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ANNOTAZIONI.
(1) Alcuni che stettero con Donato mi dissero che sempre aveva nella sua bottega diciotto, o venti garzoni; altrimenti non arebbe mai fornito un altare di Santo Antonio da Padova con altre opere. Così scriveva Baccio Bandinelli al Duca di Fiorenza nel 1547. (Lettere pittoriche T. I. p. 50.). Ciò però va inteso senza punto detrarre alla gran lode che questo insigne artefice si è acquistata anche con le opere di bassorilievo qui nominate; onde scrisse il Vasari nella Vita di lui che sono talmente con giudicio condotte, che gli uomini eccellenti di quell’arte ne restano maravigliati e stupiti, considerando in esse i belli e variati componimenti con tanta copia di stravaganti figure e prospettive diminuiti.
(2) Fu celebrato molto e da varii scrittori questo Coro, de cujus laudibus & scripta sunt & impressa volumina, secondo lo Scardeone (De antiquitate urbis Patavii, & claris civibus Patavinis, p. 373.). Un opuscolo specialmente sopra di esso v’è di Matteo Colacio Siciliano, impresso con altri di lui de Fine Oratoris in Venezia nel 1486, ed è intitolato a guisa di lettera alli tre artefici qui nominati con queste parole: Matthæus Siculus Christophoro & Laurentio fratribus, ac Petro Antonio Laurentii genero Patavis, Italis Parrhasiis, Italis Phidiis, Italis Apellibus s. p. d. Delli due Canozii il ch. Cav. Tiraboschi ha trattato nella Biblioteca Modenese (T. VI. p. 455.), perciocchè in grazia del lungo soggiorno da essi in Modena tenuto, di quella patria furono riputati; e di Giovan Marco figliuolo di Lorenzo, eccellente intarsiatore, ha egli pure esposto il merito, sull’autorità del celebre Matematico Fra Luca Pacioli. Il Brandolese loro conterraneo nelle Pitture Sculture e Architetture di Padova (p. 24. 31.) e nella Dissertazione del Genio dei Lendinaresi per la Pittura (p. v.) dimostra che artefici di raro merito sono stati. Ma un lavoro a tarsia di Lorenzo ci addita nella sagrestia della Basilica di San Marco di Venezia il Sansovino, da aggiungersi a’ tanti altri di lui (Venetia citta nobilissima et singolare, p. 39. ed. 1581.). Il Modonese poi genero di Lorenzo, di cui è corrotto il nome nel citato libro delle Pitture di Padova (p. 24.) è quel Pierantonio da Modena che nel 1486, fece lavori di tarsia nel Coro di San Francesco di Trevigi, giusta le iscrizioni dal Burchelati riferite (Commentariorum memorabilium multiplicis hystoriae Tarvisinae locuples promptuarium libris quatuor distributum, p. 272.); dalle quali soltanto il Tiraboschi notizia di questo artefice ha tratta (Biblioteca modenese, Tom. VI. p. 480.).
(3) Andrea Riccio Padovano, latinamente cognominato Crispo, e con soprannome detto Briosco, si acquistò fama di grande architetto con la fabbrica della Chiesa di Santa Giustina in sua patria, e di eccellente fonditore in particolare con questo maraviglioso candelabro; di cui Fra Valerio Polidoro nelle Memorie della Chiesa del Santo, impresse in Venezia nel 1590, fece una lunga descrizione che desta la voglia di vederlo (Cap. XV. XVI. e XVII.). Nella rara medaglia che l’artefice medesimo a se fece, e dallo Scardeone e da altri è riferita, di questo capo delle opere sue si compiacque di fare pompa; vedendovisi da una parte la testa del Riccio con le parole andreas crispvs patavinvs aerevm d. antonii candelabrvm f. e dall’altra un ramo spezzato ed arido di lauro con una stella al di sopra, e le parole obstante genio. Anche nell’epitafio posto al Riccio in San Giovanni di Verdara si è creduto di dover accennare il candelabro come principale de’ suoi lavori, leggendovisi:
andreae crispo brioscho
pat. statvario insigni
cvivs opera ad antiqvorvm
lavdem proxime accedvnt
in primis aenevm candelabrvm
qvod in aede d. antonii cernitvr
haeredes pos.
vix. an. lxii. mens. iii. dies vii.
obiit viii. id. ivlii. m. d. xxxii.
Scrittore di fino gusto fu l’autore di questa iscrizione, cioè Girolamo Negro Veneziano, Canonico di Padova, di cui è celebre il nome anche per la ristampa delle operette sue Latine, fatta in Roma l’anno 1767. insieme con le Lettere Latine del Cardinale Sadoleto. Non si saprebbe però che dal Negro quell’iscrizione venisse, se non avesse lasciata la ricordanza seguente Fra Desiderio dal Legname Domenicano in alcune sue carte, che io vidi alcuni anni sono nell’archivio del Convento di Sant’Agostino di Padova: Debebant hæc legi Patavii apud D. Ioannem in Viridario. Hieronymi tamen Nigri Canonici Patavini inscriptio apposita fuit, quæ etiam est longe elegantior & doctior hac nostra; quæ ne videatur a nobis frustra conscripta, illam quoque hoc loco ex ordine apponendam duximus.
andreae crispo brioscho pat.
statvario nostrae tempestatis eximio
vel candelabro aeneo d. antonii
et sepvlchro insigni tvrrianorvm veronensivm
cvm antiqvis conferendo
alexander bassianvs et ioannes cavinvs
testamenti cvratores
amico ben. mr.
hanc perpetvae qvietis sedem pos.
an. m. d. xxxii.
Un’opera dunque del Riccio, da nessuno conosciuta per sua, quest’iscrizione ci scuopre nel mausoleo di Girolamo e Marcantonio della Torre eretto in San Fermo Maggiore di Verona; in cui sei quadri di metallo incastrati si veggono con grandissima quantità di figure nobilmente istoriati, siccome scrisse il March. Maffei, senza sapere chi farne autore (Verona illustrata, P. III. p. 197.). E’ lodato il Riccio da varii scrittori: ma non si suole osservare che anco Pomponio Gaurico nel Dialogo de Sculptura, scritto sul cominciare del secolo sedicesimo, lo ha annoverato fra gl’illustri fusori di bronzo con queste parole: Quin & Bellani, uti volunt, discipulus Andreas Crispus, familiaris neus, cuius inter plastas quoque mentionem fecimus, podagrarum beneficio ex aurifice sculptor (Cap. 7.). Vedesi da questo passo ch’egli attese anche all’orificeria.
Non è da confondersi Andrea Riccio Padovano con Antonio Riccio Veronese, architetto e scultore pur esso di grande nome, come hanno fatto lo Scardeone (De antiquitate urbis Patavii, p. 375.) il Vasari (T. III. p. 317. ed. Siena) ed il Sansovino (Delle cose notabili che sono in Venetia, p. 21. ed. 1565. e Venetia citta nobilissima et singolare, p. 119.), attribuendo falsamente al primo le due statue di marmo Adamo ed Eva, che sono nella facciata interna del Palazzo Pubblico di Venezia, rimpetto alla scala dei giganti: dal qual errore si sono guardati il Temanza (Vite dei più celebri architetti, e scultori veneziani che fiorirono nel secolo decimosesto, Lib. II. p. 264.) ed il Bartoli (Le pitture sculture ed architetture della città di Rovigo, p. 298.), ed ognuno si guarderà, tosto che sappia sotto la statua di Eva essere inciso il nome di antonio rizo. Vissero per verità insieme per alcun tempo que’ due artisti: ma il Veronese cominciò a farsi onore prima che il Padovano nascesse. Quelle due statue medesime, delle quali scrisse anche il Vasari ch’erano tenute belle, sono vieppiù stimabili, se si ponga mente al tempo della facitura di esse, che viene ad essere intorno all’anno 1462: di che ne danno indizio le arme delli Dogi Francesco Foscari e Cristoforo Moro scolpite sulla facciata medesima delle due statue. S’accorda bene pertanto che a questo scultore indiritti si riconoscano due epigrammi ed un distico di Gregorio Corraro Protonotaio Apostolico ad Antonium Riccium sculptorem, indicati da Fra Giovanni degli Agostini (Notizie istorico-critiche intorno la vita, e le opere degli scrittori viniziani, T. I. p. 132.); essendo il Corraro vissuto sino all’anno 1464. Al medesimo parimente deve tenersi scritto il seguente distico di Raffaello Zovenzonio Triestino, che si legge nella collezione di Fiorenza Carmina illustrium poetarum Italorum Tom. XI, p. 476.
Crispo marmorario nobilissimo
Nos sumus, inspecto marmore, Crispe, tuo.
Non lasciano dubbio sopra ciò due altri distici del Zovenzonio medesimo inseriti in un bellissimo codice membranaceo, che io tengo, di sue poesie Latine nella massima parte inedite; intitolati Crispo Veronensi marmorario clarissimo, ed Antonio Crispo marmorario; l’uno de’ quali sopra un Ercole di suo lavoro è questo:
Corpora do: Superis dic tibi dent animam.
Nè d’altra statua di Eva, che della sopraddetta, forse va inteso questo distico dell’autore medesimo, in esso codice scritto:
Evæ marmoræ laus.
Quoi mirum, si vir paruit, Æva, tibi!
Ma seguì il Riccio a fiorire per tutto quel secolo; vedendosi noverato fra gli architetti e scultori allora più celebri da Matteo Colacio in una Lettera dell’anno 1475, stampata nel 1486. con altre cose di lui; e così pure da Fra Luca Pacioli nella dedicazione al Duca di Urbino della Somma d’Aritmetica Geometria Proporzioni e Proporzionalità, impressa in Venezia l’anno 1494. col dire che in Vinegia el degno de marmi sculptore & architetto Antonio Rizzo nello excelso Ducal Palazzo, de tutte sorte de figure adorno, alla giornata el rendevan chiaro. Fu egli chiamato da’ Vicentini a suggerire il modo di riparare alla rovina delle loggie della Basilica loro; e le parole del Decreto, che per ciò ne fecero l’anno 1496, mostrino l’alta stima che di lui si faceva. Advocatus fue rat ad hanc civitatem excellens Architectus, Geometra clarissimus, Sculptor peritissimus, ac ingeniosissimus opificiorum Ducalium Præses, Antonius Riccius Venetus pro materia podiolorum huius Palatii mature consultanda. Così nel Decreto dato fuori dal Conte Enea Arnaldi nel Trattato delle Basiliche e specialmente di quella di Vicenza; nel quale pubblicate sono anche due Scritture del Riccio su quel proposito (p. cxviii. e seg.). Non deve fare autorità quel Decreto per istabilire che il Riccio fosse Veneziano, in confronto del Zovenzonio e del Colacio, che Veronese lo hanno chiamato; avendo facilmente l’uffizio suo d’Ingegnero dell’Illustrissima Signoria di Venezia, com’egli in una di quelle Scritture si nomina, data occasione di dirlo Veneziano. Il Gaurico nel Dialogo citato della Scultura lo mette pur egli fra gli scultori più illustri di quel tempo, e lo fa emulo di Tullio Lombardo, ma senza dirne la patria. Il Temanza riportando le parole di lui ve l’ha aggiunta, ma erroneamente, dicendolo Padovano (Vite dei più celebri architetti, e scultori veneziani, Lib. I. pag. 119.): bene si diportò il March. Maffei, sulla fede del Colacio mettendolo fra li chiari artisti della patria sua (Verona illustrata, P. III. p. 80.).
(4) Antonio Trombetta Padovano de’ Minori Conventuali, Arcivescovo prima di Atene, poi di Urbino, pubblico Professore di Metafisica, e chiaro per opere di Filosofia e di Teologia date a stampa. Morì nell’anno 1517, ed intorno a quel tempo ha da tenersi fatto il monumento, di cui se ne conosce autore il Riccio soltanto per l’indicazione qui data.
(5) Fra Filippo Lippi Fiorentino Carmelitano, di cui scrive il Vasari che pitture sue si vedevano in Padova, intendendo facilmente di questa e d’altra sua opera nella cappella del Podestà più innanzi dinotata. Ora più non si veggono queste pitture, com’è di tante altre a fresco, in occasione di ristauri state cancellate; e la memoria ancora perduta ne sarebbe, se dall’anonimo nostro non fosse stata conservata.
(6) Non si conoscono più opere di costui: ma non è nuovo il suo nome, avendo già scritto il Rossetti nella Descrizione delle pitture di Padova (p. 217.), che da documento originale gli constava esser egli morto di peste nel 1486.
(7) Era la seguente: Iacobi Bellini Veneti patris ac Gentilis & Ioannis natorum opus MCCCCIX. Ci fu conservata da Fra Valerio Polidoro nelle Memorie della Chiesa del Santo (p. 25), non essendovi più le pitture qui riferite.
Delli due fratelli Bellini l’uno si soleva riguardare con più estimazione per la teoria della pittura, e l’altro per la pratica. Ciò s’impara da Francesco Negro Veneziano nell’opera inedita che ha per titolo Periarchon, ovvero de Principiis, al Doge Lionardo Loredano dedicata, in un mio bel codice membranaceo scritta; la quale è quella medesima che in due libri divisa col titolo De moderanda Venetorum Aristocratia appena fu conosciuta dall’Agostini, e riferita negli Scrittori Veneziani (T. II. p. 486.). Trattando egli di ogni istituto che al buon governo di uno Stato è richiesto, ove della pittura fa parola dice così: Haec ne sibi una defuisse videatur, Veneti patres, quibus omnia sunt adiecta virtutum ornamenta, Bellinos habent fratres naturae ministros, quorum alter theoricem, alter pictura praxim professus, non regiam eorum solum pulcherrimis tabulis iti dies illustrant, sed totam pœne civitatem decorant. Et quod longe mirabilius est, ipsis etiam approbantibus, maior natu Gentilis Muhameto Turcarum rege poscente, Byzantium usque transmittitur; ubi arte & ingenio suo quid Venetus sanguis valeret non obscure demonstrans & Venetam picturam mirifice illustravit, & equestri dignitate donatus, coronarium aurum virtutis suæ præmium, Phrygio etiam amiculo, tiara, cothurnis, ac torque aurea decoratus, in patriam reportavit (Lib. II cap. 4.). Comunemente si crede che Maometto II Imperatore de’ Turchi chiesto abbia Gentile alla Repubblica per adoperarlo in opere di pittura: Marino Sanudo però in uno spoglio di Cronache Veneziane fa ricordanza precisa del fatto con queste parole: 1479. Adi primo Avosto venne un Orator Iudeo del Signor Turco con lettere. Vuol la Signoria li mandi un bon pittor, e invidò il Dose vadi a onorar le nozze di suo fiol. Li fu resposto ringraziandolo, e mandato Zentil Bellin ottimo pittor, qual andò con le galie di Romania, e la Signoria li pagò le spese, e partì adi 3. Settembre. Mise a profitto Gentile la sua dimora a Costantinopoli per prendere in disegno la insigne Colonna Teodosiana; e mercè l’opera sua ora l’abbiamo intagliata in rame in diciotto tavole sopra li disegni stessi di Gentile, nell’Accademia di pittura e scoltura di Parigi conservati. Ne fece l’edizione il P. Claudio Francesco Menestrier Gesuita in Parigi l’anno 1702: ma essendo l’intaglio non abbastanza bene riuscito, sopra li disegni medesimi nuova incisione ne fece fare il P. Banduri, e riprodusse l’opera nel tomo secondo dell’Impero Orientale l’anno 1711. Recentemente ancora in Venezia altra impressione se n’è fatta, premessavi una Latina descrizione del P. Menestrier. Lavorò Gentile anche nel gettare medaglie: almeno una grande di nettissimo impronto ne fece all’Imperatore de’ Turchi suddetto; di cui v’è il busto da una parte con le parole mohameti imperatoris magni svltani, e dall’altra tre corone si veggono l’una sopra l’altra, con le parole gentilis bellinvs venetvs eqves avratvs comesq. palatinvs f. Alli due fratelli Bellini non mancarono medaglie che gli onorassero, e due specialmente vanno pregiate di Vettore Gambello, ovvero Camelo, da riferirsi in altra di queste annotazioni.
(8) Secondo il Vasari Giotto dipinse nel Santo una cappella bellissima (T. II. p. 90.): il Baldinucci sulla fede di lui lo ha ripetuto: e il Polidoro, il Pignoria, ed altri francamente trovarono la cappella in questa di San Felice; ancorchè essendo stata essa eretta nel 1376, non possa aver pitture di Giotto, che morì quarant’anni addietro. Bene adunque l’anonimo nostro la fa dipinta da Jacopo d’Avanzo, ed a lui concilia fede Michele Savonarola, il quale circa il 1445. facendo memoria de’ pittori illustri in Padova, scrisse: Secundam sedem Iacobo Avantii dabimus, qui magnificorum Marchionum de Lupis admirandam capellam veluti viventibus figuris ornavit (Libellus de magnificis ornamentis regiae civitatis Paduae, Rerum Italicarum scriptores, T. XXIV. p. 1170.). Che pure il Pignoria tenesse quelle pitture come di Giotto si ha dalle seguenti parole sue: Si qui pictura capiuntur, habent illustris Giotti manum propositam in aedicula D. Felicis Summi Pontificis, ubi eius corpus adservatur; qua nescio an perfectius quidpiam, temporum inspecta conditione, reperiri possit. Così egli nella Descrizione di Padova, inserita nell’Itinerario d’Italia di Francesco Scoto d’Anversa, accresciuto da Fra Girolamo de’ Giovannini da Capugnano Domenicano nell’edizione di Vicenza 1601. in 8., la qual Descrizione sta ivi confusa con le giunte del Frate: ma che il Pignoria ne sia stato l’autore lo mostra l’autografo suo, ch’è presso di me: e per verità il discernimento ed il buono stile mostrano assai più dotto Scrittore, che il Frate non era; ed è già noto per la testimonianza dello stampatore che l’accrescimento di quell’Itinerario a varii uomini di lettere è dovuto.
(9) Qui potrebbe aver luogo l’opera di Giotto mentovata dal Vasari. Al proposito però fa il Savonarola scrivendo di Giotto ch’egli dipinse in Padova la chiesiuola dell’Arena, Capitulumque Antonii nostri etiam sic ornavit, ut ad hæc loca & visendas figuras pictorum advenarum non parvus sic confluxus. (Lib. cit. p. 1170.)
(10) Prende autorità qui ed altrove l’anonimo da una Lettera Latina di Girolamo Campagnola Padovano a Niccolò Leonico Tomeo insigne filosofo; la quale anche il Vasari ha veduta ed allegata sì nella Vita di Paolo Uccello, come in quelle di Andrea Mantegna e di Vittore Carpaccio (T. III. p. 67. T. IV. p. 228. 313.), dicendo che il Campagnola con essa dava notizia al Tomeo di alcuni pittori vecchi che servirono li Signori Carraresi. Non trovasi copia veruna di questo monumento, che recherebbe notizie care a sapersi: e neppure, per quanto io veggo, alcun lavoro in pittura d’esso Campagnola, ancorchè il Vasari pittore lo dica, egualmente che Giulio di lui figliuolo, e discepolo dello Squarcione lo faccia (T. IV. p. 307. 315.). Fu però egli uomo di bell’ingegno, e fece operette varie, dicendo di lui lo Scardeone (De antiquitate urbis Patavii, p. 244.): Scripsit libellos quosdam, ut ab eodem audivi, de laude virginitatis, & de proverbiis vulgaribus, & de rebus aliis multa alia, quæ ignoramus. Fra queste hanno da noverarsi li Salmi penitenziali volgarizzati, li quali dal Campagnola stesso ebbe Matteo Bosso (Familiares et secundae Matthaei Bossi epistolae, LXXV. inter secund.), alcune Rime scritte in un Codice Estense (Quadrio, Della storia e della ragione d'ogni poesia, T. VII. p. 102.), e due opuscoli Latini da me a penna veduti in una privata Libreria; cioè una Lettera a Cassandra Fedele, data da Venezia nel 1514, ed un Panegirico del famoso Capitano Bartolommeo d’Alviano, scritto in morte di lui a Venezia l’anno 1515.
Quanto poi al Rizzo, cioè ad Andrea, soprannominato Briosco, pare che le notizie qui e in appresso addotte dalla voce di lui fossero apprese.
(11) Aveva ragione il Campagnola, e l’aveva pure il Riccio. Giusto nacque in Fiorenza da Giovanni de’ Menabuoi, ed ebbe la cittadinanza di Padova dal Signore Francesco di Carrara. In una Carta riportata dal Rossetti p. 52. è detto: Præsentibus Magistro Iusto Pictore filio quondam D. Iohannis de Menabobus de Florentia habitatore Paduæ in contrata Domi &c. ed in altra addotta dal Brandolese p. 281..... Magistro Iusto Pictore quondam Iohannis de Menaboibus de Florentia habitatore Paduæ in contrata Scalumnæ, cive civitatis Paduæ cum privilegio magnifici & potentis D. D. Francisci de Carraria.
(12) E’ messo costui dallo Scardeone fra li molti scolari dello Squarcione (p. 371.); ma opere di lui ora non si conoscono.
(13) Giovanni Maria Mosca Padovano, allievo di Agostino Zoppo pure Padovano, ci è mostrato dallo Scardeone come scultore di merito per molte altre opere pubbliche e private, e segnatamente per una statua di San Rocco nella Scuola di questo in Venezia (p. 377.). Ma il Sansovino fa che questa sia opera di Bartolommeo Buono Bergamasco, e del Mosca, nobile artefice del suo tempo, siano due altre statue a quella vicine (Venetia citta nobilissima et singolare, p. 71. t.); e di lui ancora, come di scultore assai stimato, c’indica una statuetta in Santo Stefano di Venezia, e tre statue in Santo Spirito in isola (p. 49. 83. t.); e varie altre opere dall’anonimo nostro più innanzi vengono dinotate. Scrive lo Scardeone che correva voce di esser egli passato in Polonia, chiamatovi dal Re per lavorare un mausoleo. Ciò si rende credibile anche dal trovarsi una medaglia di Sigismondo II. Re di Polonia, da lui gettata; la quale è di mezzana grandezza, ed in bronzo sta nel Museo della Regia Libreria di San Marco. Ha essa nel dritto il busto del Re con le parole d. sigismvndvs ii. rex polonie anno regni nri iii. aetatis xiii. anno d. mdxxxii. nel rovescio un lione in atto di camminare con le parole all’intorno parcere svbiectis et debellare svperbos. dentro ivstvs vt leo. e sotto iohannes maria patavinvs f.
(14) Di Antonio Minello Padovano si conosceva un bassorilievo grande nella cappella del Santo, e così pure il Deposito del Retore Giovanni Calfurnio in San Giovanni di Verdara: ma non già questa statua, nè altre opere che più innanzi saranno indicate.
(15) Severo da Ravenna va qui inteso, la di cui patria essendo indicata nella voce rhav., incisa a’ piedi, cadde perciò in errore l’anonimo. E’ rara opera di Severo questa, e ne’ principali scrittori moderni intorno agli artisti di disegno è raro similmente il trovare di lui esatta notizia. Ma però Pomponio Gaurico nel citato Dialogo della Scultura, ch’egli presenta come avuto in Padova sul principio del secolo sedicesimo fra se Niccolò Leonico Tomeo e Giovanni Calfurnio, tanto bene di lui dice, che quando anche tutto non gli si voglia accordare, conviene però levarlo dalla turba degli artefici triviali. Non soltanto eccellente nella scultura, ma bravo ancor nell’intaglio d’ogni sorte, nell’arte del far di terra, e nella pittura, benchè ignorante di lettere, egli lo dice così (Cap. VII.): Severum Ravennatem ideo ad extremum distuli, ut plenius laudarem, qui miror ad me hodie cur non venerit. Is mihi quidem videtur statuariæ numeros omnes adimplere, sculptor, scalptor, cælator, desector, plastes, pictorque egregius. Nam si me heic nunc rogaretis, qualem sculptorem velim, talem nempe ipsum velim, qualem, modo litteræ adessent, Severum esse novimus.
(16) Aveva già scritto il Savonarola nell’operetta citata, che di Stefano da Ferrara v’erano pitture assai al naturale nella cappella del Santo: il Vasari poi scrivendo del Mantegna e di Vittore Carpaccio, lo ha ripetuto.
(17) Piacque a questo scultore di prendere il nome dell’antico Pirgotele, e così non si seppe chi egli fosse. Oltre quest’opera, che per sua viene indicata dal nostro autore soltanto, un’altra ne dinota il Sansovino in Venezia sulla facciata della chiesa della Madonna dei Miracoli, col dire: Di sopra alla porta grande si vede in mezz’arco una nostra Donna di tutto tondo di Pirgotele, ottimo scultore dell’età sua (p. 63.). L’artefice vi è indicato in un pezzetto di marmo posto a canto, ma col solo nome Pyrgoteles. Dovrebbe egli tenersi per Veneziano, secondo Battista Guarino, il quale sopra una famosa scultura di lui, rappresentante Venere che percuote Amore, fece l’epigramma seguente, impresso con le altre Poesie sue Latine in Modena l’anno 1496; in cui a quale scultore si alludesse, nessuno lo ha mai dichiarato.
Signum Veneris Cupidinem verberantis.
Quid sibi suspenso vult Cypria Diva flagello?
Tristia cur meruit verbera nudus Amor?
An punit, quod sit laqueis deprensa mariti?
An quod sit blando lentus in officio?
An pueri curas plagis docet illa domari?
An solitos ficto contegit ore dolos?
Quicquid id est timeo Divae Sybaritidos iram,
Et quamvis caesus, me tamen urit Amor.
Pyrgotelis Veneti signum neque Cous Apelles,
Nec vincet clari dextera Praxitelis.
Egrediens pelago celebres Dea reddidit illos:
Iste flagellanti notus erit Venere.
Con lo stesso solo nome di Pirgotele chiamò questo artefice anche il Gaurico nel citato Dialogo sulla Scultura, mettendolo però fra li chiari scultori, appunto per quella sua Venere flagellifera: Clarus & ipse mastigophoro illa sua Venere noster Pyrgoteles: dove noster è detto perchè doveva egli esser familiare agl’interlocutori del Dialogo, che in Padova tenuto si suppone. Ma lo Scardeone, senza dargli luogo nella classe degl’illustri artisti di sua patria, lo nomina come scultore prestantissimo, all’occasione di scrivere d’Ettore di lui figliuolo, persona di lettere; a cui in età fresca mancato di vita il padre fece un busto di marmo, riposto in San Giovanni di Verdara con epitafio in verso dallo stesso Scardeone portato (p. 320.). Marino Sanudo per altro ne’ Diarii delle cose d’Italia, e specialmente di Venezia, succedute dall’anno 1496 sino al 1533, li quali scritti di sua mano in cinquantotto grandi volumi stanno nella Regia Libreria di San Marco, registrando le prove che secondo il costume facevano alcuni letterati per avere la lettura pubblica allora vacante di lettere Greche in Venezia, scrive così: 1518. 22. Settembre. In questo zorno etiam in l’auditorio a San Marco fu letto per uno vol esser ballottato alla lettura Greca, nominato.... fiol di Pirgotele sculptor sta a Padoa. Lesse la Iliada di Omero. Poi fra li nomi de’ ballottati a quella lettura nel Senato il dì 16. Ottobre dell’anno stesso, insieme con Vettore Fausto, che la ottenne, mette Ioannes Hector Maria Lascari cognominatus Pyrgoteles. Sembra dunque che lo scultore fosse di famiglia Lascari, e che il figlio ancora talvolta malamente si chiamasse col soprannome del padre.
(18) Non v’è colta nazione che non bene conosca Luigi Cornaro gentiluomo Veneziano per gli scritti suoi della vita sobria; avendoli ciascuna di esse nel proprio linguaggio tradotti. La memoria di lui dal Vasari, dal Tuano, da Antonmaria Graziani, e da tanti altri già onorata, è poi stata ne’ tempi nostri a nuova luce ricondotta per opera specialmente di Mons. Fontanini, di Apostolo Zeno (Biblioteca dell'eloquenza italiana, T. II. p. 345.) e del Doge Foscarini (Della letteratura veneziana libri otto, p. 302.); sicchè può chiunque ne avesse voglia fornirsene di notizie agevolmente. A questo luogo però non è da tacersi ch’egli fu non soltanto grande amatore delle arti del disegno, e che per conoscere le maggiori bellezze di esse a Roma si è portato col favorito suo Giammaria Falconetto; che da questo fece costruire la loggia, con tutta ragione lodatissima, qui mentovata, col vago edifizio aggiuntovi; e che nelle opere di Vitruvio e di Leonbatista Alberti fece profondo studio per apprendere la teoria del bene ed ornatamente fabbricare. Quanto grande riputazione godesse per le fabbriche da se ordinate, Francesco Marcolini lo dà a vedere nella dedicazione a lui fatta l’anno 1544 del quarto libro dell'Architettura del Serlio, scrivendo così: A lei sola si conviene il nome di esecutrice di vera architettura: e ne fan fede gli stupendi edificii ordinati dal sopra umano intelletto suo. E se un gentiluomo, o altro privato vuol sapere come si fabbrica nella città, venghi a Casa Cornara in Padova, dove vedrà come si dee fare non pure una loggia superba, ma il resto dell’altre sontuosissime e accomodate fabbriche. Se vuol ornare un giardino, tolga il modello dal suo, che, acciocchè nulla gli manchi, gli avete saputo accomodare sotto la vostra abitazione, traversando la via comune sotto terra, vinti passi di strada, tutta lavorata di opera rustica. Se vuol edificare in villa, vadi a vedere a Codevigo e a Campagna e negli altri luoghi le architetture fatte fare dalla grandezza dell’animo vostro. Chi vuol fare un palazzo da Principe pur fuori della terra, vadi a Luvigiano, dove contemplerà uno albergo degno di esser abitato da un Pontefice, o da un Imperatore, non che da ogni altro Prelato o Signore, ordinato dal sapere di V. S. che sa ciò che si può sapere in questo e nel resto delle operazioni umane. E Pierio Valeriano ancora dedicandogli il libro quarantesimo nono de’ Geroglifici, diceva: Hoc de lapide & fabricis nonnullis tibi deberi existimavi, quando hodie nemo privatorum hominum fabricæ rationem pulchritudinem & elegantiam te uno melius intellexit, intellectamque in usum & artem evexit. Quod si digna magnanimitatis tuæ sors fato aliquo tibi obtigisset, ætas nostra nulli veterum in rei tam præclaræ amplificatione cedere iudicaretur. Ma che il Cornaro scrivesse ancora un Trattato d’architettura, come un altro d’agricoltura, non se ne avrebbe notizia, se non si trovasse a lui così scritto dal Cardinale Luigi Cornaro in una Lettera da Roma nel 1554: Mi rallegro poi per vedere che in questa età, alla quale a pochi è concesso di arrivare, ella è di così pronto e vivo e saldo intelletto, che il mondo può aspettare ancora dalla sua prudenza e dal suo bell’ingegno gran frutto e gran giovamento a perpetuo onore e gloria del nome vostro e di vostra casa; siccome la Magnificenzia Vostra mi promette in questa sua lettera per le tre belle e degne opere composte da lei, dell’architettura, dell’agricoltura, e della vita sobria e regolata: li quali trattati saranno con desiderio estremo aspettati da me, non solo per dilettarmi nel leggerli, ma per metterli in quanto per me si potrà ad effetto (Miscellanea di varie operette, T. VII. p. 153.). Di queste tre opere però quella della vita sobria, compresa in quattro discorsi, sola è a noi pervenuta. Ci restano bensì altre scritture sue in materia di regolamento d’acque per la nostra Laguna, e specialmente un Trattatello impresso in Padova nel 1560., di cui ne ho io un esemplare con qualche giunta di mano propria dell’onoratissimo vecchio; aggiuntovi altro Trattatello inedito sullo stesso argomento, da lui scritto nell’anno novantesimo sesto di sua età; il quale io comunicai al Sig. Ab. Tentori, che ne diede notizia nella sua Dissertazione sulla Laguna (p. 270.). Del ricetto che nell’abitazione del Cornaro in Padova trovavano le ragguardevoli persone rende questa bella testimonianza il citato Antonmaria Graziani nella Vita del Cardinale Commendone (Lib. IV. Cap. 4.): Cornelium colebant observabantque fere Patavii quoscumque aut generis, aut ingenii præstantia nobilitaret. Nam & splendide ipse semper atque honorifice vixit, & eius domus, quam ad Antonii ædificaverat, propter hortorum & ædificii elegantiam, vulgo visebatur; & ducebantur homines non litteratissimi illius quidem, sed moderati & maxime acuti & iucundi senis sermonibus. Itaque nullius frequentior Patavii domus erat; ipseque mirifica in omnes humanitate, incredibiliter præclaris ingeniis delectabatur, iisque, cum opus esset, omnibus suis studiis aderat. Poteva pertanto a ragione vantarsi il Cornaro nella Lettera allo Sperone, di belli sentimenti ripiena, che col suo aveva giovato alli letterati, alli musici, alli architetti, alli pittori, alli scultori e simili.
(19) Non mi sono mai incontrato a vedere altro scrittore che faccia il Falconetto scolare di Melozzo da Forlì: ma se ciò fu, probabilmente avvenne in Roma, dove il Falconetto si portò, e Melozzo pure fece dimora qualche tempo, e belli e rari monumenti dell’arte sua vi ha lasciati. In tanta riputazione egli si aveva al tempo suo, che Jacopo Zaccaria in un Formolario d’intitolazioni di Lettere, stampato in Roma a tempo di Papa Sisto IV, propose per esemplare di scrivere a’ pittori anche Totius Italiae splendori Melocio de Forolivio pictori incomparabili.
Non fu la nobilissima loggia del Cornaro l’ultimo lavoro del Falconetto, come ha scritto il March. Maffei (Verona illustrata, P. III. p. 81.) credendola opera dell’anno 1534; perciocchè l’iscrizione messavi prova che dieci anni addietro ella fu costrutta. Lo assicura anche il Brandolese, da cui l’epoche della vita del Falconetto furono esattamente fissate (Pitture, sculture, architetture, ed altre cose notabili di Padova, p. 253. 27. 276.).
(20) E’ artefice sconosciuto questo Giovanni Padovano: bene si conosce il Gobbo, cioè Cristoforo Solari Milanese, di cui il nostro autore riferisce opere nella chiesa della Carità di Venezia, ed altre con giudizio sempre assai favorevole ne rammenta il suo compatriota Lomazzo.
(21) E’ da valutarsi la testimonianza di questo iscrittore come la più autorevole di ogni altra per istabilire la patria del Campagnola, essendo precisa e contemporanea: e si vede perciò che non era mal fondata l’asserzione di quelli che Veneziano lo dissero. Opera di lui potrebbe essere stata una medaglia di bronzo di mezzana grandezza gettata in onore di Sigismondo II Re di Polonia, nella quale da una parte v’è il busto del Re colle parole sigis. avg. rex polo. mag. dvx lit. aet. s. xxix. e dall’altra v’è un’Aquila Polona colle parole anno d. nri mdxlviii. dominicvs venetvs fecit. Sta essa fra le medaglie nella Regia Libreria di San Marco custodite.
(22) Pittore di molto merito, ma di poca fama, e perciò alcune volte confuso con Girolamo Campagnola; giudiziosamente però distinto da questo nell’opera citata del Brandolese p. 100. 280.
(23) Comunemente questo egregio pittore è detto Bernardo Parentino, e non Lorenzo: forse però abbracciando lo stato eremitico; di che ne dà indizio soltanto l’anonimo nostro; egli prese il nome qui posto. Bella intrapresa fu quella di dare intagliate in rame le pitture di questo chiostro; nelle quali male si avviserebbe chi credesse esservi la grande scorrezione di disegno che le stampe fattene presentano. Si creda pure al P. della Valle quando esalta il merito di queste pitture, nella Lettera al Principe Don Agostino Chigi, stampata con la descrizione delle quattro prime stampe di esse pubblicate dal Sig. Francesco Mengardi: ma insieme si desideri che l’opera proseguisca con esatta corrispondenza agli originali.
(24) Qui l’autore ci mette dinanzi un Resilao, pittore non mai più inteso. Ma egli forse ha letto malamente il nome di lui; e chi sa che sul quadro non fosse notato Lancilao, o Lancislao Padovano, pittore del tempo segnato, di cui presso il Vasari nella Vita di Fra Filippo Lippi trovasi fatta menzione?
(25) Un pezzo di questa palla, che ne formava il comparto di mezzo, è riferito dal Brandolese (p. 252.) come or esistente nella Libreria del Convento con l’epigrafe Opus Sclavonii Dalmatici Squarcionii. Il Sig. Ab. Lanzi in un bel dipinto a Fossombrone trovò Opus Sclavoni Dalmatici Squarcioni S (Scholaris). Forse anche la pittura di Padova doveva portare simile scrittura. Il Ridolfi (T. I. p. 68.) chiama erroneamente Girolamo questo Schiavone; il quale è detto Gregorio dallo Scardeone, mentre lo annovera fra gli scolari dello Squarcione (De antiquitate urbis Patavii, p. 370.), e negli Statuti de’ pittori Padovani ha pure questo medesimo nome (Lanzi, Storia pittorica della Italia, Indice, p. 498.)
(26) Pietro Roccabonella Veneziano nel registro del suo dottorato in filosofia, che si trova negli Atti del Collegio dei Filosofi e Medici di Padova all’anno 1449, è nominato Petrus Roccabonella de Venetiis filius Ludovici Roccabonella de Coneglano Artium & Medicinae Doctoris. Lesse egli Logica Filosofia e Medicina in Padova lungo tempo, e con grande riputazione, sino all’anno 1491, nel quale morì; siccome da que’ medesimi Arti e da una delle due iscrizioni a lui poste chiaramente si conosce.
(27) Bene competeva a Niccolò Leonico Tomeo Veneziano il soprannome di Filosofo, che qui dato gli viene, essendo egli stato il primo che in Padova sbandì dalla Filosofia le vane speculazioni e le sofistiche dispute, che la professione di essa nelle Università tutte avevano contaminata; e ciò dopo avere studiata quella facoltà in Padova medesima, e specialmente sotto la disciplina di Niccolò Vernia da Chieti, professore di quel cattivo gusto. Nel conferirglisi perciò la laurea in quella facoltà, l’anno 1485, straordinaria lode gli si è data; dicendosi negli Atti citati Dominus Nicolaus de Tomeis Civis originarius Venetus, iuvenis modestissimus, doctissimus Graece & Latine. Quivi nell’anno 1497, a richiesta di grande numero di scolari, cominciò egli a spiegare il testo Greco di Aristotile, facendo uso de’ Greci interpreti, appena allor conosciuti nelle scuole, ed accoppiandovi spesso le dottrine di Platone; sempre con ornamenti di erudizione presi dagli autori dell’amena letteratura, ed usando nobiltà e pulitezza di stile. Li suoi comenti sopra i libri minori d’Aristotile, con nuova traduzione, ci danno un bel saggio della maniera da lui tenuta in quella singolare intrapresa: e ben si vede che sono senza pari fra quante altre opere di simil fatta a que’ tempi vennero fuori. Afferma egli stesso che per dieci anni ebbe in Padova quella lettura (Epist. dedicat. in Aristot. de memor. & reminisc.). Si sa però che vi passò poi lungo tempo, menando vita privata, e facendo di sua casa una scuola di dottrina e di buoni costumi. In Padova pure egli lasciò di vivere nell’anno 1531: il che da una Lettera del Bembo (Vol. I. Lib. 3. Opere del Cardinale Pietro Bembo, T. III. p. 156.) e da altra del Sadoleto (P. I. p. 396, ed. Rom. 1760) è abbastanza provato, contro due Lettere Latine da Lucilio Filalteo, o sia Vincenzio Maggi, scritte al Leonico, ed impresse con la falsa data degli anni 1532 e 1533 nel rarissimo libro delle Lettere di questo, dato fuori in Pavia nel 1564 in 8 (p. 65. 76.). Non è qui da fare lungo discorso sopra il merito del Leonico, essendo questo stato posto in chiara luce da varj, e recentemente dal ch. Cav. Tiraboschi, il quale ha indicate le opere sue, ed ha riprodotta l’onorificentissima iscrizione dal Bembo a lui posta. Osservo soltanto che delle belle arti si può egli conoscere amatore non solo dal possedimento delli monumenti qui registrati; ma anche dal sapersi che a lui indiritta aveva Girolamo Campagnola la Lettera sopra gli antichi pittori Padovani, addietro già citata, e dal vederlo introdotto come intendente di scultura a ragionare nel Dialogo da Pomponio Gaurico sopra quell’arte composto. Dell’antiquaria ancora perito ce lo fa conoscere Pierio Valeriano nel libro trentesimo terzo de’ Geroglifici al capo 35.
(28) E’ facile ad accorgersi che costui è il celebre Giovanni Van-Eych, detto da Bruges, benchè nativo di Maaseyk, piccola città sulla riva della Mosa; quel medesimo cui l’invenzione del dipingere ad oglio attribuiscono il Vasari, il Borghini, il Vander-Mander, il Baldinucci, il Descamps, e tanti altri; i quali aggiungere sogliono che da lui Antonello da Messina l’apprese, e verso la metà del secolo quindicesimo in Venezia trasportolla, donde nel resto d’Italia, ed altrove si è propagata. A’ nostri tempi però pitture ad oglio almeno d’un secolo anteriori a Giovanni si sono messe in campo; le quali riferite si veggono dal Raspe nel libro intitolato A Critical Essay on Oil-Painting, impresso a Londra nel 1781, dal P. della Valle nelle annotazioni al Vasari di Siena (T. III. p. 313. T. X. p. 5.), dal Tiraboschi nell’Istoria della Letteratura Italiana (T. VI. P. II. p. 407.), e nella Biblioteca Modenese (T. VI. p. 481.), dal Lanzi nella Storia Pittorica dell’Italia (T. I. p. 59. 586. II. 22.), dal Vernazza nel Giornale Pisano (T. XCIV. p. 220.), e da altri. Ma non s’accordano gl’intendenti di sì fatte cose nel giudicarle ad oglio, essendo molto difficile il conoscere, se un’antica pittura sia veramente stata lavorata ad oglio, o ad altro modo, per le varie prove usate dagli artefici a fine di recare alle opere loro quella vivacità che col dipingere a tempera non riusciva loro di darvi. Parve ancora di potersi far rimontare la pittura ad oglio al di là del secolo undecimo, sull’autorità di Teofilo Monaco, altrimenti detto Ruggiero, che ne insegnò l’uso in un’opera Latina, descritta già sino dall’anno 1774 da Abramo Lessing in una dissertazione Tedesca su questo argomento, impressa a Brunswick, poi da me ne’ Codici Naniani (n. XXXIX.) e dal Raspe nel mentovato libro in gran parte pubblicata, finalmente tutta inserita da Cristiano Leist nel tomo sesto della Collezione del Lessing intitolata Zur Geschichte und Litteratur, impresso a Brunswick l’anno 1781. E veramente Teofilo, scrittore non più tardo del secolo undecimo perciocchè l’opera di lui esiste in due codici di Vienna e di Wolfenbuttel dentro quel secolo ricopiati, chiaramente insegna nel Libro I. Capo 18. ad adoperare colori stemprati con oglio di linseme, dicendo: Si autem volueris ostia rubricare, tolle oleum lini, quod hoc modo compones. Accipe semen lini, & exsicca illud in ne super ignem sine aqua: deinde mitte in mortarium & contunde illud pila donec tenuissimus pulvis fiat; rursumque mittens illud in sartaginem, & infundens modicum aquæ, sic calefacies fortiter: postea involve illud in pannum novum, & pone in pressatorium, in quo solet oleum olivæ, vel nucum, vel papaveris exprimi, ut eodem modo etiam istud exprimatur. Cum hoc oleo tere minium, sive cenobrium super lapidem, sine aqua, & cum pincello linies super ostia, vel tabulas, quas rubricare volueris, & ad solem siccabis; deinde iterum linies, & rursum siccabis. Nè del dipingere ad oglio solamente campi senza figure e senza ornamenti Teofilo tratta, come asserisce il Barone di Budberg nell’Apologia di Giovanni da Bruges, che diede a stampa in Gottinga l’anno 1792 (Esprit des Journaux Octobre 1792. p. 417.), avendo egli scritto nel Capo 22. dello stesso libro: Deinde accipe colores, quos imponere volueris, terens eos diligenter oleo lini, sine aqua, & fac mixturas vultuum ac vestimentorum, sicut superius aqua feceras, & bestias, sive aves, aut folia variabis suis coloribus, prout libuerit. E’ piuttosto da osservare a merito ed onore dell’artista Fiammingo, che la maniera di dipingere ad oglio insegnata da Teofilo non toglieva l’incomodo di dover esporre le pitture al sole affinchè si seccassero; siccome dalle ultime di lui parole del Capo 18. addotte si vede, e più chiaro ancora dalle seguenti del Capo 23. dello stesso libro: Omnia genera colorum eodem genere olei teri & poni possunt in opere ligneo in iis tantum rebus quæ sole siccari possunt; quia quotiescunque unum colorem imposueris, alterum ei superponete non potes, nisi prior exsiccetur; quod in imaginibus diuturnum & tædiosum nimis est. Si autem volueris opus tuum festinare, sume gummi quod exit de ceraso &c.. Ma Giovanni da Bruges appunto perchè un suo quadro posto a seccarsi al sole per troppo calore gli si era spezzato, tanto rammarico n’ebbe, e tanto studiò per evitare questo disordine, che tale maniera di dipingere ad oglio ha trovata, per cui seccandosi li colori da per se, non rimaneva bisogno veruno di portare li quadri al sole.
Di Giovanni da Bruges non ci dice veramente che fosse l’inventore del dipingere ad oglio Bartolommeo Facio nell’opuscolo de Viris illustribus, scritto da lui nell’anno 1456, e venuto poi in luce colla stampa in Fiorenza nel 1745; ma però belle e nuove cose intorno ad esso ci fa sapere con queste parole (p. 46.): Ioannes Gallicus nstri sæculi pictorum, princeps iudicatus est, litterarum nonnihil doctus, Geometriæ præsertim, & earum artium, quæ ad picturæ ornamentum accederent, putaturque ob eam rem multa de colorum proprietatibus invenisse, quæ ab antiquis tradita ex Plinii & aliorum auctorum lectione didicerat. Eius est tabula insignis in penetralibus Alphonsi Regis, in qua est Maria Virgo ipsa venustate ac verecundia notabilis, Gabriel Angelus Dei Filium ex ea nasciturum annuntians excellenti pulchritudine, capillis veros vincentibus, Joannes Baptista, vitæ sanctitatem & austeritatem admirabilem præseferens, Hieronymus viventi persimilis, bibliotheca miræ artis; quippe quæ si paulum ab ea discedas, videatur introrsus recedere, & totos libros pandere, quorum capita modo appropinquanti appareant. In eiusdem tabulæ exteriori parte pictus est Baptista Lomellinus, cuius fuit ipsa tabula, cui solam vocem deesse iudices, & mulier, quam amabat, præstanti forma & ipsa, qualis erat, ad unguem expressa; inter quos solis radius veluti per rimam illabebatur, quem verum solem putes. Eius est Mundi comprehensio orbiculari forma, quam Philippo Belgarum Principi pinxit; quo nullum consummatius opus nostra aetate factum putatur; in quo non solum loca, situsque regionum, sed etiam locorum distantiam metiendo dignoscas. Sunt item picturæ eius nobiles apud Octavianum Cardinalem, virum illustrem, eximia forma feminæ e balneo exeuntes, occultiores corporis partes tenui linteo velatæ notabili rubore; e quîs unius os tantummodo, pectusque demonstrans posteriores corporis partes per speculum pictum lateri oppositum ita expressit, ut & terga, quemadmodum pectus videas. In eadem tabula est in balneo lucerna ardenti simillima, & anus, quæ sudare videatur, catulus aquam lambens, & item equi, hominesque perbrevi statura, montes, nemora, pagi, castella tanto artificio elaborata, ut alia ab aliis quinquaginta millibus passuum distare credas. Sed nihil prope admirabilius in eodem opere, quam speculum in eadem tabula depictum, in quo quæcumque inibi descripta sunt, tanquam in vero speculo prospicias. Alia complura opera fecisse dicitur, quorum plenam notitiam habere non potui. Non si sono accorti gli scrittori moderni intorno a’ pittori che questo Johannes Gallicus fosse il Van-Eych, non vedendolo dal Facio fatto ritrovatore della pittura ad oglio. Ma non ce lo lasciano prendere in fallo li quadri di lui riferiti com’esistenti presso Alfonso I. Re di Sicilia, e presso prima il Cardinale Ottaviano degli Ottaviani, poi presso Federigo II. Duca di Urbino; li quali il Facio descrive in maniera da averneli veduti, e dal Vasari, dal Van Mander, dal Baldinucci, e dal Descamps come opere di Giovanni da Bruges ci vengono additati.
Scriveva Francesco Sansovino nel 1580 (Venetia citta nobilissima et singolare, p. 57. t.) che Giovanni di Bruggia fece nella Chiesa di Santa Maria de’ Servi di Venezia una palla col presepio e co’ i tre Magi; lavoro che andò perduto. Ma è da intendersi ciò di Giovanni Van-Eych? Si avverta che v’è stato un Giovanni da Bruges scolare di Ruggiero pure da Bruges, di cui alcune cose il Baldinucci scrive (Decen. VI. P. II. Sec. III. T. IV. p. 17. Ed. Fior. 1768), chiamandolo però Ans, ovvero Hans, che nel Fiammingo linguaggio a Giovanni corrisponde. Il Vasari corrottamente Ausse lo chiama, ma però scrive che fece un quadro a’ Portinari in Santa Maria Nuova di Fiorenza, e che di sua mano era la Tavola di Careggi villa di quel Duca (Introd. Cap. XXI e T. III. p. 312. ed. Siena). V’è pertanto luogo a credere che costui venuto in Italia anche in Venezia operasse.
(29) Alessandro Capella Veneziano, figliuolo di Febo Gran Cancelliere della Repubblica, fu uomo di bell’ingegno, di lettere adorno, e d’amore costante inverso la patria; alla quale servendo come Segretario del famoso Andrea Gritti Proveditore in campo, fu fatto prigione seco lui, e condotto a Pavia. Delle buone sue qualità ne rende testimonianza Niccolò Leonico Tomeo, cui egli era grande amico, sì nella dedicazione fattagli del libro d’Aristotile della memoria e della reminiscenza da se tradotto e comentato, sì ancora in altri luoghi delle opere sue a stampa.
(30) Bertoldo Fiorentino scultore ebbe scuola da Donatello, ed insieme cogli altri condiscepoli fu erede delle cose dell’arte che quello aveva. Lo imitò assai specialmente in un getto di bronzo, che rappresentava una battaglia equestre di gran bellezza; e diede l’ultima mano a’ lavori del maestro, fra’ quali furonvi li pergami di bronzo in San Lorenzo di Fiorenza. Crebbe tanto in riputazione, che il Magnifico Lorenzo de' Medici avendo voluto raccogliere al suo giardino di San Marco alquanti giovani, fra’ quali v’era anche Michelagnolo, per farli ammaestrare nella pittura e nella scoltura, diede loro Bertoldo per capo e maestro; ed a lui affidò la custodia de’ molti disegni, cartoni, e modelli a quell’istituto raccolti. Tutto ciò dal Vasari nelle Vite di Donatello, di Torrigiano, e di Michelagnolo è detto. Una grande medaglia da Bertoldo gettata, non però di felice lavoro, fra quelle della Regia Libreria di San Marco in Venezia si trova; la quale da una parte ha il busto di Maometto II. Imperatore de’ Turchi con le parole mavmhet asie ac trapesvnzis magneqve gretie imperat. e dall’altra ha un carro trionfale, sopra cui sta un genio alato, che con la mano dritta tiene una fune e conduce avvinte tre donne coronate, simboli delle provincie conquistate, con le parole gretie . trapesvnty . asie . Abbasso stanno giacenti Mercurio e l’Abbondanza con le parole opvs bertoldi florentini scvltoris.
(31) E’ cosa nuova a sapersi che Cimabue abbia dipinto in Padova: pure non va sì tosto negata credenza al nostro scrittore, il quale con precisione indica questo avanzo di opera sua custodito come grande rarità. Per verità Michele Savonarola nell’opuscolo altrove citato delle lodi di Padova, in cui raccoglie li pregi di quella città anche quanto ad insigni pittori che vi avevano operato, nulla dice di Cimabue: ma a tempo suo, cioè alla metà del secolo quindicesimo, l’incendio della Chiesa del Carmine era facilmente già succeduto, e questo pezzo di pittura se ne stava nascosto. Pitture del tempo di Cimabue si vedevano già nelle chiese di Padova anche a tempo dello Scardeone; delle quali egli scriveva. Exɛtant in hac urbe ab annis trecentis & amplius signa & picturae, quae in templis antiquis visuntur, ita informes rudes, & distortae, ac sine ulla prorsus arte confictae, ut nemo pictor nunc, quamvis imperitus, eas melius & elegantius non effingat.
(32) E’ sempre stata famosa l’abitazione del Cardinale Bembo in Padova per la copia di squisiti monumenti alle lettere ed alle belle arti spettanti, che quel grand’uomo vi aveva raccolti. Statue, vasi, cammei, gemme, pietre intagliate, iscrizioni, medaglie, pitture, scolture; di sì fatte cose v’era stupenda adunanza. Quando altre prove non vi fossero sparse ne’ libri del suo tempo, basterebbero le lettere del Bembo medesimo a mostrare che con assiduità egli le cercava, e gelosamente le possedeva. Scrivendo nel 1516 al Cardinale Bernardo Divizio da Bibiena, gli fa le maggiori istanze per avere una Venerina di marmo, la quale, dice, porrò nel mio camerino tral Giove e il Mercurio suo padre e suo fratello (Opere del Cardinale Pietro Bembo, T. III. p. 12.), due piccioli bronzi qui riferiti. Non poteva egli stare lungo tempo senza vedere questa sua carissima suppellettile, e perciò nel 1542 trovandosi in Roma ebbe a scrivere a Flaminio Tomarozzo a Padova nel modo seguente: Io non posso più oltre portare il desiderio che io ho di riveder le mie Medaglie, e qualche altra cosa antica, che sono nel mio studio costì. Perchè sarete contento, quando tornerete a Roma, portarmi queste di loro. Le Medaglie d’oro tutte. Le d’argento tutte, da quelle infuori che sono nell’ultima tazza più grande di canna Indiana, ed in maggior numero delle altre. Le di bronzo delle prime quattro tazze di quella maniera, e più, se vi parrà di dover portare. Il Giove ed il Mercurio e la Diana di bronzo, ed oltre a questo, che a voi piacerà di portarmi.... Porteretemi eziandio quella tazza dove stanno gli anelli e le corniole, e le altre cosette con ciò che è in essa (Opere del Cardinale Pietro Bembo, T. III. p. 266.). Ci dà una bella idea del museo del Bembo uno scrittore Padovano di antichità peritissimo, e contemporaneo, cioè Alessandro Bassano in un’opera inedita intitolata Interpretatio historiarum ac signorum in numismatibus XII primorum Cæsarum; della quale il ch. Sig. Abate Giuseppe Gennari, amico mio pregiatissimo, che la possiede, mi ha comunicate le parole seguenti che al proposito fanno. Petrus Bembus, cum bibliothecam, sive, ut expressius dicam, Musaeum Patavii haberet, non librorum modo, verum etiam omnis generis antiquitatis refertum; in primis illustrium antiquorum Pario ex marmore caelatas effigies, seu imagines; subindeque imagunculas Corinthio ex aere; tertio numismata incredibili fere copia, aurea, argentea, aerea retinens; & haec omnia relaxandi animi causa, cum a litterarum studiis Interdum se abdicaret, ut ad illud idem postmodum vegetiori rediret ingenio &c. Non occorre qui mostrare che di molta intelligenza e penetrazione il Bembo era nelle cose d’antiquaria; avendosene già in pubblico chiare prove. Quanto ancora delle belle arti fosse studioso, e ne le promovesse, è pure manifesto; sicchè il Vasari trattando di Vellano da Padova, ha dovuto dire: Il suo ritratto mi fu mandato da Padova da alcuni amici miei, che l’ebbero, per quanto mi avvisarono, dal dottissimo e reverendissimo Cardinale Bembo, che fu tanto amatore delle nostre arti, quanto in tutte le più rare virtù e doti di animo e di corpo fu sopra tutti gli altri uomini dell’età nostra eccellentissimo (Vite T. III. p. 330. ed. Siena). Ma per aggiungere una qualche nuova notizia sopra questo particolare, dirò che tanti bei monumenti da se raccolti volle il Bembo che dopo la sua morte il figliuolo Torquato suo erede non alienasse giammai, nel testamento, che fece in Roma addì 5 Settembre 1544, e, per cura da me avuta, originale nella Libreria Regia di San Marco di Venezia si trova, incaricandolo di questo modo: Voglio oltre a ciò ch’egli sia obbligato di non vendere, nè impegnare, nè donare per nessun caso alcuna delle mie cose antiche, o di pietra, o di rame, o d’argento, o d’oro o di altro che elle siano, o fossero; ma di tenerle care ed in guardia, siccome l’ho tenute io: e parimente sia tenuto di fare così dei libri e delle pitture che sono nel mio studio e casa in Padova, e che io ho qui meco; tenendo tutto ad uso e comodità ed onor suo e memoria mia.
Di fatti Torquato, cui il padre aveva fatto istillare l’amore delle antiche e belle cose, fu sollecito di conservare il museo paterno, e ad uso de’ letterati lo tenne; sicchè Enea Vico di esso ne profittò ne’ Discorsi sopra le Medaglie antiche, nel 1555 stampati (p. 87. 88. 93. 95.); Costanzo Landi insieme con Federigo di Granvella vi osservò le cose più rare, e segnatamente la Tavola Egizia, e Medaglie antiche, oltre li Codici di Virgilio e del Petrarca (Constantii Landi, Complani comitis, In veterum numismatum Romanorum miscellanea, p. 9. &c.); Gilberto Cognato nel 1558 lo vide con ammirazione (Cognat. Topograph. aliquot Ital. Civit. p. 388. Oper.); lo Scardeone nel 1560 ne diede in luce alcune antiche Iscrizioni (De antiquitate urbis Patavii, p. 86.); il Goltzio profittò delle antiche Medaglie conservatevi per le note opere sue (Goltzio, Ind. oper. inscripti, C. Iulius Cæsar &c., Lib. I., Brug. 1563); il Sigonio poi negli anni 1560 e 1574 da esso pubblicò quattro insigni pezzi di Leggi Romane, che in lamine di bronzo v’erano scritte, due cioè della Legge Toria sopra cose agrarie, e due della Legge Servilia sopra cose giudiziarie; li quali, venute le lamine in potere di Fulvio Orsino, furono l’anno 1583 riprodotti nelle Leggi e Decreti Romani da Antonio Agostini, ed in appresso dal Grutero nelle antiche Iscrizioni (Tab. CCII. DVI. DVII.): ma dall’Orsino al Cardinale Odoardo Farnese con altre simili cose lasciate ancor esse (Ursini Testam. post Vitam a Josepho Castalione), pervennero finalmente al Museo di Parma, in cui il March. Maffei le ha osservate (Osservazioni letterarie, T. III. p. 290.). Tenne Torquato con gran diligenza presso di se le anticaglie dal padre lasciate. Sunt adhuc omnia, diligentissimeque asservantur apud filium Torquatum Bembum, scriveva Alessandro Bassano nell’opera allegata. Nè si contentò dapprima di conservarle, ma le accrebbe ancora, a detta specialmente di Melchiorre Guilandino Prefetto dell’Orto Pubblico di Padova, che n’era testimonio di veduta (Melchioris Guilandini Papyrus, p. 59. ed. Venet. 1572.). Qualunque però ne fosse la cagione, Torquato prese il partito di privarsi de’ più rari monumenti, ed in Roma lo fece, dove trovandosi Ercole Basso nel 1583 scrisse al Cav. Niccolò Gaddi: Monsignor Bembo è qua in Roma, dove ha fatto esito d’una gran parte del suo studio (Lettere pittoriche, T. III. p. 197.). Allora fu che Fulvio Orsino, oltre li famosi codici di Terenzio, di Virgilio, e del Petrarca insieme comperati, acquistò le quattro Tavole di bronzo sovraccennate, le quali morendo nel 1600 al Card. Farnese lasciò. Un grande avanzo però del Museo del Bembo deve alla fine averne comperato in Venezia il celebratissimo Niccolò Claudio Fabricio di Peiresc; di cui scrive il Gassendo nella Vita di esso, che Bembi Equitis universam paene rerum antiquarum supellectilem a Cardinali usque Bembo deductam coemit (Lib. I. p. 33. edit. Hag. Comit. 1651).
(33) Giovanni Memmelinck nativo di Dama, città presso Bruges, trovasi nominato come eccellente pittore dal Baldinucci dove tratta di Giovanni van Eych da Bruges (Decen. I. P. I. Sec. III. T. III. p. 62. ed. Fior. 1768); e il dir suo s’appoggia all’autorità di Carlo van Mander, pittore di chiaro nome e scrittore delle Vite de’ pittori Fiamminghi, nell’anno 1604 in Harlem impresse nell’idioma di quella nazione, e da lui usate sopra una traduzione Italiana non mai stata stampata (Decen. VIII. Sec. II. T. II. p. 186.). Di un quadro stimatissimo, che rappresenta Gesù bambino adorato da’ pastori, lasciato dal pittore medesimo allo spedale di San Giovanni di Bruges, fece ricordanza il Van Mander; e dopo lo ha meglio indicato Giovambattista Descamps (Vie des Peintres Flamands, T. I. p. 13.): ma questo secondo scrittore quanto al cognome il primo corregge, e dice che nell’orlo del quadro a grandi lettere v’è opvs iohannis hemmelinck. m.cccc.lxxix. con la solita sua marca. Potrebbe però la lettera M iniziale del cognome esservi di forma alquanto inusitata, sicchè faccia equivoco con la H. L’Anonimo nostro qui Memeglino lo dice, e Memelino sempre, ove riferisce altre opere sue presso il Cardinale Domenico Grimani; fra le quali un ritratto v’era dipinto nel 1450; così pure all’occasione d’indicare una pittura che se gli poteva attribuire, presso Antonio Pasqualino; aggiungendo ch’egli fu pittore antico Ponentino, frase da lui usata per dinotare i pittori Fiamminghi.
(34) Di questa pittura sembra per verità che abbia ad intendersi il Bembo, quando scrive ad Antonio Anselmi a Venezia da Villa Bozza nel 1538: Son contento che al Beazzano si dia il quadro delle due teste di Raffael da Urbino, e che gliele facciate portar voi, ed anco gliele diate, pregandolo ad aver cura che non si guastino. Se a questo passo avesse posta mente l’Ab. Angelo Comolli, non avrebbe, credo io, dubitato che di Raffaello non fosse il quadro dall’anonimo qui riferito, di cui ne aveva da me avuta notizia (Vita inedita di Raffaello, p. 53. ed. 1791).
Baldassar Castiglione e con Raffaello domani anderò a riveder Tivoli, che io vidi già un’altra volta vintisette anni sono. Vederemo il vecchio e il nuovo, e ciò che di bello fia in quella contrada. Vovvi per dar piacere a M. Andrea, il quale fatto il dì di Pasquino si partirà per Vinegia (Opere del Cardinale Pietro Bembo, T. III. p. 10.). Ecco l’occasione d’amicizia fra il Navagero il Beazzano e Raffaello; e facilmente ancora il tempo della pittura dal Bembo posseduta. Il Navagero parimente e il Beazzano avea ritratti Tiziano in uno de’ quadri istoriati della Sala del gran Consiglio in Venezia, arsi dal fuoco del 1577 (Sansovino, Venetia citta nobilissima et singolare, p. 131. ed. 1581). Del primo però ci è restata l’effigie in un medaglione di bronzo con altro del Fracastoro, fatture del celebre Giovanni Cavino Padovano, per cura presasi da Giovambatista Rannusio, collocate in Padova sotto un arco a San Benedetto; il quale al principio delle opere d’esso Navagero dell’edizione Cominiana con intaglio in rame rappresentato si vede. Nonostante la diligenza usata dalli chiarissimi e benemeriti fratelli Volpi nel raccogliere li componimenti e le memorie del Navagero in quell’edizione, v’è ancor luogo a farne una migliore; alla quale certo gioverebbero alcuni supplimenti di mano di Don Gaetano Volpi, che io ne tengo, e che d’altri, risguardanti sì la persona sua, come gli scritti, e le critiche ed apologie di essi, incidentemente in varii tempi ho accresciuti.
Patrizio Veneziano fu grande amatore dell’antichità, siccome ad uomo d’alto spirito e di gusto delicatissimo in ogni maniera di bella letteratura conveniva. Non lasciò di portarsi a vedere gli avanzi di Roma antica, e di que’ contorni; di che ne dà indizio il Bembo scrivendo così da Roma nell’Aprile del 1516 al Cardinale Divizio: Io col Navagero e col Beazzano e con M.Agostino Beazzano nato in Trevigi, ma di famiglia Veneziana, fu poeta elegantissimo in Latino ed in Volgare; e cose di lui in ambe le lingue a stampa si veggono. Stretta amicizia egli tenne col Bembo, nella di cui morte pubblicò versi proprii e d’altri ancora. Fu ancora amico del Navagero; e sebbene abbia avuto seco lui un disgusto gravissimo, per cui protestava di non volere più essergli amico (Lettere di diversi al Bembo, p. 127. t.); pure nella sua morte lo ha con versi lodato. Del Beazzano ha scritto con esattezza il Mazzucchelli; ma più diffusamente e con diligenza singolare Fra Giovanni degli Agostini nel tomo terzo delle Notizie intorno agli Scrittori Veneziani; il quale a penna sta presso a’ Francescani Osservanti della Vigna, da me veduto con un grande apparato di notizie per la continuazione di quell’opera, il tutto di mano dell’Agostini.
(35) Di Sebastiano Veneziano, poi Frate del Piombo, eccellente nel ritrarre, qui si conosce un’opera non mentovata da quelli che di esso hanno scritto.
(36) Non si aveva notizia di questi due ritratti del Bembo, l’uno di Raffaello, l’altro d’un Giacometto Veneziano, autore sconosciuto di pitture e miniature dal solo anonimo nostro indicate. Bensì varj altri ritratti di lui a parte fatti se ne conoscevano. Due ne fece Tiziano, prima che il Bembo fosse Cardinale, e dopo; il secondo de’ quali potrebbe esser quello che a’ giorni nostri fu trovato nella casa già di Pietro Gradenigo, ch’ebbe per moglie la Elena d’esso Bembo figliuola, e con grande maestria intagliato in rame dall’eccellente Bartolozzi vedesi al principio dell’Istoria Veneziana dal Cardinale volgarmente scritta, e secondo l’originale da me pubblicata in Venezia l’anno 1790. Un ritratto ancora come dipinto per mano di Tiziano ne lasciò Marcantonio Foppa l’anno 1673 alla città di Bergamo, da essere in pubblico luogo collocato (Serassi, Vita di Torquato Tasso, p. 520. ed. Roma. Pasta, Le pitture notabili di Bergamo, p. 33.). Altro ritratto sulla tavola, di picciola forma, che di maniera Tizianesca è certamente, fatto dopo il Cardinalato, una volta di ragione di Paolo Rannusio, come un’iscrizione dietro postavi il dinota, Pauli Rhamnusii & amicorum, poi venuto in potere del mio Bali Farsetti, con altre rare cose da questo lasciatevi, nella Regia Libreria di San Marco si conserva. Di grandezza quasi eguale a questo uno ne possiede in Padova l’ornatissimo Sig. Conte Antonio Borromeo con l’iscrizione Petrus Bembus annum agens LXXVII.: e da questo pare cavata una stampa intagliata in rame che ha le parole medesime, ed è fattura del cinquecento, da me già veduta in una grande raccolta di simili cose, che il buon amico mio Amedeo Svaier aveva. Nella Galleria di Firenze ed in altre ritratti del Cardinale non mancano. Anche il Vasari ritrasse il Bembo, secondo una stampa in rame che ne va attorno; e questo era presso il Cardinale Luigi Valenti Gonzaga: ma il sembiante in questo è sì diverso da tutti gli altri, che il Bembo non vi si riconosce. Da Raffaello fu pure ritratto il Bembo nel palazzo Vaticano, e da Tiziano in quello di Venezia; insieme però con altri uomini illustri di que’ tempi. Medaglie con l’effigie di lui, e busti di marmo parimente si fecero; stampe in rame ed in legno che lo rappresentavano e separatamente fatte, ed al principio delle Rime di lui, nella prima Libreria del Doni, negli Elogj del Giovio, ed in altri libri del secolo sedicesimo furono poste. Potevano così quei che presenzialmente veduto non avevano quel grand’uomo formare facilmente idea di sua persona; siccome toccò al Mureto il quale dedicando a Torquato di lui figliuolo gli Scolii suoi sopra Tibullo scriveva: Equidem non solum quae ille nobis monumenta ingenii sui plurima ac pulcherrima reliquit accurate pervolutare; verum etiam imagines corporis ipsius studiose contemplari soleo, magnamque ex eis oblectationem capio, quod illae mihi ipsum ante oculos constituere rideantur.
(37) Opera di merito singolare doveva esser questa, per l’intima familiarità, che si sa aver avuto Iacopo Bellino con Gentile da Fabriano suo maestro in Venezia. Era poi anche rarissima; non ricordandosi da quei che le memorie di Gentile hanno raccolte ritratto alcuno di lui separatamente dipinto.
(38) Bertoldo d’Este Capitano generale dell’armata da terra de’ Veneziani nella Morea lasciò la vita nella difesa di Corinto l’anno 1463; e trasferito il corpo suo a Venezia, se gli fece un pubblico funerale, con Orazione recitata da Bernardo Bembo padre del Cardinale (Sanudo, Vite dei Dogi, p. 1179.). Fu registrata l’Orazione dal Tommasino fra li manoscritti de’ Candi in Padova (Bibl. Patav. Mss. p. 89.) ma essa, per quanto io conosco, a stampa non s’è mai veduta. Bensì la ho io letta in una privata Libreria di Venezia, e degna dell’Oratore e del Capitano mi parve. Il fatto che costò a Bertoldo la vita nel seguente tratto di eloquenza è compreso. Urbem Corinthi in summo inaccessibilis montis sitam, quam nullus superiore tempore imperator, praeter L. Mummium Consulem, alio telorum genere, quam conviciis & imprecationibus lacessere potuit; non ipse Epirotarum Rex, non Baiazetes huius Mahometi proavus, non is denique Mahometus perditissimus tyrannus, etsi quingentis millibus hominum imperaret; iste quingentis dumtaxat armatis militibus eousque per angustissima viarum conscendit, tentoria fixit, vexilla erexit, quo nec ab ipsis posse capreis reptando perveniri quivis facile iudicare potuisset. Inter tantas rerum angustias & totius status nostri momentaneam conditionem vel maxime enituit Bertoldi nostri virtus; aliis enim trepidantibus egentibusque consilio, ipse tamen impavidus, infatigabilis, intentus, exhortatione, opera, celeritate, moenia iam arcis tormentis magna ex parte prostraverat; ut nisi detracta paullisper ad respirandum galea, detestanti lapidis ictus caput illi secundum aurem percussisset, illa dies, illa inquam dies, rebus Venetis certissimam & nullis antea saeculis auditam victoriam peperisset. Sopra la fatale morte di Bertoldo scrissero in prosa Latina Francesco Barozzi, che fu Vescovo di Treviso, e Lodovico Carbone Ferrarese; ed in verso Iacopo Ragazzoni Veneziano e Pietro Barozzi, che fu Vescovo di Padova: ma credo che a stampa non vi siano, sennon i versi di quest’ultimo (Contareni, Anecdota Veneta, p. 213.).
(39) Di Madonna Laura ritratta da Simone di Martino, altramente detto Simone Memmi Sanese, in Avignone, nel chiostro della Chiesa Cattedrale, sotto la figura di una giovane vestita di verde a piedi d’un San Giorgio a cavallo che la libera da un drago, v’è qualche tradizione riferita dall’Ab. de Sade nelle Memorie sul Petrarca (T. I. p. 401.) e da altri (Lettere Sanesi del P. della Valle, T. II. p. 95.): ma di questa Santa Margherita, in cui Laura fosse effigiata, la notizia riesce nuova.
(40) Di Giulio Campagnola ci conviene credere maraviglie, leggendo specialmente ciò che di lui sappiamo da Matteo Bosso nelle Lettere e da Panfilo Sasso ne’ Versi Latini; mentre poco più che fanciullo ci viene rappresentato come perito di lettere Latine, Greche ed Ebraiche, poeta, pittore, scultore, cantante, e suonatore, tutto in grado distinto. Alle testimonianze del Bosso, che lo Scardeone ha apportate (De antiquitate urbis Patavii, p. 244.), altra del medesimo Scrittore aggiungere se ne può da una Lettera a Girolamo di lui padre scritta circa l’anno 1494, con la quale lo ragguaglia della bella riuscita che Giulio faceva in Verona presso di se. Vix tertium ingressus lustrum ingenio & natura non est Lippo (Aurelio Brandolino) absimilis; quin praeter litteras tum Latinas tum Graecas, impuber iste & lyram tractare, & in ea canere, versus edere, &, quod caecus non potest, scribere, pingere, statuas atque signa fingere sic per se se magis, ut puto, duce natura, quam arte, perdidicit; ut temporibus nostris omnibus illis tantis in rebus simul possit meo iudicio conferri nemo. Così il Bosso nell’epistola lxxv. della seconda collezione stampata in Mantova nel 1498. Qualche componimento poetico di Giulio ho veduto, e segnatamente un Sonetto in morte di Papa Giulio II da Marino Sanudo ne’ voluminosi suoi Diarii ricopiato. Una pittura di Giorgione da Castelfranco ed un’altra di Benedetto Diana, non ignobile fra gli antichi pittori Veneziani, avevano servito di originali al Campagnola per li due quadretti qui riferiti.
(41) Fu Carlo Bembo fratello del Cardinale, che nella morte di lui succeduta addì 30 Decembre 1503 fece quella Canzone sì bella, che nelle rime di lui con un Sonetto sullo stesso argomento si trova. Bernardo padre, anche per testimonianza delle Croniche nostre, nel 1472 fu ambasciatore della Repubblica a Carlo Duca di Borgogna per indurlo a collegarsi con essa contro li Turchi (Muratori, Rerum Italicarum scriptores, T. XXIII. p. 1135.).
(42) Un Cupido, d’antica scultura, adagiato a dormire sopra la pelle di lione, con la fiaccola estinta, l’arco, il turcasso, e la mazza d’Ercole, era presso Isabella d'Este Gonzaga Marchesa di Mantova, celebre per la coltura e pel favore delle lettere e delle arti; e si guardava l’opera come di Prassitele, per testimonianza di Giammaria Tricelio, il quale nel suo Lessico Greco e Latino, stampato in Ferrara l’anno 1510, alla voce πανδαμάτωρ, pubblicando un distico Greco che sopra quel Cupido avea fatto, adoperò queste parole: Interim referam carmen, quod Mantuae cecineram, viso Isabellae Praxiteleo Cupidine dormitante in Nemei leonis pelle, face exstincta, arcu & pharetra ac clava Herculea post terga positis &c. Nè ad altro, che a questo devono appartenere una Selva di versi esametri di Fra Battista Mantovano, De Cupidine marmoreo dormiente ad Elisabellam Mantuae Marchionissam, ed un epigramma del Castiglione in Cupidinem Praxiteleum; li quali componimenti mostrano di essere stati fatti avendo la scultura presente. Altro Cupido di marmo in atto di dormire, posto similmente sulla pelle del lione, cogli attrezzi medesimi di quell’antico, fece Michelangelo Buonarroti, posseduto prima da Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici, poi da Cesare Borgia Duca Valentino, che alla Marchesa suddetta lo diede (Vasari, Vite, T. X. p. 39.); e sopra questo epigrammi di Ercole Strozzi, d’Ippolito Capilupi, e d’altri a stampa vi sono. Ambedue in Mantova si vedevano l’anno 1573, quando vi passò il Tuano; e, secondo che far si soleva, prima gli fu mostrato il moderno, poi l’antico, siccome di bellezza molto maggiore (Thuanus, Commentariorum de vita sua, Lib. I. Historiam sui temporis, T. VII. p. 14. ed. Lond. 1733). Sulla fine ancora del secolo stesso nel Museo si vedevano, per indizio che se ne ha da Raffaello Toscano (L’Edificazione di Mantova ec., p. 25. ed. 1586): ma nè l’uno, nè l’altro ora come superstite si conosce.
Del Cupido posseduto dal Bembo è qui detto che aveva presso di se una lucertola, nè degli attrezzi soliti porsi a quella Deità si fa parola. Ma quell’animaluccio, che dorme gran parte dell’anno, suole trovarsi accanto un fanciullo alato, dormiente sulla pelle del lione, o pure con un lione sotto alla testa, con fiori di papaveri, ed altri accessorii, non però quelli d’Amore; e per il Sonno dagl’intendenti a ragione viene preso. Così è in una scultura di Roma presso il Maffei (Statue Romane n. CLI.) ed il Montfaucon (Supplement au Livre de l’antiquité expliquée et representée en figures, T. I. p. 215. p. 225.) in altra di Praga (Jacobi Tollii Epistolae itinerariae, pag. 72.) ed in quella di Iacopo Tollio, che fece tanto scrivere a lui, ed a Iacopo Rondell (Tollii Fortuita, litterar. p. 261. Bayle Nouvel. de la Rep. des Lett. 1684 Decemb. & 1687 Mart.); nella quale hanno mostrato che il Sonno debba riconoscersi specialmente Enrico Cristiano Enninio (Jacobi Tollii Epistolae itinerariae, p. 86.) e Michele Federico Lochner (Papaver ex omni antiquitate erutum, p. 165.). Anche nel Museo della Regia Libreria di San Marco di Venezia trovasi in marmo un bel puttino abbandonato a dolce sonno sulla pelle del lione, con la lucertola, una ghirlanda di fiori sonniferi sotto alla mano sinistra, ed ancora vicino un ghiro, animale dormiglioso pur esso; e questo nella illustrazione a stampa d’esso Museo fu giudicato essere il Sonno. E’ tuttavia vero che il predecessore mio chiarissimo Antonio Maria Zanetti scrivendo al Gori lo ha poi chiamato un Cupido (Condivi, Vita di Michelangelo, p. XXIII. ed. 1746); e Giuseppe Bartoli nella Lettera quinta intorno all’opera sua che contener doveva la spiegazione del Dittico Quiriniano (p. CCXVI.) si fa forte sopra il detto del Zanetti per istabilire l’opinione sua, che in quella scultura Cupido sia rappresentato. Ma sempre sta che a dinotare il Sonno più segni in essa concorrano, e che di questi alcuno appena ve n’abbia che all’Amore specialmente appartenga. Tutto ciò fa sospettare che ancora nella scultura presso il Bembo, piuttosto che Cupido, il Sonno riconoscere si dovesse.
(43) E’ questo l’insigne codice di Terenzio, scritto in lettere majuscole quanto al testo, e in carattere corsivo quanto agli scolii, con le maschere sceniche a’ luoghi proprii inserite; il quale fu riguardato sempre come un avanzo della più alta antichità, di cui libri pervenuti ci siano, e Bembino si suole vedere nominato. Lo aveva avuto Pietro Bembo per retaggio del padre, uomo anch’egli celebre per letteratura, e questo nel 1457 lo aveva acquistato forse dal poeta Porcello Pandonio Napoletano, che certamente lo possedette, ed alla fine vi ha scritto Mei Porceli Laureati antiquitatis pignus egregium. Carissimo se lo teneva il vecchio Bembo, ed a’ suoi discendenti ne commise la conservazione scrivendovi al principio:
est mei bernardi bembi
qvi post eivs obitvm maneat
in svos.
antiqviss. antiqvitatis reliqviae
Nelle buone mani di Pietro Bembo, e coll’opera ancora di lui, lo esaminò a suo piacere quel grand’ingegno di Angelo Poliziano in Venezia l’anno 1491, ed a norma di esso ne ridusse un esemplare stampato nel 1475; il quale posseduto da Pietro Crinito e da Pier Vettori, poi passò nella Libreria Laurenziana (Bandini Catal. Mss. Latin. T. II. p. 264.), ed ora nella Magliabechiana si trova (Fossii, Catalogus codicum saeculo 15 impressorum, qui in publica Bibliotheca Magliabechiana Florentiae adservantur, T. II. p. 639.). Nel collazionare il codice rimase il Poliziano preso da venerazione per la sua antichità, e non potè fare a meno di non iscrivervi dentro:
o foelix nimivm prior aetas
ego angelvs politianvs homo vetvstatis
minime incvriosvs nvllvm aeqve me
vidisse ad hanc diem codicem
antiqvvm fateor
Egli concepì ancora il disegno di fare un’edizione di Terenzio, mettendo a profitto l’opera fatta sopra questo codice (Bembus de Fabul. Terentii): non la fece però, ma coll’autorità di esso gli argomenti delle Commedie a Gaio Sulpizio Apollinare ha restituiti, e poco altro uso nelle opere a stampa ne fece. Il Bembo stesso sembra che primo sia stato a dare al pubblico un bel saggio della bontà del suo testo nel Dialogo de Virgilii Culice & Terentii Fabulis: nè di questo però, nè di altro scritto del Bembo può intendersi il seguente passo del Vettori, in cui egli un’operetta indica, che ora non abbiamo: Est apud me Terentius ille, quem olim Angelus Politianus cum veneranda vetustatis codice, (ut sunt eius verba) Petri Bembi contulit, suaque manu non tantum quaecunque in eo a vulgatis discrepabant, verum etiam doctas quasdam interpretationes, qua in eius libri marginibus adscripte erant, accurate perscripsit, quae & multae sunt & eruditi prorsus viri, iudicio etiam optimi & doctissimi viri Petri Bembi, qui libri illius dominus sermonem elegantissimum de ipsius slaudibus confecit, in quo declarationes etiam has & probat & amplexatur (Petri Victorij Explicationes suarum in Ciceronem castigationum, p. 72. edit. Lugd. 1540).
E’ abbastanza noto il buon uso che da varii celebri letterati nel secolo sedicesimo di questo codice s’è fatto, e specialmente dal Faerno per l’edizione stimatissima dei Giunti di Firenze 1564; avendone prestato facilmente l’uso di esso anche Torquato Bembo, che con la libreria paterna fu di esso padrone. Dacchè però Fulvio Orsino lo acquistò, ed alla Vaticana Libreria lo ha poi lasciato, dove sino a’ giorni nostri ci stette, via maggiore profitto se ne cavò, massimamente per l’opera di Cristoforo Enrico Bergero De Personis, stampata in Lipsia l’anno 1723., nella quale le maschere furono pubblicate, e per due splendide edizioni di Terenzio, l’una di Urbino 1736, che ha le maschere pur essa, e l’altra di Roma 1767, in cui oltre ad essere queste state riprodotte, quanto al testo molto alla lezione del codice si è deferito. Se per altro in luogo di fare queste due edizioni si fosse rappresentato al pubblico il testo medesimo del codice con gli scolii e con le figure nell’originale ed intero suo stato; siccome dal Foggini e dal Bottari si fece del Virgilio Laurenziano e del Vaticano; assai migliore servizio si avrebbe reso al Comico, allo Scoliaste, ed al pubblico; e la paleografia ancora vi poteva guadagnare un ricco complesso di scrittura nell’antichissimo carattere corsivo Romano, che contemporaneo al maiuscolo unicamente in questo codice si vede; giacchè li saggi pubblicati dal Mabillon (De re diplomatica libri VI, p. 354.), dagli autori della Nuova Diplomatica Francese (T. III. p. 59.), e dal Coquelines nell’edizione di Roma 1767 (Præf. p. IV.) non ci mostrano sennon il majuscolo, e corrispondono pur male al suo originale, per attestazione del ch. Sig. Ab. Gaetano Marini, amico mio pregiatissimo; il quale grande intendente com’è di sì fatte cose, non dubitò di ripetere anche quanto a’ tempi presenti ciò che di esso detto aveva il Poliziano tre secoli addietro, cioè essere questo il codice più antico che sia conosciuto (Lettera sopra il Ruolo de’ Professori di Roma del 1514, p. 96.). Ad ogni modo però, bene considerate le osservazioni fatte da quei che il codice attentamente hanno esaminato, e con fondamento giudicare ne potevano, risulta che piuttosto anteriore, che posteriore al secolo quinto esso ragionevolmente stabilire si possa.
(44) Questo preziosissimo codice, che appartenne una volta a Gioviano Pontano, dopo di essere stato posseduto dal Cardinale Bembo, e da Torquato suo figlio, egualmente che quello di Terenzio, passò in potere di Fulvio Orsino, e da lui fu lasciato alla Libreria Vaticana, in cui sino a’ tempi nostri vi stette. Contiene esso soltanto frammenti della Georgica e dell’Eneida di Virgilio: sono però questi in lettere maiuscole scritti, e sparsi frequentemente di figure che mostrano vestiti, armamenti, riti, ed usi dell’antichità, e rendono il codice in singolare maniera caro agli eruditi. Lo Schelestrate inclinava a crederlo del tempo di Settimio Severo (in edit. Bottari 1741. Præf, p. IV.), nè il Mabillon aveva difficoltà di crederlo scritto prima di Costantino il grande (Iter Italicum litterarium, p. 61.). Il Winkelmann si persuase di poter fissare l’età sua, osservando che da un ragguaglio nel medesimo libro, e dell’età medesima di esso risulta essere quel codice e quelle pitture effettivamente dei tempi di Costantino (T. II. p. 409. ed. di Roma): nessun altro però, che io vegga, non solo ha prodotta tal prova, ma neppure ha fatto motto di questo ragguaglio. Rimane pertanto che dietro al saggio del carattere, presentato al pubblico nell’edizione di tutto il codice, fatta da Mons. Giovanni Bottari in Roma l’anno 1741 e riprodotto nella Diplomatica Francese de’ Benedettini di San Mauro (T. III. p. 50.), si debba reputare del secolo quinto, a cui lo attribuisce anche l’Abate Rive (Prospectus d’un ouvrage sur les miniatures des Manuscrits, 1782. p. 11.), consentendovi pure l’eruditissimo Sig. Heyne ne’ prolegomeni dell’insigne suo Virgilio (p. xxxvii. ed. Lips. 1788), dove gl’Italiani riprende come troppo facili a spacciare li monumenti loro per assai più antichi di quel che veramente essi siano. Le figure tutte del codice si avevano intagliate in rame, però col donarvi stile migliore, da Pietro Santi Bartoli sino dall’anno 1677 in Roma in quarto, per cura presasi dal Cardinale Camillo de’ Massimi: quivi pure sopra gli stessi rami furono esse riprodotte nel 1725 in foglio: il Bottari le inserì nell’edizione de’ Frammenti Virgiliani fatta a norma del codice l’anno 1741: nell’edizione di Virgilio Latino ed Italiano, fatta in tre tomi in foglio l’anno 1763 parimente vi furono poste: finalmente nel 1776, e nel 1782, sempre in Roma, di nuovo si trassero in luce, in forma di quarto, ma con qualche varietà nell’ordine, e sopra li rami già dall’uso a mala condizione ridotti.
Altro codice di Virgilio, e questo pure molto antico, ebbe il Bembo, contenente li Poemetti, la Buccolica e il primo libro della Georgica; di cui buon uso egli medesimo prima fece nel Dialogo de Virgilii Culice &c., poi nell’edizione Aldina de’ Versi Priapeii e dei Poemetti Virgiliani, fatta l’anno 1517, Francesco Asolano ne profittò (Heyne Præfat. in Culicem Virgil.). Questo codice ancora fece suo Fulvio Orsino, e lo ha chiaramente distinto dall’altro più antico di sopra riferito, scrivendo (Ad Virgil. Eglog. VIII. v. 44.); Ex ea particula apparet Servium ita legisse versum Virgilianum quomodo iampridem Petrus Bembus indicavit reperiri in suo tunc optimo libro, quem nunc ego domi habeo, translatum ex illius bibliotheca cum aliquot aliis magni nominis codicibus, Terentio scilicet maioribus litteris scripto, & itidem Virgilio, quem ex Academia Pontani, grandioribus litteris exaratum habuisse Bembum dicunt: in eo autem libro quem supra significavi, in quo tantum Lusus iuveniles cum Bucolicis & parte libri primi Georgicorum continentur, &c. Non va dunque confuso questo codice, che l’Orsino poi chiama pervetustum, con l’altro suddetto, come fecero Anton Federigo Seghezzi (Opere del Bembo, T. IV. p. 303. ed. Ven. 1729) il Burmanno giovine (Præf. in Antholog. Latin. p. LIV. & Præf. in Virgil. 1746.) e l’Heyne (Praef. in Virgil. p. XLVIII.); nè questo fra li molti codici Virgiliani della Libreria Vaticana, riferiti dal Bottari ne’ prolegomeni della citata edizione, si vede. Di uno di questi due Codici pare certamente che debba intendersi Tommaso Giunta stampatore Veneziano, quando nella Lettera dedicatoria del suo Virgilio impresso l’anno 1552, a Giovita Rapicio dice che gli presenta il poeta nunc quampluribus locis emendatum ex vetustissimo Petri Bembi Cardinalis manuscripto codice, quem cum nostris, & Andreæ Naugerii, tuisque item exemplaribus contuli. Due altri testi a penna d’opere di Virgilio aveva il Bembo, li quali vennero in mano di Lorenzo Pignoria (Tomasini, Bibliothecae Patauinae manuscriptae publicae & priuatae, p. 84.): ma questi non si sa di quanto merito fossero.
Ad altro luogo appartiene il trattare delle rarità della Libreria del Bembo, che conteneva gran quantità d’ogni sorte di nobilissimi libri, antichi e moderni, in tutte le lingue e facoltà, scritti di mano propria molte volte degli autori medesimi che gli composero, siccome disse il Varchi nell’Orazione funebre del Cardinale. Ricorderò soltanto che autografi v’erano delle Rime e dell’Egloghe Latine del Petrarca, e facilmente ancora quello dell’opera del medesimo de Vita solitaria, posseduto da Bernardo Bembo, e poi nella Libreria Vaticana passato (Iacobi Philippi Tomasini Patavini episcopi æmoniensis Petrarcha redivivvs, p. 29. ed. 1650).
(45) Hanno rapporto queste parole alli sei ultimi pezzi qui riferiti, li quali ha voluto l’anonimo indicare, scrivendovi di sua mano, che insieme col Mercurio, non erano del Bembo, ma d’altro padrone, forse di Bartolommeo Ammanati celebre scultore Fiorentino.
Non si vede fra le anticaglie del Bembo qui riferite fatta menzione del più cospicuo ed esimio pezzo, che poi rese assai più famoso il di lui museo; cioè della gran Tavola di bronzo Egizia, riportata di sottili lamine d’argento; la quale fu sovente chiamata Isiaca siccome a’ Misterii d’Iside appartenente, e sì per la moltitudine delle cose rappresentate, come per la difficoltà di fissarne la significazione, diede assai che dire agli eruditi. Pare che a tempo dello Scrittore nostro il Bembo non l’avesse per anco acquistata, nè è ben chiaro, come non lo era a tempo del Pignoria, se comperata egli se l’avesse da un ferraio, che nel sacco di Roma del 1527 l’avea fatta sua; o pure da Papa Paolo III l’avesse in dono ricevuta. Si vuole che trovata fosse in una vigna di casa Caffarelli, nel monte Aventino, dove un tempio d’Iside sia stato (Oberlinus, Orbis antiqui monumentis suis illustrati primae lineae, p. ult.). Il Sannazaro e Pierio Valeriano con stupore la videro presso il Bembo, che molto cara la teneva e fra le cose sue più preziose; ed a questo secondo ne mandò da Roma un disegno (Pierio Valeriano, Hieroglyphica, Dedic. Lib. XX. & XXXIII.). Da Torquato Bembo altro disegno ne ottenne il Cardinale Antonio Perrenoto di Granvella, per asserzione di Stefano Vinando Pighio (Mythologia in anni partes, apud Gronovium Thesaur. T. IX. p. 1194. ed L. B.). Ma finalmente divenne ella pubblica con un esatto intaglio in rame di Enea Vico, impresso in Venezia nel 1559 in undici fogli, che la rappresentano in tutta la grandezza ed ogni di lei parte. Cambiò in seguito padrone la Tavola, vivente ancora Torquato; da cui nel 1574 in Roma cercandosi di farne esito, Ercole Basso maneggiava di farla acquistare al Duca di Fiorenza (Lettere pittoriche, T. IV. p. 198.). Comunque però andasse l’affare, capitò ella in potere di Vincenzio Gonzaga Duca di Mantova, nel di cui Museo v’era l’anno 1605, per testimonianza del Pignoria, che primo ne pubblicò una spiegazione in Venezia l’anno suddetto. Fece egli ciò, senza dare insieme col libro la Tavola: ma potevasi questa avere e della prima impressione del Vico, e d’una seconda, che ne aveva fatta sopra li rami medesimi da se acquistati Iacopo Franco in Venezia l’anno 1600. Facile cosa pertanto fu dopo queste due impressioni il riprodurla all’Herwart nel Thesaurus Hieroglyphicorum, al Kirkero nell’Œdipus Ægyptiacus, ad Andrea Frisio nella ristampa dell’opera del Pignoria da se fatta in Amsterdam nel 1669, al Montfaucon nell’Antichità spiegata, ed al Conte di Caylus nella Raccolta d’antichità; de’ quali nessuno vide la Tavola nell’originale, credendosi ancora da alcuno di essi, come dal Montfaucon, ch’ella andata fosse smarrita. Ma frattanto questa passata era in Torino, dove nel Museo Regio la trovò il Mabillon sino dall’anno 1685 (Iter Italicum litterarium, p. 8.), il Maffei l’ha esaminata nel 1711 (Giornale de’ Letterati d'Italia T. VI. p. 449.), e sino a’ giorni nostri continuò ad esservi gelosamente custodita. (La Lande, Voyage d’Italie, T. I. p. 160.). Nulla però tanto contribuì a rendere famoso questo monumento, quanto la grande varietà di pareri e di spiegazioni portate fuori da illustri scrittori sopra la sua antichità , e più ancora sopra le cose in essa rappresentate. Pignoria, Maiero, Rudbek, Herwart, Kirkero, Schmidt, Montfaucon, Iablonski, Warburton, Caylus, le Court Gebelin ne hanno principalmente trattato; sempre però lasciando dubbiosi quei che si prendono la pena di confrontare le loro opinioni: nè ciò ha da recare maraviglia, fintanto che non si pervenga alla vera conoscenza de’ simboli e geroglifici presso quella grande nazione già usati.
(46) Non si veggono più nella cappella, già di Tebaldo Cortellieri, le pitture a fresco di Giusto, ricordate anche dallo Scardeone (p. 370.), secondo il Portenari perite (anzi fatte perire) per la fabbrica del Capitolo fatto sopra essa cappella l’anno 1610 dalla Compagnia delli Battuti della Cintura (Felicità di Padova, p. 449.).
(47) Nemmeno questa pittura più si vede, la quale sarebbe opera d’artista sconosciuto.
(48) Intorno a queste maravigliose opere del Mantegna ha dato un giudizio maestrevole Daniele Barbaro Patriarca d’Aquileia nel suo Trattato della Prospettiva, assai più copiosamente dettato di quello che nella stampa si vegga, in un codice Naniano; il quale ho io descritto nell’Indice di que’ codici, impresso nell’anno 1776., riportando ancora le parole del gravissimo scrittore sopra questo proposito, e sopra il merito distinto del Mantegna (p. 13.). Ma perciocchè quel mio libro assai raro è divenuto, giova qui riprodurre le parole del Barbaro, che nel Trattato di lui a stampa non sono.
«Più basso ancora è conceduto di fermare il punto nel quadro, come si vede aver fatto l’unico imitator della natura Messere Andrea Mantegna nella città sua di Padova nella chiesa degli Eremitani, che dipingendo quasi al sommo d’una cappella, pose il punto non solamente, più basso nel quadro, ma di sotto a quello nel pariete; e per quello che si vede, è posto all’altezza degli occhi de’ riguardanti, in modo che di molte figure che sono ivi dipinte alcune non sono perfettamente compiute, per esser ascose dal piano in che fermano le piante; cosa in vero non meno lodevole, che artifiziosa. E quale fu quell’opera del Mantegna, che lodevole ed artifiziosa non fosse? Certo niuna, che io mi creda. E credenza non solamente ne rendono le altre in detto luoco dipinte da lui; ma eziandio il Trionfo di Cesare figurato per lui in Mantova, che per quello che universalmente se ne ragiona, è cosa tanto al vero simile, che si tien per certo che altramente esser non doveva esso Cesare a Roma trionfante. Sì maestrevolmente pose ogni cosa al suo luoco, e talmente esprimendola con le principali linee, che chiaramente si vede che ciascuna figura dimostra far qualche naturale operazione, restando alla destinata distanza considerate.»
Del Mantegna si suole confessare col Lomazzo (Idea ec., p. 46.) ch’egli è stato il primo che nella prospettiva ci abbia aperti gli occhi, perchè ha compreso che l’arte della pittura senza questa è nulla. Ma è da osservarsi che di prospettiva egli ancora lasciò scritto; e ciò per fede del Lomazzo medesimo, il quale di lui attesta (p. 15.) che ha fatti alcuni disegni di prospettiva, dove ha delineato le figure poste secondo il suo occhio; delle quali io ne ho vedute alcune di sua mano con suoi avvertimenti in iscritto appresso Andrea Gallarato grande imitatore di quest’arte. Si accresce così il numero de’ nostri dotti artisti che di prospettiva hanno lasciati libri non mai stati impressi; come sono Pietro dalla Francesca da Borgo San Sepolcro, Lionardo da Vinci, Vincenzio Foppa Bresciano, Bartolommeo Suardi detto Bramantino Milanese, Marco da Pino Sanese, Francesco Magagnolo Modonese, Bernardo Zenale e Bernardo Buttinone, ambedue da Treviglio terra della Ghiarra di Adda, Lodovico Cardi da Cigoli, Cosimo de’ Noferi Fiorentino, Onofrio Giannone Napoletano, e forse altri ancora meno di questi conosciuti.
Il Trionfo di Cesare, opera celebratissima del Mantegna, è già noto che fu in parte dal pittore medesimo intagliato in rame, e che Andrea Andreani Mantovano nel 1599 lo produsse tutto intagliato in legno; sopra la quale impressione Roberto van Auden Aert di Gand fece un’incisione in rame pubblicata in Roma l’anno 1692 da Domenico de’ Rossi. Non veggo però che dagli Scrittori principali sopra questo argomento menzione si faccia di una bella riproduzione del Trionfo eseguita con intaglio in rame in nove fogli da C. Huyberts nella splendidissima edizione dei Commentarii di Cesare fatta in Londra l’anno 1712 da Samuele Clarke; in cui potrebbe essersi fatto uso delle pitture stesse originali, prese a Mantova nel sacco del 1630, e passate poi a Londra nel palazzo d’Amptoncourt, dove tuttora si veggono. Altra volta ancora comparve esso Trionfo nel 1753 con la Versione Inglese dei Commentarii fatta da Guglielmo Duncan, in Londra parimente stampata: ma ciò si fece sopra li rami stessi dell’Huyberts, dall’uso deteriorati non poco.
Una pittura non riferita da alcuno fra le opere del Mantegna ci viene indicata da Giovanni Vitezio Unghero, che fu Vescovo di Cinquechiese, celebre per poesia Latina col nome di Ianus Pannonius; nella quale esso Giovanni era rappresentato insieme coll’amico suo Galeotto Marzio da Narni, trovatisi nel 1458 allo Studio di Padova. La dinota il poeta in un’elegia intitolata Laus Andreæ Mantegnæ pictoris Patavini. a. mcccclviii. e trovasi questa fra le opere di lui nell’edizione di Utrecht 1784 (T. I. p. 276) con questo principio:
Qualem Pellæo fidum cum rege sodalem
Pinxit Apelleæ gratia mira manus;
Talis cum Iano tabula Galeottus in una
Spirat, inabruptæ nodus amicitiæ.
Quas, Mantegna, igitur tanto pro munere grates,
Quasve canet laudes nostra Thalia tibi!
Due ritratti ancora del Mantegna, da aggiungersi alle tante altre sue opere, aveva nel passato secolo in Venezia Niccolò Renier pittore Fiammingo, ricco di quadri de’ principali autori, in parte dal Ridolfi indicati (T. II. p. 47. ec.). Nell’occasione che il Renieri fece qui un lotto di suoi quadri l’anno 1666, essendosene pubblicato a stampa l’Ordine approvato dall’Autorità Sovrana da tenersi nell’estrazione delle grazie, con l’Indice de’ quadri medesimi, que’ due furono così registrati: Un quadro, mano di Andrea Mantegna, ove è dipinto il Duca di Mantova, fatto in tavola, al naturale, alto quarte 4 e un terzo, largo 3 e un terzo. Un altro quadro compagno, della medesima mano, ove è dipinta la Duchessa sua moglie, con cornice compagna.
Di sua singolare prontezza e bravura nel disegnare ritratti ed altro v’è una bella ed autorevole testimonianza di Camillo Leonardi da Pesaro, che gli era contemporaneo, nel libro intitolato Speculum Lapidum, scritto l’anno 1502, e nell’anno medesimo in Venezia stampato; la quale perciocchè dagli scrittori intorno ad esso non viene addotta, qui può bene aver luogo. Leggesi nel Libro terzo al Capo secondo: Non minori laude ac admiratione Italia nostra virum celeberrimum habet, qui ob eius excellentiam in aurati militis ordine annumeratus est, Andream Patavinum cognominatum Mantegna, qui omnes regulas ac pingendi rationes pos eris aperuit, & non solum penicillo omnes excedit; verum etiam arrepto calamo, seu carbone extincto, in ictu oculi, hominum, aetatum, ac diversorum animalium veras imagines ac effigies, diversarumque nationum habitus, mores, ac gesta figurat, ut quasi se movere videantur. Hunc non solum modernis, sed antiquis praeferendum esse censeo, & maxime Pausia Sycionico, qui ex encaustico solum proprias imagines figurabat, ac etiam Apelli, qui cum ad regiam caenam invitatus foret, interrogatus a rege, a quo invitatus fuisset; ignorato nomine ex improviso arrepto carbone ex foculari, invitantis imaginem pinxit, & ex inchoato rex agnovit. Quot pulchra opera ipsius Andreae penicillo facta apparent Paduae, Romae, Mantuae, ac in pluribus Italiae locis, ex quibus ipsius excellentiam propriis oculis cernere possumus!
(48) Fu eretta la chiesiuola nel 1303; di che ne fa fede l’iscrizione presso lo Scardeone (p. 333.); e Giotto vi dipingeva nel 1306. Ciò si raccoglie dal sapersi, per testimonianza di Benvenuto da Imola, che Dante si trovò a Padova con Giotto mentre faceva queste pitture (Muratori, Antiquitates italicae medii aevi, T. I. p. 1185.); e si ha poi certa notizia che Dante quivi era l’anno suddetto 1306 (Novelle Letter. Fior. 1748 col. 361.).
(49) Fu condotto Paolo da Donato a Padova, quando vi lavorò, e vi dipinse nell’entrata della casa de Vitali di verde terra alcuni giganti, che, secondo ho trovato in una lettera Latina, che scrive Girolamo Campagnola, a M. Leonico Tomeo Filosofo, sono tanto belli, che Andrea Mantegna ne faceva grandissimo conto. Così il Vasari nella Vita di Paolo Uccello (T. III. p. 67.), dove avendo errato nel chiamare Vitali li Vitaliani, gente nobilissima di Padova, altri ancora ha indotto nell’errore medesimo. Anche l’anonimo nostro aveva qui malamente scritto in casa de’ Vitelliani, siccome facilmente il volgo diceva.
(50) E’ andata in disuso, almeno in queste parti, la voce mastabe, solita ad adoperarsi per dinotare un bel sedile in eminenza posto. Che tale fosse la sua significazione, questo passo lo mostra, vedendosi tuttora la mobiglia di tarsia dall’autore indicata. Ma vieppiù si comprova l’uso d’essa voce da’ seguenti passi di Marino Sanudo ne’ Diarii suoi inediti, altre volte citati. All’anno 1512 è riportata una lettera di Marcantonio Trivisano figliuolo di Domenico Cavaliere e Procuratore, allor andato ambasciatore della Repubblica Veneziana al Soldano d’Egitto, nella quale egli a Pietro suo fratello descrivendo l’accoglienza all’ambasciatore fatta dal Soldano al Cairo nel suo castello, dice così: Arrivati all’ultima piazza, dove era el Signor Soldan, la qual è di graniezza come la piazza di San Marco, in testa della ditta corte, sopra uno mastabe alto da terra da circa cinque piedi era sentà el Signor Soldan solo, coperto el mastabe de alto basso cremexin, con un friso d’oro: davanti la sua persona si era una spada e un brocchier grando d’oro: e in piedi su ditto mastabe ero uno schiavo con una coda de cavallo in mano che li parava le mosche... Davanti del suo mastabe li era in terra per circa 12 passa de larghezza tapedi grandi, sui quali era i armiragii grandi in piedi... L’Orator dette la lettera in mano al turziman grando, qual la portò al Sig. Soldan sul mastabe... Nel giardino del Soldano era uno mastabe, dove era sentà el Sig. Soldan su uno cussin con el schiavo che li parava le mosche... E fatto venir l’ambassador, qual era vestito d’oro a manege dogal, fodrà de varo, sul mastabe, andò el secretario Andrea di Franceschi e il turziman nostro... Era su uno mastabe alto ditto Sig. Soldan forsi pie 12 da terra, sul qual l’era sentato. Seguono altri passi, ne’ quali è comprovato il medesimo significato di quella voce.
1513. 10. Giugno. Veneno li Proveditori sora el Cotimo di Damasco Ser Andrea Iustinian e Ser Marin Contarini, e quelli de Alexandria Ser Vettor Barbarigo e Ser Andrea Arimondo Proveditori sora el Cotimo di Alexandria, e sentono sul mastabe.
1514. 1. Febbraro. Venuto in Collegio l’Orator Turco, intrato in la porta, el Prencipe con la Signoria e il Collegio si levò; e venendoli contra zo del mastabe, lui fu sì presto, che nol lassò andar, e ivi sul mastabe se abbrazzono.
1525. 8. Febbraro . Venne in Collegio il Reverendo Don Ricardo Paceo Orator Anglico, qual vien da Trento... e ha avuto nove lettere del suo Re, chel vegna Orator iterum alla Signoria nostra, per esser lui sta quello fu alla conclusion della lega con Cesare ... Intrato in Collegio, il Prencipe li venne contra al pè del mastabe, facendoli carezze.
(51) xlvii. Medaglie antiche poi da lui somministrate si veggono al Vico, al Goltzio, e forse ad altri ancora. Quando scriveva il nostro anonimo, cominciava a formarsi dal Mantova il Museo; e la casa di lui non ancor faceva pompa de’ bei lavori di Bartolommeo Ammanati e di Domenico Campagnola, i quali fra gli artefici ha egli principalmente adoperati. La statua colossale di Ercole fatta dall’Ammanati nell’anno 1544 (Mantua, Enchiridion &c., p. 305.) trentesimo terzo dell’età sua, e collocata nel cortile del Mantova, acquistò grande riputazione all’artefice; e fece insieme palese il fino giudizio di chi gliela aveva commessa. Se ne compiaceva il Mantova scrivendo ad Antonio Altoviti Arcivescovo di Fiorenza: Questa statua è alta venticinque piedi, e di otto pezzi, tanto bene accozzati e congiunti insieme, che niente ha lasciato che si possa desiderare nell’arte; anzi che dà maraviglia a chi la riguarda in questo cortile: nè si può dar pace il Genga del Duca di Urbino, il Palladio, il Sansovino e gli altri di questo maestro, e così giovane, che sia riuscito in così grande impresa. (Lettere, p. 27.) Fu assai bene intagliato in rame quest’Ercole, in grande forma, l’anno 1549 in Roma, e nel 1557 fu ivi riprodotto, ambedue le volte per cura di Antonio Lafrery. Della prima impressione un esemplare trovasi nel Museo Praun di Norimberga, di cui ne diede la descrizione a stampa nel 1797 Cristoforo Teofilo de Murr (p. 177.); della seconda uno ve n’ha nella Libreria Regia di San Marco in Venezia; sempre messavi l’iscrizione della base Hercules Buphiloponus, qui tristitiam orbis depulit omnem, peramplo hoc signo Mantuae cura reflorescit: ed in un angolo Colossus p. xl. erectus Patavii Bartolemeo Ammanato Sculptore. Di queste impressioni gioverà la notizia, perchè trovasi quella scultura bensì tuttor esistente, ma per l’ingiuria del tempo, e per la negligenza de’ posseditori di essa, assai male concia. Altra piccola stampa in rame intagliata da Francesco Bertelli vedesi con un poemetto Latino di Michele Cappellari sopra il colosso, stampato in Padova nel 1657; ma è cosa di picciolo conto. Altre insigni opere dell’Ammanati fatte per il Mantova sono il grande Arco ornato di statue nell’atrio di sua casa, e il suntuoso Mausoleo nella Chiesa de’ Romitani; delle quali il Rossetti, il Brandolese, ed altri hanno già recate in pubblico buone notizie. Del Campagnola poi si valse molto il Mantova per dipingere a fresco una sala, ed alcune stanze di sua casa; e dell’opere di lui n’ebbe separatamente non poche, siccome quello che presso di se lo mantenne, e gli fu protettore munifico.
Padovano ottenne celebrità di nome sì per avere lunghissimo tempo e con distinto applauso professata la Giurisprudenza nello studio di sua patria, ed averla con opere molte a stampa illustrata; come per avere copiosamente e con splendidezza principesca adornata l’abitazione sua di anticaglie d’ogni sorte, di libri, d’opere di disegno, di stromenti musici, e d’altre varie rarità. Le stesse opere sue legali sparse di erudizione storica ed antiquaria, ed altre di amena letteratura, mostrano una cultura d’ingegno differente dalla comune de’ Leggisti di que’ tempi; sicchè non è maraviglia ch’egli istigasse Pierio Valeriano a scrivere la grand’opera sopra li Geroglifici Egizii. Te potissimum impulsore labor hic omnis susceptus est & exantlatus, dice Pierio dedicandone al Mantova il libroCerto Catalogo del Museo Mantova fatto nel 1695 da un Andrea nipote di Marco, mi fu cortesemente prestato dal Sig. Pietro Brandolese suddetto; il quale in mezzo a superflue e frivole notizie non lascia d’averne di belle e rare. Con la scorta di questo Catalogo ho potuto riconoscere che sei piccioli pezzi di bronzo, già appartenenti al Mantova, poi passati nel Museo de’ Canonici Lateranesi di San Giovanni di Verdara, ora in quello della Libreria di San Marco di Venezia s’attrovano, marcati tuttavia col numero del Catalogo. Vi sono essi con la solita dettatura di tutto esso così registrati:
Un mezzo rilevo d’un bue in scorcio mezzo rilevato, di Pietro Vellano Padovano allievo di Donatello, egregio inclito Scultore e fusor de’ bronzi, che ha fatto la statua equestre di bronzo di Gattamelà sopra il Sagrà del Santo, di stupenda bellezza, n. 95.
Altro pezzo pur di bronzo, di mezzo rilevo, con tre cavalli sellati coperti con suo strato, uno de’ quali ultimo mangia la biava in un crivello tenutogli da un giovinotto: gli altri due in moto di mangiar un fascio di erba per terra. Questi sono pur del raro fusor de’ bronzi e scultore Tiziano Aspetti Padovano; che tutti due col suddetto Vellano insieme hanno fatto molte opere, e quelle statue picciole sopra l’arca del Santo, e sopra li balaustri del coro, ed intorno al medesimo coro, n. 96.
Altro pezzo di bronzo di un giovine ignudo, che ad un sasso appoggiato dorme, con scarpe in piedi, opera del medesimo Tiziano Aspetti, n. 97.
Altra statua nuda in piedi, di bronzo, bendata la bocca, senza braccia, con un coccodrillo tra mezzo le gambe. Vien giudicato esser il Silenzio, mentre tiene la bocca bendata e chiusa, e per aver a piedi il cocodrillo, ch’è geroglifico del Silenzio, opera del Vellano suddetto, n. 98.
Testa di bronzo di un Satiro bellissimo, n. 102.
Testa di bronzo bellissima di giovine, di perfetto autor, n. 103.
Con lodi singolari si registrano in questo Catalogo una testa antica di Bruto in marmo, ammirata come marmo animato parlante; una testa antica di Vitellio, sopra la quale sempre disegnò e imparò il famoso egregio pittor Veneziano Giacomo Robusti detto il Tintoretto; l’Adorazione de’ Magi, bronzo di bassorilievo di Andrea Riccio; la Flagellazione di nostro Signore, bassorilievo in bronzo di Donatello; il ritratto di Marco Mantova fatto da Tiziano; il ritratto di Paolo Pino Veneziano fatto da se medesimo; il ritratto di Girolamo Campagna scultore Veronese fatto da Leandro Bassano. Ma di Domenico Campagnola oltre le pitture sul muro, vi si registrano cinque Paesetti a penna stimatissimi, alti un piede, li ritratti di Gio. Pietro Mantova padre e di Marco Mantova figlio sulla tavola, un ritrattino ad acquerella di Andrea Navagero, un altro a penna del Petrarca, ed altre cose sì in disegno, come d’altra sorte di lavoro.
Di Iacopo Sansovino si mette in questo Catalogo un gesso della statua di bronzo di Apollo, da lui posta nella loggietta sulla piazza di San Marco di questa Città; nè altro di lui vi si trova registrato. Del Sansovino quando io m’incontro a vedere il nome, mi nasce il desiderio che si trovi quella collezione di piante di Tempii e di Chiese, che Francesco di lui figliuolo possedeva, per testimonianza del Vasari. Ha anco il detto suo figliuolo in disegno sessanta piante di tempii e di chiese di sua invenzione, così eccellenti, che dagli antichi in qua non si può vedere nè le meglio pensate, nè le più belle di esse: le quali ho udito che suo figliuolo darà in luce a giovamento del mondo, (e di già ne ha fatto intagliare alcuni pezzi) accompagnandole con disegni di tante fatiche illustri, che sono da lui state ordinate in diversi luoghi d’Italia. Così il Vasari nella Vita del Sansovino, non già di prima dettatura, come sta insieme con le altre sue; ma bensì della seconda, in cui l’operetta è corretta riformata ed accresciuta, come sopra una vecchia e introvabile stampa fu da me riprodotta in Venezia l’anno 1789. Forse quella raccolta di piante e di disegni ha voluto indicare lo Scamozzio, quando disse che il Sansovino aveva scritta un’opera ancor inedita di Architettura (Idea dell’Architettura, P. I. Lib. I. Cap. 6. p. 18.); a cui nessuno ha creduto, per non essersi mai l’opera trovata. Ma non è sola quest’opera del famoso architetto, che occulta sia, ovvero anche perita. Il figliuolo Francesco suddetto nella Prefazione al Trattatello sull’edifizio del corpo umano, stampato in Venezia nel 1550 in 8., altra ne dinota, scrivendo: E quando che sia metteremo alla luce bellissime anatomie di mano di M. Iacopo Sansovino mio onorato padre. Sempre più così cresce la stima, in cui il Sansovino tenere si deve.
Fu poi vago il Mantova anche di avere medaglie in suo onore, e cinque almeno ne fece andare attorno con la sua effigie, a me note; tre delle quali dalla mano dell’eccellente coniatore Giovanni Cavino Padovano affatto mostrano di venire; anzi una di esse ha le teste del Cavino medesimo, e d’Alessandro Bassano da una parte, con quella del Mantova dall’altra. La maggiore di esse, che è di prima grandezza, ed anche nel Museo Mazzucchelliano è portata (T. I. p. 377.), del Cavino l’avrei creduta, perchè di terso lavoro, se non avessi trovato che il Mantova stesso ce ne manifesta per autore certo Martino da Bergamo, artefice ignoto, scrivendo la spiegazione del motto Fessus Lampada trado, posto nel rovescio, con queste parole: Descendat in arenam qui vult, ego cum monstris satis sum luctatus. In eum qui tandem quiescere cupit, seque a laboribus abstinere, proque symbolo desumpsimus nos, sculpsitque a tergo imaginis meæ Martinus Bergomensis egregius artifex. (Analysis variarum quaestionum 1700. & amplius, Venet. 1568. f. p. 100. t.). E perchè nessun onore possibilmente gli mancasse, quello ancora si fece il Mantova di dare a stampa un’Orazione che Girolamo Negro aveva scritta da recitarsi ne’ funerali di lui, avendolo creduto moriente in una gravissima malattia; dalla quale riavutosi il Mantova, ed essendo poi morto il Negro, quello avendola trovata fra le carte di questo, nel pubblicare alcune di lui Lettere ed Orazioni in Padova l’anno 1579, anche l’Orazione stessa diede fuori, premessevi queste parole: Mantuam graviter lecto decumbentem amice olim visitarat Hieronymus Niger Venetus, simul atque moriturum ratus, moerore affectus incredibili abscessit, domum rediit, orationemque funebrem conscripsit. Convaluit Mantua, Niger moritur. Quid mirum igitur, si nonnunquam funus etiam viventis faciat mortuus? Fu poi riprodotta quest’Orazione con le altre operette Latine del Negro in Roma l’anno 1767 dietro all’Epistole del Cardinale Sadoleto. Non mancò per altro al Mantova l’Orazione funebre a suo tempo recitata, e data a stampa da Antonio Riccobono Professore di Umane Lettere nello Studio di Padova; nella quale non lasciò di lodarlo per la gran cura che dell’anticaglie si era preso; affermando ancora ch’egli stesso, a richiesta di alcuni gentiluomini Francesi, secolui aveva trattato di fare che l’intero suo Museo per prezzo cedesse al Re loro Francesco I, che n’era voglioso di averlo: ma il Mantova, per torre di mezzo ogni maneggio su questo affare, si offerì bene di donarlo al Re, professando per altro di non volerlo dare a prezzo veruno.
(52) Di Giovanni Maria Mosca Padovano, scultore già conosciuto per sue opere riferite dove della cappella del Santo si è detto, altri lavori qui ed in seguito ci si rendono noti per la prima volta. Guido Minio Lizzaro, che li possedeva, torna ad essere nominato più avanti per un suo getto di bronzo fatto sopra modello del Mosca. Battista dal Leone, che aveva la scultura di questo artefice in secondo luogo riferita, era gentiluomo Padovano, ornatissimo di lettere e professore di Filosofia nello Studio patrio; ed ebbe a scolare il Cardinale Reginaldo Polo. N’è testimonio il Bembo in una Lettera a questo scritta (IX. Kal. Jan. 1526): ma più di onore gli fa in altra Lettera a Giovambattista Rannusio scrivendo da Padova in data dei 12 Marzo 1528: Il povero e dotto M. Battista da Leone si more; che mi duole quanto dee. More il più dotto gentile uomo di questa città, & in eo genere forse il primo (Vol. II. Lib. 3.).
(53) Altra volta vedevasi al Duomo di Padova una pittura di Taddeo di Bartolo Sanese scolare di Giotto, e da questo adoperato nel dipingere la cappella della chiesiuola all’Arena. Giulio Mancini Sanese nelle Considerazioni sulla Pittura, opera quantunque non mai stampata, pure bene conosciuta per l’uso fattone da varii scrittori, e da me ne’ Codici Naniani riferita (p. 25.), così ha secondo quel testo: Taddeo di Mastro Bartolo di Fredi ebbe qualche riputazione nella professione per que’ tempi; onde fu chiamato a Padova da Francesco da Carrara; e da quello che ha dipinto in quella città si vede ch’era molto affezionato ed imitatore di Ambrogio Lorenzetti; poichè nel portico del Duomo, o chiostro, per parlare secondo l’usanza di Siena, dalla parte che tocca la parete, dove in chiesa è la sepoltura della Regina Berta, vi è condotta la Visitazione dipinta da quella del Lorenzetti nel portico dello Spedale di Siena. Di questo non si vedono cose in sua patria; talchè io dubito ch’egli morisse in Padova al servizio di quel Signore; dove oltre a quello che fece nel castello, si vedono altre cose di suo in quella città, ed in particolare di quei quadri che si usano per la Toscana, dove in un quadro vi è tutta l’intera Passione dipinta. Il P. della Valle nelle Lettere Sanesi T. II. p. 187. ha inserita questa testimonianza del Mancini, avendola presa da altro codice con qualche guasta lezione, ed aggiunsevi: Si vede che il Mancini scrisse in Roma, senza muoversi da sedere, le sue Considerazioni sulle Pitture; onde non è maraviglia che egli non sapesse quelle che in Siena vi dipinse Taddeo, abbenchè a caratteri maiuscoli vi apponesse il suo nome e l’anno in cui le fece. Quanto però alle pitture di Padova, il Mancini può meritare credenza, avendo quivi fatto soggiorno, quando prendeva scuola di Medicina da Girolamo Mercuriale, di cui nel 1601 diede a stampa le Lezioni de Decoratione in Venezia presso li Giunti .
(54) Il fatto della guerra di Spoleti nella Sala del maggior Consiglio in Venezia era stato dapprima dipinto da Guariento Padovano, poi Tiziano lo aveva rifatto: è opera perduta nell’incendio del 1577 (Sansovino, Venetia citta nobilissima et singolare, p. 123. t. 132. t.).
(55) Che in questa sala, ora ridotta ad uso di Libreria, vi dipingessero gl’Imperadori Romani li due pittori nominati dal Riccio, lo attesta anche Michele Savonarola nel Commentario de laudibus Patavii, altre volte citato, ch’è opera scritta verso la metà del secolo quindicesimo, con queste parole: Stantque duæ amplissimæ & picturis ornatæ salæ ad latera horum situatæ; quarum prima Thebarum nuncupatur; altera Imperatorum nominatur, prima maior atque gloriosior, qua Romani Imperatores miris cum figuris, cumque triumphis auro optimoque cum colore depicti sunt; quos gloriosae manus illustrium pictorum Octaviani & Alticherii configurarunt. (Muratori, Rerum Italicarum scriptores, T. XXIV. p. 1175.) Altichiero, o Aldighieri da Zevio, Veronese, è pittore abbastanza noto: ma di Ottaviano Prandino Bresciano appena se ne conosce il nome, ancorchè celebre a’ tempi suoi fosse; talchè scrisse Elia Cavriolo ne’ primi anni del secolo sedicesimo: Eo tempore hæc civitas Octaviano Prandino & Bartholino cognomento Testorino pictoribus floruit, quorum virtuti & muneri in colorandis imaginibus nemo adhuc par usque inventus fuit; quanquam Gentilis pictor Florentinus (da Fabriano) Pandulpho tunc principi sacellum in præsentiarum usque Pandulphi Capellam vocitatum & ipse graphice pinxerit (Chronica de rebus Brixianorum, Lib. 9.).
A quelle prime pitture che qui si suppongono fatte colla direzione del Petrarca e di Lombardo dal Mulo, detto anche dalla Seta e da Serigo, altre ne furono sostituite del Campagnola, di Tiziano, di Stefanino dall’Arzere, e di Gualtiero Padovano, con la soprantendenza di Alessandro Bassano e di Giovanni Cavacio, e vi furono effigiati eroi ed uomini illustri Romani e Padovani, postivi sotto gli elogi per mano di Francesco Pocivagno, detto Mauro, Prete Padovano, valente nello scrivere e dipingere lettere, e nello scolpirle ancora (Scardeone, p. 250. 377.). Ha poi proveduto alla conservazione di questi elogi Francesco Boselli Pubblico Professore di Chirurgia in quello Studio, dandoli a stampa nell’opera intitolata Amaltheum Medico-politicum, nell’anno 1665 in Padova impressa (p. 713.).
(56) Avendo scritto il Vasari che Guariento in Padova dipinse una cappelletta, in casa di Urbano Prefetto, si vede che ancor a questo passo ebbe sotto gli occhi la Lettera Latina di Girolamo Campagnola a Niccolò Leonico Tomeo sopra le antiche pitture di Padova, altrove già citata, alla quale l’anonimo qui si riferisce: ma il Vasari non intese il valore delle parole del Campagnola.
(57) Benedetto Montagna Vicentino si suole trovare come fratello, non figliuolo di Bartolommeo, pittore più di lui avuto in istima.
(58) Il pittore rappresentò se stesso in una figura di questa istoria, e sotto vi pose Iacobus de Montagnana pinxit. Così il Tommasino nell’Istoria di quella Sacra Immagine p. 29.
(59) Boccaccino Boccaccio ed Altobello Melone furono pittori Cremonesi, che a merito non ordinario gravi difetti accoppiavano; e di loro si tratta diffusamente da Giovambattista Zaist nelle Notizie de’ pittori scultori ed architetti di quella patria, ivi pubblicate nel 1774 (T. I. p. 63.). Più innanzi Altobello si fa discepolo d’un Armanino, noto di nome soltanto.
(60) E’ costui Filippo Mazzuoli padre del celebre Parmigianino. Allo scrivere del Sig. Ab. Lanzi, chiamavasi dalle Erbette, perchè ne’ verdi riusciva meglio, che nelle figure. Una sua tavola a Parma lo mostra infelice artista (Affò, Vita del Parmigian. p. 8.): di questa in Cremona nulla può dirsi, essendo perduta.
(61) S’è qui voluta dinotare un’arca di scoltura, opera di artefice sconosciuto, contenente li corpi de’ Santi Martiri Pietro e Marcellino, protettori di Cremona; la quale allora trovavasi nella chiesa di San Tommaso. Ma di questa chiesa scrisse il Campo l’anno 1585 nella Cremona illustrata (p. 11.) ch’ella stava allora per ruinare, e già n’era caduta la torre, e perciò li corpi santi dovevano trasferirsi nella chiesa Cattedrale.
(62) Riferisce quest’opera come tuttora esistente Antonmaria Panni nel Rapporto delle pitture di Cremona, ivi impresso l’anno 1762 (p. 82.); ma la dice del 1494, ed in vece de’ due Apostoli mette San Paolo e Sant’Antonio.
(63) Di Paolo, Giuseppe, ed Evangelista del Sacca Cremonesi, come bravi lavoratori di tarsia, fa memoria il Campo (Cremon. Ill. p. liiii. ec.); ma di questo Filippo egli tace affatto. L’opera di lui andò forse disfatta, non vedendosene fatto indizio dagli scrittori delle cose notabili di quella città.
(64) L’autore qui scrisse, secondo che avrà forse inteso da mal informate persone, che in quest’arca v’è il corpo di San Mauro, laddove quelli vi sono de’ Santi Martiri Mario e Marta. Ma non cadde nell’errore del Vasari (T. VIII p. 365.) col farne scultore di essa Geremia di Cremona; e vi avrà probabilmente lette le parole, che ancora si veggono, i. a. amadeo f. h. o. mcccclxxxii. die vi. octobris. Questo anno riporta il Zaist nel citato libro (T. I. p. 34.), a differenza del Panni (Rapporto ec., p. 127.), il quale ne mette il mccccxxxii. ed a fronte della leggenda stessa, ch’egli adduce, fa Geremia autore dell’opera. Il Co. Iacopo Carrara ciò gli rimprovera giustamente; ma gli fa poi buono l’anno mccccxxxii. (Lettere pittor. T. V. p. 278.).
(65) Di chiaro nome è Guido Mazzoni, altramente detto Paganino, Modonese, siccome quello che ne’ lavori di plastica riuscì a maraviglia; ed è superfluo ancora qui dirne, dopo tanto che del merito e degli onori suoi ha scritto il Cav. Tiraboschi (Biblioteca modenese, T. VI. p. 467.). La Pietà, o sia la Deposizione di Cristo dalla Croce, fu soggetto da lui frequentemente trattato; e quella che in Sant’Antonio di Venezia è qui nominata, non ancora perì. Ch’egli fosse chiamato anche Turriano, non si vede. Ma forse l’autore ha qui preso equivoco, avendo in mente Giannello Turriano Cremonese, insigne meccanico e facitore di orologi celebratissimo; di cui il mentovato Zaist ha diffusamente scritto (T. I. p. 150.).
(66) Sono conosciuti Francesco e Bernardino Marchesi fratelli da Cotignola, che operavano al principio del secolo sedicesimo, de’ quali dice quanto basta il Lanzi (T. II. P. II. p. 29.).
(67) Ascanio Botta gentiluomo Cremonese fu bene conosciuto per perizia di Leggi, e per Poesia volgare, e trattò cose pastorali in un’operetta, scritta però infelicemente, ad imitazione dell’Arcadia del Sannazaro, e la diede a stampa in Cremona nel 1521. in 8., alla qual edizione altre ne seguirono: ma che egli avesse diletto di disegno e di antichità, e possedesse museo, nè l’Avisi, nè il Mazzucchelli, nè altri scrittori intorno a lui lo hanno detto. Peraltro Hæredes Ascanii Botti mette Uberto Goltzio fra li fautori da se avuti per le opere numismatiche che compose; ma equivocò mettendo quegli eredi a Crema, in vece di Cremona (in fine operis inscripti C. Iul. Cæsar, Lib. I. Brugis 1563. f.).
(68) Del palazzo che Cosimo de’ Medici in Milano ebbe in dono dal Duca Francesco Sforza, e che poi fece rifabbricare in più grande e magnifica forma, alcune notizie diede fuori il Vasari nella Vita di Michelozzo Fiorentino come tratte dal libro ventesimo primo dell’Architettura di Antonio Averulino Fiorentino, soprannominato Filarete. Di fatti in questo libro trovasi l’edifizio tutto minutamente descritto: ma che Michelozzo ne fosse l’architetto, e vi dipingesse ancora il ritratto di Cosimo, e che Vincenzio Foppa vi facesse pitture di cose Romane con ornamenti varii, ed altre particolarità dal Vasari indicate, con l’autorità dell’Averulino provarlo non si potrebbe, usando ogni esemplare dell’opera di lui. Tutte quelle notizie certamente non sono nella traduzione Latina di essa, che dall’Italiano fece Antonio Bonfinio; dalla quale, perchè in nessuna lingua l’opera fu stampata, gioverà qui riportare quanto al proposito presente si trova secondo il codice della Libreria Regia di San Marco, di cui più innanzi sarà data contezza; onde con la narrazione del Vasari, che deve averne veduto un testo Italiano più copioso, se ne faccia il confronto, e di quell’insigne edifizio intera conoscenza fare si possa.
Sed de Palatio, quod in urbe Mediolanensi nuper Cosmus erexit, nihil tacendum est. Franciscus Sfortia Dux Mediolanensis, in perpetuum mutuæ fidei & arnicitiæ monumentum, ingenti Cosmum, parentis loco semper habitum, palatio donavit: Cosmus autem, ut cumulatam amico gratiam referret, & gratissimum sibi donum fuisse ostenderet, a fundamentis instauravit, & ita exornavit, ut nil pulchrius in urbe illa ex privatis ædificiis videatur. Id quoquoversus septenum est & octogenum circiter brachiorum: altitudo senum & vicenum. Ut fenestrarum ordo demonstrat, unius tantum contignationis esse videtur. Quæque fenestræ, interposita columnella, geminæ sunt, fictilibus undique cultæ ornamentis. Domus in fastigio ad subgrundia elaboratissima quadam lignea prominentia coronatur, cui triglyphi, metopæ, variaque insunt ornamenta. Tres huic valvæ. Primaria media est. Super hanc Francisci Ducis & Blancæ faustissimæ coniugis imago, miris undique exculta ornamentis. Marmorea est, quinis laxa brachiis, ac denis edita. Choors magnifica & vicenis lata brachiis, longa vero senis & vicenis. Ad lævam porticus una est, octonis laxa, longa vero octo & viginti, Romanorum Principum imaginibus illustris. Ad dexteram altera duum & viginti longitudinis, septem vero & semis latitudinis. In capite hujus ianua, quæ in amplum triclinium ducit ad soli æqualitatem; ubi hiberno tempore accubatur. Deinde scalæ sunt, quibus ad superiores conscenditur habitationes. Ad harum summitatem ostia duo, unum in cœnaculum, alterum in parvam choortem ducit, ubi puteus est. Deinde e regione aliud est ostium, quod in hortorum porticum præbet aditum: & hic quoque scalæ sunt, quibus ad alias superiores partes & ad culinam ascenditur. Tertia vero porticus, quæ ex obiectu est primi aditus & valvarum, quinque & viginti brachiis producitur, patescitque quinque, unum habet ostium, quo ad cellas vinarias hypothecasque descenditur: item hortis præbet aditum. Hic quoque scribarum proximus est locus. Porticus omnes columnis fornicibusque suffultæ. In choorte porticus est amplissima septem & viginti brachiorum longitudinis, latitudinis quoque septem, Herculeis imaginibus insignis, ubi marmoreum podium: ante porticum gramineum spatium in prati speciem rosariis circumseptum. Triclinium, de quo diximus, tredecim patescit brachiis, differturque duobus circiter & viginti. Ante triclinium protriclinium est senis laxum brachiis, eiusdem etiam longitudinis. Sub porticu, quæ est ad lavam, in capite ostium est cameræ serviens, hinc duodecim, tredecim illinc sane patenti. Ante hanc procestrion tredecim longitudinis, latitudinis sex. Hic quoque mercium apotheca, hinc septemdecim, illinc duodecim effusa; & hæc ianuam habet in fronte domus sitam, in viamque spectantem. Post apothecam parva choors est, duodenum quidem brachiorum longitudinis, latitudinis vero senum. Iuxta hanc brevis quidem apotheca. Post dexteram vero porticum choors alia, vicenum quidem brachiorum longitudinis, senum vero laxitatis. In medio puteus est. Hæc a via habet aditum quinis amplum, longumque ternis ac denis. Iuxta aditum camera effusa sane. Post cameram lignaria apotheca. Post hanc sex mansiones, quæ culinæ plane deserviunt; sex quoque superius. Culinæ magnitudo denum est brachiorum latitudinis, longitudinisque tredecim. Iuxta culinam breve triclinium tredecim brachiorum longitudinis, sexque latitudinis. A latere triclinii duo aditus, alter in choortem, in hortos alter, tredecim uterque brachiorum. In uno camera est, scribarumque locus. Post cameram alia mercium apotheca, ubi cochleares sunt scalæ, quæ ad superiora conscendunt, quaternum quoquoversus brachiorum. Ad soli planitiem est cella vinaria, vicenum hinc brachiorum, ternum ac denum illinc; a maximæ choortis porticu habet aditum. Post ubi primarias scalas conscenderis, ad dexteram triclinii superioris & maximi est ostium, quod quadragenum circiter brachiorum est longitudinis, latitudinis vero ternorum ac denum. Hoc ad viam spectat. Triclinii huiusce, item cubiculi, & cuiusdam cœnationis & cameræ, quæ ad primam sunt contignationem, laquearia omnia auro uranioque colore, ac Sphortiadum Medicorumque insigniis exornata sunt. Ad caput triclinii cubiculum. Post cubiculum apodyterium. Post apodyterium heliocaminus est, qui supra brevem choortem spectat. Juxta heliocaminum camera est, item alia quoque camera, quæ supra mercium est apothecam inferioremque aditum. Præter hanc & alia camera, quæ supra porticum est ad lævam substitutam, dupliciquæ fenestra choortem despectat: item & alia. E regione vero aditus sex cameræ sunt, quæ in hortos despectant, & supra culinam tricliniumque inferius & duos hortorum aditus trapezitarumque bibliothecam rite constitutæ sunt. Supra cameras tria horrea, tricliniumque unum. Verum ubi cohortem intraveris, e regione supra porticum heliocaminus est marmoreis suffultus columnis, viginti quinque brachiorum longitudinis, latitudinisque quinque, ubi universa Susannæ historia picta est. In fronte primariarum quatuor virtutum effigies. Supra hunc sub tecto alter est heliocaminus. Quatuor choors maxima a triplici latere porticibus & heliocaminis circumducta est; in quorum fronte planetæ & duodecim signa picta sunt.
A questa descrizione poi aggiunto si vede nel codice il disegno della facciata del palazzo, sovrappostevi le parole Orthographia Palatii Cosmi in Mediolano. Acconcio riesce tutto questo a ravvisare lo stato dell’edifizio quale a tempo di Cosimo era; giacchè col seguire de’ tempi, per darvi un essere conforme agli usi moderni, a tutt’altra forma fu esso ridotto. Chiunque però curioso fosse di conoscerne gli avanzi, può soddisfarsi leggendone la descrizione posta dal Signor Consigliere de Pagave Milanese nel tomo terzo, delle Vite del Vasari dell’edizione Sanese pag. 222.; dalla quale s’impara che il palazzo alla nobile famiglia de’ Conti Barbò or appartiene.
Non fia poi discaro il sapere che sopra un palazzo da Cosimo edificato, il quale potrebbe anch’essere stato quel di Milano, un epigramma fece Francesco Buzzacarino Padovano, uomo per lettere Greche e Latine dallo Scardeone e da altri assai commendato; e che tanto esso piacque a Cosimo, che volle usare all’autore un tratto della consueta sua munificenza col regalarlo di sessanta zecchini. Non si saprebbe ciò, per quanto a me pare, se nell’anno 1780. volendosi in Bologna vendere due codici manoscritti, non si fosse stampato un foglietto contenente la lor descrizione; il quale poi, per diligenza che si usasse, ora forse non si ritroverebbe. Del primo adunque d’essi codici è detto che il titolo e il principio era questo:
Inscriptiones Antiquæ, ex variis locis sumptæ a Ioanne Bembo Veneto, Vici Birii Divi Canciani, qui eas hoc in libro scribebat anno orbis redempti 1536.
La prima Iscrizione ha il titolo seguente: Francisci Buzacarini Civis Patavini in laudem Palatii Magnifici Cosmæ de Medicis Hexastichon, quo donatus fuit aureis numismatibus LX.
Hos ego crediderim vel Cæsaris esse penates,
Vel Capitolini templa superba Iovis.
Quam bene sideribus sublimia tecta minantur!
Conspicuo quam sunt ædificata loco!
O fortunatum nimium cuicumque licebit
Molliter in tali consenuisse domo!
Sarebbe da desiderare che il codice in buone mani capitato fosse; dicendosi nel foglietto che il Bembo attesta di aver copiate egli stesso quelle Iscrizioni, e ritrovate in varie città e luoghi di Europa ed anche di Affrica; e che vi sono nel codice medesimo in quaranta due carte descritti in Latino viaggi fatti dal Bembo in Dalmazia, Grecia, Spagna, ed Affrica, e che vi racconta anche molti de’ suoi fatti e casi particolari. Sembra a questi viaggi certamente appartenere una lunga lettera Latina dal Bembo ad Andrea Anesino di Corfù scritta nel 1536, la quale sta in un mio codice a penna miscellaneo; e contenendo non poche cose di geografia e di varia erudizione giudiciosamente osservate, è affatto degna di questo scrittore, che ora è da aggiungersi alli Veneziani che seppero di Greco, ed a raccogliere antiche Iscrizioni si sono applicati.
(69) Quando pure Galeazzo Visconti abbia ristorato il Castello di Milano; la rifabbrica però di esso appartiene a Francesco Sforza, da lui fatta nell’anno 1450, nel quale acquistò la signoria di Milano; di che ne fanno fede anche il Simonetta nella Sforziade alla fine del Libro XXI. ed il Corio al principio della sesta parte dell’Istoria Milanese.
(70) Cesare Cesariano nel Comento sopra il Libro I. cap. 5. di Vitruvio p. 21. t. edizione di Como 1521. fa menzione della via coperta di la nostra arce di Iove in Milano, & maxime quella che fece fare Bramante Urbinato mio primo preceptore, quale si traiice dallo mœniano muro della propria arce ultra le aquose fosse allo cripto itinere.
(71) Il Cesariano nel Comento citato sul Libro VII. Cap. 5. di Vitruvio p. 118. t. scrive a questo proposito: Etiam si vede pincto lo enigma di Ludovico Sfortia soto la archicustodia nel Castello di Iove: quale indica quasi como diressemo Ieraglipho: post malum semper sequitur bonum & converso: vel post lungum tempus dies una serena venit: seu post tenebras spero lucem &c. Per che ivi è pincto uno tempo nimboso & di maxima procella: & poco distante da epso le turme chi ballano: iocundano & festegiano soto lo tempo sereno: quale cose appareno potere essere.
(72) La Chiesa di San Satiro, che l’autore fa di architettura antica, dal Cesariano è nominata, senza dire se sia antica o moderna, nel Comento sul Libro V. Capo 6. di Vitruvio p. 99., dove cita la proiecta distributione columnare circa le pariete, vel la cella de la æde di Sancto Satyro in Milano: quale attigurge columne substeneno la emicycliata sua curva fascia facta como ad lacunarii. Ecco una perfetta corrispondenza anche quanto a parole tra l’autore e il Cesariano, di cui l’opera in appresso nominatamente s’allega. Assigurge porta il manoscritto due volte, facilmente a cagione di svista dell’autore: ed io vi posi Attigurge invece di Atticurge, opera Attica, perchè usato, sebbene malamente, dal Cesariano. Ciò pure che l’autore segue a scrivere conviene col Comento di questo sul Libro IV. Capo 78. pag. 71. ove dicesi che non è da riguardare a fare la adorazione nisi verso lo oriente, ma secundo che si po in li lochi per necessità non constringe, siccomo in la æde picciola del Divo Satyro in Milano. Trovasi detto che la Chiesa di S. Satiro è opera di Bramante, fra le di cui architetture è posta anche dal Sig. Consigliere di Pagave (Vasari, T. V. p. 158. edizione di Siena). Il Latuada nella descrizione di Milano (T. II. p. 245.) la fa opera di Bramantino, cioè Bartolommeo Suardi Milanese, sull’autorità del Lomazzo nell’Idea ec. p. 103. Ma questo scrittore nè ivi, nè in altro luogo lo dice: bensì della Sagrestia scrive ciò a carte 90. dell’opera suddetta dell’edizione di Bologna 1785, cui s’oppone l’asserzione del Cesariano, da riferirsi nell’annotazione seguente. Il Vasari poi nella Vita di Girolamo da Carpi (VIII. 374.) ne riconosce autore Bramantino: con ordine del quale, dice, fu fatto il tempio di S. Satiro, che a me piace sommamente, per essere opera ricchissima e dentro e fuori ancora di colonne, corridori doppii ed, altri ornamenti, e accompagnata da una bellissima Sagrestia tutta piena di statue: ma sopra tutto merita lode la tribuna del mezzo di questo luogo. Ma meglio si diporta il Signor Ab. Bianconi nella Nuova Guida di Milano 1795. (p. 208.), scrivendo in maniera che dà a vedere che della nuova Chiesa di S. Maria, la quale trovasi anche nominata come di San Satiro, per essere ambedue insieme unite, mediante la Sagrestia, l’architetto sconosciuto rimane.
(73) Anche qui l’autore dice cose dal Cesariano dette nel Comento del Libro IV. Cap. 7. pag. 70. dove si legge: E’ monoptera etiam la Sacrastia del Divo Satyro, quale è sine cella, ma columnata atticurgamente, quale architettura fu del mio preceptore Donato da Urbino cognominato Bramante; e sul Libro I. Cap. I. p. 4. t.: Ma acadendo che in li ædificii sia qualche loco triplicato: vel tenebroso vel di luce debile convenerà saper luminare per qualchi loci dal alto sicomo fece il mio preceptore Donato cognominato Bramante Urbinate. In la Sacrastia di la æde sacra di Sancto Satyro in Milano: quali lumini solari dal alto descendeno.
(74) Questo rinomato edifizio è dovuto al Duca Francesco Sforza, avendolo egli fondato nell’anno 1456; siccome da Serviliano Latuada nella Descrizione di Milano è mostrato (T. I. p. 309.). Non si può dubitare che Antonio Averulino Fiorentino, altramente detto Filarete, non lo abbia architettato; perciocchè lo dice egli medesimo dedicando l’opera sua altrove citata a Pietro de’ Medici. Quamobrem non ut a Vitruvio, neque a ceteris eruditissimis architectis, sed ut a tuo Philarete architecto Antonio Averulino cive Florentino, qui Romæ Divi Petri postes, sedente Eugenio P. M., ex ære fecit, hoc opus accipies. Quin etiam Mediolani, imperante Francisco Sfortia, qui primus lapidem in iaciendo fundamento sua manu statuit, amplissimum miserorum hospitium Divinæ Pietati dicatum ipse statui, variaque in ea urbe opera fabricatus sum. Così secondo la versione Latina da riferirsi qui innanzi.
L’opera dell’Averulino, per dirne qualche cosa; giacchè da molti è citata, ma alla stampa non si diede mai; è intitolata Dell’Architettura, ed è in venticinque libri divisa. Fu prima da lui scritta in volgare linguaggio, ed a Francesco Sforza nell’anno 1460. dedicata; siccome il Conte Iacopo Carrara l’ha trovata vendibile in Siena (Lettere pittoriche, T. IV. p. 316. T. V. p. 234.). Quattro anni dopo, avendovi fatti cambiamenti ed aggiunte, a Pietro de’ Medici egli medesimo con altra dedicazione la presentò; e di questo secondo lavoro un esemplare si serba nella Libreria di San Michele presso Valenza, insieme con altri codici a penna, stati già di Ferdinando d’Aragona Duca di Calabria, e registrati nell’Indice de’ più preziosi volumi di quella Libreria, dal chiarissimo Sig. Abate Giovanni Andres, per gentilezza sua singolare, a me comunicato. Anche lo Scamozzio, per detto suo, ne possedeva un testo volgare, che facilmente a questo secondo corrispondeva (Idea dell’ Architettura, Lib. I. cap. 6.). Ma portata l’opera volgare da Francesco Bandini Fiorentino nell’Ungheria a tempo di quel gran fautore e promovitore delle lettere e delle arti nel suo regno Mattia Corvino; commise questo ad Antonio Bonfinio Ascolano, che nella sua corte aveva, di recarla in Latino per uso della nazione. Così tradotta, ed al Re dal traduttore dedicata, nella Libreria Vaticana, nell’Ambrogiana, ed in altre si trova, per indizii dati dal Montfaucon (Bibl. Mss. p. 1182. ec.) dal Mazzucchelli (Gli scrittori d’Italia) e da altri. Il codice principale però che la contiene è senza dubbio uno della Regia Libreria di San Marco, trasferitovi da altra per varie e buone ragioni. E’ egli membranaceo, in gran foglio, ripieno il margine tutto di due facciate d’ornamenti vaghissimi a miniatura e doratura, con l’arme del Re nel mezzo; cioè al principio della lettera dedicatoria del Bonfinio, ed a quello dell’opera dell’Averulino. Chiaro pertanto apparisce essere questo l’esemplare della dedicazione al Re, ed avere esso altra volta fatta bella parte della Libreria da Mattia messa insieme; ancorchè il Lambecio, il Kollario, Giovanni Guglielmo Bergero, Giorgio Mattia Bosio, Paolo Fabri, il P. Francesco Saverio Schier, ed altri moderni che di quella insigne Libreria hanno scritto non ne abbiano avuta contezza veruna.
Quando si voglia avere riguardo al tempo in cui l’opera fu scritta, conviene averla in estimazione non poca; contenendovisi un trattato generale di architettura, sì quanto a fondare città, come a costruirvi ogni sorte di edifizio sacro e profano. Ancorchè i libri di Vitruvio e di Leonbattista Alberti l’autore vedesse; non però quanto al bene ed ornatamente fabbricare sul gusto degli antichi grande profitto da quelli trasse: ma al costume de’ tempi suoi egli ha voluto, o piuttosto dovuto servire nell’ ordinare le fabbriche, e nel rappresentarne li disegni; de’ quali il Codice Marciano da per tutto è sparso. Per conoscer edifizii de’ bassi tempi inutile l’opera non è: di che il passo altrove addotto sul palazzo di Cosimo de’ Medici ne serve d’esempio. Di nomi e di notizie d’artefici moderni non è poi essa tanto spoglia, quanto far credere si è voluto. Scrisse francamente il Vasari nella Vita dell’Averulino che sebbene alcuna cosa buona in essa si ritrovi, è nondimeno per lo più ridicola e tanto sciocca, che per avventura è nulla più; ed aveala egli veduta fra le cose del Duca Cosimo I. Il Milizia, forse senza averla mai vista, al giudizio del Vasari riportandosi, pronunziò che illeggibile ella è (Dizionario delle belle arti, Filarete). Ma non v’è poi tanto male da dirvi sopra. Chiunque leggere volesse le mentovate Lettere due dedicatorie dell’Averulino a Pietro de’ Medici, e del Bonfinio al Re Mattia; di cui le grandiose fabbriche nell’Ungheria vi sono precisamente riferite; nel tomo trentesimosettimo della Nuova Raccolta Calogeriana di Opuscoli a carte 23. le troverà.
Dalla Libreria medesima, che il codice dell’Averulino aveva, passò in quella di San Marco ancora un altro di Silio Italico, dietro ad una relazione avutane da Cosimo Bartoli, che esaminato lo aveva, copiosamente descritto dal Vasari nella Vita di Fra Giovanni da Fiesole (T. III. p. 275.). Tutto procede bene in quella descrizione, eccettuatone l’autore delle miniature assai belle, il quale non fu Atavante Fiorentino; come il Bartoli, avendo preso errore, indusse a dire anche il Vasari. Altro codice è quello da Atavante miniato, cioè uno di Marziano Capella, dalla Libreria medesima nella Marciana parimente trasferito; nel quale rappresentate sono le sette arti liberali, il concilio degli Dei, con fregii molti e squisiti, e con l’indicazione al principio Atavantes Fiorentinus pinxit. Non arrivano queste miniature alla maestria di quelle del Silio, le quali per indegnissima azione, prima che il codice passasse dove ora esiste, furono da esso strappate e vendute. Era il codice nello stato suo primitivo ricco di otto miniature di tutta la grandezza del volume; una delle quali rappresentava Papa Niccolò V sedente, per cui il libro sembra che fosse fatto; e nelle altre eranvi Silio, Scipione Africano, Annibale, Marte, Nettuno, Cartagine, e Roma, appunto giusta la descrizione fattane dal Vasari. Ora una soltanto di esse ne rimane, cioè Marte sopra una carretta antica tirata da due cavalli rossi: ma questa pure alquanti anni prima delle altre era stata levata dal codice, e sopra una tavoletta attaccata; sicchè avendola io poi ricuperata, non fu possibile di rimetterla al luogo suo, e va tenuta a parte come un bel saggio di queste veramente pregevolissime fatture d’autore non per anco noto. Il primo foglio, che ha il principio del poema, per buona fortuna v’è stato lasciato, riferito anch’esso dal Vasari, e lodato così: Nel fregio poi sono certe mezze figurine in un componimento fatto d’ovati e tondi ed altre cose simili, con una infinità di uccelletti e puttini tanto ben fatti, che non si può più desiderare. Vi sono appresso in simile maniera Annone Cartaginese, Asdrubale, Lelio, Massinissa, Caio Salinatore, Nerone, Sempronio, Marco Marcello, Quinto Fabio, l’altro Scipione, e Vibio.
(75) La æde de S. Erculino in Milano coniuncta con la æde del Divo Laurentio, olim phanum Herculis, è monoptera. Così il Cesariano sopra Vitruvio Lib. IV. cap. 7. p. 70. t. Va però inteso ciò della cappella di Sant’Aquilino, secondo quello che scrive il Bianconi nella Guida citata (p. 239.).
(76) Correva questa favola intorno alla patria di Massimiano, e fu adottata anche dal Corio nella Vita di quell’Imperadore, ove lo dice nativo di Castel Severo del Milanese. Nessun pensiero mi prendo di far osservare le false tradizioni rapportate dall’autore intorno alle antichità delle fabbriche Milanesi, essendone già conosciuta la loro insussistenza.
(77) Di Beatrice d’Este prima moglie di Ugolino Giudice di Gallura nella Sardegna, chiamato Nino da Dante nell’ottavo Canto del Purgatorio, poi rimaritata a Galeazzo Visconte, si possono vedere le Antichità Estensi del Muratori (T. II. p. 65.), ove ancora di questo mausoleo è fatta menzione.
(78) Di Bernardo Zenale da Treviglio, terra della Ghiarra d’Adda, molto bene hanno detto il Vasari ed il Lomazzo, come d’uomo grande nella pittura e nell’architettura, e più ancora nella prospettiva. L’uno di essi nella Vita di Bramante da Urbino scrive: Eravi ancora un Bernardo da Trevio Milanese ingegnere ed ottimo architetto del Duomo, e disegnatore grandissimo, il quale da Lionardo da Vinci fu tenuto maestro raro, ancorchè la sua maniera fusse crudetta ed alquanto secca nelle pitture. (Vite, T. V. p. 140.). L’altro ci fa anche sapere ch’egli scrisse un trattato di prospettiva ad un suo figliuolo l’anno della peste 1524, e del modo di edificare case, templi, ed altri edificii (Idea ec., p. 15. ed. 1785.). Del merito di lui dà buon giudizio il Signor Ab. Lanzi (Storia pittorica della Italia, T. II. P. I. p. 396.), e della vita ed opere sue diffusamente ha trattato il Conte Francesco Tassis nelle Vite de’ Pittori Scultori ed Architetti Bergamaschi T. I. p. 85.
(79) Ottaviano Panigarola è similmente ricordato dal Cesariano nel comento sopra Vitruvio (p. CX. t.) come aggiunto a Bernardo Zenale per condurre a fine la fabbrica del Duomo di Milano: anzi le parole dell’anonimo nostro ci rendono chiaro il barbaro testo del Cesariano; il quale però non lascia di far vedere che il Panigarola era conosciuto per architetto di vaglia, ed ordinava templi sì in Milano, come altrove. Ad onore di quel gentiluomo si aggiunge ch’egli con altri suoi concittadini nell’anno 1518. fu deputato alla grand’operazione di rendere l’Adda navigabile sino a Milano: il che risulta dagli Atti sopra quell’affare allora seguiti, e dati a stampa in Milano nel 1520. da Carlo Pagnano in un rarissimo libretto, che l’Argelati nella Biblioteca degli Scrittori Milanesi ha riferito (T. III. p. 1020.).
(80) Era la pittura qui riferita di Giovanni Van Eych da Bruges, che va distinto da Giovanni Memmelinck, per le cose altrove dette.
(81) Questa statua chi l’ha creduta di Antonino Pio, chi di Marco Aurelio, chi di Odoacre, chi di Lucio Vero. Per mostrarla di quest’ultimo scrisse una dissertazione, che non fu stampata, il P. Siro Severino Capsoni Domenicano, autore delle Memorie di quella città; ed a quella si riportano li Monaci Cisterciensi nell’annotazioni all’Istoria del Disegno del Winckelman (Lib. XII. Annot. 2.). Non è da sprezzare ciò che quanto alla denominazione d’essa statua ha il seguente passo dell’anonimo autore dell’opuscolo de laudibus Papiæ scritto circa l’anno 1330, ed inserito dal Muratori negli Scrittori delle cose d’Italia (T. XI. p. 17.): In plateæ medio super columnam lapideam vel lateritiam & tabulam saxeam erecta est statua equi & sessoris ænea, nuper deaurata,... quæ statua cum repercussione solis mirabiliter radiet, & quia forte sic etiam antiquitus radiabat, Radisol ab incolis appellatur. Bensì può donarsi allo scrittore quello che immediatamente soggiunge: Vel dicitur Regisol, quasi regens solem, eo quod, sicut fertur, antiquitus artificioso, vel incantato motu gyrum solis imitabatur. Dell’essere poi stata trasportata la statua da Ravenna segue: Hanc autem statuam antiquitus & corpus B. Eleucadii Episcopi abstulerunt Ravennatibus Papienses, contra quos habebant inimicitiam atque bellum. Come nel 1528. que’ di Ravenna se l’avessero presa, ed il Duca di Milano Francesco Sforza II. la ricuperasse, ed a Pavia la rimettesse, lo narra fra gli altri Leandro Alberti nella Descrizione d’Italia ove di Pavia tratta. E’ però la statua di mala conservazione, e da varj rappezzamenti bruttata.
(82) Nominandosi qui la famosa Libreria di Pavia, non ha da intendersi ch’essa come anche allora esistente si dinoti. Aveala bensì messa insieme Giangaleazzo Visconti Duca di Milano, e se si vuol prestar fede al Giovio (Vit. Galeat. Vicecom.), principio ne avea dato Galeazzo padre di lui, ad esortazione del Petrarca: ma sino dall’anno 1499, in cui dal Re di Francia Lodovico XII fu presa Pavia, i libri n’erano stati portati via, e nella regia Libreria di Blois collocati. Che questo trasferimento seguisse, l’ho io asserito nella Dissertazione storica sopra la Libreria di S. Marco di Venezia, nell’anno 1779. stampata (p. IX.), autorizzando il mio detto con l’Essai sur la Bibliotheque du Roi, messo al principio del primo volume del Catalogo de’ libri Teologici a stampa della Biblioteca regia di Parigi (p. VIII.). Tuttavia ha riputata sospetta la mia asserzione il Sig. Ab. Rive, e ciò per quello che ha egli letto nelle Storie di Pavia di Stefano Breventano: Je la crois suspecte d’apres ce que j’ai lu dans l’Istoria dell’Antichità di Pavia per Breventano, in 4. in Pavia Hieron. Bartoli, 1570. fol. verso 7. & fol. recto 8. (Prospectus d’un Ouvrage sur les Miniatures des Mss. proposé par souscription par M. l’Abbé Rive. Paris, 1782. 12. p. 45.). Ma egli non può aver letto presso il Breventano cosa alcuna che faccia in contrario, non avendo questo autore nel citato luogo scritto più del passo seguente, il quale volentieri qui apporto ancora perchè dà una qualche idea della Libreria Pavese: Nel mezzo dell’altro torrione del castello, il quale nello entrare resta a man sinistra, è una camera, la quale di quadrata forma capisce la grandezza di esso torrione, ed ha le finestre, come fin ora si veggono, imbiancate di fuori; nella quale era una copiosa Libraria e delle più belle che a que’ tempi si potessero vedere in Italia, i cui libri erano tutti di carta pecorina scritti a mano con bellissimi caratteri e miniati, i quali trattavano di tutte le facoltà letterali sì di Leggi, come di Teologia, Filosofia, Astrologia, Medicina, Musica, Geometria, Rettorica, Istorie, e d’altre scienze, ed erano di numero novecento e cinquanta ed uno volume; come è notato in un Repertorio scritto in carta pecora, il quale è appresso di me: e detti libri erano coperti chi di veluto, chi di damasco o raso, e chi di broccato d’oro o d’ariento, con le lor chiavette e catenelle d’ariento; con le quali stavano fermati alli panchi, i quali erano posti con quell’ordine e modo con che sono quelli delle Scuole pubbliche, ma però fatti più belli, come richiedeva il luogo e il grado di chi gli aveva fatti fare. Nulla qui mostra che dal Breventano si scriva come se a tempo suo la Libreria fosse ancora fornita de’ libri, o ch’egli veduti e maneggiati gli avesse; anzi appoggia egli il dire suo ad un Indice che ne aveva, senza dire nè quando, nè come la Libreria stata fosse spogliata. Ma se altre prove vuole il Sig. Ab. Rive di quanto ho io affermato, una molto autorevole ne abbia dal celebre , il quale nell’anno 1528. andando ambasciatore della Repubblica di Venezia al Re Francesco I, passò per Blois, e nella Descrizione del suo Viaggio lasciò scritto così: In Blois è la Libreria dei Duchi di Milano, che solea esser nel castello di Pavia, la qual portò Re Alvigi d’Italia, quando tolse lo Stato al Duca Lodovico (Navagero, Opera omnia, p. 408. ed. Comin.). Inoltre osservi egli, che di quella traslazione di codici tal fama correva nel Secolo sedicesimo, che Leonardo da Maniaco scrivendo le Istorie de’ suoi tempi (P. I. Lib. IV. p. 122. ed. Bergamo 1603.) ove tratta della congiura insorta contro il Re Francesco II. nel 1560, scrive che la Corte ricreavasi allora a Bles, terra del paese di Sologne, celebre per la bellissima Libreria dei Duchi di Milano, la quale Lodovico Re l’anno 1500. da Pavia trasportò in Francia. Certamente però, per il tempo in cui ella fu fondata, poteva essa Libreria riguardarsi come copiosa; anzi secondo altro Indice fatto nel 1426, il quale dal Sig. Conte di Firmian fu posseduto, più d’un migliaio di Codici ne conteneva (Catalog. Bibl. Firmian. T. I. Mss. p. 97.). Ornamento singolare della Libreria Pavese era il famoso Virgilio col comento di Servio, ed una miniatura di Simone da Siena, posseduto già dal Petrarca, che vi lasciò scritta la memoria del suo innamoramento; il quale poi trasferito nell’Ambrosiana di Milano, finalmente a’ giorni nostri altrove ha dovuto passare.
(83) Le parole del Cesariano, che sono a carte CXV. del Vitruvio da lui comentato, ove del dipingere a fresco si tratta, son queste: Cum sia ancora si po disponere, como dice Vitruvio, questa composita calce a recevere la splendentia e nitore; siccome etiam fanno le vecchie picture facte in la Archiepiscopale Curia & in Sancto Ioanne in Conchæ in Mediolano: così etiam in Papia, & præcipue in epso castello dove il nobile Pisano depinse: vel etiam in Placentia Antonio del Carro. Pittore di patria Pisano, cui queste opere possano attribuirsi non ne veggo alcuno. Perciò sin tanto che altre buone notizie in contrario escano fuori, io tengo che autore ne fosse Vittore Pisano Veronese, anzi da San Vigilio sul Lago di Garda, altramente detto il Pisanello, il quale sulla fine del secolo quattordicesimo e nel seguente con lavori di pennello e di getto grande nome si fece, e pinxit & in variis urbibus Italiæ, come in un suo epitafio fu detto: nè mi basta che il Sign. Francesco Bartoli (Notizia delle pitture, sculture, ed architetture d'Italia, T. II. p. 12.) dica che nel castello di Pavia veggonsi alcuni vasti saloni, oggi ad uso di quartieri di soldati, i quali sono dipinti a fresco con gigantesche figure, e fatti di guerra, per opera di Pietro Bonaccorsi detto Perino del Vago Fiorentino; non vedendo da alcuno vecchio scrittore queste pitture a costui ascritte. Mi fa però alcun poco dubitare il silenzio del Vasari, del Pozzo, del Ridolfi, del Marchese Maffei, e d’altri, i quali delle opere del Pisano, da loro diligentemente indagate, facendo menzione, delle pitture di Pavia all’oscuro affatto si mostrano. Più ancora cresce il motivo di dubitare, vedendo che nulla ne dice Guarino Veronese suo contemporaneo nel poemetto intitolato Pisanus, riferito dal ch. Ab. Andres nel Catalogo de’ Codici Capilupiani (p. 38.); e nulla parimente Bartolommeo Facio, il quale nell’operetta de viris illustribus scritta l’anno 1456, e pubblicata dall’Ab. Mehus in Fiorenza nel 1745. (pag. 47.) mette il Pisano fra li principali pittori di quel tempo, e gli fa questo elogio, da’ moderni scrittori intorno ad esso non veduto: Pisanus Veronensis in pingendis rerum formis sensibusque exprimendis ingenio prope poetico putatus est; sed in pingendis equis ceterisque animalibus peritorum iudicio ceteros antecessit. Mantuæ ædiculam pinxit & tabulas valde laudatas. Pinxit Venetiis in Palatio Fridericum Barbarussam Romanorum Imperatorem & eiusdem filium supplicem: magnum quoque ibidem Comitum cœtum Germanico corporis cultu, orisque habitu: sacerdotem digitis os distorquentem, & ob id ridentes pueros tanta suavitate, ut aspicientes ad hilaritatem excitent. Pinxit & Romæ in Ioannis Laterani tempio quæ Gentilis D. Ioannis Baptistæ historia inchoata reliquerat; quod tamen opus postea, quantum ex eo audivi, parietis humectatione pæne oblitteratum est. Sunt & eius ingenii atque artis exemplaria aliquot picturæ in tabellulis ac membranulis, in quis Hieronymus Christum Crucifixum adorans, ipso gestu atque oris maiestate venerabilis; & item eremus, in qua multa diversi generis animalia, quæ vivere existimes. Pictura adiecit fingendi artem. Eius opera in plumbo atque ære sunt Alphonsus Rex Aragonum, Philippus Mediolanensium Princeps, & alii plerique Italiæ Reguli, quibus propter artis præstantiam carus fuit.
Medaglie d’uomini illustri da lui gettate molte ne conoscono coloro che de’ musei hanno pratica; e non poche gli scrittori allegati ne accennano. Una ve n’ha di mezzana grandezza da me veduta, che il Pisano medesimo rappresenta con berrettone in testa e con le parole pisanus pictor, e nel rovescio ha queste lettere iniziali f. s. k. i. p. f. t., le quali parimente nel rovescio d’una medaglia di Dante si veggono, senza che il loro significato se ne conosca. Ambedue queste medaglie osservò nel Museo Cesareo di Vienna Apostolo Zeno, e la prima attribuì ad un Pietro Pisano pittore (Lettere, T. IV. p. 141. ed. 1785.): ma in vece Vittore Pisano io stimo con M. Mariette (Lettere pittoriche, T. V. p. 263.) che riconoscere vi si debba; siccome pure altra medaglia di minore grandezza che ha una testa scoperta colle parole pisanus pictor, e senza parole nel rovescio, la quale nel Museo Mazzucchelliano si riporta (T. I. Tav. XI.) ed a Vittore si attribuisce. Dicendo poi il Gaurico (De sculptura, Gronovius, Thesaurus graecarum antiquitatum, T. IX. p. 774. edit. Lugduni Batavorum) che era Pisanus pictor in se cælando ambitiosissimus, anche queste due medaglie come opere di lui a ragione tenere si possono.
Per altro belli avanzi delle pitture nel castello di Pavia si vedevano ancora a tempo di Stefano Breventano; giacchè nell’Istoria di quella Città scritta l’anno 1570. egli ne fece questa ricordanza (Lib. I. p. 7.): Le sale e camere, tanto di sopra, quanto di sotto, sono tutte in volto, e quasi tutte dipinte a varie e vaghe istorie e lavori; i cui cieli erano colorati di finissimo azzurro, ne’ quali campeggiavano diverse sorti d’animali fatti d’oro, come leoni, leopardi, tigri, levrieri, brachi, cervi, cinghiali, ed altri, e specialmente in quella parte che rimirava il Parco (la quale, come abbiamo detto, fu rovinata con l’artiglieria dall’esercito Francese alli 4. di Settembre l’anno del 1527), nella quale, come a’ giorni miei io l’ho veduta intera, si vedeva un gran salone lungo da 60. braccia e largo 20., tutto istoriato con bellissime figure, le quali rappresentavano caccie e pescagioni e giostre, con altri varii diporti dei Duchi e Duchesse di questo Stato.
(84) Una Pietà, con più figure dipinta in San Pancrazio di Bergamo riferisce il Pasta nelle Pitture di quella città, e dice ch’ella molto si assomiglia alla maniera di Lorenzo Lotto (p. 52.). Facilmente è la stessa, che l’anonimo ora ci fa sapere esser opera di Bramante; ed a lui pure si deve la notizia che questo dipingesse anche li Filosofi nel Palazzo del Podestà addietro notati.
(85) Grandi cure si sono prese li Bergamaschi affinchè quella palla riuscisse una delle più belle e più cospicue opere in tale genere. Furono consultati per disegni e modelli Andrea Riccio scultore, Bernardo Zenale pittore, Andrea Zilioli architetto, Lorenzo Lotto, Antonio Bosello, Jacopo de’ Scipioni, Andrea Previtali pittori; e Simone (forse de’ Germani) da Pavia scultore ed orefice, Galeazzo e Giacomo Cambi Cremonesi orefici, e Bartolommeo da Gandino scultore vi furono scelti a lavorare. Il maneggio che per questo lavoro se n’è fatto risulta da’ documenti che il Conte Tassis ha pubblicati nelle Vite degli Artisti Bergamaschi (T. I. p. 35. e seg. 27. 71.), traendoli specialmente da un Libro pubblico chiamato dell’Ancona, perchè null’altro vi contiene, sennon le memorie di questo affare dall’anno 1521. al 1526; le quali ricevono lume dalle parole dell’anonimo nostro, e vicendevolmente a queste ne danno. Non si vede ora reliquia veruna di sì grand’opera: v’è però fondamento di credere che non foss’ella a finimento mai stata ridotta, trovandosi che nel 1580. si fece capo col Senatore Veneziano Iacopo Contarini, delle lettere e delle arti gran protettore, per trovare orefice che la terminasse (Tassis, Lib. cit. p. 71.). La chiesa dall’anonimo nominata della Misericordia ora comunemente di Santa Maria Maggiore si chiama.
(86) Da autentici documenti che il Co. Tassis ha prodotti nelle Vite citate (T. I. p. 120. 65.), si comprova che i lavori di tarsia di questo Coro fatti furono da Gianfrancesco Capodiferro di Lovere nel Bergamasco, da Zannino suo figliuolo, da Pietro suo fratello, e da altri Bergamaschi, sopra disegni di Lorenzo Lotto e d’altri pittori di grido.
(87) A buona fonte l’anonimo attinse per conoscere l’autore di questo pregiatissimo mausoleo, e lo trovò da vero. Si cominciò a conoscerlo dall’elegante Descrizione di Bergamo composta da Marcantonio Michele gentiluomo Veneziano nel 1516, e pubblicata nel 1532. con Francesco Bellafino De temporibus urbis Bergomi; avendo scritto il Michele che il mausoleo di Bartolommeo da Bergamo era sculptura Ioannis Antonii Amadei Papiensis opere spectatissimum. Ne espongono le sue bellezze il Co. Iacopo Carrara nelle Lettere pittoriche (T. V. p. 278.) ed il Pasta nelle Pitture di Bergamo (p. 28.); da’ quali fatte si veggono osservazioni giudiziose, che comprovano il merito singolare dell’artefice. Questo Pavese fu già stato messo dal Lomazzo fra li bravi scultori Milanesi (p. 615.). Ma altre opere ancora lo comprovano assai valente nell’arte sua; cioè il Deposito di Medea figlia di Bartolommeo Coleoni nella chiesa de’ Domenicani della Basella (Carrara e Pasta Lib. cit.), una porta ornatissima di arabeschi e di figure nella Certosa di Pavia (Bartoli, Notizia delle pitture, sculture, ed architetture ec. d’Italia, T. II. p. 71.), e l’arca di marmo contenente corpi di Santi Martiri in Cremona, dall’autore già indicata. La statua equestre del Coleoni è opera di due scultori Tedeschi Sisto e Leonardo, aggiuntavi l’anno 1501. (Pasta, Lib. cit. p. 168.).
(88) Belle notizie intorno a questa palla, ordinata dal Co. Alessandro Martinengo a Lorenzo Lotto con generosità singolare, e riuscita a meraviglia, si leggono nella Vita del pittore scritta dal Conte Tassis; nella quale altre di lui pitture, dall’anonimo nostro indicate, riscontrare si possono.
(89) Ambrogio Borgognone Milanese è posto dal Lomazzo fra li migliori pittori di sua patria (p. 679.) e nell’Indice si fa che dipingesse in San Satiro di Milano. Un chiostro a San Simpliciano ivi dipinse, in cui assai più trovò da lodare, che da riprendere il Sig. Ab. Lanzi (Storia pittorica della Italia, T. II. P. I. p. 401.).
(90) Celebratissimo è Fra Damiano da Bergamo Converso Domenicano per lavori di tarsia, nè si trova chi a’ suoi tempi lo superasse: anzi pare che il vero predicesse Sabba da Castiglione suo contemporaneo ne’ Ricordi ove degli ornamenti della casa ha trattato; il quale dopo avere detto che egli non solo nelle prospettive, ma nelli paesi, nelli casamenti, nelli lontani, e, che è più, nelle figure fa con il legno tutto quello che Apelle faceva.... aggiunge. Questo buon padre in tingere legni ed in qualsivoglia colore ed in contraffar pietre macchiate e mischie siccome è stato intorno alli secoli nostri unico, così penso che alli futuri sarà senza pari. È però anche vero che questa sorte di lavoro andò in disuso. Fra Leandro Alberti nella Descrizione d’Italia, riferindo il Coro di San Domenico di Bologna, da Fra Damiano parimente lavorato a tarsia, belle ed onorevoli memorie di lui ha portate; le quali con più altre diligentemente raccolte sono dal Conte Tassis nelle allegate Vite (T. I. p. 60.); dove egli attesta che quadretti di tarsia di Fra Damiano annicchiati nel Coro de’ Domenicani di Bergamo tuttavia si veggono.
(91) Troso da Monza non solamente è detto acuto pittore dal Lomazzo nell’Indice, ma questo gli è sì liberale di encomii, che d’una facciata da lui dipinta in Milano nella strada de’ Maravigli, presso al palazzo de’ Landi, in cui sono espresse istorie Romane, dice ch’è quasi impossibile che altro possa aggiugner mai; perchè ella è miracolosissima così per le figure, come per l’architettura e prospettiva, che è stupendissima (p. 272.). Peraltro anche Sebastiano Resta nel 1707. ebbe a scrivere che questa pittura lo fece stupire, per la bontà, bellezza e soavità (Lettere pittoriche, T. III. p. 342.). Il Lomazzo fa ancora Troso autore d’opera pittorica, dicendo ch’egli ha disegnato un libro di grottesche di tante e così varie sorti, che giudico non potersi fare, nè immaginar più; perchè egli veramente ha occupato tutto ciò che si può fare in cotal facoltà (p. 423.). Pitture di costui cominciano a trovarsi dell’anno 1444. nella Cattedrale di sua patria, in quaranta istoriati sparsi d’oro copiosamente, rappresentanti fatti dei Longobardi, ed in particolare della Regina Teodelinda; opere della prima età di lui riputate dal Sig. Ab. Lanzi (Storia pittorica della Italia, T. II. P. I. p. 404.). Se n’è fatta modernamente una copia a chiaro scuro, che nella Libreria della Chiesa medesima fu riposta, secondo che narra il Sig. Canonico Frisi nelle Memorie di Monza (T. I. p. 16. e T. III. p. 251.).
(92) È riferita questa Tavola dal Pasta nelle Pitture di Bergamo (p. 106.) con più esattezza nel dirne la rappresentazione, ma senza indicarne l’autore. Vincenzio Bresciano, cui l’anonimo la attribuisce, sembra non essere altri, che il Foppa, addietro nominato: di cui basta vedere ciò che ne ha scritto il ch. Ab. Lanzi (Storia pittorica della Italia, T. II. P. I. p. 393.), per conoscere ch’egli almeno sino dall’anno 1455. comincia a conoscersi pittore di molto studio, e si mantiene con grande riputazione in più altre opere posteriori. Il Lomazzo nell’Indice degli artisti lo fa Milanese, opponendosi al Ridolfi e ad Ottavio Rossi, e lo fa scrittore di un’opera di prospettiva sì in quel luogo, come a carte 264; ma nell’Indice stesso egli poi mette un altro Vincenzio Bresciano, che non si saprebbe trovare.
(93) È nuovo il nome di questo artefice Bergamasco, nè il possessore della pittura Leonino Brembato a me noto riesce da altro monumento; quando l’anonimo abbia indicata persona allora vivente, e non la casa già da uno di tal nome abitata. In questo secondo caso sarebbe facile a riconoscervi quel Leonino Brembato, che per umane lettere fioriva prima ancora della metà del secolo quindicesimo; trovandosi aver egli fatta un’Orazione congratulatoria a nome della patria nell’assunzione di Pasquale Malipiero al Dogado di Venezia seguita l’anno 1457; la quale io vidi anche in un codice della Libreria Capitolare di Padova. Varie notizie intorno a questo letterato ha raccolte il P. Vaerini nella Biblioteca degli Scrittori Bergamaschi (T. I. p. 263.); alle quali può aggiungersi che altra sua Orazione detta similmente in congratulazione per la patria al Doge Cristoforo Moro, assunto nell’anno 1462., sta in un mio elegante codice a penna, il quale contiene Orazioni d’ambasciatori di città suddite alla Repubblica, e di altri ancora, e Lettere di Re, Prencipi, Repubbliche, Cardinali, e personaggi ragguardevoli al Doge medesimo; raccolta allora fatta da Lionardo Sanudo, copiosa in vero ed affatto singolare.
(94) Non d’altri io stimo che qui si tratti, che di Alessio Agliardi Bergamasco architetto ed ingegnere, e di suo padre, che per la prima volta qui comparisce architetto civile, nè altronde è conosciuto. Alessio fu adoperato dalla Repubblica di Venezia in operazioni idrauliche e specialmente nella diversione della Brenta per il Brentone; nel qual lavoro ebbe gravi differenze con Fra Giocondo, riferite dal Temanza nella Vita di questo (Vite dei più celebri architetti, e scultori veneziani, T. I. p. 66. e seg.). Notizie d’altre fatture di lui si possono vedere nel Trattato di Ferdinando Caccia sopra la Fortificazione ec. aggiunto alle Vite degli Artisti Bergamaschi del Tassis T. II. p. 196. Questi è quell’Alexius Bergomensis, che Fra Luca Pacioli mette fra li chiari architetti uditori della sua Prolusione alla spiegazione del quinto Libro degli Elementi di Euclide, recitata in Venezia l’anno 1508, e ad esso libro premessa nell’Euclide di Venezia 1509. Forse l’anonimo nostro vide malamente scritto il cognome Agliardi, e lesse di Archi.
(95) Trovasi in Bergamo nelle Case de’ Signori Bonghi un quadro dello Sposalizio di Santa Caterina Martire, che ne’ tempi che i Francesi occuparono quella città, fu riposto per sicurezza in San Michele: ma que’ soldati poco rispettando i luoghi sacri, invasero quella Chiesa, e un di loro invaghito del paese, che appariva fuor d’una fenestra col monte Sinai, lo recise dal quadro, e così ancor si ritrova. Così scrisse il Ridolfi (T. I. p. 128.). Aggiunge il Conte Tassis che questa pittura medesima, benchè mancante del pezzo tagliatovi, può riguardarsi come una delle migliori di Lorenzo Lotto, ed è posseduta dal Co. Giacomo Carrara. Crede egli che in essa il pittore vi abbia ritratto anche se medesimo: ma può avere preso in fallo il ritratto di Niccolò de’ Bonghi possessore della pittura, dall’anonimo nostro indicato.
(96) Benedetto Diana è vecchio pittore Veneziano conosciuto per opere dal Ridolfi e dal Zanetti indicate; alle quali questa di Crema ora si aggiunge. Il Zanetti, sì fondato ne’ suoi giudizj, non dubitò di affermare che il suo stile ha buon colore ed unione di tinte; e ricorda appena il di lui pennello l’antica secchezza e il penoso lavoro.
(97) Il Catena Veneziano fu assai lodato anche dal Vasari, massimamente per ritratti dal naturale (T. IV. p. 317.) ): il Ridolfi pure lo mette fra’ buoni pittori, e, ciò che più importa, il Zanetti ha potuto alcuna volta trovarlo buon seguace di Giorgione e di Tiziano. L’opera di lui in Crema nessuno mostra d’averla conosciuta.
(98) Veramente il manoscritto replicatamente porta Civerto, ed io ve lo lasciai, reputando che basti l’avvertire qui che si tratta di quel Vincenzio cognominato Civerchio, detto anche il vecchio, che dal Lomazzo a carte 317. è fatto Milanese nell’Indice dell’opera; ma dal Ridolfi (T. I. p. 41.) dall’Ab. Lanzi (T. II P. I. p. 16. 395.), e da altri fu riconosciuto per Cremasco, e posto fra’ buoni pittori alla metà del secolo quindicesimo.
(99) Anche di Gentile da Fabriano alcune buone notizie, mancanti presso il Vasari, il Baldinucci, e li moderni scrittori, ci somministra l’opuscolo, già altre volte addotto, di Bartolommeo Facio De Viris illustribus; il quale per la sua antichità si concilia particolare credenza. Il testo dice così: Gentilis Fabrianensis ingenio ad omnia pingenda habili, atque accommodato fuit. Maxime vero in ædificiis pingendis eius ars atque industria cognita est. Eius est Florentiæ in Sanctæ Trinitatis templo nobilis illa tabula, in qua Maria Virgo, Christus infans in manibus eius, ac tres Magi Christum adorantes, muneraque offerentes conspiciuntur. Eius est opus Senis in foro eadem Maria Mater Christum itidem puerum gremio tenens, tenui linteo illum velare cupienti adsimilis; Ioannes Baptista, Petrus ac Paulus Apostoli, & Christophorus Christum humero sustinens mirabili arte, ita ut ipsos quoque corporis motus, ac gestus repræsentare videatur. Eius est opus apud Urbem veterem in maiore Templo eadem Virgo, & Christus infantulus in manibus ridens, cui nihil addi posse videatur. Pinxit & Brixiæ sacellum amplissima mercede Pandulpho Malatestæ. Pinxit & Venetiis in Palatio terrestre prælium contra Friderici Imperatoris filium a Venetis pro Summo Pontifice susceptum, gestumque, quod tamen parietis vitio pæne totum excidit. Pinxit item in eadem urbe turbinem arbores, ceteraque id genus radicitus evertentem, cuius est ea facies, ut vel perspicientibus horrorem, ac metum incutiat. Eiusdem est opus Romæ in Ioannis Laterani Templo Ioannis ipsius historia, ac supra eam historiam Prophetæ quinque ita expressi, ut non picti, sed e marmore facti esse videantur, quo in opere, quasi mortem præsagiret, seipsum superasse putatus est. Quædam etiam in eo opere adumbrata modo, atque imperfecta morte præventus reliquit. Eiusdem est etiam altera tabula, in qua Martinus Pontifex Maximus & Cardinales decem ita expressi, ut naturam ipsam æquare, et nulla re dissimiles videantur. De hoc viro ferunt, quum Rogerius Gallicus insignis pictor, de quo post dicemus, Iubilæi anno in ipsum Ioannis Baptistæ Templum accessisset, eamque picturam contemplatus esset, admiratione operis captum auctore requisito, eum multa laude cumulatum ceteris Italicis pictoribus anteposuisse. Eiusdem etiam tabulæ præclaræ in diversis locis esse perhibentur, de quibus non scripsi, quoniam de iis haud satis comperi. (p. 44.). Anche li due ritratti dall’anonimo qui riferiti sono opere che nessuno fra quelle di Gentile ha indicate.
(100) Che Antonello da Messina andato sia ad apprendere la maniera di dipingere ad oglio da Giovanni da Bruges, e l’abbia portata a Venezia, ove Domenico Veneziano, e Giovanni Bellino i primi fossero a metterla in opera, il Vasari, il Ridolfi, e più altri l’hanno detto. Ch’egli ancora in Venezia non poco operasse, prove certe si hanno: ed il Zanetti (Della pittura veneziana, p. 21) nel dare indizio de’ pochi di lui lavori restativi, portò fuori un ritratto di gentiluomo Veneziano, ch’egli fece qui nel 1478, come il più antico monumento del soggiorno suo nella città nostra. Ora li due ritratti dall’anonimo qui riferiti mostrano che nel 1475. egli vi era già. Ma ch’egli anche prima ci fosse, e avesse già dipinta una palla in San Cassiano, ne dà indizio Matteo Colacio Siciliano nella Lettera, altre volte allegata, ad Antonio Siciliano Rettore degli Artisti nello Studio di Padova, impressa col suo opuscolo De fine Oratoris, ed altri in Venezia l’anno 1486; ove nominando li pittori più insigni fra li moderni dice: Habet vero hæc æstas Antonellum Siculum, cujus pictura Venetiis in Divi Cassiani æde magnæ est admirationi. Quell’Antonio Siciliano poi, che io trovo essere stato degli Adinolfi, e Catanese di patria, consta ch’ebbe il Rettorato nel 1475. (Facciolati, Fasti Gymnasii Patavini, P. II. p. 88.). Continuò a vedersi con grande ammirazione la palla mentovata, sicchè verso la fine del secolo ebbe a scrivere il Sabellico (De situ urbis p. 85. t.): In Cassiani templo tabula est Messenii pictoris, cui ad exprimenda quæ voluit nihil videtur, præter animam, quam dare non potuit, defuisse. Il Vasari ne dice di essa molto bene (T. III. p. 314. ed. Siena), ed il Sansovino (Venetia citta nobilissima et singolare, p. 76.) nel 1580. la riferisce come esistente. Sappiamo dal Ridolfi (T. I. p. 49.) ch’essa rappresentava Nostra Donna sedente; ma che a suo tempo, cioè nel 1646, era già stata levata, come pure altra palla del pittore medesimo in San Giuliano; perdite di amara ricordanza.
D’Antonello a ragione scrive l’autore delle Memorie de’ Pittori Messinesi stampate a Napoli nel 1792. (p. 13.) che s’ignora il tempo della nascita, egualmente che della morte di lui. Presso l’anonimo nel 1475. lo troviamo a Venezia, e nel 1490, secondo il Ridolfi, dipinse a fresco in S. Niccolò di Treviso due armati all’antica a’ lati d’un personaggio di casa Oniga, cioè di Agostino, di cui è riportato l’epitafio da Bartolommeo Burchelati (Commentariorum memorabilium multiplicis hystoriae Tarvisinae locuples promptuarium libris quatuor distributum, p. 323.). Ciò è quanto abbiano di preciso per fissare il soggiorno di lui in questi paesi. Il Vasari lo fa morto d’anni quarantanove in Venezia, e porta un’iscrizione sepolcrale a lui messa. Questa però or non si vede, e indarno anche a’ tempi nostri è stata cercata (Murr, Journal zur Kunstgeschichte und zur allgemeinen Litteratur, Nurnberg, 1775. T. I. p. 25.)
(101) Andrea Odoni, di civile famiglia ed assai doviziosa, trasportatasi da Milano a Venezia sulla fine del secolo quindicesimo, qui grand’onore si fece colla splendidezza e nobiltà di trattamento, impiegando pure sue ricchezze nell’acquistare anticaglie e pitture, e nel far eseguire opere da artefici di disegno. Ci rappresenta la casa di lui in Venezia, posta nella contrada del Gassaro detta, Pietro Aretino scrivendogli così nell’anno 1538. (Lettere, Lib. II. p. 50. ed. Parigi 1609.): Simigliarei le camere, la sala, la loggia, ed il giardino della stanza che abitate ad una sposa che aspetta il parentado che dee venire a darle la mano: e ben debbo io farlo; sì è ella forbita e attapezzita e splendente. Io per me non ci vengo mai, che non tema di calpestarla coi piedi: cotanta è la delicatura de’ suoi pavimenti. Nè so qual Principe abbi sì ricchi letti, sì rari quadri, e sì reali abbigliamenti. Delle sculture non parlo; conciosiachè la Grecia terrebbe quasi il pregio della forma antica, se ella non si avesse lasciato privare delle reliquie delle sue scolture. Perchè sappiate, quando io era in Corte, stava in Roma, e non a Venezia; ma ora che io son qui, sto in Venezia ed a Roma. Del pennello di Girolamo da Trevigi il giovine, imitatore di Raffaello, molto l’Odoni si valse per adornare la sua abitazione; onde ebbe a scrivere di lui il Vasari (T. IV. p. 268.): In Vinegia ancora fece molte opere e particolarmente la facciata della casa d’Andrea Udone in fresco, e dentro nel cortile alcuni fregii di fanciulli, ed una stanza di sopra; le quali cose fece di colorito, e non di chiaro scuro, perchè a Venezia piace più il colorito, che altro. Nel mezzo di questa facciata è in una storia grande Giunone che vola con la luna in testa sopra certe nuvole dalle cosce in su, e con le braccia alte sopra la testa; una delle quali tiene un vaso, e l’altra una tazza. Vi fece similmente un Bacco grasso e rosso, e con un vaso, il quale rovescia, tenendo in braccio una Cerere che ha in mano molte spighe. Vi sono le Grazie e cinque putti che volando a basso le ricevono, per farne, come accennano, abbondantissima quella casa Udoni; la quale per mostrare il Trevigi che fusse amica e un albergo di virtuosi, vi fece da un lato Apollo e dall’altro Pallade: e questo lavoro fu condotto molto frescamente, onde ne riportò Girolamo onore ed utile. Ed il Ridolfi, con qualche differenza, ma sempre con lode del pittore, scrisse poi (T. I. p. 214.): Più eccellentemente si portò Girolamo nella facciata di Andrea Odone in Venezia al ponte del Cafaro, ove dipinse Cerere con fasci di spiche e Bacco con un vase a sedere sopra le nubi, ed una fanciulla, credesi una delle Grazie, che versa vino da due vasi, ed alcuni bambini volanti con fiori in mano; dinotando i comodi e le fortune dell’Odone: e dalle parti del pergolato fece Apollo con l’arco nella sinistra, mano, e la destra posata sopra il Carcasso, e Pallade con l’asta e lo scudo, per dimostrare il talento ch’egli aveva di molte virtù. Vi sono figure a chiaro scuro, ed altre fantasie; le quali fatiche piacquero molto ai Veneziani per la vaghezza e delicatezza usatavi. Un bell’avanzo di queste opere, che ancora bene si vede, e rappresenta l’Apollo, accredita il giudizio di questi due scrittori; co’ quali s’accorda il nostro gravissimo Zanetti, affermando che da quella sola figura apparisce che il pittore seguiva degnamente le Romane scuole, e coloriva con molta vaghezza (Della pittura veneziana, p. 290. sec. ed.). Si meritò l’Odoni onorevole iscrizione emortuale, e questa gli fu posta in Santa Maria Maggiore:andreae vdonio civi
insigni animi splendore
liberalitate atqve elegantia
etiam svpra civilem fortvnam spectanda
hieronymvs et aloysivs fratres
moerentes sibi ac posteris pp.
vixit an. lvii. obiit a. mdxlv.
Fu egli anche fortunato, per così dire, ne’ suoi discendenti; perciocchè Rinaldo suo figliuolo tenne conto degli antichi monumenti da esso adunati; della qual cosa prova ne diedero Aldo Manuzio (Orthograph. Latin. Voc. Valetudo) Enea Vico (Comment. in Cæsar. Numism. Lib. I. p. 106.) ed Uberto Goltzio (Index post opus inscript. C. Jul. Cæs. Lib. I. Brug. 1563.), a’ quali tutti medaglie antiche ha egli somministrate; ed essendosi applicato agli studii filosofici, nel 1557. diede fuori colle stampe Aldine un Discorso sopra l'immortalità dell’anima: Margherita poi di Andrea figliuola fu presa a moglie dall’insigne letterato Paolo Manuzio, siccome dalle Lettere volgari di questo il Zeno nelle Notizie intorno alli Manuzii ha raccolto (p. XVII.)
(102) Di Tullio Lombardo non ha trovato il Temanza quando succedesse la morte, e soltanto scrisse che nel 1559. egli era già mancato di vita (Vite T. I. p. 125.). Ma in un Registro di memorie emortuali, tratte da’ libri del Convento di Santo Stefano di Venezia per opera di Fra Rocco Curti Domenicano, si nota ch’egli in quella chiesa fu sepolto addì 17. Novembre 1532. (cod. Ms. della Libr. di S. Marco). Lo studio sopra l’antico, di cui fa cenno l’anonimo quanto a Tullio, può raccogliersi che presso di noi si facesse anche quanto a’ fratelli Bellini da un componimento in versi di Pierio Valeriano De marmoreo Platonis capite apud Bellinos Venetiis (Pierii Valeriani Hexametri Odae et Epigrammata, p. 120.) e dal seguente epigramma di Raffaele Zovenzonio, scritto nel mio codice di poesie di lui altrove riferito:
In Venerem Gentilis Bellini
Qui Paphiam nudis Venerem vidisse papillis
Optat in antiquo marmore Praxitelis,
Bellini pluteum Gentilis quærat; ubi stans,
Trunca licet, membris vivit imago suis.
Altro argomento ne dà il Temanza nelle Vite Lib. II. p. 477.
(103) Di Simone Bianco scultore Fiorentino scrive il Vasari nella Vita di Vittore Carpaccio, che dimorò quasi tutto il tempo di sua vita in Venezia, e vi lavorò continuamente. Scolpiva per eccellenza secondo l’Aretino, il quale nel 1548. così gli scrisse (Lett. Lib. IV p. 277. ed. 1609.): Che io, Messer Simone da bene, abbi ai miei dì viste delle figure degl’Iddii e degli uomini, so che me lo credete, senza ch’io lo giuri: ma di quanti mai mi furono rappresentati dinanzi agli occhi, dal piacere del vedergli niuno mai passommi all’animo con lo stupore della meraviglia nel modo che mi ci passò il ritratto tolto dallo scarpello e dallo ingegno di voi dalla celeste sembianza di colei che in matrimonio è congiunta con il Magnifico M. Niccolò Molino, non meno mio padrone e amico, che vostro amico e padrone. Un grande obbligo tengono le bellezze dell’alma donna con il felice artificio che io dico, in virtù del quale gli avete dato lo spirto nel marmo con sì nuova venustà di grazia, che la natura istessa quasi confessa che un nonnulla ella è dissimile alla viva... In tutta la somma del mio giudicio si è anco risoluto quello del Sansovino e di Tiziano. Era già l’Aretino gran lodatore, quando voleva dir bene: tuttavia a questo passo accredita le sue lodi passando tosto a fare sullo stesso lavoro qualche censura.
(104) Non altri costui sembra, che Pietro Maria da Pescia, replicatamente lodato dal Lomazzo come singolare maestro d’intaglio; di cui scrive il Vasari nella Vita di Valerio Vicentino ch’egli a tempo di Papa Leone X. nell’intagliare gemme fu grandissimo imitatore delle cose antiche (Vite T. VII. p. 115.). Di lui, e della tazza qui indicata tornasi a fare menzione più innanzi, ove delle cose da Francesco Zio possedute.
(105) D’un Cristoforo Romano sì questa, come altre opere di scoltura l’anonimo nostro ci fa conoscere. Resta poi a vedere s’egli è quel medesimo che dal Lomazzo ne’ Sonetti grotteschi (p. 198.) presso il Temanza (Vite ec. T. I. p. 121.) è celebrato come pittore, ma fra altri parimente scultori, ove dice:
Alzar Tullio Lombardo e Agostìn Busto
Con Giovanni e Cristoforo Romano
La pittura a tal colmo entro Milano
Che poi diede di se mirabil gusto.
(106) Non si erra riputando questo miniatore quel medesimo Benedetto Bordone Padovano, di cui lavori simili ne’ libri Liturgici del Monastero di Santa Giustina di sua patria sono già indicati dallo Scardeone (De antiquitate urbis Patavii, & claris civibus Patavinis, p. 254.) e dal Cavacio (Hist. Cœnob. D. Justin. Lib. VI. p. 267. ed. 1696.); alcuno de’ quali ancora porta il suo nome (Brandolese, Pitture, sculture, architetture, ed altre cose notabili di Padova, p. 97.). Con la sola appellazione di Benedetto Miniatore comparisce nella Supplica da se fatta alla Signoria di Venezia per istampare con privilegio nel 1494. alcuni Dialoghi di Luciano da varii in Latino tradotti; de’ quali un esemplare stampato in carta pecora vide Apostolo Zeno nella Libreria Imperiale di Vienna, ma lacero le prime carte da chi verisimilmente le tolse via per rubarne le miniature, nel rimanente ornato di altre bellissime di mano dello stesso miniatore Bordone (Biblioteca dell’eloquenza italiana, T. II. p. 268.). In altra Supplica per la stampa del suo Isolario, che si fece in Venezia nel 1528, similmente egli si nomina: e Marino Sanudo negli allegati Diarii vi si uniforma scrivendo sotto il giorno 6. Marzo 126: Fu letta una Grazia de M. Benetto Miniador, qual vol far stampar uno libro di tutte le ixole del mar con li nomi antiqui & moderni, siti, costumi, istorie, fabule, & ogni altra cosa a quelle pertinente, opera con gran fatica fatta, che niun per anni diece la possi far stampar sotto pena ec. Et fu posto per li Conseieri, concedendoli quanto el domanda. Fu presa. Se questo Benedetto sia stato padre di Giulio Cesare, ed avolo di Giuseppe Scaligeri, senza lunga discussione, ad esempio del Zeno nel citato libro, non è cosa da farsene decisione.
(107) In casa di Andrea Odoni è il suo ritratto di mano di Lorenzo Lotto, che è molto bello. Vasari nella Vita di Iacopo Palma ec. T. VII. p. 27.
(108) E’ questa la più autorevole testimonianza che ci resti per fissare la patria di Bonifacio; di maniera che va creduto al Lomazzo (Indice del Trattato ec.) al Sansovino (Cose notabili di Venezia, Lib. I. ed. 1561. e Venetia citta nobilissima et singolare, p. 74 t. 84. t. ec.) al Biancolini (Supplem. alla Cronaca di Verona del Zagata T. II. p. 204.) al Bartoli (Pitture di Rovigo p. 268.) ed agli altri che di Verona nativo lo fanno; e rimane insussistente l’asserzionedel Vasari, del Ridolfi, del Zanetti, e degli altri principali Scrittori intorno ad esso, i quali Veneziano lo dicono.
(109) Quando questo pittore non sia Giannetto Cordegliaghi, altrimenti detto Cordella, scolare di Giovanni Bellino, mentovato con lode dal Vasari nella Vita di Vittore Carpaccio (T. IV. p. 318.), e conosciuto per opere dal Boschini e dal Zanetti riferite; io non veggo chi egli si fosse. Qui è detto (forse con qualche confusione) Zuan del Zannin Comandador; ma in appresso si chiama ora Zuanne del Comandador, ora Zannin del Comandador, facilmente presa tal denominazione dall’uffizio che il padre di lui nella Curia Ducale esercitava.
(110) Sebastiano Serlio famoso Architetto e scrittore dell’arte qui s’addita, il quale di avere soggiornato anche in Venezia più indizii nell’opera sua d’architettura ha dati. Nel quarto libro al Capo dodicesimo scrive d’aver ordinato il cielo della grande e copiosa Libraria nel palazzo di questa inclita città di Venezia al tempo del Serenissimo Principe Messer Andrea Gritti. Aggiunge il Conte Fantuzzi negli Scrittori Bolognesi, indotto in errore da altri (T. VII. p. 402.), che questa soffitta dura tuttora, ed è lodata da ognuno. Non è così. Intende il Serlio un soffitto di legname col suo disegno eseguito in una sala del palazzo Ducale, in cui li Codici del Card. Bessarione erano riposti, prima che l’odierna fabbrica della Libreria dal Sansovino fosse costrutta, nella quale il soffitto è ben altra cosa da quello del Serlio; e questo perì nell’incendio del 1574, per cui quella sala con altre del palazzo pubblico rimase abbruciata.
(111) Copioso spoglio di preziose suppellettili del Re di Francia Carlo VIII. fecero li nostri nel fatto d’arme al Taro l’anno 1495. Alessandro Benedetti, Medico di somma riputazione, che nel campo esercitava l’arte sua, nell’Istoria di quella guerra così scrive, secondo la traduzione di Lodovico Domenichi (Lib. I. p. 31. ed. Ven. 1549.): Dell’apparato del Re fu messa a sacco tutta la credenza d’oro e d’argento, e le casse della camera, nelle quali erano i vestimenti, le tapezzarie, e i vasi della tavola, i quali i Re per lunga possession d’imperio avevano cumulato: i libri della cappella, ed una tavoletta ornata di gioie, e reverenda per reliquie sacre: inoltre anelli con gemme preziose. In quella preda vidi io un libro nel quale erano dipinte varie immagini di meretrici sotto diverso abito ed età ritratte al naturale, secondo che la lascivia e l’amore l’aveva tratto in ciascuna città: queste portava egli seco dipinte per ricordarsene poi. E lo scrittore del Commentario de Bello Gallico pubblicato dal Muratori negli Scrittori delle cose d’Italia (T. XXIV. p. 22.): furono presi tutti li carriaggi della Regia Maestà, cioè i suoi argenti, la sua chiesa, la sua spada, il suo elmetto: e questi furono messi nella munizione dell’eccellentissimo Consiglio de’ Dieci, che fino a questo giorno vi si vedono. Fu preso il padiglione regio con tutto il suo mobile avuto nel reame Napoletano. Non è Marino Sanudo che così scriva, come il Muratori ha creduto, che sotto il nome di lui pubblicò quel Commentario: e il Doge Foscarini lo ha bene fatto vedere (Della letteratura veneziana, p. 165.). Io tengo che sia Girolamo Priuli, e che il primo tomo de’ Diarii suoi in quello scritto si contenga; di che il Foscarini nemmeno ebbe sospetto. Scrisse anche il Sanudo quella guerra in un’opera mentovata già da Fra Jacopo Filippo da Bergamo e da Aldo Manuzio ne’ passi dal Foscarini recati: ma questa scrittura non fa parte de’ cinquantotto volumi de’ Diarii suoi, come erroneamente ha creduto l’autore dell’articolo sopra il Sanudo, inserito nel Dizionario degli uomini illustri, colle stampe Remondiniane non ha guari impresso. Il Sanudo medesimo indica quell’Istoria, che non si sa poi ove stia, come opera a parte, incominciando li suoi Diarii dal giorno primo dell’anno 1496. in tal modo: Avendo non senza summa e cotidiana fatica compito di scrivere la guerra Francese in Italia negli preteriti anni stata, e redutta l’opra in magno volume; considerai non esser di dover lasciare di scrivere quello che in Italia accadeva, licet Carlo VIII. Re di Francia vi fusse ritornato nel regno di là de’ monti ec.
(112) Di Taddeo Contarini v’è onorifica memoria nella seguente iscrizione, posta da Gentile di lui figliuolo in una cappella di sua casa sul chiostro di Santo Stefano.
antonio contareno proavo
andreae avo d. marci procvratoribvs
thaddaeo qvoqve patri
senatori integerrimo
et de rep. optime merito
gentilis proton. apostolicvs
et svis et sibi h. m. p.
mdxlv.
cum venerit dies domini
in misericordia eivs resvrgemvs
(113) Nel dar conto che faceva l’Algarotti al Mariette l’anno 1751. de’ quadri comperati in Venezia per Federico Augusto III. Re di Polonia, ne annoverò fra essi uno famoso in tavola, delle tre Grazie, del Palma vecchio, mezze figure al naturale; già posseduto dalla Famiglia Giustiniana, poi dalla Cornara della Cà grande e dal Boschini nella Carta del navegar pittoresco grandemente lodato. Aggiunge poi: Qui non mi starò a dire, che queste Grazie sono vestite e acconciate alla foggia che correva a’ tempi del Palma; essendo a lei ben noto siccome la più parte de’ pittori Veneziani, quanto si sono studiati di dar vita e sangue alle loro figure, e bizzarria alle loro invenzioni; all’incontro della convenienza e del costume pare non se ne siano dati certo pensiero. E benchè queste tre figure potessero per avventura venir prese per ritratti; la testa di quella di mezzo par cavata dalla Niobe: tanto ella è corretta, elegante, e Greca nella sua forma. Il quadro è facilmente quel medesimo che l’anonimo nostro ci ha qui dinotato come contenente tre donne ritratte dal naturale; e così le tre Grazie con la testa della Niobe vanno ad essere fantasie dell’Algarotti, ed il Palma si è bene diportato anche nel dipingere li vestimenti e le acconciature.
(114) Bianca Maria figliuola di Galeazzo Sforza Duca di Milano fu la moglie di Massimiliano I. Imperatore.
(115) Ora s’aggiunge per la prima volta questo ritratto alli tanti altri di Tiziano già conosciuti: sebbene non è cosa insolita il trovarne di quei che siano stati dimenticati da’ principali scrittori; com’è, per un nuovo esempio, quello ancora di Marcantonio Morosini Senatore, lodatissimo dall’Aretino (Lettere, Lib. III. p. 161.) Di Cristoforo Marcello Arcivescovo di Corfù molto e bene ha scritto il Zeno nelle Dissertazioni Vossiane (T. II. p. 122.): ma più diffusamente poi Fra Giovanni degli Agostini, che la Vita ne fece nel tomo terzo degli Scrittori Veneziani; il quale, come accennai del Beazzano scrivendo, inedito se ne rimane.
(116) Anche questo ritratto è opera di Giovanni Bellino prima d’ora non ricordata. Celebratissimo fu Iacopo Antonio Marcello nel secolo quindicesimo per imprese militari felicemente condotte. Egli s’impiegò con valore nella difesa di Brescia e di Verona contro l’esercito del Duca di Milano, acquistò Ravenna Lodi e Piacenza, poi spinse le truppe Veneziane presso a Milano; di maniera che mosso dalla fama di sua bravura Renato d’Angiò Re di Napoli lo fece Capitano generale della squadra che in quel regno teneva; nè mancò egli di vita, sennon pace honestissima eius opera universæ Italiæ data, siccome nell’iscrizione sua sepolcrale a San Cristoforo di Murano si legge. Fu uomo ancor di lettere, e secondo il Sansovino, Orazioni varie ha lasciate (Venetia citta nobilissima et singolare, p. 246.) Sue poesie amorose dice Giovanni Cesinge Unghero Vescovo di Cinquechiese, nominato comunemente Giano Pannonio, di avere trasportate dal volgare in Latino:
Nos in amore rudes, Marcelli lusimus ignes,
Quos modo vulgari luserat ille lyra.
Così Giano medesimo (Epigr. n. 339. T. I. p. 61. ed. Traiect. 1784.) persona molto familiare del Marcello, e che di lui fece un grande Panegirico in versi Latini, replicatamente stampato. Grande fu l’estimazione in cui gli uomini di lettere tenevano questo gentiluomo; la quale chiaramente s’è mostrata in una raccolta di prose e poesie Latine di varii sopra la morte di Valerio figliuolo di lui mancato in età di anni otto; veduta già da Apostolo Zeno in un codice di grande pregio presso il Procuratore Federigo Marcello (Dissert. Voss. T. I. p. 298. 341. T. II. p. 25.), e da me pure esaminato nell’anno 1767. in un grande negozio di libri. V’erano in esso Orazioni e Pistole consolatorie di Niccolò Sagundino, di Giorgio da Trebisonda, di Francesco Filelfo (di cui l’operetta è stampata), d’Isotta Nogarola, di Carlo Fortebracci Conte di Montone, di Montorio Mascarello, di Battista Guarino, e di Pietro Parleone, con un’Elegia Greca del Filelfo da Lodovico Carbone Ferrarese voltata in Latino. Vi mancava però un poemetto che da se il Carbone fece, manoscritto presso di me con altre sue cose; dal quale si conosce che anche Tito Vespasiano Strozzi sull’argomento medesimo aveva scritto. Mancava pure fra que’ componimenti un poemetto consolatorio, che si sa Giano Pannonio aver fatto, ed or non si vede (I. Pannon. Vita p. 236.); non essendo rimaso fra le cose sue a stampa sennon un epitafio di pochi versi sul morto fanciullo (Lib. I. n. 137.): non vi era un’altra versione Latina dell’Elegia Greca del Filelfo, fatta da Lionardo Grifo Milanese, che io vidi manoscritta; nè vi era un Epigramma di Gregorio da Città di Castello, che a stampa si trova ne’ versi suoi coll’Ausonio di Venezia 1472. Sì gran copia di componimenti al certo dimostra che Iacopo Antonio Marcello in molta grazia era presso i letterati del tempo suo.
(117) Francesco II. Gonzaga Marchese di Mantova guerreggiando nell’anno 1509. contro li Veneziani, fatto prigione nel Veronese dal Capitano Lucio Malvezzo, a Vinegia condotto, e posto nella torricella del palagio con guardie, di non poca letizia alla città improvvisamente fue.... e nell’anno appresso fu poi tratto di prigionia, siccome il Bembo scrive (Istoria veneziana, T. II. p. 135. 213. ed. 1790.). In questo intervallo di tempo adunque, per consolazione sua, fecesi il Marchese ritrarre nel quadro qui riferito Isabella d’Este sua moglie, e Lionora sua figliuola per mano di Lorenzo Costa Ferrarese, pittore di riputazione distinta, che alla sua corte teneva. Ora è perduta, o almeno nascosta la pittura; non vedendosi di lei fatto motto nemmeno dall’Arciprete Girolamo Baruffaldi nelle Vite de’ Ferraresi professori delle belle arti; le quali con una prefazione di Giampietro Zanotti, e con giunte copiose del Canonico Luigi Crespi posseggo io in un elegante libro ricopiato accuratamente dal gentiluomo nostro Daniele Farsetti, delle cose di disegno grandemente perito e bravo pittore a pastelli. Non essendo queste Vite mai venute a stampa, ed anzi credendosi perduto l’originale, un’idea generale ne diede l’Abate Comolli nella Biblioteca Architettonica (T. II. p. 209.); io poi di buonissima voglia l’esemplare mio ho prestato al ch. Sig. Ab. Lanzi, che da esso grande profitto ne trasse per porre nel suo lume la Scuola Ferrarese nella Storia pittorica dell’Italia (T. II. P. II. p. 213.).
(118) Ottaviano Sforza figliuolo naturale di Galeazzo Duca di Milano, il quale alla presa di Milano fatta da Lodovico XII. Re di Francia, fu costretto di fuggire dalla sua chiesa, e cadde in bassa fortuna, poi ebbe il Vescovado d’Arezzo, e varie vicende ha incontrate; le quali nell’Istoria della famiglia Sforza dall’Ab. Nicola Ratti riferite sono (P. I. p. 52.). Ricco egli fu di suppellettili preziose, e ciò anche da un passo de’ Diarii inediti di Marino Sanudo ci è indicato; in cui all’anno 1526. descrivendosi l’adornamento del Coro della Basilica di San Marco, per una processione che si faceva all’occasione di lega conchiusa dalla Repubblica contro Carlo V., è scritto così: Fu bellissimamente tutta la chiesa conzà, maxime il Coro con panni d’oro e spalliere del Vescovo di Lodi, pezzi numero otto, con casamenti e teatri ec. Item erano in chiesa alcune spalliere e tornoletti del Sig. Alberto da Carpi, che li ha in questa terra impegnati, quando fu cazzà del stato: etiam un razzo d’oro troncafila, fu del Cardinal Grimani, con due altri razzetti bellissimi e di gran valuta del Patriarca Grimani di Aquileia; in uno è Cristo si cava di croce con assai figure, in l’altro la natività della Madonna.
(119) E’ questo Ambrogio Leone professore di Medicina in Venezia, ed insieme uomo di antichità erudito. Opere sue a stampa vi sono che onore gli fanno, De Nola patria sua, Quæstiones seu Problemata, Castigationes adversus Averroem, De Nobilitate rerum, De Virtutibus, Actuarius de Urinis Latine redditus: ma oltre a queste alcune lasciate inedite ne indica Camillo di lui figliuolo dedicando nell’edizione di Venezia 1525. il Dialogo de Nobilitate rerum ad Enrico Orsino Prencipe di Nola; cioè De Bisexto, De I & E, Dialogus de vi ridendi cui nomen Gallucia, Lucubrationes in sextum Metaphysices, De signis pluviarum & ventorum, Annotationes in theriacam. Erasmo di Roterdam lo conobbe in Venezia, e concepì grande stima di lui, riguardandolo come uno de’ ristoratori della Medicina. Lettere reciproche di ambedue fra quelle di Erasmo si trovano a stampa; in una delle quali questo scrive ad Ambrogio: Græcas litteras iam canescens, & tamen feliciter, amplexus es gravi exemplo (Ep. CCCCLXVI.), e ciò prendendo a maestro Marco Musuro che quelle in Venezia professava pubblicamente (Ambr. dedic. Castig. in Averroem ad Leon. X. 1517.). Anche di Musica Erasmo lo fa dotto e pratico assai; ed esponendo il proverbio Bis per omnia sopra l’armonia (Chiliad. I. Cent. II. Prov. 63.) ne adduce una particolare di lui spiegazione, ma premettendovi queste belle parole: Cum hæc meis illinirem commentariis, forte fortuna supervenit Ambrosius Leo Nolanus, philosophus huius tempestatis eximius, & in pervestigandis disciplinarum mysteriis incredibili quadam diligentia solertiaque præditus, neque vero mediocriter exercitatus evolvendis & excutiendis utriusque linguæ scriptoribus. Delle cose di disegno aveva egli pure conoscenza e prendeva diletto a trattarne; talchè scrivendo de nobilitate rerum (Cap. 41.), inserì notizie di due lavori di Daniele Arcioni, ignoto lavoratore a niello ed a smalto in Milano, e di Caradosso Foppa da Pavia, altramente detto Milanese, plasticatore ed orefice eccellente già conosciuto; le quali è bene che coll’eleganti parole dell’autore qui si riportino. Quin etiam nostra tempestate duorum Mediolanensium genere, sculptura clarissimorum, opera subtilissima & ingeniosissima florescunt atque prædicantur. Alteri Caradossus, alteri Danieles ex familia Arcionum nomen est. Verum hic in eo genere præsertim pollet quod niellum novato verbo appellant, neque aliter in eo splendet quod vitreum est, ipsi vero fusores smaltum vocant. Nam in hisce tanta subtilitate & ratione hic usus esse probatur, ut ab omnibus in ea arte claris summo honore habitus sit. Quid quod opera eius tam mira digestione iuncturaque & gratia gaudent, ut antiquorum signa præclarissima ad certamina convocare valeant; inter quæ salinum confecisse constat ex quatuordecim unciis argenti. Est autem uncia pondus septenorum aureorum cum dimidio aurei; quod Roma invenit qui septicentis aureis emit. Nam aureus est nummus ex auro impressus octoginta granorum tritici pondere. Caradossus vero eductis imaginibus eminentibusque & sculptis nitidior, is quidem tum externorum, tum Italorum palmam tulit. Nam excellenti acumine vel artis, vel ingenii sua prolata sunt, quæ a Praxitele, Lysippove, an a recentiori efformata sint, vel periti vix profecto iudicabunt. Exstat enim eius calamarium, ut cetera præeclara & nobilia omittamus, ubi omnes artis facultates censentur adesse, quodque ulterius progrediendi ingenio locum non reliquisse visum est. Nam in uno illius latere nudi equis insidentes spectantur, qui auxilio cuidam puero venerant, quem aquila eripuerat in cœlum; illi vero suspicientes aliter puerum deportantem, eum animum propositumque ostendunt, ut evolare cum equis quoque velle videantur, ubi eis figuris raptum Ganimedis ostendit. In altero pugna Centaurorum cum Lapithis est. Tertio latere Hercules est qui Cacum suppositum, lævaque gutture illius presso, & genu altero cum violentia quadam stomachum calcante, alteraque os stringente compulsat. Quarto vero Hercules leonem exossans spectatur, adeo pulchre exculptus, ut hominem ira percitum, leonem dolore gementem prope sentiretis. Ex quibus lateribus, ob subtilitatem & operis excellentiam plurimæ sulphureæ tabellæ fusæ sunt, quibus per totam Italiam opus summa cum admiratione spectatum est. Pro quo Ioannes Aragoneus Ferdinandi filius mille & quincentos aureos spopondisse fertur. Mancò di vita questo assai letterato Medico nella città nostra; e di ciò Marino Sanudo ne’ Diarii citati fece il ricordo seguente: 1525. 30. Giugno. Morite ieri sera Domino Ambrosio da Nola Dottor Medico, di anni 66, dottissimo in Greco e Latin. Ha composto e tradutto più opere. È morto in zorni 2. apopletico. Il corpo fu portato questa mattina in Chiesa di S. Salvator, e doman sarà sepulto a S. Bortolamio, e se li farà una Orazion funebre. Ha qui uno fiol nominato Camillo Dottor etiam lui in Medicina e dotto.
8. detto: per uno Dottor in Medicina Venezian, nominato Domino Rizardo di Rizardi, va in pratica con M. Marin Brocardo, li fu fatta una Orazion funebre.
Gioveranno queste notizie a supplimento di quel che Gianbernardo Tafuri ha leggiermente detto intorno ad Ambrogio Leone negli Scrittori del regno di Napoli T. III. P. I. p. 158.
(120) Niccolò Avanzi Veronese, d’onorata famiglia, lavorò in Roma privatamente cammei, corniole, ed altre pietre, che furono portate a diversi Principi: ed hacci di quelli che si ricordano aver veduto in un lapislazulo largo tre dita di sua mano la natività di Cristo con molte figure, il quale fu venduto alla Duchessa d’Urbino, come cosa singolare. Così il Vasari nella Vita di Valerio Vicentino ed altri (T. VII. p. 119). Un insigne Cammeo dell’Avanzi, che rappresentava Alessandro il grande, è portato nella Dattilioteca del Zanetti, Tavola seconda, e dal Gori illustrato.
(121) Forse però la medaglia qui riferita era una di quelle tante che da una parte ha la testa di Aretusa coronata di spighe di frumento, o di orzo, ovvero di margarite, non di fiori d’aloè, e con li delfini all’intorno; delle quali gran numero il Paruta ne porta nella Sicilia Numismatica, per tacere de’ moderni scrittori di medaglie, che molte più ne presentano.
(122) Fa memoria il Sansovino nella Descrizione di Venezia (p. 4. t.) come di cosa notabile, che nella Chiesa di Santa Maria delle Vergini v’è in aria un bellissimo sepolcro di marmo di Francesco Giglio, che ne’ suoi tempi si dilettò molto della scoltura e della pittura, nelle quali due fessioni fece per lungo tempo conserva di rare ed esquisite cose. Questo è il possessore dall’anonimo qui nominato, ma nell’indicazione dell’anno 1512. sembra esservi errore.
(123) Giovanni Girolamo Bresciano è messo fra li migliori pittori del suo tempo da Paolo Pino, nel Dialogo della Pittura (p. 24. ed. Ven. 1548.).
(124) Di Giovanni Scoorel Olandese, nato l’anno 1495, e morto il 1560, dietro a quanto Carlo van Mander ha scritto in un’opera intorno a’ pittori Fiamminghi, trattò diffusamente il Baldinucci (Decen. III. P. I. Sec. IV.) e poco più vi aggiunse il Descamps (Vies des Peintres Flammands ec. T. I. p. 50.). Fu egli bravo pittore in ogni sorte di opere, ed anche oratore, poeta, e musico. Girò per l’Italia, ed in Venezia ebbe dimora più d’una volta, portatovisi per un viaggio che fece nella terra santa. Strinse amicizia presso di noi con Daniele Bombergo d’Anversa, non già pittore, siccome lo chiamano il Baldinucci ed il Descamps, forse ricopiando il Van Mander, ma stampatore di libri Ebraici per lungo tempo e con gran lode di accuratezza.
(125) Di bell’ingegno e di costumi gentili fu Giovanni Michele, che qui ed altrove fautore dell’arti nobili apparisce; onde l’Aretino nel 1546. gli scriveva così: Lo Studio di Padova seppe così dolersi, quando dei suoi professori vi partiste, come sanno qui (in Venezia) rallegrarsi la caterva dei vertuosi aiutati, onorati, e favoreggiati da quella sì propria vostra mansuetudine, che pare che altri non abbia punto che fare nelle umanità dei naturali suoi benigni costumi (Lett. Lib. III. p. 343. t.).
(126) Di questa tazza medesima, opera di Pietro Maria da Pescia, se male non m’appongo, nascosta all’entrata del Re Carlo VIII. di Francia in Roma l’anno 1495, addietro s’è fatta menzione fra le cose di Andrea Odoni.
(127) Giovannantonio Veniero, mentovato come uomo eloquente dal Paruta, da Pietro Giustiniano, e da altri storici nostri, s’adoperò con lode di prudenza singolare e di splendidezza in ambascerie al Re di Francia, presso cui fu due volte, ed a Carlo V. Imperadore due volte parimente, prima alla sua residenza, poi quando venne nel Veronese per portarsi all’impresa d’Algieri. Dopo andò Luogotenente a Udine, e di là passò ambasciatore a Roma, dove grande onore si fece. Il Bembo n’è testimonio, di cui sono queste parole in lettere a Giammatteo suo nipote di là scritte l’anno 1546: Il clarissimo M. Giovan Antonio Venier è fatto molto mio, ed io tutto suo, che lo vedo di ottimo animo e di singolar valore, e fa per somma eccellenza il suo officio, e vive da vero gentiluomo, e splendidamente..... Certo è ch’ei merita somma laude, e nostro Signore ne fa un gran caso..... È un grande uomo da bene, e molto prudente gentiluomo, e molto amato ed estimato da nostro Signore. Io per la sua virtù gli son fatto affezionatissimo, e lo amo ed onoro con tutto l’animo.
(128) Nè di questa sì dettagliata pittura, nè delle altre di Raffaello dall’anonimo nostro indicate alcuna menzione vedesi fatta da’ principali scrittori intorno all’immortale pittore. Per vero dire, il breve corso di vita, ch’ebbe Raffaello, deve renderci molto guardinghi ad accordargli nuove opere, oltre quelle che per sue sono già riconosciute: e nientedimeno la testimonianza, che qui ci si presenta per antichità e sincerità è autorevole non poco. Non rimane dunque, per salvare ogni riguardo, sennon da riflettere che tutto poi il maestro colle mani sue non fa; ma di quelle ancora de’ migliori scolari in molta parte del lavoro si giova.
Dopo tanto che di Raffaello fu scritto dal Vasari e da suoi comentatori, dall’Anonimo scrittore della Vita di lui, prodotta in Roma l’anno 1790, e riprodotta ivi l’anno seguente dall’Ab. Angelo Comolli, che copiose annotazioni vi fece, dal Mengs, dal Lanzi, e da altri; nulla mi trovo avere che a questo luogo aggiungere si possa, fuorichè un pezzo di Lettera di Marcantonio Michele, gentiluomo Veneziano, il quale al tempo della morte di Raffaello trovandosi in Roma, ad Antonio Marsili Veneziano la scrisse, con belle notizie e saggie riflessioni. Fu serbato questo monumento nell’originale dettatura da Marino Sanudo ne’ copiosi Diarii Storici, altre volte allegati, esistenti nella Regia Biblioteca di San Marco; ed è come segue.
Summario di una Lettera di Ser Marco Antonio Michiel de Ser Vettor, data a Roma a’ dì xi. April 1520. drizzata ad Antonio di Marsilio in Venetia.
Sta in San Gioanni una pietra sopra quattro colonnette alla altezza della misura di Cristo, sotto cui dicono alcuno non intrare che se agguagli, sicchè o non sii maggiore, o minore. Il Sanuto vi si è agguagliato appunto appunto: di che vi rallegrarete con lui. Venne qui con il Contarini. Siamo stati a vedere le antiquitati quanto ha patito il tempo.
Il Venerdì Santo di notte venendo il Sabbato a hore 3. morse il gentilissimo & excellentissimo pictore Raphaelo de Urbino con universal dolore de tutti, & maximamente delli docti; per li quali, più che per altrui, benchè ancora per li pictori & architecti, el stendeva in uno libro, siccome Ptolomeo ha isteso il mondo, gli edificii antiqui de Roma, mostrando sì chiaramente le proportioni forme e ornamenti loro, che haverlo veduto haria iscusato ad ognuno haver veduta Roma antiqua: & già havea fornita la prima regione: nè mostrava solamente le piante delli edificii & il sito, il che con grandissima fatica & industria delle ruine s’avia raccolto; ma ancora le faccia con li ornamenti, quanto da Vitruvio & dalla ragione della Architectura & dalle istorie antiche, ove le ruine non le retenevano, havea appreso, expressissimamente designava. Hora sì bella & lodevole impresa ha interrotto morte, havendosi invidiosa rapito il mastro giovine di anni 34, & nel suo istesso giorno natale. Il Pontefice istesso ne ha havuto ismisurato dolore, & nelli XV giorni, che è stato infermo, ha mandato a visitarlo & confortarlo ben 6. fiate. Pensate che debbiano havere fatto gli altri. Et perchè il palazzo del Pontifice questi giorni ha manazato ruina, talmente che Sua Santità se ne è ito a stare nelle stanze de Monsignor de Cibo; sono di quelli che dicono che non il peso delli portici sopra posti è stata di questo cagione, ma per fare prodigio che il suo ornatore havea a mancare. Et in vero è mancato uno excellente suo pare, & del cui mancare ogni gentil spirito si debbia dolere & rammaricare non solamente con semplice & temporanee voci, ma ancora con accurate & perpetue composizioni; come, se non m’inganno, già preparano di fare questi compositori largamente. Dicesi che ha lassato ducati 16. millia, tra quali 5000. in contanti, da essere distribuiti per la maggiore parte a’ suoi amici & servitori, & la casa, che già fu de Bramante, che egli comprò per ducati 3000, ha lassata al Cardinal de Santa Maria in Portico. Et è stato sepolto alla Rotonda, ove fu portato honoratamente. L’anima sua indubitatamente sarà ita a contemplare quelle celesti fabbriche che non patiscono oppositione alcuna, ma la memoria & il nome resterà qua giù in terra & nelle opere sue, & nelle menti degli huomini da bene longamente. Molto minor danno, al mio giuditio, benchè altramente para al volgo, ha sentito il mondo della morte de M. Agustino Gisi, che questa notte passata è mancato, di cui poco vi scrivo, perchè ancora non intendo quel & quanto habbia ordinato. Solum intendo haver lassato al mondo tra contanti, debitori, danari imprestati di pegni, allumi, beni stabili, danari in banchi che guadagnavano, officii, argenti & zoglie, ducati 8000 millia. Dicesi Michiel Agnolo esser ammalato a Fiorenza. Dite adunque al nostro Catena che se guardi, poichè el tocca alli excellenti pittori. Iddio con voi. In Roma &c.
Sarà facilmente stato sbaglio del Sanudo l’avere trascritto il 34. negli anni dell’età di Raffaello; essendo fuori di dubbio che morì d’anni 37. Ma di osservazione degnissimo è quanto il Michele scrive sopra l’opera da Raffaello incominciata, di prendere in disegno e rappresentare Roma antica, e da lui lasciata imperfetta; non già compiuta come ci vorrebbero dare ad intendere Andrea Fulvio (Præfat. in Antiq. urb. Rom.) e l’Anonimo scrittore della Vita di Raffaello (p. 81. ed. 1791.); al contrario di quello che dicano anche Celio Calcagnino (Epistol. ad Iacob. Zieglerum p. 101. ed. Oper. Basil. 1544.) ed il Giovio (Vita Raphael. apud Tiraboschi Stor. Lett. Ital. T. VII, p. 1722.), li quali fanno morto Raffaello in continuazione di lavoro. Tutto il di più che intorno a quella impresa nobilissima merita di sapersi, dopo averne usate le maggiori ricerche, con molta erudizione e fino discernimento lo ha esposto il ch. Sig. Ab. Daniele Francesconi nel libro in questi giorni stampato in Fiorenza col titolo di Congettura che una Lettera creduta di Baldessar Castiglione sia di Raffaello d’Urbino. Molto più di quel che il frontispizio mostri l’opera contiene; facendovisi vedere che la bella Lettera a Papa Leone X sopra l’idea e il modo di prendere in disegno le antichità di Roma, fra quelle del Castiglione già impressa come sua, non è scritta in nome di lui proprio, ma bensì in persona di Raffaello. Indubitata dettatura di Raffaello è la Lettera sua autografa, posseduta dall’Eminentissimo per dignità e per erudizione Signor Cardinale Borgia; la quale per conoscere le scritture di lui può servire di paragone.
Poche parole s’aggiungano intorno al Michele. Egli fu di eleganti lettere ornatissimo, ed in alta estimazione avuto da’ principali uomini che in esse al suo tempo fiorirono, Bembo, Sadoleto, , Tebaldeo, Sannazaro, Colocio, Negro, ed altri simili. Girolamo Ruscelli poche, ma belle notizie di sua persona e de’ suoi studii e scritti ha poste innanzi alle Lettere di Girolamo Negro a lui scritte, e nel primo volume di quelle de’ Prencipi impresse. Al proposito presente però è da osservarsi che il Serlio non solamente alla fine del libro terzo dell’Architettura lo chiama consumatissimo nelle antichità; ma nello stesso (p. 146. t. ed. 1562.) descrivendo il palazzo reale fuori di Napoli, detto il Poggio, dichiara d’averne da lui avuto il disegno con queste parole: Di questo M. Marcantonio Michele Patrizio nobile di questa Città, molto intendente di architettura, e che ha veduto assai, e dal quale io ebbi questo ed altre cose, ne ha trattato a pieno in una Epistola Latina drizzata ad un suo amico. L’Aretino poi non ebbe difficoltà di scrivergli: Sopra tutto l’architettura, la pittura, e la scoltura comprende ogni sua gloria nelle avvertenze vostre acutissime (Lett. Lib. III. p. 245. ed 1609.).
(129) Sono famosi gli arazzi lavorati nella Fiandra sopra li cartoni di Raffaello, per ordine di Papa Leone X, e conservati nel palazzo Vaticano sino a questi ultimi tempi, ne’ quali a Parigi sono passati: ed abbastanza note pur sono le stampe fattene da Marcantonio, da Agostino Veneziano, da Dorigny, da Gribelin, e da altri. Il Vasari, il Bottari, il Richardson, il Comolli gli hanno riferiti; ma diffusamente poi di essi ha scritto l’Abate Cancellieri nella Descrizione delle Cappelle Pontifizie e Cardinalizie di tutto l’anno, stampata in Roma nel 1790, a carte 287. e seguenti. Non è bene conosciuto il numero di quegli arazzi che sopra cartoni da Raffaello furono tessuti: si sa però che in Roma recentemente li pezzi erano venticinque, ed ora in Parigi sono quattro di meno, tutti non si fanno di merito eguale, nè tutti appariscono da cartoni di Raffaello provenuti (Magasin Encyclopedique An. III. 1797. T. III, p. 379. & suiv.). Scrive il Cancellieri che „donati essi furono da Francesco I. a, Leone X per la canonizzazione di San Francesco di Paola, e poi rubati nel sacco di Borbone: Ma essendo andati nelle mani del Duca di Montmorency, furono da esso rimandati in Roma sotto Giulio III, come fa conoscere un’iscrizione tessuta nel lembo di quello che esprime la Conversione di San Paolo al n. vi. e dell’altro che lo rappresenta mentre predica, nell’Areopago al n. ix. Urbe capta, partem aulæorum a prædonibus distractorum Comestabilis Anna Mommorancius Galliæ militum Præfectus restaurandam atque Iulio III. P. M. restituendam curavit„. Quanto all’esserne stato fatto donativo da Francesco I. a Papa Leone, non trovo scrittore che lo confermi; anzi comunemente si scrive che il Papa se li facesse fare colla spesa di settanta mille scudi. Tutto il resto della narrazione andando bene, chiaro si vede che questi due pezzi d’arazzi dal Veniero posseduti erano di quei che il Montmorency ha ricuperati; e questi medesimi vengono anche indicati fra quei che a Parigi presentemente si trovano. Scrive poi coerentemente l’anonimo nostro all’indicazione che altrove ne dà del cartone della Conversione di San Paolo come già posseduto dal Cardinale Domenico Grimani, dopo la di cui morte venne in potere di Marino Grimani di lui nipote Patriarca d’Aquileia e Cardinale: e della Predicazione di San Paolo dice parimente bene che era divulgata in stampa, perciocchè un bell’intaglio in rame Marcantonio ne avea già dato fuori.
(130) Domenico Grimani, grande ornamento di sua patria, cui dapprima avendo servito ottenne il Senatorato, poi anche del Collegio Cardinalizio, a cui Papa Alessandro VI. lo ascrisse, ebbe grande riputazione d’intelletto profondo nelle scienze sacre e profane. Piene sono di sue lodi le dedicazioni che molti letterati uomini a lui fecero delle opere loro, come ad altro Mecenate de’ tempi suoi; ed anche Erasmo di Roterdam intitolando ad esso la Parafrasi dell’Epistola di San Paolo alli Romani, gli scriveva così: Interea Pauli fragmentum docti viri libentius amplectentur, si tuis istis manibus porrigetur, qui studiorum omnium, præsertim eorum quæ cum linguarum peritia coniuncta sunt, mirum quendam Mecœnatem agas, sic nihilominus intigritate morum conspicuus, ut inter clarissima lumina tamen eluceas atque emineas; non ita quidem ut aliis offundas tenebras, sed ut per se illustribus & ornatis plurimum addas lucis & decoris. Introdusse egli nella famiglia propria l’amore e la protezione delle arti nobili, facendo raccolta di bei monumenti di esse, sì antichi, come moderni; ed ebbe del suo genio in sì bell’impresa seguaci ed imitatori ne’ suoi posteri specialmente Marino Cardinale e Patriarca d’Aquileia, e Giovanni pure Patriarca d’Aquileia, con alcun altro anche a tempi recenti. Il fondo maggiore dell’anticaglie sue da Roma veniva, sapendosi da’ Diarii manoscritti di Marino Sanudo, altre volte citati, che nell’anno 1505. a Girolamo Donato ed altri ambasciatori Veneziani al Papa, dopo di averli lautamente trattati a pranzo, mostrò gran copie de figure de marmo, e molte altre cose antiche, tutte trovate alla sua vigna, sotto terra, cavando per la fabbrica del palazzo che ’l fa edificare in essa. Busti d’Imperatori, statue intere, ed altri notabili pezzi vi aveva; li quali poi morendo nel 1523. lasciò alla patria insieme con altre preziose suppellettili. Di ciò fa fede anche il Sanudo scrivendo del testamento di lui: Item lassa un balasso di valuta di ducati 4000. e certi quadri bellissimi, è a Muran nel Monasterio di Santa Chiara, a suo fratello Vicenzo. Item lassa al Patriarca d’Aquileia suo nipote tutte le sue medaglie d’oro d’argento e di rame, & etiam li lassa parte del suo mobile. Item lassa alla Signoria tutti li soi bronzi e marmi, da esser adornado una sala per sua memoria. Item uno safil in cuor, fu di Bembi, val Ducati 3000. in circa..... Item lassa al Papa una zoia e una Pase; & alla Signoria il suo Breviario bellissimo poi la morte del Patriarca: al qual Patriarca lassa tre casse di libri: il resto li libri, dove è signà il suo nome, lassa alla Signoria per far Libraria a Santo Antonio. Ebbe principio da questo legato il Museo pubblico di Venezia; perciocchè il Doge Gritti fece collocare que’ pezzi d’antichità in una stanza del Palazzo Ducale, che poi ad uso di chiesiuola fu ridotta, e per memoria un’iscrizione fatta dal Card. Bembo vi fu posta; ma con alterazione, siccome lo Stringa la riporta nelle giunte alla Venezia del Sansovino (p. 231. t. ed. 1604), e non sincera, siccome nelle Lettere del Bembo si legge (Vol. 2. p. 84. ed. Ven. 1552.). In appresso quelle anticaglie tutte con molte di più aggiuntevi da Giovanni Grimani Patriarca d’Aquileia e dal Procuratore Federigo Contarini, furono collocate, a norma della distribuzione fattane dallo Scamozzio, nell’atrio della Libreria di San Marco; ed ora vanno alle stampe le più belle di esse, con molta bravura e grande splendidezza intagliate in rame.
Di pitture quanto ricco fosse il Cardinale Domenico Grimani, non lo si saprebbe, senza la notizia che dall’anonimo ora ci viene. S’aggiunge che il Sanudo ne’ Diarii citati registrando la memoria d’un apparato fatto l’anno 1526. nella chiesa di Santa Maria Formosa per l’andata solita del Doge a’ due di Febbraro, scrive che tra le altre cose erano due antiporte d’oro a ago soprarizzo, fu del Card. Grimano; item altre d’oro e di seda, pur del detto Cardinal; e tra le altre alcuni quadri fatti a Roma di man di Michiel Angelo bellissimi, pur del detto olim Cardinal: e vidi do ritratti come el vivo, dal busto in su, de bronzo, videlicet il Serenissimo M. Antonio Grimani & il suo fiol Cardinal Grimani. Per meglio conoscere poi il bel genio di questo grand’uomo favorevole ad ogni sorte di gravi ed ameni studii, si noti ch’egli ebbe anche Libreria insigne e doviziosa di codici manoscritti Ebraici, Caldei, Armeni, Greci, Latini, ed Italiani, stati in gran parte di Giovanni Pico della Mirandola (Io. Franc. Pic. Epist. ad Maximilian. Imp. Epistolar. Lib. 3.), e lasciolla per pubblico comodo alli Canonici Regolari di Sant’Antonio di Castello; presso li quali divenne famosa per l’uso che nelle stampe se n’è fatto, poi sul finire del passato secolo perì per incendio miserabilmente. Marino nipote di Domenico, Cardinale e Patriarca d’Aquileia, continuò pure a favorire gli artefici di disegno. Giulio Clovio miniatore insigne a lui deve la sua fortuna, e celebrità; ed il Vasari, che ciò dimostra, racconta che fra i lavori per esso fatti si estimavano specialmente un Ufizio di nostra Donna con quattro bellissime istorie, un Epistolario con tre istorie grandi di S. Paolo, una Pietà, ed un Crocifisso.
Ma quello che fra li Grimani si è in singolare maniera distinto per lo studio dell’antichità, e per il favore delle belle arti, fu il Patriarca d’Aquileia Giovanni. Egli fece fabbricare in Venezia nella contrada di Santa Maria Formosa il palazzo che tuttora si vede; opera ben intesa, magnifica, ed ornatissima, ordinata da Michele Sammicheli, se al Temanza crediamo (Vite dei più celebri architetti, e scultori veneziani, T. I. p. 177.); ma dal Patriarca stesso architettata, se stiamo alle parole di Muzio Sforza, il quale dedicando a lui le sue Elegie sacre stampate in Venezia nel 1588. gli dice: Quo ingenti acumine polleas, superbissimæ sacrarum ædium machinæ, ac tuæ domus mirifica œconomia ac structura, tua instructione, velut optimi architecti, exædificata, testantur. Nam ædificandi magnificentia ne ipsis quidem Imperatoribus Romanis cedis. Un cortile v’è di bella simmetria, di statue, bassirilievi, iscrizioni, vasi, ed altre anticaglie nobilmente fornito; e fra esse s’ammirano le due famose statue colossali di Marco Agrippa e d’Augusto; la prima delle quali nella Descrizione del Levante del Pococke va intagliata in rame (Description of the East. London 1743. T. II p. 212. Tab. p. 97.). Altri di que’ monumenti ne’ libri a stampa di varii illustrati s’incontrano, specialmente di Stefano Vinando Pighìo, dello Spon, del P. Montfaucon, del Marchese Maffei, del Pococke, del Bocchi, del P. Paciaudi, del Winckelmann, e d’altri. Le scale e le stanze abbondano di stucchi d’ottimo gusto, e di pitture a fresco di Giovanni da Udine, di Francesco Salviati, e di altri primarii artefici. Un libricciuolo recentemente stampato di tutto ciò dà l’indicazione, ma leggiermente; di modo che muove maggiore curiosità di farne conoscenza.
Medaglie antiche il Patriarca n’ebbe in grandissima copia, e perciò da Enea Vico potè con ragione scriversi d’una medaglia di Cesare: Nummus hic, præter ceteros complures conspicuos, apud humanissimum liberalissimumque, & in omni genere veterum signorum ditissimum principem, Ioannem Grimanum Aquileiensem Patriarcham, tum doctrinæ, tum virtutis ac pietatis laude nemini secundum, habetur. (C. Iul. Cæsar. Numismata p. 38.). E di medaglie non solo, ma di altre antichità ancora quanto grande raccoglitore fosse, così altrove lo attesta: Ma il Reverendissimo Mons. Giovanni Grimani Patriarca d’Aquileia, Signor d’alto governo e di molta prudenza, e non meno illustre per le ottime e reali virtù sue, che chiaro per nobiltà di sangue e di dottrina sacra, tanto stupisce ogni dì più del valore degli antichi, che per riavere i frammenti dell’antichità che già furono del morto suo fratello Cardinale (Marino) diede tre mila scudi: delle quali la maggior copia fu di medaglie e di preziosi cammei di tanta rara e suprema bellezza, che per il Museo di questo magnanimo Signore si può largamente giudicare la eccellenza e ricchezza dell’età de’ Gentili. (Discorsi sopra le medaglie degli antichi. Ven. 1555. p. 53.) Il Vico medesimo, il Goltzio, ed altri non poche medaglie citano distintamente, state loro comunicate dall’illustre posseditore. Di cammei incomparabile tesoro egli ne adunò; sapendosi che il celebre Senatore Peiresc non dubitò di affermare d’averne presso lui veduti trecento di rari. (Gassendi, Viri illustris Nicolai Claudii Fabricii de Peiresc, senatoris Aquisextiensis, vita, p. 33. ed. Hag. Comit. 1651.): de’ quali un insigne avanzo trovavasi nell’armadio, ovvero scrigno di ebano, sparsamente con essi adornato, in una Sala del Consiglio de’ Dieci; ed il Pignoria nelle annotazioni alle immagini degli Dei del Cartari ne riferisce non pochi. Libreria vi aveva ricca di testi a penna, conservati in buon numero anche sino al tempo del P. Montfaucon e di Apostolo Zeno, che gli hanno ricordati con lode (Diarium italicum, p. 39. Lettere di Apostolo Zeno, T. I. p. 28. 34. ec.). Non è pertanto da farsi maraviglia veruna, se per conoscere tante rarità con agio e diletto Enrico III. Re di Francia ed Alfonso II. d’Este Duca di Ferrara nell’anno 1574. un intero giorno a considerarle vi hanno impiegato, e ne rimasero pieni di ammirazione (Sansovino, Venetia citta nobilissima et singolare, p. 138. t.).
(131) Isabella figliuola di Giovanni I. Re di Portogallo passò in matrimonio con Filippo il Buono Duca di Borgogna l’anno 1429, e morì nel 1472. (Genealogies Historiques des Maisons Souveraines, T. IV. p. 32.). Il pittore Giovanni Memmelinck è già noto per quello che altrove di lui s’è detto.
(132) Alberto van Ouwater di Harlem, che fiorì intorno alla metà del Secolo quindicesimo; di cui scrive il Baldinucci, con la guida del Van Mander, ch’era concetto ed opinione universale fra’ pittori che operavano nel 1600, che egli fosse stato il primo che oltre a’ monti e ne’ Paesi Bassi avesse dato cominciamento al bel modo di far paesi. (Dec. VI. P. II. Sec. III. p. 15. T. IV.).
(133) Le varie citazioni di carte numerate, che fa l’autore descrivendo le pitture del Card. Grimani, mostrano che opera maggiore sopra cose di disegno egli aveva composta; alla quale la Notizia presente ha relazione.
(134) Giovacchino Patenier di Dinant nel Liegese, che riuscì felicemente ne’ paesaggi, vissuto sul cominciare del secolo decimosesto, e commendato per distinto merito presso il Baldinucci (Dec. II. Sec. IV. T. IV. p. 228.).
(135) Comunemente è cognominato Boss. Fu vecchio pittore, nativo di Bois le Duc nel Brabante, e sebbene de’ primi che trattassero la pittura ad oglio, riuscì alquanto più morbido degli altri. Applicossi sovente a rappresentare terribili e mostruosi soggetti, e come scrive il Lomazzo (Lib. VI. Cap. 26. p. 350.) nel rappresentare strane apparenze e spaventevoli ed orridi sogni fu singolare e veramente divino. Stanno perciò nel suo carattere li tre quadri qui riferiti: anzi l’Inferno di sua mano è cosa solita a trovarsi (Vander Mander presso il Baldinucci Dec. III. P. I. Sec. IV. T. V. p. 8.). Opere due di lui si veggono in una stanza che serviva già al tribunale de’ Capi del Consiglio de’ Dieci.
(136) Non più inteso è il nome di Iacopo di Barberino fra li pittori Veneziani, ed al solo anonimo nostro se ne deve quel poco che di lui ora si sa. Da ciò può farsi nuovo argomento, che de’ vecchi pittori nostri piena notizia non abbiamo, nemmeno da’ principali scrittori che ne hanno trattato. Alcuni esempi in confermazione di questo sentimento non fia discaro l’addurre. Di certo Perenzolo, che nel 1335. era già morto, ed aveva lasciato disegni ed intagli, d’un Marco pittore, e d’un Paolo parimente pittore, allora viventi, che avevano disegnato per arazzi, ed il primo aveva anche fatte finestre di vetro con pitture, si hanno notizie in alcuni Ricordi d’Oliviero Forzetta Trevigiano pubblicati dall’eruditissimo Canonico Avogaro nel Trattato delle Monete di Trevigi (p. 151.). Non sembra questo Paolo diverso da quello che ha una tavola di buon lavoro nella sagrestia di S. Francesco di Vicenza con la leggenda MCCCXXXIII. Paulus de Venetiis pinxit hoc opus (Valle sopra il Vasari T. XI. p. 108.); nè da quello che il Zanetti trovò aver ricevuto pagamento per una pittura fatta in Venezia nel 1346. (Della pittura veneziana, p. 16. sec. ed.); nè finalmente da quello che fece una pittura nella Basilica di S. Marco, riferita dal Lanzi (T. II. P. I. p. 4.). Nella terra di Sant’Arcangelo, presso li Frati Minori Conventuali un grande trittico si conserva, con nostra Donna nel mezzo e varii Santi alle bande, e queste parole MCCCLXXXV. Iachobelus de Bonomo Venetus pinxit hoc opus. Nella terra di Verrucchio, presso gli Agostiniani una Croce v’ha, alta circa quattro palmi, molto ornata, con Gesù Cristo dipintovi e li simboli dei quattro Evangelisti nelle testate, e scrittovi MCCCCIIII. Nicholaus Paradixi Miles de Veneciis pinxit & Chatarinus Sancti Luce inaxit. Sonomi note queste due pitture, per avermele cortesemente indicate il Sig. Ab. Gaetano Marini, amico mio pregiatissimo, e uomo di quella grand’erudizione e gentilezza singolare che a’ letterati è ben nota. Andrea Amadio non va dimenticato, quando pure altro fatto non avesse, che dipingere l’Erbario famoso di Benedetto Rino, opera dell’anno 1415, manoscritta nella Regia Libreria di San Marco; in cui le erbe essendo con sì maravigliosa bravura al naturale rappresentate, ut natas paginis illis suis, non effigiatas credas, come disse Pandolfo Collenuccio, che lo vide tre secoli fa in una nostra speziaria (Pliniana defensio Pandulphi Collenucij Pisaurensis iurisconsulti aduersus Nicolai Leoniceni accusationem, Cap. 3.), l’autore nella prefazione ebbe a scrivere: Non parvo mihi collato favore pro huius operis complemento in designatione formæ primæ Simplicis cuiusque per Magistrum Andream Amadio Venetum pictorem sublimem &c. Un Brancaleone pittore Veneziano poco dopo la metà del secolo quindicesimo andò a farsi onore nell’Abissinia (Bruce, Voyage en Abyssine, T. III. p. 161.). Giovanni Boldù gettatore di medaglie nel secolo medesimo in tutte quelle che Apostolo Zeno vide è detto Pictor & ζωγράφος; (Lettere di Apostolo Zeno, T. VI. p. 327. sec. ed.). Non dubito che altri non ve ne siano; massimamente osservando che il solo Sansovino nella Descrizione di Venezia tratto tratto presenta più nomi di pittori per anco ignoti, sopra li quali facendo ricerca, curiose notizie trovar si potrebbero.
(137) Alberto Durero ci viene mostrato in Venezia nell’anno 1506. da alcune sue lettere scritte in idioma Tedesco a Bilibaldo Pircheimero, e pubblicate dal ch. Sig. de Murr nel Giornale Tedesco delle Arti e di Letteratura (T. X. p. 1. e seg.). Da esse raccogliesi che in questo soggiorno egli dipinse la tavola d’altare nella Chiesa di San Bartolommeo; la quale secondo il Sansovino (Venetia citta nobilissima et singolare, p. 48. t.) era di bellezza singolare per disegno, per diligenza, e per colorito. Questa pittura suggeriva il Doni a Simone Carnesecchi fra le belle e rare cose da vedersi in Venezia, scrivendogli non, come fu corrottamente impresso nelle Lettere pittoriche T. III. p. 238: La storia di Tiziano (uomo eccellentissimo). In palazzo la facciata della casa dipinta da Alberto Duro: in San Bartolommeo ec. ma, come nell’edizione originale delle Lettere del Doni, fatta in Venezia dal Marcolini l’anno 1552, si legge a carte 185: L’istoria di Tiziano (uomo eccellentissimo) in Palazzo, la facciata della casa dipinta dal Pordenone sopra il Canal grande, una tavola d’altare d’Alberto Duro in San Bartolommeo ec. Di questa medesima palla facilmente è da intendersi Alberto quando scrive in una di quelle Lettere: La ho fatta bella a questi pittori che dicono che io sono ben bravo per l’incisione, ma che non so maneggiare li colori. Ognuno dice di non aver mai veduti colori sì belli (p. 28.). Del modo di vivere che teneva in Venezia ragguagliando l’amico dice: Molti de’ miei amici Italiani mi avvertono di non andare a bere nè a mangiare con questi pittori. Molti di essi sono miei nemici, e cercano di copiare le mie opere nelle chiese e dovunque le trovano: ma nonostante le censurano dicendo che non sono fatte sul gusto antico, e che in questo io non ho abilità. Gian Bellino però mi ha fatti grandi elogii presso la Nobiltà. Egli desiderava di avere qualche cosa di mia mano, e perciò venne a pregarmi di fargli qualche cosa, che me l’averebbe pagata. Ognuno mi assicura che è un gran galantuomo, e perciò gli voglio bene. Egli è già assai vecchio; ma nonostante è il migliore de’ pittori. Ciò che undici anni fa mi piacque tanto ora più non mi piace; nè l’avrei creduto ad altri, se non lo avessi veduto io medesimo. Vi faccio anche sapere che vi sono dei pittori assai migliori di Maestro Giacomo, il quale è fuori: e pure Antonio Kolb avrebbe giurato che non vi fosse al mondo un pittore più bravo di Giacomo. Gli altri lo deridono, e dicono che se fosse buono da qualche cosa, non abbandonerebbe il mestiere (p. 8.). Qui dà indizio Alberto di essere stato in Venezia anche undici anni prima: il che aveva oscuramente detto anche il Sandrart (Theatr. Art. Pict. p. 217.). Ci sarebbe venuto una terza volta per reclamare contro la falsificazione di sue stampe della Passione fatta da Marcantonio, se vera fosse la narrazione del Vasari nella Vita di questo. Ma l’Heinecken (Dictionnaire des artistes, Tom. I. p. 296.) ed il Murr (Cabinet de Praun, p. 88.) non ci prestano fede, e vi muovono sopra forti dubbii. Il prospetto di Venezia intagliato in legno, che porta l’anno 1500, ed opera di Alberto si soleva riputare, ora non dovrebbe esservi chi ad altri non lo attribuisse, leggendo le savie riflessioni dell’Algarotti in una lettera al fratello suo (Opere, T. VIII. p. 218. ed. Ven. 1792.). Non leggiero argomento di confermazione ora s’aggiunge dalla mancanza di ogni indicazione di esso prospetto nel catalogo copioso, quanto altri mai si vegga, delle carte da Alberto intagliate o in rame, o in legno, esistenti nella Galleria di Paolo de Praun in Norimberga, pubblicato con un’opera interessante dal Sig. Cristoforo Teofilo de Murr, intitolata, Description du Cabinet de Monsieur Paul de Praun a Nuremberg. Nuremberg, 1797. in 8.
(138) Oltre Gerardo Vander Meire, di cui nell’annotazione seguente, vi è stato un Gerardo di Harlem, cognominato da San Giovanni, scolare di Alberto van Ouwater, il quale dipinse in sua patria una chiesa, ed altre opere vi fece, che mossero Alberto Durero a vederle, e sì fattamente lo appagarono, che confessò dover egli essere stato dalla natura formato pittore; tanto più che vissuto era venti otto anni soltanto (Sandrart, Academia picturae eruditae, P. II. Lib. III. p. 204. Baldinucci, Dec. IX. P. II. sec. III. T. IV. p. 96. Descamps, La vie des peintres flamands, allemands et hollandois, T. I. p. 10.). Fuvvi anche Gerardo Horebaut di Gant, il quale ebbe grande riputazione, e fu nominato suo primo pittore da Enrico VIII Re d’Inghilterra (Baldinucci, Dec. I. P. I. Sec. III. T. III. p. 62. Descamps, T. I. p. 77.).
(139) L’esimio Codice qui dinotato, contenente il Breviario Romano, è cosa di tanto merito, che non è da maravigliarsi, se il Cardinale Domenico Grimani lo acquistò al grande prezzo di cinquecento zecchini, lo tenne sempre carissimo, e volle che dopo la sua morte passasse nelle mani del Patriarca d’Aquileia Marino suo nipote, ed alla mancanza di questo venisse in potere della patria perpetuamente serbato; siccome nel sunto del testamento di lui, riferito da Marino Sanudo, vedesi espresso. S’invaghì di averlo presso di se per tutto il tempo di sua vita il Patriarca Giovanni Grimani, che a Marino sopravvisse; e con licenza della Signoria lo ebbe, facendolo poi ad essa consegnare, quando già era vicino a finire la vita. Insieme con le preziose anticaglie alla Repubblica diede egli ancora l’armadio, ovvero scrigno di ebano, ornatissimo di cammei e di pietre preziose poc’anzi accennato: e fu questo allora messo nella Libreria di San Marco, collocatovi dentro il Breviario, come in una custodia a tanta preziosità conveniente. Di fatti nell’anno 1604. il Canonico Giovanni Stringa riproducendo la Descrizione di Venezia del Sansovino, e facendovi le opportune correzioni, e l’uno e l’altro indicò come nella Libreria riposti, e del Breviario così scrisse: In questo scrittoio, ovvero studiolo nobilissimo si custodisce tra le altre cose un nobilissimo Breviario, lasciato già per testamento da Domenico Grimani Cardinale alla Signoria. Egli si trova scritto a mano di carte pergamine 831, con la sua coperta d’argento tutta dorata, e di molte figure miniate con diligentissima maniera ornata, che rappresentano istorie della Sacra Scrittura. Ha le sue coperte di velluto cremesino, con un friso attorno di argento dorato, e con gran diligenza lavorato. Da una delle parti di fuori vi è una medaglia d’oro con l’effigie del detto Cardinale, con queste parole scritte in oro di sopra Dominici Cardinalis Grimani ob singularem erga patriam pietatem munus ex testamento patriæ relictum. E dall’altra parte si trova una medaglia pur d’oro, nella quale vedesi impressa l’effigie di Antonio Grimani Doge, con l’inscrizione sopra delle seguenti parole Quod munus Antonius Princeps & pater cum ad superos esset revocatus approbavit. Fu questo Breviario, dopo la morte di esso Cardinale, che seguì in Roma, ritrovato appresso lui insieme con molte sue spoglie; e si sarebbe senza dubbio smarrito: ma la diligenza di Giovanni Grimani Patriarca di Aquileia fu tale e tanta, che senza perdonare a spesa, nè a fatica alcuna, operò sì, che lo ricuperò. Onde la Signoria fece grazia a lui che lo potesse godere per tutto il tempo della sua vita: e però essendo venuto a morte l’anno 1592, è tornato in mano di lei insieme col detto scrittoio, donatole dal predetto Patriarca. E’ adunque degno d’esser annoverato tra le cose notabili il detto Breviario, poichè egli è di grandissimo e inestimabil valore, così per l’esquisita diligenza che s’è usato nel farlo, come perchè non si trova cosa simile in altro luogo, e sebben sono molti anni che è stato fatto, è stato tuttavia con tanta accuratezza custodito, che il tempo non gli ha fatto nocumento alcuno. Dalla Libreria fu il Breviario trasportato nel Tesoro della Basilica di San Marco: ma sì, per soverchia gelosia, alla migliore sua conservazione fu male proveduto.
Veramente per conto delle miniature è questo libro d’ogni grand’estimazione degnissimo; perciocchè sono esse in copia maggiore di quella che senza vederle si crederebbe, e di squisito gusto. Li dodici mesi, li misterii principali della Religione, li fatti più ragguardevoli della vita di Gesù Cristo e della Vergine Maria, li Santi avuti in maggior venerazione dalla Cristianità vi sono rappresentati con carte miniate di tutta la grandezza del volume, ch’è in forma di picciolo foglio, parlando relativamente a libri stampati. Lettera iniziale non v’ha, che più o meno adorna non sia di figurine, e dorata. Il margine laterale d’ogni facciata è di fogliami, alberi, fiori, frutti, animali, tempietti, rabeschi e cose simili riempito. Ma la correzione del disegno, l’armonia della composizione, la naturalezza dell’espressione, il vivo del colorito, e tutto ciò che può mai contribuire alla perfezione di sì fatti lavori spicca singolarmente nelle miniature dei dodici mesi: tutto peraltro, più o meno, secondo la bravura de varii artefici che vi furono adoperati, è felicemente condotto. Non se ne saprebbero di questi li nomi senza gl’indizii dell’anonimo nostro, il quale scriveva in tempo da averne fondatamente contezza; ed a lui concilia fede anche la forma delle fabbriche, dei vestiti, e dei costumi, che mostra l’opera tutta Fiamminga dal principio alla fine. Quanto alli tre miniatori che nominati vediamo; Giovanni Memmelinck è abbastanza conosciuto per ciò che altrove ne ho scritto. Gerardo da Gant sembra non esser altri, che Gerardo van der Meire, di cui ci fanno sapere il Baldinucci (Dec. I. P. I. Sec. III. T. III. p. 62.) e il Descamps (T. I p. 15.) ch’egli nacque a Gant, che fu uno de’ primi pittori ad oglio dopo Giovanni da Bruges, che le opere sue hanno finitezza di lavoro, bel colorito, e sopra tutto disegno corretto. Non citano però di lui, sennon un quadro rappresentante Lucrezia Romana, anche a’ moderni tempi in Olanda conservato. Livieno d’Anversa è sconosciuto artista, benchè non dovrebbe esserlo anche per le sole fatture sue di questo Breviario. Potrebbe però il nome di lui essere dall’anonimo stato scambiato, e doversi intendere ovver Ugo d’Anversa, che fece una tavola in Santa Maria Nuova di Fiorenza, riferita dal Vasari (Introduz. Cap. XXI.) e dal Baldinucci (Dec. IV. P. II Sec. III, T. IV. p. 18.); ovvero Livieno de Witte da Gant, di cui il Baldinucci, ricopiando il Van Mander, scrive che fu buon pittore, e che intese molto la prospettiva e l’architettura, ed opere di lui accenna (Dec. I. P. I. Sec. III. T. IV. p. 63.).
(140) La famiglia Ram è Spagnuola, di cui fuvvi Domenico Cardinale creato da Papa Martino V; e Gasparo e Domenico veggonsi annoverati fra gli scrittori da Niccolò Antonio nella Biblioteca Spagnuola Nuova. Giovanni forse per oggetto di mercanzia a Venezia s’era trasferito; dove si raccoglie che magnifica abitazione teneva.
(141) Chiamandosi Ruggiero pittore antico, e dicendosi il ritratto fatto nell’anno 1462; conviene intendere Ruggiero da Bruges allievo di Giovanni da Bruges, molto corretto e leggiadro artista, di cui altra pittura presso Gabriele Vendramino più innanzi è riferita; non già Ruggiero vander Weide da Bruxelles, del quale il Van Mander, seguito dal Baldinucci e dal Descamps, fissa la morte all’anno 1529, nel fiore dell’età sua succeduta.
(142) Dell’immortale Tiziano, e dell’opere sue tanto è già stato detto, che da aggiungervi quasi nulla rimane; di maniera che deve aversi cara la notizia di quest’opera di lui, e d’altre da’ principali scrittori non ricordate. Grande curiosità aveva mosso al Mariette il titolo di un Breve Compendio della Vita del famoso Tiziano Vecellio di Cadore Cavaliere e Pittore, con l’Arbore della sua vera consanguinità, stampato in Venezia nel 1622. in 4; e perciò ne faceva egli sollecitamente ricerca, sperando di trovarvi particolari notizie (Lettere pittor. T. II. p. 237.). Ho io al presente sotto gli occhi questo rarissimo libricciuolo, e veggo ch’è cosa da non poterne trarre grande profitto. Un Tiziano Vecellio pittore, che viene ad essere terzo di questo nome in quella famiglia, dopo il grande Tiziano, e che fu detto ancora Tizianello, facendone la dedicazione a Madama d’Arundel Surrey, moglie dell’illustre Conte Tommaso raccoglitore de’ Marmi eruditi di Oxford, dell’autore dice soltanto ch’egli fu un gentiluomo studioso delle opere di Tiziano: non era però costui uomo da trattar bene l’argomento. Diede fuori alquante buone notizie per verità: ma il Ridolfi se ne prevalse affatto, e in lume migliore le ha collocate. Un passo notabile intorno a’ possessori d’opere di Tiziano in quel tempo è questo: Non fu Prencipe, Capitano, o virtuoso Signore di pregio nel suo tempo, che non volesse, e pregiasse essere da lui ritratto, e che non procurasse con somma diligenza e riguardevole dispendio d’abbellire li suoi Studii con l’opere di lui: con quali particolarmente si vede ornata la nobilissima casa dell’Illustrissimo Sig. Zorzi Contarini dalli Scrigni, rifugio vero de’ virtuosi pittori; siccome lo Studio dell’Illustrissimo Sig. Andrea Vendramino, amatore della virtù medesima; ed anco lo Studio dell’illustre Sig. Bortolo dalla Nave adornato di Ritratti e di bellissimi Quadri di propria mano del suddetto Tiziano, che sono d’infinito valore: ancora nello Studio dell’illustre Sig. Daniele Nis, amatore della pittura e delle altre virtù, vi si vedono cose bellissime di mano di Tiziano: è parimente ornata la Casa dell’illustre Sig. Bartolommeo Genova di bellissime opere dell’istesso, oltre molte altre nella città. Gli Studii e palagi della Spagna, Francia, Germania, Fiandra, e particolarmente dell’Inghilterra, dove al presente regna grandissima dilettazione della pittura e scoltura, sono adorni tutti dell’opere di questo immortal pittore; come appresso l’Altezza del Serenissimo Prencipe di Waglia figliuolo di Sua Maestà della Gran Bretagna, dell’Illustr. ed Eccell. Sig. Marchese di Buchingan Gran Consigliero di S. M. Cavaliero del regio Ordine della Giaretiera Gran Maestro di Cavalli della Maestà suddetta e Grande Ammiraglio del regno, ed anco appresso l’Illustr. ed Eccell. Sig. Marchese Hamilton Gran Consigliero di S. M. Prencipe di Sangue Scozzese, dell’Illustr. Sig. Conte di Pemburch Gran Consigliero di S. M. Cavaliero dell’Ordine regio della Giaretiera e Gran Cameriero, e particolarmente appresso l’Illustriss. ed Eccell. Sig. Conte d’Arundel Surrey ec. Gran Consigliero della Maestà della Gran Bretagna, Cavaliero del regio Ordine della Giaretiera e Gran Maresciallo del regno, nato della nobilissima ed antichissima prosapia delli Howard, ricetto vero e liberalissimo Prencipe a’ virtuosi pittori e scultori. Vi si vede di mano del suddetto, oltre molti altri quadri, Lugrezia Romana sforzata da Tarquinio, dove si contempla la protervità di costui, la renitenza di lei, e il dolor infinito, con il quale involontariamente soggiace alle sue voglie; e il ritratto del Duca di Borbone, opere di somma eccellenza. V’è al principio un ritratto di Tiziano della grandezza del libro, intagliato in rame con stile franco da Odoardo Fialetti Bolognese, che a quel tempo d’incisione e di pittura con applauso in Venezia lavorava. E’ stato alquanto corrivo il Liruti negli Scrittori Friulani (T. II. p. 298.) coll’assegnare opere di letteratura a Tiziano. E prima, sull’autorità del March. Maffei, (Esami di varj autori sopra il libro intitolato L’eloquenza italiana di monsignor Giusto Fontanini, p. 48.) d’un’Epitome del Corpo umano lo fece autore, e questa disse ch’è forse la maggiore delle opere sue; benchè poi dubitasse se di Tavole annesse all’Anatomia del Vesalio, supposte di Tiziano, il Maffei vada inteso. E veramente sembra che d’altra opera il detto del Maffei non si debba intendere, sennon dell’Epitome Anatomica, o della grand’opera de Humani Corporis Fabrica del Vesalio; trovandosi già e dall’Orlandi nell’Abecedario, e da altri riferita la tradizione che per l’edizione dell’Epitome fatta da Oporino in Basilea nel 1542, e dell’opera grande nell’anno seguente, le figure da Tiziano venissero disegnate. Ma che queste fossero disegnate da un Giovanni di Calcar, città del Ducato di Cleves nella Fiandra, lo dissero chiaramente il Vasari scrivendo di Marcantonio e di Tiziano, che maestro fu di quel Giovanni, ed il Baldinucci (T. V. p. 194. ed. mod.), ambedue li quali di undici Tavole ciò affermano; ed il Sandrart ancora, senza però dirne numero veruno, lo stesso asserisce (Theatr. Art. Pictor. p. 232.). Ma ogni incertezza sull’autore di quelle stimatissime Tavole svanisce, qualora si sappia che volendo il Vesalio da principio darne fuori sei, per ovviare all’inconveniente che correva di ricopiare male alcune di esse a penna, nell’anno 1538. le fece intagliare in legno dal suddetto artefice, ch’egli chiama Giovanni Stefano, e qualifica per insigne pittore di quel tempo; e vi aggiunse le opportune dichiarazioni. Rem prælo commisi, atque illis tabellis alias adiunximus, quibus meum σκέλετον nuper in studiosorum gratiam constructum Ioannes Stephanus, insignis nostri sæculi pictor, tribus partibus appositissime expressit. Così il Vesalio dedicando quelle sei Tavole a Narciso Partenopeo Medico Cesareo con Lettera sparsa di belle notizie, da Padova il dì primo Aprile 1538. Nella terza poi di esse, contenente lo scheletro umano dalla parte deretana veduto, in un cartello stampato si legge Imprimebat B (Bernardinus) Vitalis Venetus sumptibus Ioannis Stephani Calcarensis. Prostant vero in officina D. Bernardi. A. 1538.
Appena per fama sono conosciute queste rarissime Tavole, impresse in gran foglio, accennate per altro dal Vesalio medesimo nella Lettera all’Oporino premessa all’opera grande, e dall’Haller, che mai non potè vederle, nella Biblioteca Anatomica sopra quel solo indizio registrate (T. I. p. 181.). Degna cosa pertanto fece il Dottore di Medicina Antonio Fantuzzi, che l’anno 1790, un bell’esemplare di esse alla Libreria di San Marco per testamento ne ha lasciato. Ora confrontando queste Tavole con le altre dell’Epitome e dell’opera grande del Vesalio, chiaramente si vede che l’artefice in tutte e tre le opere è lo stesso. Cosa poi sia un Liber Anatomicus cum epigraphe Titianus invenit & delineavit, Dominicus de Bonavera sculpsit Tr. folio, absque anno, meræ figuræ, riferito dall’Haller (Bibl. Botan. T. II. p. 740.), lo dicano quei che vedere lo possono; avendolo io indarno cercato. Osservo però che nella Serie degl’Intagliatori di Giovanni Gori Gandellini T. I. p. 158. di questo Bonaveri si dice ch’egli intagliò di nuovo le Anatomie di Tiziano; ma si fa artista del prossimo passato secolo, e così pare che sia il libro una riproduzione delle Tavole Vesaliane.
Dinota il Liruti come scritti da Tiziano tre Epigrammi Latini in lode d’Irene da Spilimbergo, impressi in Venezia nel 1561, in una raccolta di poesie Volgari e Latine su quell’argomento da Dionigi Atanagi pubblicata; e con lui Monsignor Bottari s’accorda in un’annotazione sulla Vita di Tiziano dal Vasari scritta; ma di questi, perciocchè nel secondo somma lode a Tiziano è data, Apostolo Zeno dubitò ch’egli ne fosse l’autore (Esami di varj autori sopra il libro intitolato L’eloquenza italiana di monsignor Giusto Fontanini, T. II. p. 101.). Io però senza esitare punto affermo, che sono essi d’altro Tiziano Vecellio, del pittore nipote, autore di un’Orazione stampata in Venezia nel 1571. in 4. la quale fu pure a torto spacciata dal Liruti come opera del pittore, e porta il titolo seguente Titiani Vecellii Equitis pro Cadubriensibus ad Sereniss. Venetiarum Principem Aloysium Mocenicum Oratio habita VI. Kal. Ian. MDLXXI. pro magna navali Victoria Dei gratia contra Turcas. Di questo Tiziano ebbe chiara contezza lo stesso Liruti, che ne scrisse di poi, e segnatamente lesse presso Tommaso Porcacchi nell’Isolario stampato per la prima volta nel 1572. queste parole (p. 8.): Vive un altro Cavalier Tiziano Vecellio il giovane, pur da Cadore, figliuolo del valoroso e magnanimo Vecellio Vecelli; il qual Tiziano ornato di belle lettere e di soavi costumi, riesce in questa sua verde età molto eloquente e savio ec.
Buone notizie ha prodotte il Liruti sopra questo Tiziano giuniore: ma in una comparsa molto più bella avrebbe potuto metterlo certamente, se li suoi Versi Latini inediti avesse veduti; i quali non in grande numero sono, ma di squisita eleganza, e ad imitazione di Catullo felicemente condotti. Questi io vidi per gentilezza singolare dell’ornatissimo Sig. Abate Mauro Boni, che in iscrittura autografa li possiede; e fra essi li tre epigrammi suddetti in morte d’Irene vi ho trovati; l’ultimo de’ quali nella stampa mancante di un terzo distico fu dato fuori per inavvertenza. Non si può nemmeno ora da chi legga questi componimenti lasciare di dire con Romolo Vespaso, presso il Liruti:
Vecellum patriæ patrem Cadubri
Quis neget celebrem magis futurum,
Eius si endecasyllabi ederentur?
(143) Non è nuovo presso gli Scrittori di cose del disegno il nome di Gabriele Vendramino. Il Serlio alla fine del terzo libro dell’Architettura provoca all’autorità di lui con queste parole: Ma se alcuno più invaghito delle ruine degli edificii Romani, che innamorato della saldezza di Vitruvio, mi volesse pure in ciò biasimare; piglieranno le arme per la difesa mia uomini di questa età pieni di giudicio e delle salde dottrine del principe dell’architettura; tra’ quali sarà in Venezia il Magnifico Gabriel Vendramino severissimo riprenditor delle cose licenziose, e M. Marcantonio Michele consumatissimo nell’antichità. Antonfrancesco Doni questa bella testimonianza intorno a lui ha lasciato: Messer Gabriello Vendramino gentiluomo Veneziano, veramente cortese, naturalmente reale, ed ordinariamente mirabile d’intelligenza, di costumi e di virtù. Essendo io una volta nel suo tesoro dell’anticaglie stupende, e fra que’ suoi disegni divini, dalla sua magnificenza raccolti con ispesa, fatica, ed ingegno, andavamo vedendo le antiche sue cose rare unite (I Marmi del Doni, P. III. p. 40. ed. Ven. 1552.). E scrivendo a Simone Carnesecchi gli ricorda di vedere fra le rarità di Venezia lo Studio del Vendramino, a cui egli servidore si professa (Tre libri di lettere del Doni, p. 185. ed. Ven. 1552.). Enea Vico nelli Discorsi sopra le Medaglie degli antichi alcuna ne adduce presso lui veduta (Ediz. Ven. 1555. p. 88.): e parimente il Goltzio professa che dagli eredi di lui altre gliene furono comunicate (Ind. oper. inscript. C. Iul. Cæs. &c. Lib. I. Brugis 1563.). Fu il palazzo di questo erudito gentiluomo nella contrada di Santa Fosca, dal Sansovino (Venetia citta nobilissima et singolare, p. 144. t.) annoverato fra li più belli di Venezia: il quale, dic’egli, fu già ridotto dei virtuosi della città; perciocchè vivendo Gabriello, amantissimo della pittura, della scultura, e dell’architettura, vi fece molti ornamenti, e vi raccolse diverse cose dei più famosi artefici del suo tempo; perciocchè vi si veggono opere di Giorgione da Castelfranco, di Gian Bellino, di Tiziano, di Michel Agnolo, e d’altri, conservate da’ suoi successori. E nelle Cose notabili di Venezia dell’edizione 1565. pag. 21. I Vendramini da Santa Fosca hanno un bellissimo Studio, dove sono disegni di mano di tutti gli eccellenti uomini che sono stati e che sono ancor vivi. Quivi vedrete parimente rilievi e teste in gran quantità, di maniera che vi satisfarete assai. Di questo medesimo Studio va inteso lo Scamozzio, quando descrivendo li musei e le gallerie di Venezia nel 1615, scriveva: Il Studio che fu del Clarissimo Sig. Gabriele Vendramino, copioso di molte statue e petti e medaglie, e buona quantità di pitture, si serba sotto sigillo, fino a tanto che venghi in essere alcuno della famiglia che ne abbi diletto. (Idea della architettura universale, P. I. Lib. 3. Cap. 19.).
Non s’ha però da confondere questo con altro Studio di Andrea Vendramino, come l’eruditissimo Doge Foscarini ha fatto (Della letteratura veneziana libri otto, p. 387.). L’uno dall’altro manifestamente distingue lo Scamozzio, dicendo nel citato luogo di quello d’Andrea: Il Clarissimo Sig. Andrea Vendramino a San Gregorio nella sua casa sopra Canal grande ha disposto due stanze, dove con triplicato ordine si ritrovano non poche statue, e cento quaranta petti di varie grandezze, e torsi, e bassirilievi, e vasi, e pietre nobili ed altre petrificate, e buon numero di medaglie antiche, e sette statue del Vittoria in un suo scrittorio d’olivo ed ebano, e forse centoquaranta quadri grandi e piccoli di buone pitture. Di questo museo fuvvi presso Alberto Bentes un Indice in sedici volumi contenuto nel Catalogo a stampa de’ libri suoi così dinotato: Museum Illustr. Domini Andreæ Vendrameni, artificiose & eleganter delineatum & depictum, addita descriptione, XVI. voluminibus, thecæ affabre factæ inclusis constans (Foscarini, Della letteratura veneziana libri otto, p. 387.). Da questo Indice, che portava il contenuto di ogni volume, si può raccogliere che prodigiosa copia di cose rare il Vendramino possedeva. Il museo è in dispersione andato, e quale fine abbia fatto anche l’Indice neppure si sa. Trovo soltanto che nella Libreria Zalusciana di Cracovia v’è Codex chartaceus manu elegantissima exaratus, hac Latina insignitus inscriptione: De Libris Chronologiarum universalium, figuris di coloribus ornatis. De iconibus aeri & ligno incisis Alberti Aldogravii & aliorum pictorum insignium. De animantium, piscium, & avium cuiusvis generis forma & historiis. De plantarum & florum nobilium viridario. De mirandis Romanæ urbis vetustatibus, & aliis rebus visu delectabilibus, studio & summa curiositate repletis, & in Andreæ Vendramini museo positis, anno Domini MDCXXXVII. Codex is complurimas habet picturas, cimelia illa Vendraminiana non illepide repræsentantes. (Janocki, Specimen catalogi codicum manuscriptorum bibliothecae Zaluscianae, 1752. p. 102.). Nel Museo Britannico ancora si riferisce esservi Andreæ Vendrameni Catalogus picturarum, annulorum, sigillorum Ægyptiorum &c. rerum naturalium & mineralium &c. 4. tomi, cum iconibus 1627. (Ayscough, A Catalogue of the Manuscripts preserved in the Britisch Museum &c. London 1782. T. II. p. 656.).
(144) Tacciono di questo Prete Vido Celere li principali scrittori tutti, che sopra gli artefici di disegno consultare si sogliono; ancorchè, oltre questa fattura, un libro di uccelli, un altro di pesci, e due di Antichità Romane presso Gabriele Vendramino vi fossero. Non saprei altra patria a lui assegnare, che Lovere, grossa terra del Bergamasco; di cui nativo fu Bernardino Celere stampatore in Padova nel 1478, in Trevigi negli anni 1480. e 1482, ed in Venezia negli anni 1478. 1480. 1483. e 1484; e dove nacque parimente Decio Celere, Filosofo e Medico di molta riputazione nel cominciare del passato secolo, ed autore di molte opere riferite alla fine del libricciuolo suo De Plutarchi Chæronei Vita, stampato in Padova nel 1627. in 8; il quale perchè è raro, appena fu noto a Fra Donato Calvi, quando nella Scena Letteraria degli Scrittori Bergamaschi di Decio ha scritto (P. I. p. 113.).
(145) Un bel passo intorno a Ruggiero v’è di Bartolommeo Facio nell’opuscolo altre volte allegato de Viris Illustribus, scritto l’anno 1456, e pubblicato dall’Ab. Mehus in Fiorenza l’anno 1745. (p. 48.), il quale perchè non si vede ne’ libri che di lui trattano, e qualche opera sua non conosciuta ci manifesta, qui mi piace di riportare: Rogerius Gallicus, Ioannis discipulus & conterraneus, multa artis suæ monumenta singularia edidit. Eius est tabula præinsignis Ienuæ, in qua mulier in balneo sudans, iuxtaque eam catulus, ex adverso duo adolescentes illam clanculum per rimam prospectantes, ipso risu notabiles. Eius est tabula altera in penetralibus Principis Ferrariæ, in cuius alteris valvis Adam & Eva nudis corporibus e terrestri Paradiso per Angelum eiecti, quibus nihil desit ad summam pulchritudinem: in alteris Regulus quidam supplex: in media tabula Christus e cruce demissu, Maria Mater, Maria Magdalena, Iosephus, ita expresso dolore ac lacrymis, ut a veris discrepare non existimes. Eiusdem sunt nobiles in linteis picturæ apud Alphonsum Regem eadem Mater Domini, renuntiata Filii captivitate, consternata, profluentibus lacrymis, servata dignitate, consummatissimum opus. Item contumeliæ, atque supplicia, quæ Chriſtus Deus noster a Iudæis pervessus est, in quibus, pro rerum varietate, sensuum atque animorum varietatem facile discernas. Bursellæ, quæ urbs in Gallia est, ædem sacram pinxit absolutissimi operis. Il quadro di Adamo ed Eva presso Lionello d’Este Marchese di Ferrara è riferito anche da Ciriaco d’Ancona in un Frammento pubblicato dall’Ab. Colucci nel tomo quindicesimo delle Antichità Picene (p. CXLIII.); ma sì scorrettamente, che appena senso se ne comprende. In altro luogo della citata operetta il Facio scrive di Ruggiero, e in tal modo da far credere ch’egli venisse in Italia, dicendo di Gentile da Fabriano: (p. 45.) Eiusdem est opus Romæ in Ioannis Laterani templo Ioannis ipsius historia, ac supra eam historiam Prophetæ quinque ita expressi, ut non picti, sed e marmore facti esse videantur; quo in re, quasi mortem præsagiret, seipsum superasse putatus est. Quidam etiam in eo opere adumbrata modo atque imperfetta, morte præventus, reliquit... De hoc viro ferunt, quum Rogerius Gallicus insignis pictor, de quo poſt dicemus, Iubilæi anno in ipsum Ioannis Baptistæ templum accessisset, eamque picturam contemplatus esset, admiratione operis captum, auctore requisito, eum multa laude cumulatum ceteris Italicis pictoribus anteposuisse. Ciò serve ancora a rendere più credibile l’opinione del Sig. Ab. Lanzi, che Ruggiero a Venezia venisse, e che opera sua debba tenersi un San Girolamo con due Sante, dipinto non sopra rovere Fiamminga, ma sopra abete de’ nostri paesi, con le parole Sumus Rugerii Manus; il quale quadro, serbato nella Casa Nani, dal Zanetti ad un qualche pittore nostro era stato attribuito.
(146) Michelino vecchissimo pittor Milanese già di cento cinquanta anni, e principale di quei tempi in Italia, come fanno fede le opere sue, e gli animali d’ogni sorte, ne’ quali fu stupendissimo, fece già in dipintura una bizzarria da ridere, la quale va ancora attorno accopiata; che veramente per essere bella, è degna d’essere raccontata. Così il Lomazzo nel Trattato della Pittura Lib. VI. Cap. 32. p. 359, dove questa pittura descrive. Altrove egli biasimò Michelino, perchè seguendo il vizio de’ suoi tempi facesse le figure grandi, e piccioli gli edifizii: ma in nessun luogo mostrando di conoscere ch’egli avesse dopo di se lasciato un libro di uccelli.
(147) Pietro di Giovanni Ruggiero Contarini col soprannome di Filosofo si distingue da altri dello stesso nome e della famiglia medesima, co’ quali fu contemporaneo, ed ebbe comune lo studio di lettere. L’abitazione sua nelle case presso la Misericordia, più vicine però al Monastero di Santa Caterina, era famosa per ornamenti di anticaglie: di che, oltre l’indicazione dall’anonimo qui data minutamente, ne fa testimonianza anche un epigramma intitolato così: In laudem domus antiquariæ Petri Contareni Philosophi Senatorisque Evangelista Bladarii Carmen. Questo io vidi già in un testo a penna della Libreria di una illustre famiglia Patrizia di Venezia; ed in essa ancora poesie Latine di questo medesimo Pietro ho vedute, che sono De incendio urbis Epigramma. Ad Marinum Sanutum Epigramma. Distichum ad Patriarcham. Un poema volgare, con versi latini frammessi, egli ha in un codice a penna della Regia Libreria di San Marco, il quale ha per titolo Christilogus Peregrinorum, ed è di sacro argomento e di profano ancora. Potrebbe egli ancora essere stato l’autore di due poemetti elegiaci che col solo nome Petri Contareni stanno inediti ne’ codici miei: de’ quali l’uno è intitolato In Andream Grittum Panegyris, e contiene la descrizione del ritorno trionfale di Andrea Gritti in Venezia l’anno 1517, dopo di avere ricuperato alla Repubblica lo Stato di Terraferma: l’altro col titolo De Regum Amicitia celebra la pace fra li Re di Francia e d’Inghilterra nell’anno 1521. conchiusa. E’ osservabile nel primo di questi componimenti che il Fondaco delli Tedeschi, di cui architetto si suole riputare Pietro Lombardo (Temanza, Vite dei più celebri architetti, e scultori veneziani, Lib. I. p. 90.), opera di Fra Giocondo è detto così:
Teutonicum mirare forum, spectabile fama,
Nuper Iucundi nobile Fratris opus.
Il Sabellico scrive con onore del Contarini (Epistol. Lib. XII. p. 61. t. ed. Ven. 1502.): così pure Girolamo Squarciafico, indirizzandogli la Vita del Petrarca: e di lui sembra che intender si debba il Poliziano, quando uno di tal nome ne mette fra’ suoi amici, e lo dice non inelegantis ingenii virum (Epistol. ad Ludovic. Odax. Lib. III., & Miscellan. Cap. 22.). Altro Pietro di Giovanni Alberto Contarini lo commenda nel poema de Voluptate Argoa, impresso in Venezia l’anno 1541; ma quando già più allora egli in vita non era, siccome dalle cose che il Senatore Flaminio Cornaro adduce si viene a conoscere (Ecclesiae venetae antiquis monumentis nunc etiam primum editis illustratae ac in decades distributae, T. VIII. p. 21.).
(148) Descrivendo il Sansovino nell’anno 1581. li palazzi più belli di Venezia, scriveva: Sul campo de’ Crocicchieri è notando quello dei Zeni, ordinato sul modello di Francesco Zeno che al tempo suo fu gentiluomo intendente dell’architettura. (Venetia citta nobilissima et singolare, p. 143. t.). Di questo medesimo Francesco Zeno si serbava il ritratto nel cammeo da riferirsi poco più innanzi. Sussistono ancora in buono stato le tre case continuate, dette qui eleganti, dal Zeno ordinate con maniera Sansovinesca, nelle quali si sa che Andrea Schiavone e il Tintoretto vi avevano fatti belli ornamenti di pitture a fresco (Ridolfi, T. I. p. 230. T. II. p. 7.).
(149) Sembra che altri questo non sia, sennon il bravo artefice, di cui scriveva il Vasari: S’adopera ancora oggi ne’ cammei Gio. Antonio de’ Rossi Milanese, bonissimo maestro, il quale oltre alle belle opere che ha fatto di rilievo e di cavo in varii intagli, ha per l’Illustrissimo Duca Cosimo de’ Medici condotto un cammeo grandissimo, cioè un terzo di braccio alto, e largo parimente; nel quale ha cavato dal mezzo in su due figure, cioè S. E. e la Illustriss. Duchessa Leonora sua consorte, che ambidue tengono un tondo con le mani, dentrovi una Fiorenza. Sono appresso a questi ritratti di naturale il Principe D. Francesco, D. Giovanni Cardinale, D. Garzia, D. Ernando, D. Pietro, Donna Isabella, Donna Lucrezia, tutti figliuoli loro; che non è possibile vedere la più stupenda opera di cammeo, nè la maggior di quella (T. VII. p. 127.). E’ giudicato esso cammeo una delle opere più insigni dell’arte rinata dal ch. Ab. Lanzi (La Real Galleria di Firenze accresciuta, p. 116.) e dall’eruditissimo Gori; il quale intorno al Rossi ha raccolte le poche notizie restateci (Histor. Glyptograph. p. CLV. in tomo sec. Dactyliotheca Smithianæ).
(150) Di Luigi Anichini Ferrarese dal Vasari si sa che in Venezia di sottigliezza d’intaglio ed acutezza di fine ha le sue cose fatto apparire mirabili (T. VII. p. 125.). L’Aretino nel 1540. avendo da lui ricevuto l’impronto d’un suo intaglio, fatto allora in Ferrara, gli scrisse: Andrò nutrendo il giudicio, che io tengo nel disegno, con la maraviglia di cui è per pascerlo la impronta dello intaglio mirabile, che di Ganimede in sì bel lapis avete fatto: ma gran torto riceve sì nobile opra dallo acuto, che non è tale nella mia vista, che per lui si possa penetrare alla diligenza delle sue incomprensibili sottigliezze. (Lettere, Lib. II. p. 190. t.). E nel 1548. sì pienamente lo ebbe a commendare: Sebbene è debito di quel giudicio, che ognuno vuole che io abbi nelle diverse maniere del disegno, di fare libri in onore dell’arte vostra di così sottile intaglio, che veruna acutezza di vista lo penetra; dirò solamente che mentre considero le impronte delle gemme, degli ori, e dei cristalli lavorati dalle invisibili punte degl’istrumenti, di cui voi solo sete stato inventore; mi risolvo a concludere che, se io fusse pietra, nel vedere in sì fatte opere le moventi forme che io ci veggo, mi crederei che il visivo senso dei miei occhi converso in calamita tirasse a se di maniera la vivacità di quegli spiriti, con li quali esse respirano; che non altrimenti tornarei vivo , che se la natura mi avesse sparso nelle membra lo anelito della sua propria vita. (Lettere, Lib. IV. p. 181.).
Trovasi un Francesco Nichino, o Anichino, Ferrarese intagliatore di gemme in Venezia posto ne’ migliori artefici del genere suo da Camillo Leonardo da Pesaro nel libro terzo, capo secondo dell’opera intitolata Speculum Lapidum scritta nel 1502, ed in Venezia l’anno medesimo stampata, ove dice: Claret Romæ hodiernis temporibus Ioannes Maria Mantuanus, Venetiis Franciscus Nichinus Ferrariensis, Ianuæ Iacobus, aliter Tagliacarne, Mediolani Leonardus Mediolanensis; qui adeo accurate ac laute effigies in lapidibus imprimunt, quod nihil addi, aut minui potest. Niccolò Liburnio nelle Selvette impresse l’anno 1513. in Venezia introduce Francesco Nichino da Ferrara a far mostra di una corniola da se intagliata. Antonio Musa Brasavola, celebre Medico Ferrarese, nell’opera che ha per titolo Examen simplicium medicamentorum, stampata dal Blado in Roma l’anno 1535., trattando della pietra stellata, e del lapislazolo, riferisce che Francesco aveva trovato modo di esprimere e rilevare una lucciola col ventre fiammante, profittando d’una vena d’oro del lapislazolo: Quoniam & lapislazuli aureas maculas habet apprime splendentes; ut viderim Ferrariensem sculptorem celeberrimum Franciscum Anechinum, qui in lapide lazuli cincidellam finxerat miro artificio, ut cauda accensa in fine videretur, nam in maculam auream terminabatur mirum artificis inginium. Non conoscono pertanto il Baruffaldi nelle Vite inedite degli artefici Ferraresi, e sì ancora il Canonico Crespi nelle annotazioni ad esse, ed il Mariette (Memorie degli intagliatori moderni in pietre dure, cammei, e gioje, p. 29.) sennon un Francesco detto Luigi Anichino intagliatore di gemme: ed il Cav. Vettori (Dissertatio glyptographica, p. 81.) come pure il Gori (Histor. Glyptogr. p. 257.) lasciano in dubbio, se due artefici Francesco e Luigi fossero, ovvero uno soltanto con diversi nomi chiamato. A me veramente pare che due fossero; perciocchè il Baruffaldi medesimo, appoggiandosi all’autorità di Marcantonio Guarini nella Vita della Beata Caterina Vegri, scrive che pervenuto Francesco alla decrepita età, rimasto pregiudicato nella vista, ed impotente a compiere alcuno di que’ minuti lavori, ne’ quali nella sua gioventù logorati aveva gli occhi, finì li suoi giorni l’anno 1545; laddove Luigi era ancor in vita tre anni dopo, siccome la lettera dell’Aretino sovrallegata lo mostra.
(151) Era usitatissimo presso li nostri gentiluomini l’esercizio della pittura; onde il Dolce nel Dialogo della pittura scriveva (p. 130. ed. Fior. 1735): E’ oggidì qui in Venezia Monsignor Barbaro eletto Patriarca d’Aquileia, Signor di gran valore e d’infinita bontà; e parimente il dotto gentiluomo M. Francesco Morosini; i quali due disegnano e dipingono leggiadramente; oltre una infinità di altri gentiluomini che si dilettano della pittura; tra i quali v’è il Magnifico M. Alessandro Contarini, non meno ornato di lettere, che di altre rare virtù.
(152) Cristoforo Solari, detto il Gobbo Milanese, famoso scultore ed architetto è posto dal Lomazzo nella Tavola dei nomi degli artefici, de’ quali le opere ha egli citate nel Trattato della pittura. Il Vasari ci fa sapere ch’egli lavorò nella Certosa di Pavia, e scolpì l’Adamo e l’Eva sulla facciata del Duomo di Milano, sempre con lode di esser uno de’ più valenti scultori Lombardi (T. IX. p. 376. T. X. p. 47). Il Gaurico sopra citato dice pur bene di lui; ma osserva che gli veniva rimproverato di rappresentare membra d’Ercole dove meno lo doveva: Sed & iure optimo laudatur in Boiis Christophorus Gobbius, in quo nisi unum hoc damnant, quod assuetus Herculeos artus imitari, eo quidem sæpissime paullo temerius utitur.
(153) Vittore Camelo, volgarmente detto Gambello, dagli scrittori principali intorno agli artefici nobili appena nominato si trova. Nientedimeno opere sue furono li dodici Apostoli di naturale grandezza scolpiti in marmo, nel Coro della chiesa di Santo Stefano di Venezia collocati, e dal Sansovino a lui attribuiti (Venetia citta nobilissima et singolare, p. 49. t.); dal quale ancora si riferiscono come lavori suoi li due quadri di bronzo di mezzo rilievo, qui dinotati, nel sepolcro di marmo posto in aria di Briamonte Capitano illustre, nell’uno de’ quali è una battaglia pedestre, e nell’altro una a cavallo, scolpite da Vittorio Gambello (p. 95. t.). Fec’egli anche lavori di conio, ed Enea Vico primo lo mette fra gli artefici in sì fatto mestiere eccellenti (Discorsi di M. Enea Vico, Parmigiano, sopra le medaglie di gli antichi, p. 67.). Belle per verità sono varie medaglie da lui coniate e da me in parte vedute, con alcuna sua di getto. Sembra che prima fra esse sia stata una del Doge Agostino Barbarigo, con la testa di lui nel dritto e le parole avgvstin. barbadic. venetor. dvx, e nel rovescio il motto aeqvitatis et innocentiae cvltvs, ed al basso le parole victoris cam. v. dalle quali si potrebbe arguire che Veneziano il Camelo fosse. Due, che sono rarissime, ne fece ad onore delli fratelli Bellini: quella di Gentile ha da una parte la testa di lui e le parole gentilis bellinvs venetvs eqves comesq. e dall’altra vi si legge gentili tribvit qvod potvit viro natvra hoc potvit victor et addidit: l’altra di Giovanni ha la testa di lui nel dritto con le parole ioannes bellinvs venet. pictor op. e nel rovescio una civetta con le parole all’intorno virtvtis et ingenii, e sotto victor camelivs faciebat. Una a se medesimo egli ne fece, la quale nel dritto ha la sua testa con le parole victor camelivs svi ipsivs effigiator. mdviii. e nel rovescio un sacrifizio con le parole fave for(tuna) e sotto sacrif. Altra sua di Francesco Fasuolo Giureconsulto nel dritto ha la testa di lui e le parole f. faseolvs ic. admirabilior etiam eloqventia qvam forma, e nel rovescio victor camelivs faciebat. Altra di Cornelio Castaldo da Feltre Giureconsulto e Poeta nel dritto ha la testa di questo colle parole cornelivs castalidvs feltriens. ivrisconsvltvs, e nel rovescio Pallade ed Apollo con le parole al basso v. camelvs.
Lavoro del Camelo esser dovrebbe la medaglia nominata Osella del Doge Andrea Gritti, segnata con l’anno primo del suo Dogado, perciocchè ne’ Diarii tante volte citati di Marino Sanudo addì 9. Decembre dell’anno 1523. la narrazione seguente si trova: In questi zorni dovendo el Dose nostro dar alli zentilomeni per queste Feste la moneda d’arzento, e avendo fatto far una medaia a Vettor Gambello, lavora in zecca di conio, da una banda la sua testa con lettere attorno Andreas Gritti Dux Venetiarum, e dall’altra un S. Marco in piedi con il Prencipe in zenocchioni davanti con el stendardo in mano: e perchè a molti non pareva tal cosa si potesse far in arzento, attento M. Niccolò Tron Dose fe batter una moneda dove era la sua testa suso, si spendeva soldi vinti, chiamata Tron; onde del 1473. a dì 28. Luglio fu preso nel Conseio de Dieci che più non si stampasse in zecca detti Troni, nè più si potesse metter su alcuna moneda la testa del Dose: per il che li Cai di Dieci passati sospese in zecca non si battesse tal moneda; e Ser Andrea Mudazzo el Proveditor sora la zecca con quelli delle Rason Vecchie, che ha questo cargo di dar tal presente, sollicitando la resoluzion, li Conseieri terminorono che tal medaia con la testa non si dovesse far, ma si facesse da una banda S. Marco con il Dose in zenocchioni davanti e lettere attorno Andreas Gritti. S. M. Veneti. e dall’altra in mezzo che dise Andreæ Gritti Principis munus anno primo. Trovandosi dunque a que’ tempi il Camelo coniatore nella zecca di Venezia, v’è ragione di credere opere sue altre belle medaglie pubbliche e private a que’ tempi battute.
Non solamente però il Camelo fu valente di sue mani, ma fu buon rimatore altresì: onde a Cornelio Castaldo convenne di fare in sua lode il Sonetto seguente, pubblicato dal mio Balì Farsetti nella Vita dell’autore:
Chi vedrà di Camelo la scoltura
E di Camelo l’onorate rime,
Converrà che fra se tacito stime
Che due Cameli avesse la natura;
Perchè non cape in una creatura
Questa e quella virtù tanto sublime:
Scorra chi scorrer vuol sin dalle prime
A questa nostra età sordida e dura.
Alcun di que’ che per felice sorte
In vivo intaglio son posti da lui,
Non tema oltraggio di tempo, o di morte.
E se già simil arte ebbe uno, o dui,
Certo avere le muse anco per scorte
Fu sola e propria lode di costui.
(154) Del Cardinale Bessarione chi dapprima avesse dipinto il ritratto in questo luogo riferito, non lo sappiamo. Quello che vi fu rimesso si fa dal Boschini (Miniere della pittura ec. p. 360.) di un Giovanni Cordella pittore nostro, di cui poche opere ci rimangono; creduto lo stesso con Giannetto Cordegliaghi, lodato dal Vasari nella Vita di Vittore Carpaccio per aver avuta una maniera assai delicata e gentile; nè forse diverso da un Andrea Cordelle Agi, autore di un quadro presso la famiglia Zeno alli Gesuiti veduto dal Zanetti (Della pittura veneziana, p. 89. sec. ed., Lanzi, Storia pittorica della Italia, T. II. P. II. p. 33.). Dalla pittura posta nella Scuola della Carità fu preso il ritratto del Cardinale, che intagliato in rame si vede al principio della Biblioteca Greca e Latina Manoscritta di San Marco, stampata negli anni 1740. e 1741., e da Cristiano Federigo Boernero fu riprodotto al principio del Trattato De doctis hominibus Græcis litterarum Græcarum in Italia instauratoribus, stampato in Lipsia nel 1750. in 8. Ma di questo grand’uomo, oltre ad una statua di marmo, che fu posta in Ravenna nella Badia di San Giovanni Evangelista, di cui egli fu Commendatario (Fabri, Ravenna ricercata, p. 119.) in varii tempi ritratti si fecero, onde la faccia di lui ancora, insieme co’ monumenti del suo sapere e della sollecitudine per la cultura delle lettere, alla posterità pervenisse. Gentile Bellino lo aveva dipinto nella sala del Maggior Consiglio, rappresentando un pezzo dell’istoria di Papa Alessandro III. venuto a Venezia (Sansovino, Venetia citta nobilissima et singolare, p. 131.). Galasso Galassi Ferrarese in Santa Maria in Monte di Bologna dipingendo, per ordine del Bessarione Legato in quella città, l’Assunzione di Maria Vergine, fra molte figure aveva posta anche l’effigie di lui (Superbi, Apparato de gli huomini illustri della città di Ferrara, p. 121. Baruffaldi, Vita di Galasso ms.). Facendo stampare in Parigi nell’anno 1471. l’opera sua, intitolata Rhetoricorum Libri tres, Guglielmo Fichetto Francese; un esemplare ornatissimo, in carta pecora impresso, ne offerì al Cardinale, con due carte al principio contenenti la dedicazione stampata ed una bella miniatura, che ha il ritratto di lui di tutta figura sedente sotto un baldacchino, e l’autore in ginocchioni che l’opera gli presenta: e questo libro nella Regia Libreria di San Marco tuttora si custodisce. Bartolommeo Suardi Milanese, detto Bramantino, nel palazzo Vaticano lo aveva anch’egli ritratto; e dovendosi demolire quella parte di edifizio che lo conteneva con altri ritratti d’uomini illustri, Raffaello prima ne fece cavare una copia, la quale poi per mezzo di Giulio Romano nel museo di Paolo Giovio è passata (Vasari Vite T. III. p. 252.). Altro ritratto finalmente deve essersi conservato nella Biblioteca Vaticana, di cui Fra Angelo Rocca Agostiniano, letterato di chiaro nome, ne mandò una copia alla Repubblica di Venezia in un Dittico di rame incorniciato di ebano, tuttora esistente, benchè malconcio, nella Regia Libreria suddetta. La prima parte del Dittico da una faccia ha la seguente iscrizione Sereniss. Duci Paschali Ciconiæ & excelsæ Reip, Venetorum Angelus Roccha Camers Augustinianus Sacrarum Literarum Professor Bessarionis Card. de Veneta Rep. benemeriti imaginem & sepulchri Epigrammata D. D. ut qua vivens Bessario benevolentia Venetam Remp. illustri testimonio Bibliothecæ, legatæ est prosecutus, eandem ipse & erga Bessarionem cælesti vita perfruentem & erga nunquam intermorituram Remp. vivis posterisque patefaciat. Dall’altra faccia v’è dipinto il ritratto di Bessarione preso ex Bibliotheca Vaticana. La seconda parte da una faccia ha dipinto il mausoleo di Bessarione ch’è nella chiesa de’ Santi dodici Apostoli di Roma, e dall’altra ha l’arme del Cardinale. Fu questo dono fatto alla Repubblica insieme con una sua opera del Rocca nell’anno 1592., siccome da una Lettera di Aldo Manuzio a Luigi Giorgi si viene a conoscere (Aldo, Lett. p. 262.). Il ritratto però è quel medesimo, che come preso dalla Biblioteca Vaticana intagliato in rame si vede al principio della Vita di Bessarione, scritta latinamente dall’Ab. Luigi Bandini, e stampata in Roma nell’anno 1777.
(155) Si è qui voluto indicare il reliquiario di tavole formato, che contiene insigni reliquie della Croce e della Veste di Nostro Signore; dono preziosissimo fatto da Bessarione Cardinale alla Confraternita della Carità nell’anno 1463. Le pitture che esteriormente si veggono, ed esprimono le azioni principali della Passione del Signore, con sacre immagini, ed altro, sono di Greca mano, ed opere de’ tempi ne’ quali l’arte giaceva. Tutte sono rappresentate con intaglio in rame nella Dissertazione sopra esso reliquiario con grande copia d’erudizione scritta dall’ottimo e di lettere ben ornato uomo, già Cappellano di quella Confraternita, Don Giovambattista Schioppalalba, intitolata In perantiquam sacrarti tabulam Græcam insigni Sodalitio Sanctæ, Mariæ Caritatis Venctiarum ab amplissimo Cardinali Bessarione dono datam, impressa in Venezia nell’anno 1767.
(156) Andrea Bellino è nome nuovo ne’ pittori, e potrebbesi credere che per isbaglio l’anonimo così nominasse Giovanni Bellino, di cui scrisse il Boschini (Miniere della Pittura, p. 360. ed. 16) che una testa del Salvatore in un quadretto mobile trovavasi nell’albergo della Scuola della Carità. Il Sansovino per altro descrivendo le pitture del luogo medesimo vi mette anche un quadretto con una testa di Cristo in maestà, fatta a guazzo da Andrea Bellino (Venetia citta nobilissima et singolare, p. 100.). Le parole del Sansovino sono le medesime dell’anonimo: anzi quanto alle opere della chiesa e della scuola della Carità ambedue perfettamente insieme s’accordano; sicchè pare che ovvero il Sansovino ricopiasse l’anonimo, ovvero l’uno e l’altro dalla medesima fonte le loro notizie traessero.
(157) La famiglia d’Hanna, ovver d’Anna, era di Fiamminghi che avevano fermata loro dimora in Venezia per mercanteggiare. La casa loro era a San Benedetto sopra il canale grande, ed aveva la facciata dipinta dal Pordenone. Il Vasari lo dice nella Vita di questo con le seguenti parole: Fece ancora il Pordenone sul canal grande nella facciata della casa di Martin d’Anna molte storie a fresco, ed in particolare un Curzio a cavallo in iscorto, che pare tutto tondo e di rilievo; siccome è ancora un Mercurio che vola in aria per ogni lato, oltre a molte altre cose tutte ingegnose; la qual opera piacque sopra modo a tutta la città di Venezia, e fu perciò Pordenone più lodato, che altro uomo che mai in quella città avesse insino allora lavorato. (T. IX. p. 252.). Di Tiziano poi scrivendo dice: In casa di M. Giovanni d’Anna, gentiluomo e mercante Fiammingo suo compare fece il suo ritratto che par vivo, ed un quadro di Ecce Homo con molte figure, che da Tiziano stesso e da altri è tenuto molto bell’opera. Il medesimo fece un quadro di nostra Donna, con altre figure come il naturale d’uomini e putti, tutti ritratti dal vivo e da persone di quella casa (T. IX. p. 255.). Ed appresso tra le opere che Tiziano andava facendo egli mette una gran tela, dentro la quale è Cristo in croce con i ladroni ed i crocefissori a basso; la quale fa per M. Giovanni d’Anna. Il Sansovino fu ancora a tempo di scrivere nel 1580: Da’ Talenti fu anco fabbricata la nobil casa a San Benedetto, famosa per la Proserpina e per lo cavallo dipinto dal Pordenone, pittore illustre, sul canal grande, pervenuta poi nella famiglia d’Anna; nella qual casa si trovano lavorati da Tiziano uno Ecce Homo, ed un quadro di nostra Donna, con diverse figure e ritratti dei predetti Anna di molta bellezza. Ma il Ridolfi non arrivò a tempo di vedere le pitture lodate del Pordenone, perciocché erano quasi del tutto svanite (T. I. p. 102.). Due stampe in legno, con qualche differenza, della figura suddetta di Curzio a cavallo ch’entra nella voragine aveva il ch. Antonmaria Zanetti, delle quali egli diede notizia nel libro della Pittura Veneziana (p. 551.). Fuvvi un Baldassare d’Anna, probabilmente di questa famiglia, pittore di delicata maniera, che l’arte apprese da Lionardo Corona; di cui alcune opere tuttora esistenti in Venezia dal Boschini e dal Zanetti sono indicate. Medaglie ancora vanno in giro fattesi coniare da Marino, Giovanni, Paolo, e Daniele di questa famiglia medesima: il che maggiormente dimostra che in essa l’amore delle belle arti aveva preso gran piede.
Le notizie d’opere di disegno presso Pietro Servio e Paolo d’Anna, che nella stampa aggiunte si veggono con l’anno 1575, ed in carattere differente, anche nel manoscritto sono d’altra penna, e da altro autore provengono.