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90 Giovanni Boccacci

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Lo sdegno[1], el qual a torto me negava
  El vago sguardo degli occhi lucenti,10
  Coi qual Amor mi prese, è tolto via;
  E quel saluto, ch’io più desiava,
  Con humil voce e con acti piacenti
  Pur testé mi rendé la donna mia.


LVI.

Se quel serpente che guarda il thesoro[2],
  Del qual m’à facto Amor tanto bramoso,
  Ponesse pur un poco el capo gioso,
  Io crederrei con un sottil lavoro
  Trovar al pianto mio alcun ristoro:5
  Né in ciò sarebbe il mio cor temoroso,
  Come che già, in punto assai dubbioso,
  E’ mi negasse il promess’adiutoro.
Ma pria Mercurio chiuderà que’ d’Argo[3]
  Cantando di Syringa, che ’n que’ due10
  Io possa metter somno col mio verso;
  Et prima nelle lagrime, ch’io spargo,
  Morendo adempierò le voglie tue,
  Crudel Amor, ver me fiero et perverso!


LVII.

Qualor mi mena Amor dov’io vi veggia,
  Ch’assai di rado advien, sì cara[4] siete,


  1. Quello, per certo, di cui si parla in alcuni dei sonetti precedenti (cfr. p. 81, n. 2).
  2. Il marito della Fiammetta? Mi par più che probabile.
  3. Gli occhi d’Argo: cfr. V, 1-2.
  4. «Preziosa, che s’incontra di rado.»
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