< Osservazioni sulla tortura
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XIII XV


§.XIV.

Opionione d’alcuni rispettabili scrittori intorno la Tortura, ed usi odierni di alcuni stati.

Nè mancarono di tempo in tempo uomini illuminati, che apertamente mostrarono la disapprovazione loro all’uso della tortura. Veggasi Cicerone nella citata Orazione Pro Silla: egli chiaramente dice: Illa tormenta moderatur dolor, gubernat natura cujusque, tum animi, tum corporis, regit quaesitor, flectit livido, corrumpit spes, infirmat metus, ut in tot rerum angustiis nihil veritati locum relinquatur. «La tortura è dominata dallo spasimo, governata dal temperamento di ciascuno, sì d’animo che di membra; la ordina il giudice, la piega il livore, la corrompe la speranza, la indebolisce il timore, cosicché fra tante angosce nessun luogo rimane alla verità.» Così Cicerone parlava della tortura, sebbene co’ soli servi venisse allora costumata. Veggasi S. Agostino1 dove tratta dell’errore degli umani giudizj quando la verità è nascosta, De errore humanorum judiciorum dum veritas latet, ove chiaramente disapprova l’uso della tortura: «Mentre si esamina se un uomo sia innocente si tormenta, e per un delitto incerto dassi un certissimo spasimo; non perché si sappia che sia reo il paziente, ma perché non si sa se sia reo, quindi l’ignoranza del giudice ricade nell’esterminio dell’innocente:» Dum quaeritur utrum sit innocens cruciatur, et innocens luit pro incerto scelere certissimas poenas, non quia illud commisisse detegitur, sed quia commisisse nescitur, ac per hoc ignorantia judicis plerumque est calamitas innocentis. Quintiliano pure2 accenna la disputa che eravi fra quei che sostenevano che la tortura è un mezzo di scoprire la verità, e quei che insegnavano esser questa la cagione di esporre il falso, poiché i pazienti tacendo mentiscono, e i deboli sforzatamente mentiscono parlando: Sicut in tormentis, qui est locus frequentissimus cum pars altera quaestionem vera fatendi necessitatem vocet, altera saepe etiam causam falsa dicendi, quod aliis patientia facile mendacium faciat, aliis infirmitas necessarium. Su tal proposito Seneca dice: Etiam innocentes cogit mentiri; il dolore sforza anche gl’innocenti a mentire. Valerio Massimo3 tratta pure della tortura disapprovandola. Principalmente poi il Vives, nel Commentario al citato passo di S. Agostino, detesta la pratica della tortura ampiamente. Io però ne riferirò soltanto parte. «Io mi maraviglio, dice quest’autore, che noi Cristiani riteniamo tuttavia delle usanze gentilesche, e ostinatamente le difendiamo; usanze non solamente opposte alla carità cristiana, ma alla stessa umanità:» Miror Christianos homines tam multa gentilia, et ea non modo charitati et mansuetudini christianae contraria, sed omni etiam humanitate, mordicus retinere. Indi soggiunge: «Qual’è mai questa pretesa necessità di tormentare gli uomini, necessità deplorabile, e che, se fosse fattibile, dovrebbe con un rivo di lacrime cancellarsi, se la tortura non è utile, anzi se se ne può far senza, nè perciò ne verrebbe danno alcuno alla sicurezza pubblica? E come vivono adunque sì gran numero di nazioni anche barbare, come le chiamano i Greci ed i Latini, le qual nazioni credono feroce e orrenda cosa torturare un uomo, della di cui reità si dubita?..... Non vediamo noi ben sovente degl’infelici che incontrano la morte, anzi che poter sopportare lo spasimo e si accusano di un delitto non commesso, certi del supplizio, per evitare la tortura? In vero debbe aver l’animo da carnefice chi può reggere alle lacrime, ai gemiti, alle estreme angosce espresse dallo spasimo di un uomo che non sappiamo se sia reo. E una così acerba, così iniqua pratica lasciamo noi che domini sul capo di ciascuno di noi?» Quae est enim ista necessitas tam intollerabilis et tam plangenda, etiam si fieri potest fontibus lacrymarum irriganda, si nec utilis est, et sine damno rerum publicarum tolli potest? Quomodo vivunt multae gentes et quidem barbarae, ut Graeci et Latini putant, quae ferum et immane arbitrantur torqueri hominem, de cujus facinore dubitatur... An non frequentes quotidie videmus, qui mortem perpeti malint quam tormenta, et fateantur fictum crimen de supplicio certi, ne torqueantur? Profecto carnifices animos habemus, qui sustinere possumus gemitus et lacrymas, tanto cum dolore expressas, hominis quem nescimus sit ne nocens. Quidquod acerbam et per quam iniquam legem sinimus in capita nostra dominari? Nè fra i criminalisti medesimi mancò mai un numero di uomini più ragionevoli e colti, che detestarono l’uso de’ tormenti: così lo Scalerio, il Nicolai, Ramirez de Prado4, Segla5, Rupert6, il Weissenbac, il Wesembeccio e simili: l’ultimo7 chiama la tortura una invenzione diabolica, portata dall’inferno per tormentare gli uomini: inventum diabolicum ad excruciandos homines de tormentis infernalibus allatum. E il Mattei nel suo trattato De criminibus8 ha scritto contro l’uso de tormenti; e il Tommasi9 dice, che onestamente confessa che la tortura è cosa iniqua e indegna di un popolo cristiano: Iniquam esse torturam, et Christianas respublicas non decentem cordate assero. Finalmente un trattato completo scrisse su tal argomento Giovanni Grevio, col titolo: Tribunal reformatum; in quo sanioris et tutioris justitiae via judici Christiano in processu criminali commonstratur, rejecta et fugata tortura, cujus iniquitatem et multiplicem fallaciam, atque illicitum inter Christianos usum libera et necessaria dissertatione aperuit Joannes Grevius, etc.

Da questa serie d’autorità sembra bastantemente chiaro il torto di coloro che asseriscono che sia un nuovo ritrovato de’ moderni filosofi l’orrore per la tortura: essi non possono aspirare a questa gloria di aver i primi sentita la voce della ragione e dell’umanità su di tale proposito; ma tanto è antica la contraddizione a questa barbara costumanza, quanto è antico il ragionare e l’abborrire le inutili crudeltà. Io non citerò adunque alcuno de’ moderni filosofi, contento di aver allegate le autorità di Cicerone, di S. Agostino, di Quintiliano, di Valerio Massimo e degli altri.

Resta finalmente da conoscere, se quello che poté praticarsi presso la repubblica degli Ebrei, presso la Grecia e presso Roma, sia eseguibile ancora ai tempi nostri. Io su tal proposito citerò uno squarcio di quello che il re di Prussia ha scritto nella dissertazione, Dei motivi di stabilire o d’abrogare le leggi: «Mi si perdoni, dice il reale Autore, se alzo la voce contro la tortura; ardisco assumere le parti dell’umanità contro di una usanza indegna de’ Cristiani, indegna di ogni nazione incivilita, e tanto inutile quanto crudele. Quintiliano, il più saggio e il più eloquente retore, riguarda la tortura come una prova di temperamento; uno scellerato robusto nega il fatto, un innocente gracile se ne accusa. È accusato un uomo: vi sono degl’indizj, il giudice vuol chiarirsene; si pone lo sgraziato uomo alla tortura. Se egli è innocente, qual barbarie è ella mai l’avergli fatto soffrire il martirio? Se la violenza del tormento lo sforza ad accusare sè stesso indebitamente, quale detestabile inumanità è ella mai quella di opprimere cogli spasimi i più violenti, e condannare poi al supplizio un cittadino virtuoso? Sarebbe men male lasciar impuniti venti colpevoli, di quello che lo è il sacrificare un innocente. Se le leggi vengono stabilite per il bene de’ popoli, come è mai possibile che si tollerino di tali che prescrivono ai giudici di commettere metodicamente delle azioni tanto atroci, e che ributtano la stessa umanità? Sono già otto anni (allora che il Re scriveva, ora saranno trenta) dacché la tortura è abolita in Prussia; siamo sicuri di non confondere il reo coll’innocente, e la giustizia non perciò ha ella perduto punto del suo vigore:» Qu’on me pardonne si je me recrie contre la question. J’ose prendre le parti de l’humanité contre un usage honteux à des Chrétiens et à des peuples policés, et, j’ose ajouter, contre un usage aussi cruel qu’inutile. Quin- tilien, le plus sage et le plus éloquent des rhéteurs, dit en traitant de la question, que c’est une affaire de tempérament: un scélérat vigoureux nie le fait, un innocent d’une complexion faible l’avoue. Un homme est accusé; il y a des indices, le juge est dans l’incertitude, il veut s’éclaircir: ce malheureux est mis à la question. S’il est innocent, quelle barbarie de lui faire souffrir le martire? Si la force des tourmens l’oblige à déposer contre lui même, quelle inhumanité èpouvantable que l’exposer aux plus violentes douleurs, et de condamner à la mort un citoyen vertueux, contre lequel il n’y a que des soupçons? Il vaudrait mieux pardonner à vingts soupables, que de sacrifier un innocent. Si les loix se doivent établir pour le bien des peuples, faut-il qu’on en tolère de pareilles qui mettent les juges dans le cas de commettre méthodiquement des actions criantes, qui révoltent l’humanité? Il y a huit ans que la question est abolie en Prusse: on est súr de ne point confondre l’innocent et le coupable, et la justice ne s’en fait pas moins. Così parla, così attesta uno de’ più grandi uomini che sta sul trono. In Prussia, nel Brandeburghese, nella Slesia e in ogni parte della dominazione prussiana non si dà più tortura di veruna sorta, e la giustizia punisce i rei, e la società vi è sicura.

Nell’Inghilterra già da molto tempo non si tollera più la tortura: la legge condanna a un genere di morte il reo che ricusa di rispondere al giudice: questa si chiama la peine forte et dure, ma a torto chiamerebbesi tortura, poiché finisce colla morte, e non è veritatis indagatio per tormentum. Veggasi sul proposito dell’Inghilterra il barone di Bielfed10. «Dacché l’esperienza fa vedere che nell’Inghilterra e nella Prussia i delitti si discoprono e si puniscono, che la giustizia si esercita e la società non ne soffre, ella è cosa quasi barbara il non abolire l’uso della tortura. Chiunque ha viscere, ed abbia una volta veduto commettere una tal violenza alla natura umana, non può, cred’io, essere di un parere diverso;» così egli: Depuis qu’on voit en Angleterre et en Prusse que tous les crimes se découvrent, qu’ils sont punis, que la justice est rendue, que la société n’en souffre point, il est presque barbare de ne pas abolir l’usage de la question. Quiconque a des entrailles, et a vu une fois faire cette violence à la nature humaine, ne saurait s’empêcher, je pense, d’etre de mon sentiment. Che nell’Inghilterra sia affatto abolita la tortura, lo attesta anche il presidente di Montesquieu11. Anche nel regno della Svezia non si usano torture, se crediamo a Ottone Tabor12. Nei regni d’Ungheria, di Boemia, nell’Austria, nel Tirolo ecc., per una ordinazione degna del regno di Maria Teresa, nell’anno 1776 restò abolito l’uso della tortura; e sulla fine dell’anno medesimo un così umano regolamento promulgossi nella Polonia con una legge che comincia così:«La costante esperienza dimostra quanto sia vizioso il mezzo impiegato in varj processi criminali per venire in cognizione della verità mediante la tortura, e nello stesso tempo quanto sia cosa crudele il farne uso per provare l’innocenza;» quindi se ne abolisce la pratica, e si prescrive che si debbano adoperare i soli mezzi di convinzione.

Vi sono stati e vi sono tuttavia alcuni, i quali per ultimo rifugio ricorrono alle locali circostanze del Milanese, ed asseriscono non potersi far senza della tortura presso della nostra nazione. Incautamente al certo, e per soverchia venerazione agli usi trapassati, in tal guisa calunniano la nostra patria; quasi che i cittadini nostri, d’indole oltre modo feroce e maligna, con altro miglior mezzo non si potessero contenere se non trattandoli con atrocità e degradandoli all’essere di schiavi; quasi che i principj di virtù e di sensibilità fossero talmente spenti nel nostro popolo, che quei mezzi che bastano presso le altre nazioni fossero insufficienti per noi! Io ben so che chi fa tale eccezione non riflette alle conseguenze, che pure immediatamente ne emanano. Chiunque conosce la nostra patria, per i nostri concittadini ne ha un’idea ben diversa: risovvengasi ciascuno dell’epoca non molto remota, quando la nostra benefica ed immortale sovrana Maria Teresa essendo in pericolo di soccombere al vajuolo, stavano aperte le chiese alle pubbliche preghiere; allora fu che ogni ceto di persone, artigiani, contadini, nobili, plebei, tutti, posposti gli ufficj loro, a piè degli altari singhiozzando offrivano voti all’Onnipotente per conservare i preziosi giorni di una sovrana, alla quale la virtù, la beneficenza e il dovere hanno guadagnato i cuori sensibili. I teneri e spontanei movimenti della moltitudine, che non poteva essere mossa da verun fine politico, bastano a provare il sentimento di bontà e di rettitudine che è comunemente piantato ne’ cuori. No, non si dica che i Milanesi sieno una eccezione odiosa della regola.

  1. Nel Lib. XIX, cap. 6, De Civit. Dei.
  2. Vedi vol. XLVIII, pag. 96 della precitata Biblioteca Scelta di opere latine tradotte.
  3. Lib. III, cap. 3, e Lib. VII, cap. 2.
  4. Pentecontarcos', Cap. IX.
  5. Nota 36 a una sentenza del Parlamento di Tolesa.
  6. Cap. 4, Lib. VII.
  7. Æconom., sotto questo tit.
  8. Tit., De quaest., Cap. V.
  9. Program., num. 27.
  10. Instit. polit., Tom. I, Cap. VI, §. 34.
  11. Vedi la nota retro alla pag. 49, ed in seguito al Lib. XXIX, Cap. 2.
  12. De tortura et indiciis delictorum, Tom. II, §. 18.
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