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LA PICCOZZA. Fu pubblicata il settembre del 1900, nelle nozze di Margherita figlia del conte G. Codronchi Argeli. Niente di meno adatto, che questa ode, io poteva offrire a quel personaggio, che in vero, ministro per breve tempo dell’istruzione, mi aveva nominato professore di lettere latine nell’università di Messina. Egli, se mai altri, mi aveva pôrta la valida mano per salire: quella volta io non aveva fatto da me!

Però, anche in un altro senso io non aveva fatto da me: non avevo chiesto. Qualche giorno prima della nomina il nuovo ministro mi aveva detto battendo su qualche mio volume che teneva sul banco: Io la conosco. Era un ministro che leggeva e sapeva, il buono e fiero gentiluomo di Romagna, nella cui casa ogni studio liberale ha degno luogo.

Io dunque devo quel mio decisivo promovimento a questa nobile consuetudine che non è ancora cessata nei nostri uomini di stato, e che fu ed è di molti d’ogni regione, ma forse più particolarmente di romagnoli marchigiani e toscani. Ricordo, per citare un esempio di viventi e uno per ognuna di queste regioni, Gaspare Finali, Filippo Mariotti e... (affronto la taccia di adulazione per ricordare a colui che dirò, che anche la scuola italiana da lui aspetta non poco) Sydney Sonnino. Ma la consuetudine dei buoni studi non sarebbe forse bastata a richiamare su me l’attenzione del ministro, se non ci fossero state in quella casa voci alte e gentili di bellissime fanciulle a parlare al loro padre del poeta romagnolo. Così allora intravidi, così presentii. Dovevo e debbo provarne quasi vergogna? Di quelle gentildonne una è SFINGE, vale a dire una delle più colte, più ingegnose, più ardenti scrittrici italiane. Un’altra era — era! — Margherita.

Dal XII decembre del 1903 Margherita non è più. E io nel ristampare l’ode che avevo pubblicata nelle sue nozze, poco più di tre anni avanti la sua morte, chiedo perdono all’anima gentile di non avere cinto la sua fronte di più vive fronde, di più immarcescibili fiorì. Ornerebbero adesso il suo sepolcro, e sarebbero bagnati dalle lagrime del suo padre!

L’AURORA BOREALE. Fu nel 1870, a Urbino. Parve, quella meteora, il riflesso del sangue che si spargeva sui campi della Francia invasa. Quale scossa ebbe allora la gente latina, sebbene per le disfatte francesi noi riavessimo Roma! Ricordiamocene in questo momento in cui il cielo sembra un’altra volta rosseggiare! Si fa ogni giorno più manifesto che bisogna allargare il concetto di nazione a quello di razza. Pensiamo che Tunisi, per esempio, fu conservato alla latinità, come Cuba alla latinità fu tolta.

LA FAVOLA DEL DISARMO. Fu scritta per il congresso dell’Aia. Nel «pastore» intendevo il popolo o, se volete, l’unione universale degli operai: il socialismo opposto all’imperialismo; il socialismo che afforza e conserva le nazionalità. Intorno a che il lettore benevolo può vedere nel mio libro MIEI PENSIERI DI VARIA UMANITÀ (Messina, Muglia), Una sagra. AL CORBEZZOLO. Bisogna ricordare alcunchè del nostro poema eroico nazionale; l’Eneide; e del libro XI la descrizione del trasporto di Pallante, e i versi 59 sgg. sopra tutti. Mille dell’esercito accompagnano il feretro che è tessuto di rami di corbezzolo o álbatro: arbuteis... virgis (65).

AL SERCHIO. Fu scritta nel 1902 per la minacciata diminuzione del Serchio, uno di quei fiumi che saranno la nostra collettiva ricchezza. Nell’edizione che ne fece il Pedreschi, a Castelnuovo di Garfagnana, era preceduta da queste parole:


IL SERCHIO NOSTRO.


Li ruscelletti che de’ verdi colli
del Casentin discendan giuso in Arno,
facendo i lor canali e freddi e molli,


dove sono? Quel valentuomo di Alfredo Bassermann che seguì con tanto amore le orme di Dante in Italia, codesti ruscelletti li cercò invano. Egli dice: «La frescura delle sorgenti che spira da questi versi, mi parve in aperto contrasto con lo stato attuale dei pietrosi letti dei ruscelli, resi da frane ingombri di rottami nudi, e riarsi, e fatti rigonfi soltanto per piogge dirotte da acque devastatrici, dopo le quali, resi più ingombri, nuovamente prosciugano. Presso Camaldoli osservai invece quanto possa operare natura, quando non la si maltratti, e quanto essa contraccambi l’amore dell’uomo. Protetto dagli antichi regolamenti del chiostro, si è qui conservato in vasto circuito un bosco magnifico, così superbo e pomposo, quale non potrebbe vedersi più bello sui monti tedeschi. E il suolo è cosparso di fertile terriccio e di felci e anemoni e viole alpestri; e da ogni lato le acque mormorano e stillano giù per le pietre muscose, sì che anche la sete più infernale potrebbe qui essere estinta. Tale doveva mostrarsi tutto il Casentino ai tempi di Maestro Adamo».1

Ai tempi di Maestro Adamo, che non erano poi i tempi di Adamo nostro primogenito, il Casentino avrebbe certo potuto estinguere la sete di Firenze e di altre città, se l’acqua de’ suoi ruscelletti fosse stata condotta al piano. Ora esso non può, a quel che pare, perchè le frane hanno ostruito gli alvei: le frane causate dalla selvaggia distruzione delle selve.

Ma freddi e molli sono tuttora i canali dei ruscelletti che discendono in Serchio! Perchè? Perchè verdi sono tuttora i colli dai quali discendono: verdi di castagni, di quercie, di faggi, d’abeti. La vegetazione impedisce all’acqua piovana di evaporar subito, e questa circola così nelle vene della terra, donde geme in polle e scorre in ruscelli. Gli alberi e le acque si amano e si aiutano con fraterna vicenda: gli alberi proteggono le acque, le acque alimentano gli alberi. E quando la bella selva nei meriggi estivi sta immobile sul dorso del monte, pare che porga ascolto alla voce sommessa e dolce, come un vagito nuovo, d’un rio a cui ella diede la vita; e quando i ruscelli son divenuti il fiume, questo, con la sua gran voce inestinguibile, sembra che canti le lodi dei faggi e degli abeti, amici della solitudine e della meditazione, i quali tuttavia di lassù vollero ispirare e animare tanto fremebondo lavoro al piano.

Così il Serchio, cioè «il fiume,» come è chiamato dai rivieraschi, canta il suo grande inno di grazie ai colletti frondosi, tra i quali scorre perennemente. Ai colletti, o, meglio, a voi che avete l’antico religioso rispetto per gli alberi e per le acque, per le Driadi e le Naiadi, del vostro paese: a voi che avete piantati i castagni dove erano i faggi, ma non avete lasciate, no, brulle e calve le cime che prima verdeggiavano. Vedo appunto dalla finestra del Ritrovo del Platano il colle di Fiattone. Come sarà bello tra poco con la sua riccioluta vegetazione di castagni e con le grandi pampane delle viti! Ebbene era un tempo luogo di faggi. Lo dice il nome stesso, come si dimostra in quel magnifico libro sulla «Toponomastica» di Val di Serchio, opera del mio valentissimo Silvio Pieri. Fiattone era piantato di faggi: tolti i faggi, furono sostituiti i castagni, i quali, oltre calore e materiale, procacciano ai coltivatori anche il dolce «pan di legno». Cedono i castagni? E sottentra la vite che provvede il vinetto arzillino, il vino quanto si voglia leggero, ma che non è «di nuvoli». Man mano le garrule ninfe delle piante si cedono amicamente il posto le une alle altre; ma non dileguano con tristi ululati, tutte insieme, lasciando deserto e aridità e rovina nei monti, sui quali esse conversavano in perenne letizia colle loro sorelle ninfe delle acque.

O montanini, voi provvedeste da tempo immemorabile alla vita rigogliosa del «fiume». E i pianigiani da tempo immemorabile provvidero a serbare con ogni cura il vostro dono. Per raffrenarlo, incanalarlo, rettificarlo, per far sì che il fiume desse tutto il suo bene e nulla del suo male (dove è il bene è anche il male, e viceversa), i Lucchesi spesero tanto, che è passato in proverbio. O montanini, o pianigiani, da secoli voi avete tesaurizzato il vostro Serchio......

E ora ve lo vogliono prendere, il vostro tesoro?

No: non ve lo prenderanno. Tanti oratori e scrittori in questi giorni hanno esposte le ragioni di diritto che sono per voi. Io aggiungo questa ragione morale. L’Italia, io dico, commetterebbe (perciò non la commetterà!) una cattiva azione se rendesse mal per bene, se facesse ripentire i suoi figli di ciò che hanno operato con prudenza e sapienza, se frodasse le economie, se annullasse, per dir così, il testamento d’un buon povero popolo che ha pensato all’avvenire.

Per il figliuol prodigo fu ucciso il vitello grasso: sta bene: ma Gesù non dice che il padre diseredasse a dirittura il figlio savio, per arricchire quell’altro. L’Italia da questa piccola contrarietà (piccola, perchè i rimedi son tanti!) deve imparare qualcosa: deve rivestire i suoi monti, già spogliati dalla spensierata ingordigia dei possessori, se vuol da per tutto ciò che, per provvidenza, per disinteresse, per virtù dei maggiori, è qui in Val di Serchio: le acque per la sete degli uomini e dei campi, le acque per le industrie che redimeranno la nazione. Ma l’Italia non deve pensare, e già forse non pensa più (giova sperare), ad acconsentire che chi ha arato, seminato, roncato, con tante spese e fatiche e traversie e strettezze, si veda, quando è finalmente per segare il grano, toglier di mano il falcetto, e si senta dire: Mieto io!

A CIAPIN. Fu stampata una lettera del Galliano a questo suo buon amico, nella quale gli raccomandava con eroica letizia che serbasse a lui qualche bottiglia per quando venisse «in licenza»!

IL RITORNO. Questo poemetto epico-lirico, che io chiamai già, come il seguente, episodio, e anche cantata, fu musicato dal giovane egregio Riccardo Zandonai, Trentino, allievo di Pietro Mascagni. Le parti narrative erano interpretate, secondo la mia intenzione, dall’orchestra.

IL SOGNO DI ROSETTA. Fu musicato dal maestro Carlo Mussinelli di Spezia, un cieco veggente; ed eseguito molto bene a Barga. Lo dedicai al genialissimo musicista con questa lettera:

Caro Mussinelli,

voi siete un giovane aedo, quale un aedo di quell’Omero che tanto amate, dice sè stesso:

per gli dei e per gli uomini io canto:
sono maestro a me io, chè un dio m’ha sparso nel cuore
tutta uno messo di conti . . .

E voi assomigliate anche a un altro aedo omerico: a quello de’ Feaci. E io? Io sono l’araldo, non più nè meglio che l’araldo.

Venne da presso l’araldo col cantatore diletto . . .


che siete voi: invero

tanto la Musa l’amò! e gli diede ed un bene ed un male:
tolsegli il raggio degli occhi, gli diede la gioia del canto.

E l’araldo pone all’aedo, in mezzo al convito, un seggio adorno di borchie d’argento (a dir vero, quello che io v’ho posto, non è un seggio o trono: è una sedia... di Barga); lo appoggia alla lunga colonna, e gli mostra come prenderla con le mani.

Così, presso a poco, ha fatto l’araldo: e voi avete presa la cetra e la Musa v’ha eccitato a cantare.

E ora vi offro il vostro libretto... A dir meglio, continuo a tradurre dal vostro Omero:

Presso l’araldo gli pose la cesta e la tavola bella;
presso, la coppa di vino, da berne a seconda del cuore
.

A dir meglio, dunque, vi offro me stesso, qual ch’io sia, perchè attingiate dal mio modesto ingegno “a seconda del cuore„.

A GIORGIO NAVARCO ELLENICO. L’inno fu composto per il fulgido inizio della triste guerra greco-turca. Il principe Giorgio (ora alto commissario in Creta) parve dirigersi con la flotta ellenica a Creta, per isbarcarvi e riunirla all'Ellade.

AD ANTONIO FRATTI. Tutti sanno che questo gentile eroe della mia terra, superstite di altre campagne garibaldine, mori in quella che, per ora, è l’ultima. Morì a Domokòs il 17 maggio del 1897.

Per intendere l’inno bisogna aver presente la battaglia delle Termopile narrata da Erodoto. Troppo segreta erudizione? O allora serrate le scuole, italiani!

PACE! Fu composto per i tristi fatti del maggio del 1898. Il consiglio di perdono e d’oblio non fu ascoltato.

L’inno, stampato, come la maggior parte delle altre poesie comprese in questo volume, nel Marzocco, imperante uno di quelli odiosi, assurdi, funesti stati d’assedio, era preceduto da queste parole che riferisco a memoria:

All’augusta Donna che pianse sulle sventure e pregò per la pacificazione del suo popolo.

In un giorno di quel maggio la regina Margherita fu veduta inginocchiarsi in una chiesa, e piangere e pregare... Nemmen ella fu ascoltata.

MANLIO. O mio inno prediletto, possa tu trovar grazia presso il lettore italiano! Manlio morì a Bordighera il 13 gennaio del 1900.

IL RITORNO DI COLOMBO. Finita, col danno dei nostri fratelli spagnoli, la guerra di Cuba, le ceneri di Colombo furono riportate in Europa. Lo scopritore latino era espulso dalla sua grande isola.

AL RE UMBERTO. L’inno ebbe questo preambolo, nel Marzocco del 12 agosto 1900:

«Dedico quest’inno al partito dei giovani, cioè ai giovani senza partito, cioè ai giovani ancor liberi che vogliono conservare la libertà che è così cara che la vita non è più cara: la libertà dei palpiti del cuore! Sì che il loro cuore può battere per le otto ore di lavoro e per la spedizione in Cina, ed esecrare il domicilio coatto e abominare l’assassinio politico, e alzare il medesimo inno al muratore che cade dal palco e all’artigliere che spira abbracciato al suo cannone. Siate degni di Dante, o figli di Dante!»

Con quanto dolore ora si ripensa alla spedizione in Cina! Più grande di quello che si affigge sulla acerba infruttuosa morte di Antonio Fratti!

Giova ricordare che, alla morte del Re, non si avevano notizie del Duca degli Abruzzi.

AL DUCA DEGLI ABRUZZI E AI SUOI COMPAGNI. Per il pane di farro del terzultimo verso dell’inno intendo l’alma adorea che è in Orazio (IV. 4, 41): focaccia di farro che si usava nei sacrifizi trionfali. Per questo e per il seguente, indirizzato a quell’intrepido esploratore e marinaio che è il Com. Umberto Cagni, rimando al magnifico libro in cui il Duca e il Cagni raccontarono la loro spedizione. Gl’inni precederono il libro; e tuttavia divinarono assai le circostanze eroiche del viaggio: una, no; e me ne duole. Io aveva imaginato che la bandiera italiana fosse dal Com. Cagni lasciata là dove egli la piantò; sì che andando alla deriva potesse arrivare al polo. Invece, no; fu riportata. Mancò, mi pare, un verso a quel poeta, quale si rivela nei fatti e nei detti il nostro giovane comandante!

ALLE BATTERIE SICILIANE. Fu composto per l’inaugurazione in Messina del monumento ALLA BATTERIA MASOTTO (ma perchè non all’altra, eroica del pari, Bianchini?), opera del Buemi. Consiste in un bellissimo gruppo collocato sul mare avanti l’Aspromonte, d’un giovane soldato che difende col moschetto il cannone. Un ufficiale cade, un altro è caduto. I gridi insieme! insieme! ammazza! ammazza! sono veramente i gridi di battaglia degli Amhara e dei Galla.

L’ambessa è il leone, l’hellelta è un grido di gioia e trionfo descritto dal Martini come un qualcosa di mezzo tra il nitrito e il chicchiricchì, Vedi a pag. 57.

ALLE KURSISTKI. Le KURSISTKI sono le studentesse.

L’ANTICA MADRE. Fu musicato dal valentissimo Giovanni Zagari, e cantato da un coro di studenti, nelle feste centenarie dell’Università di Messina.

IL POPE. Gapony, dicono, è... Non pensiamo a quel che possa essere ora quegli che male sopravisse alla strage del popolo guidato e incorato da lui. Il poeta sbagliò, come tanti altri sbagliarono, come sbagliarono i fucili cosacchi. Avrà sbagliato il poeta anche nella profezia con la quale l’inno si conclude? No.

  1. Alfredo Bassermann, Orme di Dante, trad. Egidio Gorra, Bologna, Zanichelli 1902, pag. 105.

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