghati insieme nella repubrica, basta solo l’autorità di Tulio nel secondo De hufici, hove dice che, «mentre che ·llo ’nperio della repubrica si teneva con benifici et non con ing[i]urie, si faceva guerra o pe’ colleghati ho per lo inperio, e però e fini delle ghuerre erano miti o necessarii; el Senato era porto et refuggio de’ re, popoli et nationi; e’ magistrati nostri et inperadori si sforzavano in questo masime aquistare loda, se difendessino le province et e conpagni con equità et gloria et fede; per la qual cosa questo si poteva chiamare più tosto ’soccorso del mondo’ che ’’nperio’». E questo disse Tulio de’ collegi.

Ma delle persone private brievemente tracterò. Or non si debbe e’ dire che ·ccoloro abino atteso al bene comune e quali con sudore, et povertà, et esilio, et privatione de’ figliuoli, et perdimento di menbri, et morte, el pubrico bene hanno cresciuto? Or non ci lasc[i]ò exenpro Cincinnato di lasc[i]are liberamente le degnità nel termino, quando levato fu dallo aratro et fatto dittatore, come Livio riferisce, e dopo la vittoria et triunfo, restituta la ’nperiale bacchetta a’ consoli, si tornò alle possessioni sue a sudare dietro a’ sua buoi? Et a laulde di costui Tulio contro allo Epicuro nel libro Del Fine de’ beni così dice: «E nostri antecessori levorono dallo aratro Cincinato perché fussi dittatore». Ancora, Fabritio ci dette grande exenpro di fare risistenza alla avaritia quando, benché fussi povero, per la fede con la quale era leghato con la repubrica, rifiutò gran copia d’oro che gli fu hofferta. Ancora la sententia di costui è confermata da Virgilio nel sesto, dicendo: «Fabritio di poco potente». Oltre a questo, Chamillo ci dette exenpro memoriabile di preporre la legge a’ propi comodi; el quale, secondo Livio, confinato, poich’aveva libera l’assediata patria, et le spoglie romane aveva rendute a Roma, et contro a la voglia di tutto el popolo della santa ciptà si partì, e non tornò prima che el senato gli desse licenza di rinpatriare. E questo come magnianimo è lodato da Virgilio nel sesto, dicendo: «Camillo riporta e segni». Ancora el primo Bruto dimostrò che e propi figliuoli s’avessono a posporre alla libertà della patria; del quale dice Livio che, essendo consolo, dette morte a’ propii figliuoli, perché s’erano co’ nimici accordati. La gloria del quale rinnuova Virgilio nel sesto: «El padre chiamava a morte per la bella libertà e figl[i]uoli suoi, perché e’ movevano nuove ghuerre». Mutio ci dimostrò che si vuole sottoporsi a ogni pericolo per la patria, quando l’errante mano, non con altro volto che ·sse tormentassi el nimicho, guatava dal fuoco consumata. Del quale si maraviglia Livio dicendo. Venghino hora quelle sagratissime vittorie de’ Deci, che per la publicha salute puosono le divote anime; ancora apparisce l’innefabile sagrificio del severissimo huomo autore di libertà, Marco Chatone. De’ quali l’uno per la salute della patria non temé la morte; l’altro, acciò che accendessi nel mondo lo amore della libertà, dichiarò di quanto prezo fussi la libertà, quand’e’ volle più tosto huscire di vita libero che ·ssanza libertà vivere. El nome egregio di tutti costoro per la vocie di Tulio si rinnuova nel libro Del Fine de’ beni, dove e’ dicie così de’ Deci: «Publio Decio, prencipe in quella famiglia, consolo, quando offerse sé medesimo e, lasc[i]ato el chavallo, nel mezo della turba de’ Latini fieramente si misse, pensava egli alcuna cosa de’ suoi piaceri, in che modo egli pigliassi ho quando, conciosiaché sapessi sé a mano a mano dovere morire, et corressi con più ardente studio a quella morte che non istima l’Epicuro doversi alla voluctà correre? Questo suo fatto, se non si fussi per rag[i]one lodato, non l’arebbe seghuito nel quarto suo consolato el suo figliuolo; né ancora el figliuolo del figliuolo, essendo consolo, et conbattendo con Pirro, sarebbe in quella battaglia chaduto, et avrebbe offerto sé medesimo per terzo sagrificio nella generatione sua». Ancora ne ·libro De hofici dice: «Or non ebbe altra cag[i]one Marcho Chatone, et altra quegli che ·ssi dettono inn–Africha a Cesare. E ·ssarebbono suti ripresi gli altri se si fussono morti, perché la loro vita era più leggieri e’ loro costumi più facili; ma perché a ·cChatone la natura gli avea dato incredibile gravità, et con continova costantia lui l’aveva acresciuta, e ·ssenpre aveva perseverato nel proposito e consiglio suo, sì gli convenne più tosto morire che vedere el volto del tiranno».

Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.