< Omero minore
Questo testo è stato riletto e controllato.
Omero - Omero minore (Antichità)
Traduzione dal greco di Ettore Romagnoli (1914)
Poesie minori
La fornace Il Margite



POESIE MINORI



Gli epigrammi attribuiti ad Omero sono riferiti in una delle otto vite del poeta compilate nell’antichità, e specialmente nella più importante di tutte, attribuita ad Erodoto.

Siccome sono poesie di occasione, se le stacchiamo dal contesto, perdono gran parte del loro sapore, e spesso riescono addirittura inintellegibili senza un lungo commento. Ho dunque pensato che meglio valesse rappresentarle incastonate nella suddetta vita, che però non traduco integralmente, bensì riassumo con qualche larghezza, ma senza né aggiunte né alterazioni.

Questa vita, al pari delle sue sette sorelle, è caduta presso la «critica scientifica» in tanto discredito, che oramai non si stampa nemmeno più, e procurarsela è divenuta una piccola impresa1. Perché quanto al contenuto è reputata un ammasso di frottole. E quanto alla paternità erodotea, si fa osservare che è puramente immaginaria; perché Erodoto pone Omero nel sec. IX, e questa vita, invece, lo pone negli anni immediatamente successivi alle migrazioni doriche (sec. XII), d’accordo col geografo Strabone, che nacque 66 anni prima di Cristo.

Lasciamo da parte la paternità erodotea, alla quale neppure io presto fede. Se però dalla coincidenza con Strabone si volesse concludere ad una gran modernità, e dunque ad una minima attendibilità della nostra vita, il ragionamento correrebbe fino ad un certo punto; perché è chiaro che tanto Strabone quanto l’autore della vita potrebbero avere attinto alla medesima fonte; e questa essere antichissima.

E che non fosse recentissima mi pare che si possa ragionevolmente indurlo da un altro fatto.

Fra gli scritti biografici intorno ad Omero, c’è anche un «Certame fra Omero ed Esiodo» 2, che per il suo carattere sembrerebbe senza dubbio più recente della vita attribuita ad Erodoto. Ora, da un papiro scoperto qualche tempo fa, risulta che la materia di questo agone esisteva già in un passo del Museo di Alcidamante, contemporaneo d'Isocrate (436-338). Quindi, secondo ogni probabilità, la materia della vita attribuita ad Erodoto deve risalire a prima del secolo IV.

Quanto al contenuto, ne parleremo brevemente dopo aver letta la vita; ma osserviamo fin d’ora che la discrepanza con Erodoto circa la data d'Omero, riesce tutta a vantaggio della nostra vita; perché tutti gli studi moderni inducono a portare appunto immediatamente dopo le invasioni doriche la data del poeta dell'Iliade.

Cosí pure, si faceva valere come argomento schiacciante contro lo pseudo Erodoto, la notizia che Omero prendesse appunti di tutto ciò che vedeva. I saputissimi critici avevano l’aria di spassarcisi: perché per loro era articolo di fede che ai tempi d’Omero la scrittura non esistesse. Ma oggi si può affermare senza il minimo dubbio che, in una forma o nell'altra, esisteva certamente: sicché, anche qui, l’argomento contro si trasforma in argomento pro.

E leggiamo senz'altro la vita.



VITA D’OMERO



Quando, a tempi antichi, fu fondata Cuma d’Eolia, vi convennero stirpi da ogni parte de l’Ellade; e, fra le altre, genti di Magnesia; e fra i Magnesii un certo Melanòpo, assai povero.

Melanòpo sposò una ragazza povera come lui, e n’ebbe una figlia, che fu chiamata Cretèide. Ed egli e sua moglie vennero a morte, e la bambina rimase affidata ad un suo intimo amico, Cleonatte d’Argo.

Divenuta grande, Cretèide fu sedotta, e incinse; e Cleonatte, temendo lo scorno dei suoi concittadini, la condusse a Smirne, città che i Cumei avevano fondata da poco, nella profonda insenatura del golfo Ermèo (attuale golfo di Smime); e, a sua volta, l’affidò ad un altro amico, Ismenio di Beozia. E qui Cretèide, un giorno che con altre donne s’era recata ad una festa sacra, alla foce del fiume Meles (da identificare, sembra, con un fiumicello che scorre presso alla moderna Burnabad), «si sgravò d’Omero, che non era cieco, bensì veggente; e lo chiamò Melesígene, prendendo il nome dal fiume».

Per un certo tempo, Cretèide restò presso Ismenio; poi abbandonò la sua casa, cercò lavoro di qua e di là; e «con le sue fatiche, manteneva sé stessa e il bambinetto; e, per quanto poteva, provvedeva a dargli una educazione».

Ora, a quei tempi, viveva in Smirne un certo Femio, che insegnava ai ragazzi l’alfabeto, la musica e ogni altra disciplina; e i ragazzi lo compensavano, almeno in parte, in natura, portandogli della lana greggia, che Femio faceva poi filare dai suoi servi. Femio assunse al suo servigio anche Cretèide. E tanto glie ne piacquero il garbo e il senno, che la indusse a convivere seco, facendole specialmente considerare quanto potrebbe avvantaggiarsi dei suoi insegnamenti il fanciulletto Malesígene, che già dimostrava in ogni modo la sua intelligenza e le sue bellissime disposizioni artistiche.

Cretèide acconsenti; e il bambino superò in breve tutti i suoi coetanei, anzi uguagliò il maestro. E presto divenne oggetto d’ammirazione, non solo per gli Smirnioti, bensì per tutti i forestieri che capitavano nel loro porto, frequentatissimo emporio del mondo antico: sicché, appena sbrigati i loro affari, andavano a sedere alla scuola di Melesígene, e rimanevano ad ascoltare estatici il giovine prodigioso maestro.

Tra questi forestieri, c’era un padrone di nave, un certo Mente, che veniva da Leucade per acquisti di grano, uomo educato, e, per quanto consentivano i tempi, molto istruito. Costui dimostrò a Melesígene quanto gli sarebbe riuscito utile viaggiare e conoscere direttamente paesi ed uomini, finché era giovine. E Omero «si lasciò convincere specialmente da questa ragione; perché sin d’allora disegnava di dedicarsi alla poesia». E lo seguí sulla nave.

Eccolo dunque in giro pel mondo. E dovunque giungesse, osservava tutte le singolarità del paese, interrogava, s’informava; «e trovò opportuno (εὶκός) prendere su tutto degli appunti (μνημόσυνα)».

Ora avvenne che, tornando dall’Iberia e dalla Tirrenia (l'Italia), giunti che furono ad Itaca, Melesígene cadde malato d’occhi; e Mente, che doveva proseguire per Leucade, lo lasciò in Itaca, affidato ad un suo grande amico, Mentore, raccomandandogli di averne la massima cura. E cosí fece Mentore, uomo agiato e giusto ed ospitale assai più di tutti gli altri Itacesi; e Melesígene recuperò la vista.

E, soggiornando in Itaca, e studiando i luoghi e chiedendo, apprese una quantità di leggende intorno ad Ulisse, l’eroe locale; e, al solito, ne fece tesoro.

Intanto, Mente, ritornando da Leucade, approdò nuovamente ad Itaca, riprese con sé Melesígene, e ancora per lungo tempo andò navigando con lui. Ma poi, a Colofone, il poeta cadde nuovamente malato d’occhi; e questa volta le cure non servirono a nulla; e divenne cieco.

E qui comincia il più triste periodo della vita di Omero.

Perduta la vista, dove’ dire addio ai viaggi e alle avventure. Da Colofone si recò a Smirne, e qui si dedicò alla poesia. Ma non trovò più gli antichi ammiratori, né gli antichi successi. E, trascorso qualche tempo, non riuscendo nemmeno a guadagnar tanto da vivere, decise di recarsi a Cuma.

Per andare da Smirne a Cuma, si deve attraversare, da Sud a N.O., la pianura in cui scorre l’Ermo. E qui, prima di giungere a Cuma, s’incontrava la città di Neòtico (Novimuro), colonia dei Cumei, fondata otto anni dopo Cuma. Melesígene vi fece una sosta; e, fermatosi presso la bottega d’un cuoiaio,

improvvisò i seguenti versi:

Riguardo abbiate a me, che bisogno ho di casa ospitale,
voi che abitate l’eccelsa città, la figliuola occhibella
di Cuma, al piede estremo di Sàrdene fitto di selve,
voi che del fiume divino bevete l’ambrosïe linfe,
dell’Ermo vorticoso, cui padre fu Giove immortale.

Il cuoiaio, che si chiamava Tuchio, udí i versi, si mosse a pietà, fece entrare il poeta mendico, l’ospitò. E, a poco a poco, sparsa la voce, altri ed altri abitanti di Neòtico vennero ad ascoltare Melesígene. E questi compose in quel tempo La spedizione di Anfiarao contro Tebe, gl'Inni ai Numi, le Sentenze intorno ai quesiti che gli proponevano gli ascoltatori.

Qui, dunque, rimase un certo tempo; «e ancora ai miei giorni — soggiunge lo scrittore — gli abitanti di Neòtiche mostrano il luogo in cui Melesígene sedeva a poetare, e lo circondano di gran venerazione; e vi frondeggia un pioppo, che essi dicono cresciuto nei giorni in cui Melesígene visse fra loro».

Ma, come succede, col tempo anche l’ammirazione dei Neotichesi affievolì, o, per lo meno, divenne meno redditizia. E il poeta, vedendo che oramai stentava a guadagnarsi la vita, decise di proseguire verso Cuma. E prima di partire scrisse i seguenti versi:

Alla città degli onesti m’adducano súbito i piedi:
hanno saggissima mente, han cuore sollecito al bene.

Da Neòtico, dunque, andò a Cuma. E in questo periodo scrisse per Mida, il famoso re di Frigia, l’epigramma che al tempo dell’autore si leggeva ancora inciso sul suo monumento,

e che anche noi possediamo.

Sono fanciulla di bronzo che sto su la tomba di Mida.
Sinché l’acqua fluisca, fioriscano gli alberi grandi,
brillin, dal mare sorgendo, il sole e la fulgida luna,
sinché scorrano i fiumi, rimormori il mare alla spiaggia,
io, sopra questo sepolcro di lagrime molle restando,
a chi passa dirò che questa è la tomba di Mida.

Giunto a Cuma, incominciò, al solito, le sue recitazioni poetiche, ed ottenne i soliti successi entusiastici. Tanto, che, incoraggiato da alcuni dei suoi più fervidi ammiratori, chiese di essere nutrito a spese pubbliche. La città — diceva — ne avrebbe acquistata alta gloria.

Ma anche a quei tempi bisognava procedere per le vie legali, e ottenere un decreto del senato. E fu deciso che Melesígene si sarebbe recato ad una seduta, ed avrebbe perorata egli stesso la propria causa.

Cosí avvenne. E, dopo il discorso del gran cieco, quasi tutti propendevano per lui. Ma allora si alzò un sapientone, uno zelatore della regolarità e del summum ius, il quale, da che mondo è mondo, è anche la summa iniuria; e, senza far distinzione fra Omero e i guastamestieri, che certo anche a quei tempi non saranno stati pochi, osservò che, se la città si fosse messa a mantenere a spese pubbliche tutti quanti i ciechi, si sarebbe trovata sulle spalle una turba tanto numerosa quanto disutile. Neanche a dirlo, il parere del sapientone prevalse. E il povero poeta abbandonò Cuma più povero di come c’era venuto. L’unico guadagno fu d’essere chiamato Omero invece di Melesígene. Perché nella parlata di Cuma, cieco si diceva òmeros. E il sapientone aveva appunto usato questo nome per designare il poeta divino, e per fargli pesare addosso il suo disprezzo di «ben pensante». L’ironia del Tempo giustiziere, volle che il nome dato per ischerno divenisse sinonimo di quanto è più grande ed augusto.

Cosí Melesígene partí anche da Cuma, sfogando il suo dolore nei seguenti versi:

Di qual destino Giove fe’ ch’io divenissi la preda,
quando me, pargolo ancora, nutrì sopra il grembo alla madre
— nobile madre, che un dí, per volere di Giove, di torri
cinsero i Fríconi, genti fortissime, avvezze a domare
folli puledri, maestri di guerre ch’àn furie di fuoco —
nutrì sul grembo a Smirne marina, battuta dall’onde,
attraversata dall’acque fulgenti del sacro Melèto.
Di qui le figlie belle di Giove movendo, le Muse,
vollero la città celebrare e la terra divina;
ma, per follia, la sacra parola, la fama del canto,
quelli respinsero. E alcuno di loro, per prova, lo scorno
dirà che a loro inflisse la sorte ch’io devo patire.
Ed io, la sorte mia, che il Dio m’assegnò quand’io nacqui,
sopporterò, patirò con animo saldo il rifiuto.
Le membra mie, non hanno vaghezza di più rimanere
per le vie sacre di Cuma, mi spinge il magnanimo cuore
ch’io presso un’altra gente, sebbene sia cieco, mi rechi.

A questi versi, aggiunse, stando all’autore, la imprecazione che i Cumei non potessero mai avere un poeta che nobilitasse la loro città. Imprecazione che certo ci spiace sulle labbra di Omero; ma che a paragone delle dantesche, può anche sembrare un complimento. E da Cuma, eccolo a Focèa, dove riprende la solita misera vita di poeta mendico.

E qui s’imbatté in un certo Testòride, maestro di scuola e matricolato furfante. Costui pensò subito a sfruttare il genio del poveretto; e gli propose di mantenerlo a sue spese, purché gli scrivesse una copia di tutte le sue poesie già composte, e di quelle che scriverebbe in avvenire 3.

E Omero accettò. E, soggiornando presso Testòride, compose la Piccola Iliade e La Fòcide. E il bravo Testòride, appena venuto in possesso dei manoscritti, abbandonò Focèa, e non si fece più vivo col povero poeta derubato. Il quale, confidando, al solito, le sue disgrazie alle fide Muse, scrisse:

Ci sono pei mortali, Testòride, molti misteri,
ma nulla c’è, che sia della mente dell’uomo più arcano.

Testòride, poi, se ne andò a Chio, e fondò una scuola; e, recitando come proprie le poesie d’Omero, si procacciò gloria e quattrini, mentre il povero cieco, rimasto a Focèa, solo a gran fatica riusciva a sostentare la vita.

Se non che, alcuni nocchieri di Chio, venuti a Focèa, e udito Omero, lo avvertirono che nel loro paese c’era un uomo che recitava come proprie quelle medesime poesie, e ne riscuoteva grandi elogi.

E Omero decise di andarlo a smascherare. Scese subito al porto, ma non trovò alcuna nave che facesse vela per Chio, bensì una che giungeva sino ad Eritre. Era tutta strada fatta: Omero chiese d’essere accolto a bordo, e i nocchieri esaudirono il suo desiderio. E n’ebbero in compenso i seguenti esametri:

Ascoltami, possente Posidone, re d’Elicona
santa, dall’ampie contrade, signore che scuoti la terra:
prospera brezza concedi, concedi felice ritorno
ai naviganti, che sono signori e maestri dei legni;
fa’ che alle falde io giunga del Mima dai vertici eccelsi,
uomini possa trovare dal cuore benevolo e pio,
e pena infligga all’uomo che frode mi tese, ed offese
Giove, che i dritti protegge degli ospiti, e il desco ospitale.

Posidone esaudì i voti del poeta, e la nave giunse sana e salva ad Eritre. E Omero, trovata la regione aspra e montuosa oltre ogni sua aspettativa, cantò:

O veneranda terra, datrice di dolce conforto,
come tu sembri ad alcuni degli uomini fertile, e ad altri,
a quelli a cui sei poco benevola, sterile ed aspra.

Da Eritre chiese ad alcuni pescatori il passaggio sino a Chio. Ma quelli non gli diedero retta, e salparono senza di lui, ma accompagnati da questo suo ammonimento:

Nauti che il ponto varcate, che simile avete la vita,
per duro fato, a quella di trepide ognora alcïoni,

rispetto sempre a Giove, tutore degli ospiti abbiate:
tremenda è la vendetta di Giove ospitale adirato.

E appena giunti in alto mare, un vento contrario li gittò di nuovo alla riva. E sulla riva c’era ancora il poeta, che allora insisté:

Ospiti, un vento contrario piombò sopra voi, vi rattenne.
Ora accoglietemi, infine, ché facile avrete la rotta.

I pescatori questa volta si decidono, lo accolgono, ed eccoli tutti, finalmente a Chio, vicino a Bolisso, sulla costa occidentale. Sbarcano, lasciano Omero sulla spiaggia, ed essi si allontanano per attendere al loro mestiere. Omero s’inoltra solo pel territorio sconosciuto, passa la notte all’aperto, sotto un albero di pino. E, mentre dorme, gli cade sul capo una pina; alla quale egli consacra i seguenti versi:

Un altro pino gitta le pine piú grosse di questa
tua, su le vette dell’Ida ventosa dai molti recessi,
dove sempre sarà per gli uomini il ferro migliore,
sinché di quella terra saranno signori i Cebrèni 4.

Sorto di lí, Omero riprese il suo cammino, dirigendosi verso i belati di certe capre che pasturavano. I cani lo investirono, egli gridò, il pastore accorse, e li scacciò; e chiese al poeta come mai cosí cieco e solo si avventurasse per quei luoghi. E il poeta gli narrò la sua storia; e il pastore, Glauco, mosso a pietà, lo accolse nella sua capanna, al suo povero desco. Mangiarono, e i cani, affamati, abbaiavano. Onde il poeta:

Dare un consiglio o Glauco, dei greggi custode, ti voglio.
Prima di tutto, ai cani che guardan la casa, tu devi
dar da mangiare: è meglio cosí: perché súbito l’uomo
senton che avanza, allora, la fiera che invade il recinto.

Finito il banchetto, Omero incantò Glauco col racconto dei suoi viaggi e delle sue avventure; e cosí protrassero molto la veglia.

La mattina dopo, Glauco lasciò Omero solo nella capanna, in compagnia d’un capraro suo compagno, e si recò a Bolisso, a narrar tutto al padrone. Questi lo rimproverò perché aveva cosí accolto il primo venuto; ma tuttavia, gli disse di condurglielo. E come ci ebbe un po’ parlato, si convinse che era un uomo di merito e di esperienza, e gli affidò l’educazione dei suoi figli.

E Omero accettò. E trascorse allora un periodo abbastanza tranquillo; e scrisse le seguenti opere: I Cèrcopi, La Batracomiomachia, La Psaromachia (battaglia degli storni), L'Eptactichè (titolo poco chiaro), gli Epichichlídes (I Tordi), e — soggiunge l’autore — tutti gli altri carmi scherzosi attribuiti ad Omero. E di questi carmi scherzosi, Suida e Proclo ci danno qualche altro titolo; e precisamente, l'Aracnomachia (la battaglia dei ragni); la Geranomachia (battaglia delle gru, s’intende coi Pigmei); la Keramís (sarà quella stessa breve poesia che ci è giunta sotto il nome di Kàminos). Cosí Omero divenne in poco tempo famoso; e Testòride, per evitare un incontro che non sarebbe riuscito a suo vantaggio, fu costretto ad allontanarsi da Chio.

***

Ora incomincia come un terzo periodo della vita d’Omero, nuovamente arriso dalla fortuna, o, per lo meno, dalla serenità.

Partito Testòride, egli lo sostituì, naturalmente, a Chio. E qui fondò una scuola, trovò moltissimi ammiratori, mise insieme una bella sostanza, e si ammogliò. Dal matrimonio gli nacquero due figlie; ed una morí nubile, l’altra sposò un uomo di Chio, perpetuando così nella città ospitale il sangue del poeta divino.

E qui, consacratosi infine con piena tranquillità all’arte sua prediletta, compose l'Odissea, dove, fra altro, sciolse i suoi debiti di gratitudine verso tutti quanti gli avevano fatto del bene; da Mente e Mentore, a Femio, il geniale cantore dei Feaci, al capraio Glauco, identificato col buon porcaro Eumelo, e sino a Tuchio, il cuoiaio immortalato nel nome dell’artefice che foggiò lo scudo d’Aiace.

A mano a mano la sua fama crebbe, attraversò il mare, si diffuse per tutta la Grecia. E da tutta la Grecia accorreva gente per vederlo di persona, per bearsi della sua arte sublime. E molti lo consigliarono a recarsi sul continente; ed egli, infine, si risolve’ ad accettare l’invito.

Partito, andò prima a Samo, e vi giunse mentre celebravano le feste Apatúrie. Fu invitato alla festa; ma mentre ve lo conducevano, giunti in un trivio, s’imbatterono in certe donne che sacrificavano alla Curotròfa (la Dea protettrice dei bambini). E la sacerdotessa, vedendolo, gridò: «Sta lontano dalla sacra cerimonia!» E Omero, sdegnato, rivolse direttamente alla

Diva la seguente preghiera:

Dea che proteggi i bambini, ascoltami tu: questa donna
fa’ che respinga l’affetto dei giovani e il letto d’amore,
che si compiaccia solo dei vecchi dal crine canuto,
i cui begli anni sono sfioriti, e la mente delira.

Giunto poi alla casa della celebrazione, dove stavano accendendo il fuoco sacro, cantò:

I figli sono all’uomo corona, le torri alla rocca,
sono i cavalli ornamento del piano, le navi del mare.
È delle case fregio ricchezza; ed i principi degni
seduti in assemblea, visibile fregio a le genti.
Piú decorosa è la casa, se il fuoco vi brilla, a vedere,
nei dí d’inverno, quando giú fiocca la neve dal cielo.

Poi entrò nella casa, banchettò, trascorse la notte con i suoi nuovi amici. La mattina dopo, mentre passava davanti ad una fornace, fu invitato dai fornaciai a improvvisar qualche cosa per loro. Ed egli compose la vaghissima Fornace (vedila a pag. 179).

A Samo trascorse tutto l’inverno; e a luna nuova, in compagnia coi ragazzi del paese, soleva andare in giro per le case dei benestanti, e cantava i versi seguenti:

Verso la casa moviamo d’un uomo di grande potere,
che molto può, che sempre distinto è per grande opulenza.
Su, spalancatevi, o porte, da voi: ché Ricchezza s’avanza

senza risparmio, e con lei la florida Gioia, e la Pace
benigna. Quanti vasi ci sono, si colmino tutti.
Orzo e frumento, voi scivolate via via dalla madia,
per impastare una bella focaccia, di sèsamo aspersa.

A noi cosí la donna, moverà sul carro del figlio.
La condurranno dei muletti di solida gamba,
ed essa filerà la tela, sedendo su l’ambra.

Cenno vi faccio, vi faccio, al pari di rondine, ogni anno,
a piedi scalzi sto sul vostro vestibolo. Presto
dà quattrinelli ad Apollo, signor delle strade....

E seguitava, non più in esametri, bensí in giambi:

Questo se vuoi farci un regalo: se
non vuoi, qui piú non indugiamo: ché
qui non venimmo ad abitar con te.

Tutti versi che, ancora molti e molti anni dopo, erano cantati dai ragazzi quando si adunavano nelle feste d’Apollo.

Al ritorno della Primavera, il poeta riprese il suo viaggio, per recarsi in Atene. Messisi in mare, approdarono all’isoletta di Ios, e si fermarono sulla spiaggia, senza giungere alla città.

E Omero incominciò a sentirsi male, e non poté più imbarcarsi. E incominciò a venire a lui, dalla città, una quantità di gente, che, al solito, rimaneva stupita alla bellezza dei suoi versi.

Qui, presso al momento della morte, segue un aneddoto d'una stupidità e d’una inopportunità inverosimili. Tuttavia lo riferisco, perché ad esso si collegano alcuni versi, che poi non sono riportati solamente nella nostra vita, bensì anche, e con aggiunte, dall’autore del Contrasto fra Omero ed Esiodo, e da quello della Vita d’Omero attribuita a Plutarco. Senza contare che i due versi riferiti nella nostra vita furono conservati anche da Suida: tanto vero che la mala erba attecchisce piú facilmente della buona.

Dunque, mentre Omero giaceva cosí ammalato sulla spiaggia, si sarebbero avvicinati a lui dei pescatori giovinetti, che tornavano dal mare con le mani vuote. E Omero avrebbe loro dimandato:

O cacciatori di preda marina, che mai s’è pigliato?

E i ragazzi avrebbero data una risposta enigmatica:

Quanto cercammo perdemmo, portiamo ciò che non cercammo.

Nessuno arrivò a capire che cosa volessero dire, neppure Omero. E i ragazzi spiegarono allora che in mare non avevano preso nulla, ma in terra s’erano empiuti di bravi pidocchi, e questi sí, li portavano a casa.

E Omero avrebbe risposto:

Sfido! Da tali antenati discesa è la vostra progenie
che non aveano grandi possessi né copia di greggi.

Intanto la malattia diveniva sempre piú grave. E, infine, Omero venne a morte, e fu seppellito sulla spiaggia, dai marinari, e dai cittadini d’Ios, che erano venuti ad ascoltarlo e a conversare con lui. E sulla sua tomba posero il seguente epitafio:

La terra il sacro capo nel grembo qui cela dell’uomo
che celebrò gli eroi nel canto, d’Omero divino.

***

L’aneddoto dei pescatori, che conclude la narrazione, è tale, confessiamolo, da gittare un discredito di riflesso anche su tutto quanto precede.

E cosí anche, risalendo dalla fine verso il principio, troviamo una quantità d’aneddoti o insulsi o inopportuni. Per citarne qualcuno, non è verisimile che il poeta, oramai carico di gloria, movendo verso la Grecia che lo desiderava, si fermasse tanto tempo a Samo, e vi pitoccasse, sia pure mezzo per gioco, di porta in porta. Assolutamente grottesca, a parte il suo carattere poco omerico, è l’imprecazione contro la sacerdotessa. E, cosí via, una quantità di piccoli incidenti, elevati quasi a dignità di eventi importanti e caratteristici, tradiscono, piú assai nell’ultima parte, ma un po’ dappertutto, il tardo carattere di questa compilazione.

Ma con queste indiscutibili affermazioni non abbiamo còlta tutta la verità, non abbiamo esaurita, credo, la nostra impressione. Non ci siamo reso conto, per esempio, del fàscino singolare, che, ad onta di tante scipitaggini, ci tiene avvinti sino alla fine alla lettura di questa vita.

E se ne cerchiamo le ragioni, ci sembra di poterle trovare, innanzi tutto, in una singolare convenienza o armonica corrispondenza fra le sostanziali vicende esposte in questa vita, e le conclusioni che s’impongono a noi medesimi, alla nostra sensibilità psicologica e artistica, se tentiamo d’indurre dalla sopravvissuta opera d’Omero alla personalità del poeta.

È intanto caratteristica quella divisione della vita in tanti periodi, intessuti ciascuno di eventi o tutti buoni o tutti tristi. Cosí avviene appunto nella realtà: dove ben di rado si vede un minuto e regolare alternarsi di bene e di male.

È anche da osservare il fatto che il poeta, tornato a Smirne dopo una lunga assenza, non ritrova piú l’antico successo. Avviene proprio cosí: che il ritorno ai luoghi dove si fu felici e che si abbandonarono, non procura mai altro se non delusioni e amaritudini.

Altra circostanza notevole è l’illegittimità della nascita d’Omero. Un genio cosí smisurato, sembrava implicasse una origine anche soprannaturale. L’antica saggezza dei popoli attribuiva costantemente agli eroi padri divini; e anche in tempi pienamente storici, la Grecia favoleggiò miracolose circostanze intorno alla nascita dei grandi poeti e dei grandi artisti. Nella nostra vita, invece, nulla di soprannaturale. Omero è figlio di due semplici mortali. Ma c’è pure un elemento che prepara e spiega la sua straordinaria grandezza; ed è la sua nascita illegittima; che, se non trova base nella realtà, fu concepita nel medesimo spirito che suggerì a Shakespeare l’apostrofe di Edmondo nel Re Lear:

                                        Why brand they us
With base, with baseness bastardy, base, base,
Who in the lusty stealth of nature take
More composition and fierce quality
Than doth, within a dull, stale, tired bed,
Go to creating a whole tribe of fops
Got ’tween asleep and wake?

Però è anche legge naturale che i maschi, e massime i

maschi di genio, derivano dalla madre. E come Omero è figurato assai buono, cosí buonissima è figurata Cretèide: tanto, che il suo fallo giovanile è perfettamente dimenticato dal buon Femio, che non se ne deve pentire.

Ed è anche certo che le piú ardenti qualità d’un illegittimo di genio potrebbero condurre, e conducono quasi sempre, ad eccessi peccaminosi, ove non siano presto frenate e ben dirette dalla vigilanza e dall’amore. E specialmente dalla vigilanza e dall’amore materno, che sono i fondamentali coefficienti d’ogni ulteriore sviluppo dei figli geniali. E nella «vita», vediamo che la povera Cretèide, non solo si affatica da mane a sera per mantenere il bambinetto, ma, appena cresciuto, si affanna per farlo, «nei limiti dei suoi mezzi», educare. È questa una parte che anche adesso c’infonde in cuore una singolare tenerezza.

E la precisa descrizione di paesi, ed anche la profonda penetrazione dei sentimenti e delle passioni umane, che si ammirano in Omero, sembrano presupporre una vita di lunghi viaggi e di molteplici esperienze; quasi come quella dell’omerico Ulisse, che

vide molte città, di molti uomini l’indole seppe.

E nella nostra «vita» vediamo il poeta non cieco, non sedentario, ma ben veggente, ed errante a lungo, a due riprese, di gente in gente, di paese in paese.

Ancora, tutti sanno come nell’opera narrativa di qualsiasi grande artista, una quantità di episodi che a prima vista potrebbero sembrare parti della libera immaginazione, sono invece, anche quando parrebbero straordinari, libere trascrizioni dalla realtà. Anzi, si può forse asserire che quanto più grande è l’artista, tanto piú costante e piena è l’aderenza della sua opera al vero. Ebbene, nella nostra vita ritroviamo, non solamente le condizioni generiche per la nascita e la formazione d’un gran genio artistico, bensí anche i presupposti d’una quantità di episodi dell’opera sua. E degli episodi, per l’appunto, dietro i quali una sensibilità esercitata, inducendo liberamente dal testo, sente il modello reale: l’abbandono sulla spiaggia deserta; l’assalto dei cani furiosi; l’ospitalità del pastore e la veglia protratta fra i lunghi racconti; l’affetto della fanciulla giovanissima per l’uomo già maturo, ma circonfuso del fàscino della fama.

Qualora tutte queste circostanze non avessero alcuna base nella realtà, ma fossero state liberamente escogitate dal compositore della nostra vita, dimostrerebbero un acume e una penetrazione davvero singolari. Ma una lode senza subordinazione gli va poi data per la critica che egli esplicitamente esercita sopra i dati della tradizione comune.

Innanzi tutto, pure accogliendo il grottesco episodio dei pescatori, che sembra fosse divenuto canonico e da non potersi omettere, perché lo troviamo fedelmente riprodotto in tutte quante le vite, egli lo purifica, respingendo recisamente il piú ridicolo particolare, secondo il quale Omero sarebbe morto pel cordoglio di non aver saputo risolvere quell'insipido indovinello5. E brevemente, ma non meno recisamente 6, si oppone all’altra leggenda che faceva nascere Omero già privo della vista. Infatti, solo una perfetta inintelligenza artistica poté immaginare o accettare la versione che nascesse cieco il poeta che con maggiore penetrazione e precisione d’ogni altro ha saputo ritrarre nell’aerea materia della parola il variopinto spettacolo dell’universo.

Ma piú ancora di questa critica polemica, ha per me significato una osservazione che l’autore fa a proposito dei viaggi d’Omero. Dopo aver detto che Mente fece considerare al poeta quanto sarebbe stato opportuno per lui viaggiare mentre era ancor giovine, soggiunge: «E, a parer mio, questa fu la considerazione che piú d’ogni altra poté convincerlo; perché sin d’allora pensava di consacrarsi alla poesia» 7.

Il che significa che egli intendeva bene, come, a parte le disposizioni ingenite, insostituibili, la materia e gli incitamenti alla poesia non si possono attingere dai libri, né trovare standosene tappati nello studio; bensí occorre cercarli tuffandosi nel gran mare della vita; che fu poi la maestra di quell'Ulisse in cui Omero dové ritrarre molte linee della sua fisionomia intellettuale.

Questa concezione non è davvero alessandrina; e onora molto l’intelligenza dello scrittore che cosí chiaramente la professa. Tali dunque, se non m’inganno, le ragioni per cui la vita del pseudo Erodoto, invece di respingerci, come le altre vite, e come tanti altri consimili documenti della bassa erudizione, esercita sul nostro spirito una certa attrattiva. Egli è che, sotto quel lussureggiante frondeggiare di scipitaggini, s’intravvede, o, per lo meno, s’intuisce una schietta architettura di rami. Quanto sono futili e ridicoli alcuni particolari, tanto è buona la concezione generale.

Questa vita sarà un romanzo; ma un romanzo concepito né volgarmente né senza conoscenza delle ragioni della vita e dell’arte. In esso appaiono determinati, con tempra o dosatura assai giusta, gli elementi che concorsero a formare il poeta e la sua speciale opera. Non ripeto quanto ho già detto. Ma sia ancora osservata la profonda intuizione onde in sostanza la fonte principale della ispirazione d’Omero sembrerebbe da ricercare nelle sue sventure, nella sua vita d’esilio, sopportata con animo sempre forte e sereno. Fanno pensare alle parole magnanime di Dante ai Fiorentini i versi rivolti ai Cumei:

Ed io, la sorte mia, che il Dio m’assegnò quando io nacqui, sopporterò, patirò con animo saldo il rifiuto.

Sarà certo un romanzo; ma per concepirlo c'è voluto, non dico solo piú ingegno, bensí anche piú intelligenza d’arte e maggior senso critico di quanto ne abbiano dimostrato i cento e cento filologi che negli ultimi ed ultimissimi tempi si sono ingegnati a derivare dallo studio dei testi omerici la storia della loro genesi e dei loro sviluppi.

E se, messi da parte gli occhiali affumicati della filologia, che àlterano le linee e distruggono i colori, volessimo cercare attentamente nei due grandi poemi le tracce, piú numerose che non si creda, della personalità del poeta, e abbozzarne una immagine ideale, questa non potrebbe riuscire troppo differente da quella che ci presenta l’autore della tanto spregiata compilazione8.

Si capisce bene che bisogna però far piena giustizia dei non pochi particolari scipiti, grotteschi o addirittura ridicoli. Ma questi, ripetiamolo, non hanno verun carattere organico, e si possono scindere dalla narrazione senza che il complesso ne rimanga alterato.

Anzi, come dissi, ne rimane risanato sino al punto da assumere un vero valore psicologico ed artistico. E ci appare come una di quelle melodie dei nostri classici (diciamo del Corelli), che, schiette e pure in origine, furono a mano a mano appesantite e deturpate dagli abbellimenti dei virtuosi esecutori, che s’incrostarono al testo, e vi rimasero tradizionalmente appiccicati. Basta però toglierli, perché la bella linea riemerga nella sua castità originaria.

Insistiamo ancora sul confronto, che regge in tutto. Anche quelle semplicissime melodie furono in origine, dallo stesso compositore, abbellite di melismi non consegnati alla scrittura, che ne sviluppavano e mettevano in piena luce la sostanziale bellezza e le germinali capacità di sviluppo. Se potessimo fare altrettanto per la nostra «vita», scrostarne gli abbellimenti barocchi, e sostituirvi sobri ed opportuni adornamenti, forse ne riuscirebbe piú limpida la bontà sostanziale. Vuole il caso che l’esperimento sia stato già fatto, e in condizioni tali da escludere ogni sospetto di «tendenza».

Fra le sue «Vite di grandi uomini», che costituiscono una delle parti meno note ma anche piú attraenti della sua immensa attività poetica, il Lamartine ne ha scritta anche una di Omero. E si è attenuto, punto per punto, alla nostra vita, stralciandone i luoghi grotteschi, mettendo nella giusta luce quelli che tali sembrano per una meno felice collocazione, colmando le ovvie lacune, traendo o sviluppando le considerazioni appena accennate o taciute, e, innanzitutto, dando il debito rilievo ai punti profondi o teneri, o comunque poetici, assai piú frequenti che non possa sembrare ad una prima lettura. E ne è risultato un racconto verisimile, commovente e poetico. Il Lamartine stesso, ne rileva piú volte, con animo commosso, la convenienza con la gran figura del poeta, quale si può intravvedere dalle sue opere. «Ecco — dice egli concludendo — la storia d’Omero. È semplice come la Natura, triste come la vita. Si riassume tutta nel dolore e nel canto. È, in genere, il destino dei poeti. Se non sono torturate, le fibre non rendono suono altro che fioco. La poesia è un grido; e nessuno può lanciarlo pienamente sonoro, se non è stato colpito al cuore».

— E le conclusioni?

— Mi guarderei bene, in tanta oscurità, di volerne offrire alcuna troppo precisa. Voglio invece riferire ancora alcune parole del Lamartine.

«Le tradizioni, per quanto meravigliose, sono pur sempre l'erudizione dei popoli; e noi crediamo piú ad esse che non ai dotti, i quali vengono, dopo tanti secoli, a contestarle o a smentirle. Finché non esistono libri scritti, la memoria della nazione è il libro inedito della loro stirpe. Ciò che il padre ha raccontato al figlio e il figlio ripete ai suoi pargoli, non può essere mai completamente destituito di qualsiasi base reale. Risalendo di generazione in generazione all'origine di queste tradizioni di famiglia e di razza, che via via nel loro corso si accrescono di qualche nuova favola, si fa come il viaggiatore che risale il corso d’un fiume incognito: si arriva infine ad una fonte: piccola, sí, ma fonte di verità».

Cosí Lamartine. E nessuno mi convincerà mai che in questioni d’arte, o, comunque, di pensiero, un grande poeta, un grande artista, debba vedere men chiaro d’uno specioso sofista o d’un arido erudito, al quale, in genere, non si può mai riconoscere altro merito se non quello di essersi procurata in tempo debito una brava tessera della onorata società filologica.


  1. Si trova in Westermann, Vitarum scriptores graeci minores.
  2. Sarà riportato nel volume su Esiodo.
  3. Mi sembra che cosí bisogni intendere il passo: Φάς (Θεστορίδης) έτοιμος είναι θεραπεύειν χαί τρέφειν αύτόν άναλαβών, εί έθέλοι ά γε πεποιημένα είη αύτφ τών έπέων άναγράψαι χαί άλλα ποιών πρός έωυτόν άναφέρειν αίει. Se s’intendesse che Omero accettò di cedergli la proprietà dei suoi scritti, non si capirebbe poi la sua indignazione e il suo pronto accorrere a Chio appena sa che Testoride spaccia per propria la roba sua.
  4. I Cumei, erano allora in procinto di fondare la città di Cebrene sotto l’Ida, dove si trovavano miniere di ferro.
  5. Per esempio, il pseudo Plutarco dice: ὂπερ οδ δυνηθεὶς συμβαλειν Ὄμηρος διὰ τὴν αθυμίαν ὲτελεὐτησεν. E nelle altre vile ci sono particolari ancora piú ridicoli. La nostra dice: συνέβη τὸν Ὄμηρον τελευτῆσαι... οὺ παρὰ τὸ μῆ γνῶναι τὸ παρὰ τῶν παίδων ῥηθέν, ὠς οῖονταί τινες, ὰλλὰ τῆ μαλακίη.
  6. Ἡ Κρηθηὶς... τίκτει τὸν Ὂμηρον, οῦ τυφλόν, ὰλλὰ θεδορκότα.
  7. Μέντης... ἔπεισε τὸν Μελησιγένη μεθ᾿ ἐωυτοῦ πλειν... καὶ ὅτι χώρας καὶ πόλιας θεἡσασθαι ἄξιον εἴη αὐτῷ ἒως νέος ἐστἰν, καἰ μιν οἵομαι μάλιστα τούτοισι προαχθῆναι, ἵσως γὰρ καὶ τῇ ποιἠσει ἢθη τότ᾽ ἐπενόει ἐπιθἠσεσθαι.
  8. Se ne veda qualche spunto nelle prelazioni all'Iliade e all'Odissea di questa collezione.

Note

    Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.