< Osservazioni sulla tortura
Questo testo è completo.
XIV XVI



§. XV.

Alcune obiezioni che si fanno per sostenere l’uso della Tortura.

Ma come costringeremo noi a rispondere un uomo, che, interrogato dal giudice, si ostina al silenzio, se non abbiasi il mezzo di costringerlo coi tormenti? Gl’Inglesi medesimi, che si citano per abolire la tortura, in tal caso la costumano. Ma a ciò si risponde, che è vero che gl’Inglesi nel solo caso in cui si ricusi di rispondere al giudice, usano la pena forte e dura, siccome essi la chiamano, la quale termina colla morte, lasciando cadere un pesantissimo sasso a schiacciare intieramente il contumace; ma questa non può chiamarsi tortura, ma bensì supplizio, al quale talvolta preferirono alcuni di succumbere, anzichè essere giudicati rei di un delitto che portasse la confisca de’ beni, oltre la morte; essendo che le leggi del regno non permettono che il fisco si approprj i beni di chi morì colla pena forte e dura, e in tal guisa l’amore de’ congiunti indusse alcuni a preferire il silenzio e questa pena. Si dice di più, che forse gl’Inglesi hanno conservato una porzione dell’antica barbarie col non abolire anche la pena forte e dura, poichè se nelle liti civili le leggi condannano il contumace reo a seconda delle ricerche dell’attore, bastava portare alle procedure criminali quello stesso metodo, e riguardando il contumace a rispondere come reo confesso condannarlo a norma delle leggi; cosi sarà tolta ogni necessità di tormentare o chi non risponde, ovvero chi non risponde a proposito. Se il prigioniero sarà ammonito più e più volte che il suo silenzio avrà luogo di confessione de’ delitti per i quali viene processato, non vi sarà dubbio che si trovi chi ostinatamente cerchi di perdere sè medesimo.

A questo passo replicano i sostenitori della pratica attuale: Noi non abbiamo la legge che ci autorizzi a condannare come convinto l’uomo che si ostina al silenzio o alla inconcludente risposta. Su di che essi hanno ragione di sostenere, che una sola legge che abrogasse la tortura sarebbe dannosa al corso della giustizia, qualora contemporaneamente non venisse promulgata l’altra che dichiarasse convinto il contumace.

La nostra pratica criminale è veramente un labirinto di una strana metafisica. Si prende prigione un uomo che si sospetta reo di un delitto. Quest’uomo cessa in quel momento di avere una esistenza personale. Egli è un essere ideale posto nelle mani del fisco, il quale lo interroga, lo inviluppa, lo spreme, lo tormenta sinchè, o colle contraddizioni o colle incoerenze, ovvero colla confessione del delitto smunta col tedio del carcere, colla miseria e colle torture, possa il fisco aver tratto da lui medesimo abbastanza per citarlo in giudizio. Fatte tutte queste lunghe e crudeli procedure, nel qual tempo non è permesso al reo di essere assistito o difeso, ecco il fisco che lo cita e lo costituisce avanti il giudice reo del tal delitto. Nei paesi più illuminati, invece, si prende una strada più breve e naturale. Appena posto in carcere il sospetto uomo, nel primo esame si considera cominciare il giudizio. Gli si pone in faccia il motivo per cui si sospetta reo; gli accusatori gli si pongono davanti, se ve ne sono. Se gli cerca ragione o discolpa: e così facilmente, e per una via più chiara, placida e regolare, si termina ogni processo. Così si fa ne’ processi militari, e così si pratica nei due reggimenti milanesi, composti certamente di soldati, i quali non sono scelti né fra i più virtuosi né fra i più semplici del popolo; e i delitti celeremente sono puniti, e vi è una fondata idea della rettitudine dei giudizj nei consiglj militari.

Come mai, dicono gli apologisti della tortura, come mai indurremo un reo a palesare i complici senza il mezzo della tortura? Tutte queste obbiezioni sono in fatti una perenne supposizione di quello che è il soggetto appunto della questione. Si suppone che la tortura sia un mezzo per rintracciare la verità. Ma anche prescindendo da questo si risponde, che un uomo che accusa sè medesimo non avrà difficoltà di nominare ordinariamente i complici; che un uomo che nega il delitto, non li può nominare senza accusare sè stesso; che finalmente per volere saper tutto e scrivere tutta la serie della vita di un uomo e de’ delitti che ha commessi o veduti commettere, ordinariamente si riempiono le prigioni di tanti disgraziati, e si vanno protraendo a somma lentezza i processi. È men male l’ignorare un complice e il punire sollecitamente un reo, di quello che sia, dopo averlo lasciato languire nello squallore del carcere per mesi ed anni, punire più uomini di un delitto, di cui nessuno ha più memoria: cosicchè altro non vede il popolo, che la isolata atrocità che eseguisce solennemente il carnefice.

Supponiamo che l’imperator Giustiniano fosse stato obbedito dai posteri. Egli radunò le leggi sparse, le opinioni de’ più accreditati giureconsulti romani, le decisioni del senato, quelle del popolo, e ristringendo tutto quello che credette utile e buono dalla sterminata mole de’ libri, ne fece compilare il Codice e le Pandette, nelle quali tutto il corpo della legislazione si conteneva, proibendo decisamente che alcuno più non osasse farvi commenti a scrivere per interpretarle. Se ciò fosse stato eseguito, come mai faremmo noi i giudizj criminali? Nessuna legge vi è per ammortizzare civilmente il prigioniero, per torturarlo, per farlo poi rivivere dopo scritto il processo. Se non vi fossero stati il Claro, il Bossi, il Farinaccio e gli altri che di sopra ho nominati, non si prenderebbe prigione alcun cittadino se non vi fossero gravi sospetti della di lui reità. Questi o nascono da’ testimonj che lo accusano d’un delitto, ovvero dalla vita sfaccendata e sospetta che mena, ovvero dalle spese che fa senza che se ne veda il come, ovvero da inimicizia violenta e minacce contro un uomo che fu offeso, e simili. Poi si condurrebbe il prigioniero avanti non ad un solo, ma a molti destinati a giudicarlo; verrebbe allo stesso francamente posto in faccia il sospetto e i motivi; s’interrogherebbe, se si tratta di un omicidio o furto, a giustificare dove egli abbia passato le ore nelle quali fu commesso il delitto; se di un furto, come egli abbia il danaro che se gli è trovato, e così a ciascun caso; e in poche ore si conoscerebbe se veramente il prigioniero fosse reo, ovvero innocente. Questo è il metodo che verrebbe usato, se nella giustizia criminale si osservassero le sole leggi, e non una pratica fondata illegittimamente sulle private opinioni di alcuni oscuri e barbari scrittori. Tale è il metodo de’ processi nella Gran Bretagna; ove altresì l’uomo accusato ha due sommi vantaggi; uno cioè di essere giudicato da persone scelte fra i suoi pari e non incallite ai giudizj criminali; l’altro di poter ricusare un dato numero degli eletti per giudicarlo, qualora abbia motivo di diffidenza. Tale parimenti è il metodo che si usa nel militare anche in Milano pei reggimenti italiani, e la giustizia fa rapidamente il suo corso senza che si lagni alcuno di tirannia, e senza che si condannino come rei gl’innocenti: caso che non tanto di raro avviene, quanto forse si crede.

Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.