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Paradiso del mare Verginella innocente in bianco velo
Questo testo fa parte della raccolta Girolamo Fontanella

XXX

I PIACERI DELLA VILLA

Ad Isabetta Coreglia

     Pace a voi, pinti augelli,
delicate pianure, alme colline,
ombre fresche, erbe molli, aure divine,
solitari recessi opachi e belli,
alti monti, ime valli, orti fioriti,
rotte balze, erme rupi, antri romiti!
     A voi lieto ritorno,
del mio povero aver contento e pago,
di silenzio e di pace amico e vago.
Deh, tumulto non sia dov’io soggiorno;
qui stia sepolto ogni mio lieto accento;
a la cittá non riportarlo, o vento.
     Porti l’occhiuta Fama,
che d’applausi si pasce e d’alti fasti,
a l’orecchio civil pugne e contrasti:
chi, fra strepiti avvezzo, avido brama
del fiero Marte esaminar gli errori,
legga pugne, oda trombe, ami furori.
     Ma chi, vago de’ boschi,
desia d’amica pace intender carmi,
meco venga tra’ colli e lasci l’armi:
qui, soletto fra rami ombrosi e foschi,
ove l’ombra cader serena io veggio,
riposato nel cor danzo e passeggio.
     Poggio dal piano a l’erto,
e parmi ad ora ad or toccar le stelle
su le cime de’ monti altere e belle.
Pendo nel mio piacer dubbio ed incerto,
e dico, asceso in sí sublime loco:
— D’arrivar sopra il ciel mi resta poco. —

     Ivi, mentre respiro,
fra due valli mi fermo ombrose e cupe.
Ove si sporge fuor diserta rupe,
sorger tempio devoto al ciel rimiro,
aula sacra di Dio, ch’infonde al petto
riverenza, stupor, téma e diletto.
     Santo e romito stuolo,
ch’ha di cenere sparsa ispide vesti,
spira qui con silenzio aure celesti:
ricco di povertá, solingo e solo,
ha d’irsute ritorte il fianco avvolto,
scalzo il piè, rozzo il manto e magro il volto.
     Aer sacro e sereno,
che di dolci pensier m’empie la mente,
ventilando di lá, spira sovente;
d’usignuoli selvaggi il loco è pieno,
ivi vengono e van gli augelli erranti;
ciascun, dubbio, non sai se pianga o canti.
     In quel tempio sacrato
tuona concavo bronzo, alto e canoro,
che la sacra famiglia invita al coro:
non da fabbro mortal sembra formato,
ma d’angelica man, ché, mentre suona,
come lingua del ciel parla e ragiona.
     Ben composto orticello
di spinosi roseti intorno cinto,
godo di vaghi fior smaltato e pinto;
poi, quando spunta il primo albor novello,
lascio le piume e per le siepi ombrose
di qua colgo e di lá fragole e rose.
     Quante belle farfalle
vagabonde e dipinte aprono i voli,
e quanti arguti e queruli usignuoli
fan qui col canto lor sonar la valle!
Ride il campo ed olezza, e lieto in viso
ogni fior che germoglia apre un sorriso.

     Qui porporeggia il melo,
lá giallo impallidisce il cedro antico,
e con lacero sen lagrima il fico;
di rubini la vite orna il suo stelo,
e di porpora e d’òr pendendo altero
miniata ha la scorza il pomo e ’l pero.
     Alzo gli occhi bramoso,
spio tra’ rami le frutta e ’l braccio stendo,
e qual piú mi diletta avido io prendo:
poi vicino ad un lauro il dí riposo,
e per frutti gustar soavi tanto,
ho melata la lingua e dolce il canto.
     Scorre l’ape soave,
e tanto i suoi susurri in aria ponno,
che mi stillano agli occhi un dolce sonno:
scende l’ombra da’ monti umida e gravi:
ecco stridulo il grillo, e in voci rotte
par ch’annunzi la pace e dica: — È notte. —
     Odo a punto a quest’ora
semplicetto cantor d’incólte rime
il villanel, che le sue fiamme esprime;
tratta cava testugine canora,
e con rozzo cantar dolce e concorde,
porge grazia a le voci, alma a le corde.
     A quel rustico accento
immerso in un sopor cupo e tenace,
prendo posa tranquilla e dolce pace;
poi de’ garruli augelli al bel concento,
salutando de l’alba il novo lampo,
gli occhi desto dal sonno e torno al campo.
     Sotto i piedi l’erbetta
lagrimosa mi ride, e sono i pianti,
ch’ella sparge tra’ fior, perle e diamanti.
Febo, amico di pace, allor mi détta
mille belli pensier; Febo m’è scorta,
e m’inalza la mente e al ciel mi porta.

     Qui, leggiadra Coreglia,
ove l’ombre piú dolci il monte serba,
meco il dí ti vorrei tra’ fiori e l’erba.
Ecco il lauro, ecco il mirto, ecco la teglia,
che fra mille d’amor zefiri ameni
mormorando ti chiama e dice: — Vieni. —
     Vieni, o saggia Nerina,
pastorella gentil, musica ninfa,
ove giubila qui l’aura e la linfa.
Ma tu, nova fra noi musa divina,
degni fai di tue luci oneste e pure
altri colli, altre ripe, altre pianure.
     Tu sotto il clima tosco,
bella italica Saffo, al mondo splendi,
e ’l tuo picciolo Serchio augusto rendi;
di civil maestá si veste il bosco,
qualor prendi la piva e mandi fuora
dal rubino spirante aura canora.
     Mille pinti augelletti
odi intorno cantar dolci e lascivi,
ne le cortecce ove intagliando scrivi.
Riverisce il pastor gl’incisi detti,
e son tanto i caratteri soavi,
che l’ape corre e vi compone i favi.
     Cangia l’empia fierezza
in costume gentil l’aspido sordo
e porge al tuo cantar l’orecchio ingordo;
e tanta dal tuo dir beve dolcezza,
ch’a l’armonia de la tua bella canna
il veleno ch’avea converte in manna.
     L’aria in vista s’allegra,
dal tuo vago splendor resa tranquilla,
e rose e gigli il ciel piove e distilla;
e benché in spoglia vedovile e negra
apparisci colá, tosto al tuo viso
l’ombra in luce si cangia e ’l pianto in riso.

     O beata campagna,
felice colle, avventuroso fiume,
che degni fai del tuo cortese lume!
Beato il Serchio ove irrigando bagna,
ché, nel suo molle e cristallino gelo
stampando il viso tuo, contiene il cielo.
     Io di qua, dove seggio
or fra sacri silenzi ombroso e muto,
col cor t’inchino e col pensier saluto.
Da quest’occhi non vista io pur ti veggio.
Oh stupor non udito, oh strano gioco!
la tua luce non vedo e sento il foco.

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