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Sonetti del 1831 113

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PE’ DDISPETTO.

  Che jje disse a mmi’ mojje io, sor Fedele?
“Tòta,[1] da’ udienza a mmé, ffa’ la p......;
Ma nun batte acciarini:[2] e cche cc’è? er mèle?
4Che tte piasce in nell’arte de ruffiana?!„

  Ma cche! nun curze un’antra sittimana,
Che ggià er Vicario,[3] che cciavéva er fèle,[4]
La messe in monistero a Ssammicchele[5]
8Pe’ rruccherùcche[6] a llavorà la lana.

  E io in barba sua e dder Ficario,
Mé ne sto cco’ la spósa de mi’ zio,
11Che llei puro ha er marito in zeminario.[7]

  Sin ch’è ggiorno, a incannà[8] cquì lei cqua io;
Eppoi, ’na terzaparte de rosario,
14Du’ bbocconi, e a ddormì in grazzia de Ddio.

3 dicembre 1831.



  1. [Antonia.]
  2. Non battere acciarini: non arruffianare. [Perchè l’acciarino serviva ad accendere il lume. Cfr. la frase: tenere il moccolo.]
  3. [Il Cardinal Vicario, sulle cui attribuzioni in queste materie si veda nel presente volume la nota 1 del sonetto: Er giudisce ecc., 26 genn. 32.]
  4. [Che ci aveva il fiele]: che era già con lei irritato.
  5. [Casa di correzione per le femmine di mala vita. — In un teatro popolare di Roma, una prima donna, recitando la sua parte in un dramma lacrimoso, esclamava: “Oh povera me! dove finirò io?„ — A Sammicchele! gridò una voce dalla piccionaia.]
  6. L’arte del ruffianesimo.
  7. [In prigione.]
  8. [Incannare.]
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