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Già menzognero e stolto
Questo testo fa parte della raccolta Giuseppe Salomoni

IX

ALLA CICALA

     O rauca sí, ma rara,
stridola sí, ma cara,
de la dea biondeggiante
messaggera volante;
de la stagion piú fruttuosa e calda
canora insieme e strepitosa aralda;
     questa acerba tua voce
offende, ma non nòce;
ruvidetta e loquace
spiace a l’orecchie e piace;
anzi mai sempre è con diletto udita,
e quanto è piú spiacente è piú gradita.
     Ne la stagion novella
riede la rondinella,
e col suo metro dolce
l’aria addolcisce e molce;
ma, foriera d’april, tromba di Clori,
che n’annunzia di buono altro che fiori?
     Quand’apre il riso il suolo,
ritorna il rosignuolo
a scior tra i fior ridenti
armonici lamenti;
ma che fa l’armonia sua lusinghiera?
Nunzio il suo canto è sol di primavera.
     Cent’altri augelli e cento
stendon le piume al vento
e van spiegando a prova
melodia rara e nova,
mentr’ha di fiori il Sol gravido il raggio;
ma che portan, cantando, altro che maggio?
     Delicati augelletti,
cantori lascivetti
son questi, che di buono

non hanno altro che ’l suono,
e sol tra noi mortali han questo vanto
ch’han dolce sí, ma infruttuoso il canto.
     Ma tu vie piú felice,
sonora ambasciatrice,
col tuo, non men che grave,
stridor caro e soave,
n’annunci or per le selve or per le rive
la venuta del cibo onde si vive.
     Tu sembri alora quando
t’affatichi cantando
dir al villan, che lasso
al Sol raggira il passo:
— Suda e raccogli, o mietitor, la spica,
ché madre del riposo è la fatica! —
     Sembri una tromba agreste,
che richiami e che déste
del rustico guerriero
il braccio adusto e nero
a far col ferro suo torto ed acuto
strage del biondo esercito granuto.
     Ma che? non s’ode stile
al tuo pari o simíle;
ti cede il raparino,
t’onora il lucherino,
ed è col calderugio e col fringuello
presso il tuo rauco stil rauco il fanello.
     Vinto ti cede spesso
il rosignuolo anch’esso,
ritien presso te muta
Progne la lingua arguta,
né spande augel per l’aria o voce od ala,
che divenir non brami una cicala.
     Né giá per meraviglia
deve altri alzar le ciglia,
se tu fra gli altrui canti

riporti i primi vanti;
poiché sol da la forza ardente e viva
del dio del canto il tuo cantar deriva.
     Quand’ei con l’aurea lampa
in ciel piú forte avampa,
e col raggio che bolle
tormenta il piano e ’l colle,
alor tu senti in te ben mille e mille
di poetico ardor spirti e faville.
     Alor l’alte tue rime,
poetessa sublime,
con indefessa vena
sciogli, di furor piena,
e fai veder altrui ch’a te non sòle
dettar sí nobil canto altri che ’l sole.
     Qui potrei dir ch’un die
alle dolci armonie
di spiritoso ingegno
fosti spirto e sostegno,
mentre accoppiasti il suon che ’l mondo ammira,
di rotta corda in vece a la sua lira.
     Ma questi, ancor ch’egregi,
son troppo antichi pregi;
son queste in ogni parte
glorie giá note e sparte;
sí che piú tosto con stupor si denno
lodar senza lodar, che farne cenno.
     Io vo’ ben dir ch’io vidi
or nei campi or nei lidi,
ove tu dispiegavi
gli strepiti soavi,
l’ali ritrose e i passi fuggitivi
quinci arrestare i venti e quindi i rivi.
     E vidi spesso ancora
star la turba canora
or tra i faggi or tra i mirti

con diletto ad udirti,
per imparar da la tua voce eletta
qualche bel madrigale o canzonetta.
     Vidi i rami baciarti,
vidi le fronde ornarti
e, tratti da’ tuoi carmi,
correr i tronchi e i marmi;
e vidi il carro aurato il dio di Deio
spesso arrestar, per ascoltarti, in cielo:
     quel dio ch’assai piú brama
le tue canzoni e l’ama,
vie piú che l’armonia
d’Euterpe e di Talia,
e fa, fermando i corridori adorni
per udirti cantar, piú lunghi i giorni.
     Ma dove incauto e stolto
follemente ho rivolto
le temerarie note?
Lodarti appien chi pote
con cetra d’armonia tumida e pregna?
Tu sol te stessa di cantar sei degna.

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