Questo testo è completo, ma ancora da rileggere.
Questo testo fa parte della raccolta Scelte opere di Ugo Foscolo

PARALLELO

FRA

DANTE1 E PETRARCA




L'un disposto a patire, e l'altro a fare.
Dante, Purg. Cap. XXV2.


1. Nel secolo di Leon X una erudizione strabocchevole dilagò per ogni dove, e spinse le raffinatezze della critica tant’oltre, da preferire perfino la eleganza del gusto agli ardimenti del genio. Così le leggi della lingua italiana furono desunte, e i modelli di poesia trascelti unicamente dalle opere del Petrarca; il quale essendo allora pubblicato superiore a Dante, la sentenza rimase, fino a’ tempi nostri, inconcussa. Lo stesso Petrarca non fa divario da Dante ad altri ecclissati dalla propria fama, e così li mesce:


Ma ben ti prego, che ’n la terza spera
Guitton saluti, e messer Cino, e Dante,
Franceschin nostro, e tutta quella schiera.

Son. 246

     Così or quinci, or quindi rimirando
Vidi in una fiorita e verde piaggia
Gente, che d’amor givan ragionando.
     Ecco Dante, e Beatrice; ecco Selvaggia;
Ecco Cin da Pistoia; Guitton d’Arezzo. —
     Ecco i duo Guidi, che già furo in prezzo;
Onesto Bolognese; e i Siciliani.

Trion. d’Am. cap. 4.


Il Boccaccio, perdutosi d’animo per la fama di questi due sommi maestri, erasi proposto di ardere le sue poesie3; ma il Petrarca ne lo distolse, scrivendoli in tal’aria di umiltà, che non troppo si accorda col carattere di un uomo, il quale di sua natura non era ipocrita. «Tu se’ filosofo e cristiano, dic’egli, e pur sei mal contento di te stesso, perchè non se’ illustre poeta! Dacchè altri occupò il primo seggio, sii pago del secondo ed io mi piglierò il terzo».4 Il Boccaccio, accortosi dell’ironia e dell’allusione, mandò il poema di Dante al Petrarca, scongiurandolo «a non voler disdegnare di leggere l’opera d’un grand’uomo, dal capo del quale l’esilio e la morte, che lo rapì nel vigore della vita, avevano strappato l’alloro.»5 «Leggilo, te ne scongiuro; il tuo genio si estolle fino al cielo e la gloria tua si estende oltre i limiti della terra: ma considera, essere Dante nostro concittadino; aver lui dimostro quanto la lingua nostra si puote; la vita sua essere stata sciagurata; lui avere impreso e sostenuto ogni cosa per la gloria; ed essere tuttavia perseguito dalla calunnia e dall’invidia fino dentro del suo sepolcro. Se tu lo lodi, onorerai lui, onorerai te stesso, onorerai l’Italia della quale se’ tu la gloria maggiore, e l’unica speranza».

II. Il Petrarca, nella sua risposta, mostrasi corrucciato «di poter essere creduto geloso della celebrità di un poeta, il cui sermone è ruvido, sebbene i concetti ne sieno sublimi». — «Tu devi tenerlo in venerazione, e portargli gratitudine, siccome alla prima face di tua educazione6, laddove io nol vidi mai, fuori d’una sola volta, dalla lunga, o a meglio dire mi fu additato, mentre io era ancor fanciullo. Fu esiliato lo stesso dì in compagnia del padre mio, il quale si sobbarcò alla sua disgrazia, e si diè tutto alla sola cura de’suoi figliuoli. L’altro, per lo contrario, resistette7, e, sollecito unicamente di gloria, tutto il resto dopo le spalle gittato, proseguì per la via che aveva impresa. Se ancor vivesse, e se il suo carattere fosse stato al mio così conforme, come fu il suo genio, non avrebbe avuto migliore amico di me»8. Questa lettera affastellata di contraddizioni, d’ambiguità e d’indirette apologie, accenna l’individuo per circonlocuzioni, come se il nome ne fosse taciuto per cautela o per timore. Pretendono alcuni, che a Dante non si riferisca9; ma la lista, che tuttor si conserva autentica10, de’ Fiorentini il dì 27 gennaio 1302 sbandeggiati, contiene i nomi di Dante e del padre di Petrarca, nè v’ha in quella nome d’altro individuo, al quale veruna delle circostanze menzionate nella lettera possa convenire, laddove ciascuna, e tutte prese insieme, esattamente convengono a Dante.

III. Questi due fondatori dell’italiana letteratura furono largiti di genio disparatissimo; proseguirono differenti disegni, stabilirono due diverse lingue e scuole di poesia, ed esercitarono fino a’ tempi nostri differentissima influenza. In vece di scegliere, come fa il Petrarca, le più eleganti e melodiose parole e frasi, Dante crea spesso una lingua nuova, e fa tributari quanti dialetti ha l’Italia, a fin che gli somministrino combinazioni, che possano rappresentare, non pure le sublimi e le belle, ma ben anche le più comuni scene di natura; tutti i grotteschi concepimenti di sua fantasia; le più astratte teoriche di filosofia, e i misteri più astrusi di religione. Una semplice idea, un idioma volgare assume diverso colore e spirito diverso dalla loro penna. Il conflitto di opposti proponimenti suona nel cuore del Petrarca, e tenzona nel cervello di Dante.

Nè sì nè no nel cor dentro mi sona. - Petr.
Che sì e no nel capo mi tenciona. - Dante
At war twixt will and will not. - Shakespeare.


Tasso espresse lo stesso concetto con quella dignità, da cui mai non si diparte:

In gran tempesta di pensieri ondeggia.


Pure questo non solo rivela una imitazione del magno curarum fluctuat aestu di Virgilio; ma Tasso, col paventare la energia dell’idioma sì e no perdè, come fa troppo spesso, il grazioso effetto che si produce col nobilitare una frase volgare11; artificio però che nella pastorale dell’Aminta adoperò felicissimamente. Il concetto che aveva dell’epico stile, fu sì raffinato, che, mentre egli risguardava Dante «siccome il maggior poeta d’Italia» sovente asserì «che se non avesse postergato la dignità e la eleganza, sarebbe stato il primo del mondo». Dante, non v’ha dubbio, diede anche talvolta commiato al decoro e alla perspicuità; ma sempre per crescere fedeltà alle dipinture o profondità ai concetti. Egli dice a se:

     Parla, e sii breve et arguto.


Dice al suo lettore:

     Or ti riman, lettor, sopra il tuo banco,
     Dietro pensando a ciò che si preliba,
     S’esser vuoi lieto assai prima che stanco,
     Messo t’ho innanzi; ormai per te ti ciba.


IV. Quanto è al loro verseggiare, il Petrarca conseguì il piccolo fine dell’erotica poesia: che è di produrre un costante musicale trascorrimento di concenti inspirati dalla più dolce delle umane passioni; laddove l’armonia di Dante è meno melodiosa, ma è spesso il frutto di più efficace artificio.


Se io avessi le rime et aspre e chiocce,
     Come si converrebbe al tristo buco,
     Sovra il qual pontan tutte l’altre rocce,
Io premerei di mio concetto il suco
     Più pienamente, ma perch’io non l’abbo,
     Non senza tema a dicer mi conduco.
Chè non è impresa da pigliare a gabbo
     Descriver fondo a tutto l’universo,
     Nè da lingua che chiami mamma o babbo.
Ma quelle donne aiutino il mio verso,
     Che aiutaro Anfione a chiuder Tebe,
     Sì che dal fatto il dir non sia diverso.


Qui il poeta accenna ad evidenza, che il dar colore e forza alle idee col suono delle parole è uno de’ necessari requisiti dell’arte. I sei primi versi sono aspri per una successione di consonanti. Ma, allorchè descrive un soggetto al tutto diverso, le vocali fanno più scorrevoli le parole.

                         O anime affannate,
Venite a noi parlar, s’altri nol niega.
     Quali colombe dal disio chiamate,
     Con l’ali aperte e ferme, al dolce nido
     Vengon per l’aere dal voler portate.12


Il disegno del poema di Dante richiedeva ch’ei passasse da pittura a pittura, da passione a passione. Egli varia l’intonazione nelle differenti scene del suo viaggio, così ratto, come la folla degli spettri, che involasi dinanzi agli occhi suoi; ed adatta le sillabe e le cadenze d’ogni verso in tale artificiosa guisa da dare energia, colla mutazione dei suoi numeri, a quelle immagini, che intende di rappresentare. Perchè nei versi anche più armoniosi non v’ha poesia, se non isvegliano quella fiamma che ti rapisce, quello esquisito titillamento di diletto, che sorge dalla facile e simultanea agitazione di tutte le nostre facoltà; e ciò ottiene il poeta coll’uso efficace delle immagini.

V. Le immagini in poesia operano sopra la mente, secondo la progressione della natura stessa; da prima guadagnano i sensi, poi il cuore, quindi colpiscono la immaginazione, e da ultimo si stampano nella memoria, e assoggettansi all’opera della ragione, che tutta consiste meschinamente nell’esame e nel paragone delle sensazioni. Questo andamento per verità procede si rapido, che difficilmente è avvertito; pure tutte le gradazioni ne sono visibili a chi ha la facoltà di riflettere sopra le operazioni della propria mente. I pensieri per sè altro non sono che la materia prima: pigliano una forma o l’altra; ricevono più o meno splendore e calore, più o meno novità e ricchezza secondo il genio dello scrittore. Coll’accozzare strettamente melodiosi suoni, caldi sensi, luminose metafore, e profondo raziocinio, i poeti trasformano in vive ed eloquenti immagini molte idee, che giacciono oscure e mute nelle menti nostre. La magica presenza delle poetiche immagini ci fa ad un tratto sentire, immaginare, ragionare, e meditare con tutto il diletto, e senza veruna di quelle pene, che comunemente conseguono ogni sforzo mentale. Il concetto: «che la memoria e l’arte dello scrivere conservano tutto l’umano sapere;» e l’altro concetto: «che la speranza non abbandona l’uomo neppure sull’orlo del sepolcro, e che l’aspettativa del moribondo è ancora tenuta viva dal prospetto di una vita avvenire;» sono veri tanto più facili a comprendersi, quanto che ci vengono inculcati nella mente da cotidiana sperienza. Tuttavia i vocaboli astratti, in cui è pur forza che ogni massima generale si racchiuda, inetti sono a creare quel simultaneo eccitamento, onde tutte le facoltà nostre mutuamente si aiutano l’una l’altra: siccome quando il poeta apostrofa la Memoria.

     A te vetuste età, terre longinque
          Tramandano le care opre del genio,

          E i lavori do l’arte; a te che in mano
          D’ogni umano saper tieni la chiave.
          Portinaia fedel de la sua cella.
          Tuo vegliar pertinace il freddo scaccia
          Sgomento;c obblio da la vestal tua lampa
          I perenni alimenti va lambendo.

Piaceri della Memoria.


Alle metafisiche voci Genio, Arte, Sapere sono frammisti obbietti pioprii a colpire i sensi, così che il lettore vede la massima postagli davanti, come in una pittura. Non è dato a’ poeti di aspirare al merito d’originalità, se non col mezzo delle immagini; perchè, moltiplicando le combinazioni di pochissimi concetti, producono novità, e formano gruppi, che, sebbene differenti in disegno e in carattere, esibiscono tutti lo stesso vero. Il seguente passo italiano sopra la memoria non ha la menoma rassomiglianza co’ versi inglesi tradotti di sopra, e nondimeno la diversità sta solo nella variata combinazione delle immagini.

     Siedon le muse su le tombe, e quando
     Il tempo con sue fredde ali vi spazza
     I marmi e l’ossa, quelle Dee fan lieti

     Di lor canto i deserti, e l’armonia
     Vince di mille e mille anni il silenzio.13


E che potrebbe dirsi del nostro aspettare l’immortalità, che tutto non sia compreso e spiegato nella seguente invocazione alla Speranza?

Assisa, o Dea, sorriderai secura
Su le rovine, e allumerai tua face
A la funerea pira di natura.

Piaceri della Speranza.

VI. Le immagini del Petrarca sembrano squisitamente finite da pennello delicatissimo: dilettano l’occhio più pel colorito, che per le forme. Quelle di Dante sono ardite e prominenti ligure di alto rilievo, che ti par quasi di poter toccare, e a cui l’immaginazione supplisce prontamente quelle parti, che si nascondono alla vista. Il pensiero comune della vanità dell’umana fama è così espresso dal Petrarca.

O ciechi, il tanto affaticar che giova?
Tutti tornate alla gran madre antica,
E ’l nome vostro appena si ritrova.


e da Dante:

La vostra nominanza è color d’erba
Che viene e va, e quei la discolora
Per cui ell’esce della terra acerba.


I tre versi del Petrarca hanno il raro merito di essere più animati, e di trasmettere più rapida l’immagine della terra, che inghiotte i corpi e i nomi di tutti gli uomini; ma quelli di Dante, malgrado l’austera profondità loro, hanno il merito ancor più raro di guidarci ad idee, a cui non avremmo potuto di per noi stessi arrivare. Mentr’ei ci rammenta, essere il tempo, che pure è necessario per recare al colmo ogni gloria umana, quello che nella fine la distrugge; il cangiante colore dell’erba rappresenta i rivolgimenti de’ secoli, come avvenimento naturale di pochi momenti. — E appunto per aver voluto far menzione «de’ grandi periodi del tempo», un vecchio poeta inglese menomò quello stesso concetto, che intendeva di magnificare14. Di più, invece del ministero del tempo, Dante adopera il ministero del sole; perchè generandoci nella mente idea meno metafisica, ed essendo oggetto più palpabile a’ sensi, abbonda d’immagini più splendide ed evidenti, e c’invasa di maggior maraviglia ed ammirazione. Ancora; la sua applicazione è più logica, dacchè ogni concetto, che abbiamo del tempo, stà solo nella misura di esso, la quale è determinata dalle periodiche rivoluzioni del sole.

VII. Quanto è al diverso diletto, che questi due poeti arrecano, fu già osservato, che il Petrarca elice le più dolci simpatie, e risveglia le commozioni più profonde del cuore; e sieno esse di vena melanconica o vivace, ne siam noi ansiosamente bramosi, perchè più ci scuotono e più validamente avvivano la coscienza nostra di essere. Tuttavia, sendo noi in lotta perpetua contro il dolore, e sospinti senza posa sulle tracce del piacere, i nostri cuori soggiacerebbono al fascio delle proprie cure, se abbandonati fossero dai sogni dell’immaginazione, de’ quali la provvidenza volle farci dono, per accrescere il capitale di nostra felicità, e per dorare di fulgide illusioni le triste realità della vita. Solo i grandi scrittori possono così raffrenare la immaginazione, che sia poi impossibile di distinguere nelle opere loro queste illusioni dal reale. Se, in un poema, l’ideale e il fantastico prevalga, può di vero eccitare in noi per brev’ora la maraviglia, ma non saremo tratti giammai a sentire per oggetti, che o non hanno persona, o troppo si dilungano dall’universale natura; e d’altra parte se la poesia troppo si arresti alle cose reali, tosto ne proviamo stanchezza, perchè ci appaiono queste dovunque rivolgiamo lo sguardo; ci rattristano ogni minuto della vita; e infastidiscono ad ogn’ora, perchè le conosciamo a sazietà; arroge, che, se la realtà e la finzione non sieno immedesimate in un tulto, si combattono mutuamente, e si distruggono l’una coll’altra. Nel Petrarca occorrono ben pochi esempli di un accozzamento del vero colla finzione, felici al pari di quello, dov’ei dipinge le fattezze di Laura immediatamente dopo che ella spirò.

Pallida no. ma più che neve bianca —
Parea posar come persona stanca.

Quasi un dolce dormir ne’ suoi begli occhi,
Sendo lo spirto già da lei diviso —
Morte bella parea nel suo bel viso.15

VIII. Petrarca non di rado affoga la realtà in tanto lusso di decorazioni ideali, che mentre fissiamo le sue immagini, le ci scompaiono

In un mar d’aurea luce abbacinate.16

E il poeta, che ci sovviene di questo verso, osserva giustamente: «Che il vero buon gusto è un eccellente economo, e si compiace di produrre grandi effetti con piccoli mezzi». Dante trasceglie le bellezze, che qua e là giacciono sparse pel creato, e le incorpora in un solo subbietto. Gli artisti, che compendiarono nell’Apollo di Belvedere, e nella Venere dei Medici le diverse bellezze osservate in diversi individui, accozzarono forme, umane bensì, ma spiranti cotal perfezione, a cui non è dato avvenirci sopra la terra: nondimeno, allorchè lo contempliamo, siam tratti a cedere soavemente all’illusione, che la schiatta umana possa veramente esser donata di celestiale bellezza.

     Stiamo, amor, a veder la gloria nostra,
Cose sopra natura altere e nove:
Vedi ben, quanta in lei dolcezza piove;
Vedi lume, che ’l cielo in terra mostra.
     Vedi quant’arte dora, e ’mperla, e ’nnostra
l’abito eletto, e mai non visto altrove;
Che dolcemente i piedi, e gli occhi move
Per questa di bei colli ombrosa chiostra.
     L’erbetta verde.ci fior di color mille
Sparsi sotto quell’elce antiqua e negra.
Pregan pur, che ’l bel piè li prema, o tocchi;
     E ’l ciel di vaghe e lucide faville
S’accende intorno, e ’n vista si rallegra
D’esser fatto seren da sì begli occhi.

Questa descrizione ci fa agognare di rinvenire sulla terra donna sì fatta; che se non che, mentre ammiriamo il poeta, e l’invidiamo la beatitudine de’ suoi amorosi trasporti, non possiamo non accorgerci, che i fiori, i quali invocano il calpestio del suo piede, il cielo che si riabbella della sua presenza, l’atmosfera, che impronta nuovo splendore dagli occhi suoi, sono mere visioni, che ne tentano d’imbarcarci con lui in traccia di non conseguibile chimera. Di leggieri adunque c’induciamo a credere, che fosse in Laura più che umana leggiadria, se valse ad ingentilire la mente del suo amatore, sollevandola a tanto entusiasmo, da farla capace d’illusioni così fantastiche, che ben ci fanno chiari dell’eccesso di sua passione; ma non possiamo partecipare a cotali estasi amorose per una bellezza, che nè vedemmo mai, nè mai potremo vedere.

IX. Per l’opposito, la bella vergine, che Dante scorse da lungi in un paesaggio del paradiso terrestre, in luogo di apparirti un ente di ragione, ti sembra accoppiare in se tutti gli allettamenti, che trovansi in quelle amabili creature, a cui talvolta ci abbattiamo sulla terra. che ci accora di perdere di vista, e a cui la fantasia rivola di continuo. La pittura del poeta ne ridesta più distinta nella memoria l’idea dell’originale, e la lumeggia alla immaginazione.

     Una donna soletta che si gìa
Cantando et iscegliendo fior da fiore;
Ond’era pinta tutta la sua via.
     Deh! bella donna, che a’ raggi di amore
Ti scaldi, s’io vo’ credere a’sembianti
Che soglion esser testimon del core,
     Vegnati in voglia di traggerti avanti,
Diss’io a lei, verso questa rivera,
Tanto ch’io possa intender che tu canti. —
     Come si volge colle piante strette
A terra et intra se donna che balli,
E piede innanzi piede appena mette,
     Volsesi in su’ vermigli et in su’ gialli
Fioretti verso me, non altrimenti,
Che vergine che gli occhi onesti avalli;
     E fece i preghi miei esser contenti,
Sì appressando sè, che il dolce suono
Veniva a me co’ suoi intendimenti17.

Tale si è lo stupendo magistero, col quale Dante mischia le realtà di natura cogli accessorii ideali, che ti crea nell’animo un’illusione, cui posteriori considerazioni non più giungono a dissipare. Tutta quella grazia e bellezza, quel calore e quel raggio d’amore, quella vivacità e letizia di gioventù, quella santa modestia di una vergine, che osserviamo, sebbene separate e miste a difetti in

persone diverse, sono qui concentrate in una sola; e frattanto i cantici, e le carole, e il ricogliere dei fiori danno vita, e incanto e movenza alla pittura. A giudicar sanamente fra questi due poeti, si direbbe, che Petrarca prevalga nello svegliare in cuore un sentimento profondo di vita; e Dante nel guidare la imaginazione ad accrescere le magnificenze e le novità di natura. Genio non fu mai forse in cui fosse dato di accoppiare in sè ad altissimo segno queste due facoltà.

X. Dante e Petrarca colorarono disegni, accomodati ciascuno all’ingegno suo; di che risultarono due maniere di poesia, producitrici di opposti effetti morali. Il Petrarca ne mostra ogni cosa per entro il velo di una passione predominante, ci avvezza a lentare il freno a quelle inclinazioni, le quali, col tenere il cuore in agitazione perpetua, tarpano gli sforzi dell’intelletto; ci adesca ad una molle condescendenza verso le affezioni del nostro cuore, e ci ruba alla vita operosa. Dante, come tutti i poeti primitivi, è lo storico de’ costumi dell’età sua, il profeta della patria, e il pittore dell’uman genere; e pone in atto tutte le facoltà dell’anima a meditare sopra tutte le vicissitudini dell’universo. Descrive in ogni guisa passioni e fatti, l’incanto e l’orrore delle scene più disparate. Pone gli uomini nella disperazione dell’inferno, nella speranza del purgatorio, e nella beatitudine del paradiso. Gli osserva nella gioventù, nella virilità, e nella vecchiaia. Trae in iscena unitamente quelli d’entrambi i sessi, di tutte le religioni, di tutte le professioni, di nazioni e di età differenti; pure non li prende in massa giammai; ma sempre li rappresenta come individui; ad ognuno parla, ne studia le parole, e bada a’ contegni. «Troverai», dic’egli in una lettera a Can della Scala «, l’originale del mio inferno nella terra che abitiamo». E nel descrivere i regni della morte. coglie ogni opportunità per riportarci indietro alle faccende ed alle affezioni del mondo vivente. Veggendo il sole che stà per lasciare il nostro emisfero, rompe in que’ versi.

     Era già l’ora che volge il disio
Ai naviganti, e intenerisce il core
Lo dì che han detto a’ dolci amici addio;
     E che lo novo peregrin d’amore
Punge, se ode squilla di lontano,
Che paia il giorno pianger che si more.


V’ha un passo somigliantissimo a questo in Apollonio Rodio, le cui molte bellezze, che tanto si ammirano nelle imitazioni fattene da Virgilio sono di rado cercate nell’originale.

Stese la notte il velo tenebroso
     Su la terra e sul mar. Vigili allora
     Verso l’Orse mirarono e Orione
     Da poppa i marinari. Il peregrino,
     E chi delle città veglia alle porte
     Punge brama di sonno; e grave intanto
     Dell’orba madre per le membra serpe
     Triste un letargo, e in cor svegliasi acuto
     De’ morti figli il desiderio.18

Con digressioni di tal fatta, introdotte senz’arte o sforzo apparente, Dante ci commuove per tutto l’uman genere; laddove Petrarca, pigliando calore da sola una passione del suo cuore, allude ai naviganti in sulla sera, soltanto ad eccitare vie più la compassione pelle proprie pene.

     E i naviganti in qualche chiusa valle
Gettan le membra, poichè ’l sol s’asconde.
Sul duro legno, e sotto l’aspre gonne.

Ma io. perchè s’attuffi in mezzo l’onde,
E lassi Ispagna dietro alle sue spalle,
E Granata, e Marrocco, e le Colonne,
E gli uomini e le donne,
E ’l mondo, e gli animali
Acquietino i lor mali,
Fine non pongo al mio ostinato affanno:
E duolmi, ch’ogni giorno arroge al danno
Ch’i’son già pur crescendo in questa voglia
Ben presso al decim’anno:
Nè posso indovinar chi me ne scioglia.


Di qui la poesia del Petrarca ci aggira in una oziosa melanconia, nelle più molli e dolci visioni, nell’errore di abbandonarci in balia delle affezioni altrui, e ci trae a correre vanamente dietro a perfetta felicità, fino a che ci profondiamo ciecamente in quella disperazione che conseguita:

     Quando, percossa da terror, s’invola
Dal tuo volto la speme, e la gigante
Doglia ne ingombra il voto orrendo sola.

E ancora quelli a’ quali una tal sorte incoglie, sono pochissimi. all’avvenante de’ più molti che imparano soltanto dalla lettura sentimentale la maniera di operare con più sicuro effetto nelle menti appassionate, o di tirare sopra il vizio un più fitto e pomposo ammanto d’ipocrisia. La turba degl’imitatori del Petrarca in Italia può venir imputata all’esempio di que’ dignitari e dotti uomini della chiesa, i quali, per far scusa al commercio loro coll’altro sesso, tolsero ad imprestito il linguaggio dell’amore platonico dalla poesia di lui19. Sì fatto linguaggio è pure mirabilmente accomodato ad un collegio di Gesuiti, però che inspira divozione, misticismo e ritiratezza, e snerva le menti della gioventù. Ma, dacchè le ultime rivoluzioni posero in movimento altre passioni, e un diverso sistema di educazione fu stabilito, i seguaci del Petrarca andarono rapidamente diminuendo; e quelli di Dante scrissero poemi più atti a far risorgere lo spirito pubblico in Italia. Dante applicò la poesia alle vicende de’ tempi suoi, quando la libertà faceva le estreme prove contro la tirannide; e scese nella tomba cogli ultimi eroi del medio evo. Petrarca visse fra coloro, che prepararono la ingloriosa eredità del servaggio alle prossime quindici generazioni.

XI. In sullo scorcio della vita di Dante, gli statuti de’ dominii italiani subirono intera e quasi universale una riforma; di che uomini, costumi, letteratura e religione assunsero subitamente nuovo carattere. Allora fu, che papi ed imperadori, col risedere fuori d’Italia, l’abbandonarono alle fazioni, le quali, combattuto in prima per l’independenza e pel potere, continuarono dappoi a lacerarsi in Inani per animosità, fino a tanto che condussero la patria a tali estremi, da farla agevole preda a’ popolani, a’ despoti ed agli strani. I Guelfi non più furono spalleggiati dall’autorità della chiesa, nella lotta in prò de’ popolari diritti contro i feudatari dell’impero. I Ghibellini non più si allearono agl’imperadori per conservare lor privilegi, come grandi proprietari. Firenze ed altre piccole repubbliche, dopo estirpati i nobili, furono governate da mercadanti, i quali non avendo nè antenati da imitare, nè sensi generosi, nè militare educazione, persistettero nelle risse intestine per via della calunnia e della confisca. Paventando una domestica dittatura, a’ nimici esterni opposero estranei condottieri di truppe mercenarie, sovente composte di avventurieri e vagabondi d’ogni contrada, i quali saccheggiarono senza divario amici e nimici, esasperarono le discordie e contaminarono la morale della nazione. Principi francesi regnarono in Napoli, e, per distendere lor preponderanza sopra la Italia meridionale, vi distrussero perfino l’ombra dell’imperiale autorità coll’aizzare i Guelfi a tutti i deliri della democrazia. Frattanto i nobili, nervo della fazione ghibellina nel settentrione dell’Italia, possedendo la ricchezza e la forza del paese, continuarono a muovere incessanti guerre civili, fino a ch’ei con città e vassalli rimasero tutti soggiogati al militare dominio de’ vittoriosi condottieri, i quali furono spesso uccisi da’ propri soldati, e più spesso dagli apparenti eredi del poter loro. Sola Venezia, circondata dal mare, e però libera dal pericolo d’invasione, e dalla necessità d’affidare le sue armi ad un solo patrizio, andò lieta di stabile forma di governo. Nondimeno, a conservare ed allegare le colonie ed il commercio, proseguì nel Mediterraneo una lotta micidiale con altre città marittime. I Genovesi, perduta l’armata principale, mercarono l’aiuto de’ tiranni lombardi a prezzo delle libertà loro. Ebbero così modo a sbramar gli odi e a disfare i Veneziani, i quali, a rinfrescare le aggressioni, esaurirono le estreme lor forze; ed ambo gli stati pugnarono nella fine meno per gli interessi, che per vendetta. Allora si fu, che alle pacifiche esortazioni di Petrarca il Doge Andrea Dandolo alteramente rispose20. Per tal modo gl’Italiani, benchè a que’ dì arbitri dei mari, furono ridotti a cotali termini di debolezza pei cechi rancori, che, nel vegnente secolo, Colombo fu astretto a mendicare l’aiuto di principi forestieri, per aprire quel passo di navigazione, che da quell’epoca diè l’ultimo crollo alla commerciale grandezza d’Italia.

XII. Intrattanto, e papi e cardinali vigilantemente spiati ad Avignone, divennero talora a forza, più spesso a libito, instigatori della francese politica. I principi tedeschi, dando cominciamento a postergare le papali scomuniche, ricusarono sì di eleggere imperadori patrocinati dalla Santa Sede, sì di condurre fuori i sudditi al conquisto di Terra santa; impresa, per cui dal principio del duodecimo per insino alla fine del decimo terzo secolo, tutti gli eserciti d’Europa furono di fatto nell’arbitrio de’papi. I popoli, benchè inaspriti dall’oppressione, e parati a ribellare, non furono uniti, nè scaltriti abbastanza, onde recare a capo una durevole rivoluzione. Si rivoltarono solo per rovesciare le amiche leggi, per mutar padroni e per succumbere a più assoluto reggimento. La resistenza di una indomita aristocrazia fece inetti i monarchi a levare eserciti bastevoli a raffermare il potere in casa, e le conquiste al di fuori. Gli stati furono aggranditi più dalla frode, che dal valore; e i reggitori di quelli divennero meno violenti, e più traditori. I maschi delitti delle barbare età a poco a poco cedettero agl’insidiosi vizi della civiltà. La coltura delle classiche lettere accrebbe il gusto nell’universale, e aggiunse al fondo della erudizione; ma snervò ad un tempo l’audacia e l’originalità dell’ingegno nativo; e coloro stessi, che avrebbono potuto divenire inimitabili scrittori nella lingua materna, stettero paghi al consumare lor forze nell’unica imitazione de’ latini Scrittori cessarono di prender parte agli avvenimenti che correvano, e ne rimasero dalla lunga spettatori. Alcuni narrarono a parte a parte a’ concittadini le passate glorie, e li fecero scorti dell’imminente rovina della patria; ed altri rimunerarono i proiettori con adulazioni; perchè nel decimo quarto secolo appunto tirannici governi tolsero ad insegnare a’ successori la politica di tenere letterati agli stipendi, per ingannare il mondo. Tale si è la concisa istoria d’Italia duranti i cinquantatre anni, che trascorsero dalla morte di Dante alla morte di Petrarca.

XIII. Dissimili in tutto, in ciò solo si rassomigliano questi due caratteri, che fecero entrambi ogni lor possa a sottoporre la patria al governo di un principe, e a liberarla dal potere temporale del pontefice. Si direbbe, chela fortuna cospirasse colla natura a disgiungere l’uno dall’altro per una irreconciliabile discrepanza. Dante percorse una carriera più regolare di studi, e in tempi che Aristotele e Tommaso d’Aquino tenevano soli lo campo nelle università. L’austerità del metodo e delle massime loro lo ammaestrarono a non vergar carta, che non avesse prima lungamente in se meditata; a tenersi ognora davanti un pratico fine di gran momento, quello dell’umana vita21, e a proseguirlo saldamente secondo un preconcetto divisamento. I poetici ornamenti non ad altro ti paiono usati mai da Dante, se non a dar luce a’ suoi subbietti; nè mai consentì alla fantasia di violare quelle leggi, che prima aveva poste allo ingegno.

E più l’ingegno affreno ch’io non soglio,
Perchè non corra che virtù nol guidi. - Inf.
Più non mi lascia gire il fren dell’arte. - Purg.


Lo studio de’ classici, e la voga in che vennero le platoniche speculazioni, da esso Petrarca propugnato contra gli Aristotelici22 si accordò colla sua naturale inclinazione; e la sua mente fu informata dalle opere di Cicerone, di Seneca, e di s. Agostino23: Egli ne pigliò e la incostanza dell’andamento, e la dizione ornata, allora pure che gli vennero a mano gli argomenti meno poetici e soprattutto quel mescuglio di sentimenti privati cogli universali principii di filosofia e di religione. La sua penna andò dietro alla perpetua irrequietudine dell’animo suo: ogni argomento adescava i suoi pensieri, e ben di rado tutti i suoi pensieri furono devoti ad un solo argomento. Così fu, che avendo più ardore ad imprendere che perseveranza a finire, il numero grande de’ suoi non terminati manuscritti gli suscitò finalmente nell’animo la trista considerazione: che il frutto della diligenza di poco sarebbe stato dissimile dalle foglie dell’infingardaggine24. Dante confessa, che in gioventù succumbeva a lungo quasi insuperabile scoraggiamento; e accusa quel silenzio della mente, che ne pone in ceppi le facoltà, nè però le distrugge25. Ma la mente di lui, ricuperata la elasticità, non più ristette, fino a tanto che non ebbe asseguito lo scopo; nè forza nè interesse umano valsero a stornarlo dalle sue meditazioni26.

XIV. Lo intelletto in entrambi tenne virtù da’ naturali ed inalterabili movimenti del loro cuore. Il fuoco di Dante fu più profondo e concentrato; più di una passione non ardeva in quello ad un tempo; e, se Boccaccio non caricò la pittura, Dante, per più e più mesi dopo morta Beatrice, ebbe sentimento ed aspetto di selvaggio27. Petrarca fu agitato insiememente da differenti passioni: si risvegliavano queste, ma si attutavano pure l’ima con l’altra; e il suo fuoco, più che bruciare, risplendeva, e riboccava da un’anima inetta a tutto sopportarne il calore, e pure ansiosa di attirarsi per mezzo di quello gli sguardi altrui. La vanità fece Petrarca sollecito sempre e apprensivo, pur dell’opinione di coloro, a’ quali ben sentiva di soprastare. Nel carattere dell’Alighieri primeggiava l’orgoglio. Si compiaceva ne’ patimenti, siccome prove a dimostrar sua fortezza; ne’ propri difetti, quali inevitabili seguaci a virtù tutte lontane dalle battute vie; e nella coscienza di quel che dentro valeva, perchè lo francheggiava a dispettare uomini ed opinioni.

Che li fa ciò che quivi si pispiglia? —
                              Lascia dir le genti
Sta come torre fermo, che non crolla
Giammai la cima per soffiar de’ venti28.

La potenza di dispettare, da molti vantata, ma che natura a ben pochi largì davvero, e della quale colmò a Dante la misura, fu a lui fonte del più alto compiacimento, che in elevato intelletto possa capire.

Lo collo poi con le braccia mi cinse,
Baciommi in volto, e disse. Alma sdegnosa!
Benedetta colei che in te s’incinse.


L’altero contegno di Dante verso i principi, de’quali sollecitava il patrocinio, fu da repubblicano per nascita, da aristocratico per parte, da statista e guerriero, il quale dopo vissuto nella copia e negli onori fu proscritto nel trentasettesimo anno dell’età sua, e forzato di ramingare di città in città, come uomo, che, spogliata ogni vergogna, si pianta sulla pubblica via, e, stendendo la mano,

Si conduce a tremar per ogni vena
     Più non dirò, e oscuro so che parlo;
Ma poco tempo andrà che i tuoi vicini
Faranno sì, che tu potrai chiosarlo29


Petrarca nato nell’esilio, e nodrito, per propria confessione, nell’indigenza30, e come uom destinato a servire in corte, venne cumulando i doni de’ grandi, intanto che giunto a termine di poter cansare nuovi favori, fece allusione al primo stato con quel compiacimento inevitabile a quanti, o per caso, o per industria, o per merito, sfuggirono alla penuria ed alla umiliazione.

XV. Conformato ad amare, Petrarca di leggieri si traeva a fare il piacere altrui, ed agognava maggiore l’amicizia, che non suole consentirla l’amor proprio dell’uomo, e così scadde negli occhi, e fors’anche nel cuore delle persone, che più erano a lui devote. I disinganni, che per sì fatta cagione incontrò nella vita, spesso gli amareggiarono l’animo, e gli trassero dalla penna quella confessione: «che temeva coloro che amava»31. I nimici di lui sapendo, che come a sfogar l’ira, così e più ancora era pronto a dimenticare le ingiurie, si videro dall’indole sua, facile ad esser messa a leva, aperto un bel campo alle risa32, ed aizzarono quel benevolo a compromettere, pure in vecchiaia, l’onor suo a’ discolpamenti33. Dante per lo contrario uno fu di quegli spiriti sublimi, a’ quali non giungono i dardi del ridicolo; e gli stessi colpi della malignità altro non fecero, che vie più sollevare la nativa sua dignità. Agli amici inspirava, meglio che commiserazione, rispetto; e a’ nimici timore ed odio, disprezzo non mai. La ira sua fu inesorabile: appo lui vendetta era non pure impeto di natura, ma debito34: e pregustò nella conscia mente quella tarda, ma certa ed in eterno duratura vendettta, che

Fe’ dolce l’ira sua nel suo segreto.—
     Taci e lascia volger gli anni:
Sì ch’io non posso dir se non che pianto
Giusto verrà di retro a’ vostri danni.


Altri potrebbe facilmente cavare il ritratto di lui da’ versi che seguono;

  Egli non ci diceva alcuna cosa;
Ma lasciavane gir, solo guardando,
A guisa di leon, quando si posa.

Siccome pare, che solo amore potesse far salire il Petrarca a sì alto segno nella poesia, così, se la ingiustizia e la persecuzione non avessero accesa la indignazione nel cuore di Dante, questi forse non avrebbe durato con tanta perseveranza a compiere

                              Il poema sacro,
A cui han posto mano e cielo e terra,
Sì che lo ha fatto per molli anni macro.

XVI. Comunque la vita de’ sommi ingegni soglia essere dannata ad ogni maniera di vessazioni non tanto per la fredda indifferenza e per la invidia dell’umana razza, quanto per le ardenti passioni de’ loro cuori, pur nondimeno il piacere di conoscere e di propugnare il vero, e di essere da tanto da farlo suonare da’ loro stessi sepolcri, è così acuto, che prepondera a tutto. Questo sentimento fu sorgente più copiosa di conforto a Dante che al Petrarca.

     Mentre ch’io era a Virgilio congiunto
Su per lo monte che l’anime cura,
E discendendo nel mondo defunto,
     Dette mi tur di mia vita futura

Parole gravi; avvegna ch’io mi senta
Ben tetragono ai colpi di ventura. —
     Ben veggio, padre mio, sì come sprona
Lo tempo verso me. per colpo darmi
Tal ch’è più grave a chi più s’abbandona:
     Perchè di provedenza è buon ch’io m’armi. —
     O sacrosante Vergini, se fami,
Freddi o vigilie mai per voi soffersi,
Cagion mi sprona ch’io mercè ne chiami.
     Or convien che Elicona per me versi.
Ed Urania m’aiuti col suo coro
Forti cose a pensar mettere in versi. —
     E s’io al vero son timido amico.
Temo di perder vita tra coloro,
Che questo tempo chiameranno antico35.

E da una lettera di Dante novellamente discoperta appare, che, circa l’anno 1316, gli

amici di lui pervenissero ad ottenere, ch’egli fosse rimesso in patria e ne’ beni, solo che

pattuisse co’suoi calunniatori, si confessasse colpevole, chiedesse perdono al comune. Ecco qual fu la risposta, che in tale occorrenza Dante indirizzò ad uno de’ suoi parenti da lui appellato «Padre» forse perchè era chcrico, o più propabilmente perchè era più vecchio del poeta.

XVII. «Per le lettere vostre con debita reverenza ed affetto ricevute, e con diligenza considerate, ho potuto comprendere con quanto umore procacciate di rimettermi in patria; conciosiacosachè tanto più strettamente mi avete obbligato, quanto più di raro avviene, che esuli trovino amici. A che se io non risponderò per avventura di quella forma, che forse si vorrebbe la pusillanimità di taluni, con istanza richieggo vogliate, prima che dar giù

giudizio, esaminare a maturo consiglio la bisogna. Ecco imperò quello, che per lettere sì del vostro e mio nipote, sì di più altri amici, si viene significandomi intorno allo stanziamento di fresco fatto in Firenze sul trar di bando gli sbanditi: che se io patissi di pagare una posta somma di pecunia, e di comportare la infamia dell’essere offerto, potref venire assolto, e tornarmene di presente. Nel che per vero due cose sono degne di riso, e malamente consigliate. Dico, o Padre, malamente consigliate da quelli, che sì fatte cose rapportarono; però che le lettere vostre, più discrete e appensate, nè uno di tali particolari contenevano. È egli orrevole cotesto modo, onde Dante Alighieri è in patria richiamato, dopo sostenuto uno esilio di forse tre lustri? Sì fatta retribuzione meritavasi dunque una coscienza a tutti manifesta? Sì fatta i sudori e le fatiche continovate negli studi? Lontano dall’uomo seguitatore di filosofia la sconsigliata viltà di un cuore fangoso, di sostenere, quasi costretto dalla infamia, di essere offerto, a modo di certo saputello e d’altri sì fatti. Lontano dall’ uomo,che predica la giustizia, il pagare di sua pecunia per ingiuria patita, e a chi la fece, come a benefattori. Questa, Padre mio, non è la strada, onde tornare alla patria; ma, se altra per voi, o per altri dappoi fie trovala, che alla fama e all’onore di Dante non deroghi, per quella con passi non lenti mi metterò. Che se per niuna cotale si entra in Firenze, in Firenze non entrerò io mai. E che? mi fie dunque conteso isguardare, dovunque mi sia, la spera del sole e delle stelle? non potrò forse speculare dappertutto dolcissime veritadi di sotto del cielo, ch’io prima non mi faccia inglorioso, anzi ignominioso al popolo fiorentino, e alla sua gran villa? pane certo non mi mancherà36». Nondimeno seguitò a provare,

                    Come sa di sale
Lo pane altrui, e come è duro calle
Lo scendere e ’l salir per l’altrui scale.


I suoi concittadini ne perseguitarono insino alla memoria; morto, fu scomunicato dal papa; per poco non se ne diseppellì il cadavere per abbruciarlo e disperderne le ceneri al vento37, Petrarca chiuse i suoi dì in concetto d’uomo santo, per lo quale il cielo operava miracoli38,

e il senato di Venezia statuì un bando contro coloro, che ne involavano le ossa, e le vendevano siccome reliquie39.

XVIII. Veramente e’ si pare, che da fedele e generoso osservatore d’ogni compagnevole uffizio sdebitandosi il Petrarca inverso d’ognuno, che gli stava dintorno, e procacciando ad ogni ora di padroneggiare le sue passioni, ne salisse in fama di virtuoso, e potesse dirsi felice. Virtuoso fu; ma fu ancor più infelice di Dante, il quale non dimostrò mai al di fuori quella irrequietudine e perplessità d’animo, che fece il Petrarca minore di sè agli occhi propri, e lo trasse a sciamare negli ultimi giorni suoi. «Giovane, spregiai gli uomini, da me in fuori, maturo, me stesso; or vecchio omai, disprezzo e gli uomini, e me stesso40». Se fossero vissuti in amichevole dimestichezza, Dante avrebbe avuto quel vantaggio dall’emulo suo, che tutti quelli, i quali si fanno ad operare appensatamente e secondo immutabili proposti, hanno da coloro, che volgonsi ad ogni vento — Petrarca avrebbe potuto dire con Dante;

                    Conscienzia mi assicura,
La buona compagnia che l’uom francheggia
Sotto l’usbergo del sentirsi pura.

Ma quel suo anelare dietro alla morale perfezione, e quel disperar di raggiugnerla, fece sì, ch’egli traguardasse innanzi «con trepida speranza» al giorno, in che doveva essere citato al cospetto di un giudice inesorabile. Dante reputava di poter espiare gli errori della umanità co’ suoi patimenti sopra la terra.

     Che la bontà infinita ha sì gran braccia,
Che prende ciò, che si rivolve a lei;


e pare ch’ei si rivolga al cielo più presto come uom che adora, che come supplice. Avendo fermo nella mente: «l’uomo essere allora veramente felice, che libero esercita tutte le facoltà sue,41» Dante percorse con passo sicuro il cammin della vita.

     E, vigilando nell’eterno die.
Sì che notte nè sonno a lui non fura
Passo che faccia il secol per sue vie,

raccolse le opinioni, le follie, le vicissitudini, le miserie e le passioni, che travolgono gli uomini; e lasciò dopo di sè un monumento, il quale, se ci umilia colla rappresentazione delle nostre fralezze, dovrebbe farci insuperbire di pertenere alla stessa natura che un tant’uomo; e ci conforta a bene usare la breve e sfuggevole vita. Petrarca, seguitando più saviezza contemplativa che attiva, argomentò, le fatiche e i contendimenti nostri in pro degli uomini recedere a gran pezza qualunque benefizio ne possa a quelli tornare; ogni nostro passo nella fine non ad altro riuscire, che ad avvicinarne al sepolcro; la morte essere fra’ doni della provvidenza il migliore; e il mondo avvenire l’unico nostro albergo e riposo. Per le quali tutte cose procedette tentennando nel mortal viaggio, con in cuore l’amaro convincimento: «che la stanchezza e il fastidio d’ogni cosa fossero già tenacemente abbarbicati nell’animo suo42,» e per tal modo scontò il debito di que’ doni, che natura, fortuna e il mondo gli avevano a larga mano profusi, senza mistura veruna de’ consueti loro rivolgimenti.

  1. Fra gl’italiani poeti Dante è il più studiato in Inghilterra; e il reverendo signor Cary già parroco di Chiswick ed ora vice-bibliotecario del museo britannico ha dato in versi inglesi la più bella traduzione che esista in lingua moderna della Divina Commedia. A diffonderne però l’amore contribuì non poco Ugo Foscolo co’ suoi diversi analoghi lavori, e colle sue pubbliche Lezioni sopra i poeti italiani date in Londra nel 1823 per impegno di una coltissima dama, Lady Dacre, la quale avendo fatta una squisita traduzione di molti sonetti e canzoni di Petrarca, si meritò la dedica del più bel libro, secondo il Pecchio che il Foscolo abbia dettato durante la sua emigrazione in Inghilterra «I saggi sopra il Petrarca» di cui fa parte il presente.
  2. Questo verso li dipinge d’un tratto ambidue. Il paragonare però Petrarca e Dante non è certo opera lieve ma aspra e difficile, e degna soltanto di un nomo di alta mente come il Foscolo, per essere i caratteri dell’uno e dell’altro diversi per modo che appena si possono ravvicinare. Vengono perciò questi con brevi tratti, ma nel tempo stesso, con sommo giudizio e retta filosofia dall’autore richiamati. E se può a taluno sembrare questo parallelo presso che impossibile niuno potrà contraddire al Foscolo ciò ch’egli stesso asserisce, cioè che il talento in entrambi tenne virtù da naturali e inalterabili movimenti del cuore. Se avesse egli delineato con tanta cura il suo confronto che ne fosse venuto un quadro compiuto gli saprebbero certo (come dice l’autore dell’articolo inserito nella Bibl. univ. di Piacenza) buon grado e l’Italia e gli studiosi, e coloro che sono veneratori di que’ sommi, che solo ne fanno ricordare ancora con orgoglio d’essere italiani.
  3. Egli stesso chiamavasi:
    «Rampollo umil de’ dicitori antichi». Boc. Son. 68.
  4. Senil. Lib. 5. Ep. 2, et 3.
  5. Nec tibi sit durum versus vidisse poetae
    Exulis.

  6. Inseris nominatim hanc hujus officii tui excusationem quod ille, te adolescentulo primus stadiorum dux, prima fax fuerit.Petr. ep. eden. Crisp. lib xii, ep. 7.
  7.      . . . . Avvenga ch’ei sentissi
    Ben tetragono ai colpi di ventura...
    Ste’ come torre fermo, che non crolla
    Giammai la cima per soffiar de’ venti.

    Purg. e Parad.

  8. Petr. Epist. edit. Ginev. an. 1601, p. 445.
  9. Tiraboschi, Storia della letter. Ital. vol. 9, lib. III, cap. II, §. 10. Che questa lettera riferiscasi a Dante, nessuno di buona fede, cred’io potrà negarlo, dopo che il conte Baldelli ha ciò provato all’evidenza. Se lo negò il Tiraboschi, pare che vi fosse spinto dalla bile, che in lui soperchiò al vedere con che boria il De Sade pubblicò questa sua scoperta, pigliandone occasione di schernire gli Italiani, perchè non l’avessero fatta essi primi; ond’è, che a rintuzzare il vanto, che davasi il biografo francese, lo storico della nostra letteratura, che forse dentro di se la sentiva altrimenti dalle lettere del Petrarca raccolse alcuni luoghi atti a rivocare in dubbio per un momento, se le parole del Petrarca si riferissero veramente a Dante; dubbio che dileguasi però a disamina più matura. Vedi il Baldelli vita del Boc. Lib. ii, cap. xlii fac. 133-134 in nota.
  10. Muratori, Script. Rer. Ital. vol. x, p. 501.
  11. In questo caso però Tasso non poteva avere il merito nè il vantaggio di nobilitare una frase volgare, perchè il sì e no non era più tale, dacchè l’uso fattone da due grandi poeti l’avea già fatto nobile; e se Tasso l’avesse usato, in vece d’imitare Virgilio, e di arricchire la propria lingua delle bellezze derivate da un’altra, avrebbe imitato i concittadini Dante e Petrarca, e moltiplicate le copie di una stessa frase, e invece di usarne una piena di decoro, e però in armonia coll’impasto generale del suo stile, ne avrebbe adoperata una da quello discordante, delphinum silvis appinxisset; e se questo avesse fatto non una volta, ma sempre, avrebbe cessato di essere il gran Tasso, e sarebbosi stato scimmia di Dante e del Petrarca; e invece della Gerusalemme, novello Frezzi, ci avrebbe regalalo un Quadriregio, a grande spavento de’ fanciulli, e invece delle sublimi sue liriche, e dell’Aminta, delizia delle anime tenere, novello Bembo, ci avrebbe presentati di quelle tali rime, ch’io volentieri chiamerei di fatua e pedantesca memoria, se già l’obblio non ci avesse posto su un pietrone sepolcrale. I grandi ingegni meditino pure i classici, ma dipingano secondo il proprio concetto, e significhino come detta il cuore.
  12. Discostandomi dalla lezione citata nel testo, seguo, quanto al Petrarca, lezione del P. Marsand, e, quanto a Dante, la lezione del Codice Bartoliniano col riscontro ec. Questa edizione, stampata in Udine, 1823, che dobbiamo alle cure del sig. Quirico Viviani, mi è sembrata doversi preferire ad ogni altra, perchè è l’ultima, perchè tutte le precedenti le profittarono, e perchè le varianti vi sono scelte giudiziosamente, e se ne dà sempre buona ragione. — Qui l’Autore, dopo avere citato la dolcissima traduzione inglese di questo passo fatta dall’erudito Cary (Ved. la nota 1 nel parallelo fra Dante e Petrarca.), gli dà una fina lode, dicendoli ch’egli spesse volte smentisce col fatto una tesi dei suo autore, il quale, fidando principalmente nell’effetto del suo verseggiare, dice che: «Nulla cosa per legame musaico armonizzata si può della sua loquela in altre trasmutare». Dant. Conv. Prose, fac. 64 ediz. Tartini e Franchi. Fir. 1723.
  13. Lo scrittore della Notizia intorno a Didimo Chierico ci fa a sapere (§ V), che c so Didimo aveva gran ribrezzo a correggere le cose una volta stampate, il che, secondo lui, era manifestissima irriverenza a’ lettori. Ma Didimo non di rado andò sopra a un tal ribrezzo, forse perchè l’uomo è creatura anomala, che ribellasi non pure allo leggi impostegli per altri, ma ben anche a quelle, ch’egli va prescrivendo a sè stesso. In fatti il libro, al rinnovarsene delle edizioni, non usci più raffazzonato nello stile, delle Ultime lettere di Iacopo Ortis. Cito singolarmente le due edizioni di Londra (Zurigo) un vol. in 8, 1814, e di Londra due vol. in 12, 1817 Ma i versi de’ Sepolcri, poema elaboratissimo, e che levò sì alto grido in Italia, non sembravano meritare ugual destino. Pure l’autore, dei cinque citati qui sopra, ne lasciò intatti due soli. La prima variante par fatta per compendiare il passo, e meglio adattarlo ad essere citato; ma dell’altre due, e massime dell’ultima, benché non sia difficile indovinar la cagione, dubito assai, che gli uomini di gusto non si appaghino. Questi versi sono nella memoria di tutti i giovani studiosi in Italia, e quando una bella armonia ha guadagnato una volta quel superbo giudice dell’orecchio, è ben difficile, che una seconda vinca quella prima.
  14.      I know that all beneath the moon decays;
    And what by mortals in this world is brought,
    In time’s great periods shall return to nought.
         I know that all the muse’s heavenly lays,
    With toil of sprite which are so dearly bought,
    As idle sounds, of few or none are sought,
         That there is nothing lighter than mere praise.

    Drummond of Hawthornden.
  15. La traduzione inglese di questo luogo del Petrarca fu scelta dall’autore per farvi sopra un’osservazione molto acconcia al proposito. Il Boyd, anzichè tradur fedelmente il passo, elesse di parafrasarlo, e pretese d ornarlo, aggiugnendovi leggiadrie, che nè il poeta italiano osò, nè reggono alla critica; e la parafrasi finisce così: «che un celeste raggio dell’anima dipartita pareva scherzar tuttavia sulla faccia esanime di Laura, dove morte innamorata assidevasi, e sorrideva con angelica, grazia». Ugo Foscolo, citati i sette versi e mezzo inglesi, ne’ quali sono parafrasati i cinque italiani, aggiugne nel testo quanto segue: «Se il traduttore si fosse nell’ultimo verso più strettamente attenuto alle parole dell’originale:

    Morte bella parea nel suo bel viso:

    ci avrebbe dato più alto e nondimeno più credibile concetto della beltà di Laura, e avrebbe destramente converso in sensazione aggradevole l’orrore, onde guardiamo ad un cadavere. Ma «morte che siede innamorata sulla faccia di Laura» non rappresenta immagine distinta, se pur quella non fosse dell’allegorica forma della morte, tramutata in angelo assiso sopra la faccia di una donna: e questo valga ad esempio luminoso delle sconcie assurdità, che derivano dal mal accorto accozzamento del vero colla finzione».

  16. Obscured and lost in flood of golden light.
    Rogers
  17. Fra le altre bellezze di questi versi, e sono pur tante, vi si può ammirare altresì l’arte della prospettiva poetica. Se ti fai da capo di questa descrizione, che non è qui citata intera, vedi che Dante riuscito in una selva antica, e dove l’ombre erano eterne, perchè roggio di sole nè di luna mai non v’entrava, giunto ad un fiumicello, ristette co’ piè, e passò cogli occhi in una fresca landa tutta sparsa di fiori diversi, dove gli apparve una giovine donna, che ne andava trascegliendo i più gai, per intrecciarsene una sua ghirlanda, e ad un tempo soavemente cantava; ma a tanta distanza, che egli pregala le venga in voglia di trarsi avanti, così che possa intendere che ella canti (e nota qui vaghezza di esprimere e la delicata apprensione di turbare quello innocenti gioie di paradiso, e il desiderio, che la spontaneità dell’atto conservi alla donna tutta la mollezza delle grazie native); e la bella donna, lentamente carolando, e mettendo piede innanzi piede, tanto gli si accosta, che il dolce suono viene all’orecchio di Dante co’ suoi intendimenti. Virgilio avea già usato lo stesso accorgimento. Dipingendo i due serpenti, che da Tenedo vengono su pel mare verso il lido, ti fa veder prima i corpi immani, poi i petti sollevati sui flutti, poi le creste sanguigne, poi le immense terga sinuose, poi odi il suono dello sbattuto flutto, e ne vedi la spuma; e nella fine rimiri gli occhi ardenti e suffusi di sangue e di foco, e il vibrar delle lingue, che lambiscono le atre bocche, e feriscono l’orecchio coll’orrendo zufolare: cd ecco tutte le gradazioni della prospettiva poetica.
  18. Apollonii Rhodii Argonauticorum. Lib. III.
  19. Il più insigne esempio, che si possa citare ad illustrazione di questa sentenza, è il Bembo. Contra il narcotico di quelle sue rime platoniche e petrarchesche recipe per antidoto il rallegrativo di una lettera, che Lucrezia Borgia scrisse a quel cardinale, inviandogli una ciocca di biondi capelli. Questa lettera, che chiudesi colla formola: Desiderosa gratificarvi, conservasi fra i MSS. delle Bib. Amb. in Milano.
  20. Ecco le sue parole: «Noi ti ringraziamo delle tue esortazioni a fermar pace co’ genovesi; ma ci è forza combattere. Se la nostra risposta alla tua elaborata lettera ti paresse corta, ascrivilo a termini in che ci troviamo, i quali vogliono da noi fatti, non parole». Ved. Saggi sopra il Petrarca, ediz. di Lugano del 1824, pag. 162.
  21. Dante, Convito.
  22. È questo il meschino argomento del suo trattato: De sui ipsius ei multorum ignorantia.
  23. Petrarca altamente ammirò, ed imitò talora servilmente lo stile dell’Arpinate, al quale indirisse due lettere fra quelle agli antichi più illustri. Scorgesi però da una di esse, che egli vedeva pure alcuna macchia nel suo sole, non di vero quanto è all’ingegno; onde trovò chi ne lo vinceva nell’ossequio a Cicerone. Su di che scrisse un’epistola piacevolissima, la quale con assai bel garbo di lingua fu di fresco voltata in italiano da Giacomo Milan di Vicenza. (Epist. di F. Petrarca a Pulice poeta vicentino. Vic. tip. Parise, 1823). E, ciò che non parrebbe a credersi, alla imitazione di Cicerone congiunse pur quella di Seneca, quanto è al concettoso onde i Giornalisti di Trevoux ebbero a chiamarlo la scimmia di Seneca. Da s. Agostino poi tolse il misticismo, sparso nelle sue opere, e singolarmente ne’ suoi Dialoghi con quel Santo: De Contemptu Mundi.
  24. Quicquid fere opusculorum mihi excidit, quae tam multa fuerunt, ut usque ad hanc aetatem me exerceant, ac fatigent: fuit enim mihi ut corpus, sic ingenium magis pollens dexteritate, quam viribus. Itaque multa mihi facilia cogitatu, quae executione difficilia praetermisi.
    Epist. ad Poster.
  25. Dante, Vita nuova.
  26. Poggio, — Dante. Purg. cap. xvii.
  27. «Egli era già, sì per lo lacrimare e sì per l’afflizione, che al cuore sentiva dentro, e sì per non aver di se alcuna cura di fuori, divenuto quasi una cosa salvatica a riguardare, magro, barbuto, e quasi tutto trasformato da quello, che avanti esser soleva; in tanto che il suo aspetto non che negli amici, ma eziandio in ciascun altro a forza di sè metteva compassione». Boccaccio, Vita di Dante.
  28. Abbraccio assai di grado la lezione del codice Florio, che, in vece di ferma, ha fermo, e trascrivo la nota, che Quirico Viviani pone a questa variante, nella sua edizione di Dante altrove citata. «Nella comune lezione l’aggiunto ferma dato alla torre è un di più che snerva, anzichè accrescere la forza della sublime immagine che non crolla ecc. Ma se noi daremo l’attributo di fermo all’uomo, il paragone sarà adeguato e mirabile. Ho citato questi versi in una nota precedente, non badando, che più avanti si trovassero nel testo; ma l’immagine, che racchiudono, è così sublime, e il consiglio così forte e generoso, che non so pentirmi di questa ripetizione.
  29. Purgat., alla fine del cap. XI.
  30. Honestis parentibus, fortuna (ut verum fatear) ad inopiam vergente, natus sum. Epist. ad Post.
  31. Senil. Lib. 13, Ep. 7.
  32. Indignantissimi animi, sed offensarum obliviosissimi — ira mihi persaepe nocuit, aliis nunquam. Epist. ad Post.
  33. Agostini, Scritt. Venez. vol. i, fac. 5.
  34. Che bell’onor s’acquista in far vendetta. Dante. Convit. — Vedi altisi, Inferno", cap. xxix, ver. 31, 36.
  35. In tale sentenza Dante lasciò ai poeti avvenire il più magnanimo de’ consigli, che un vate canuto possa legare ai successori. Ad esso attengansi saldamente quanti zelano pel santo vero, temono il giudizio dell’età venture, e bramano propiziarselo. In altro luogo della Divina commedia (Inf. cap. xvi in fine) leggesi un’altra sentenza, che a prima giunta sembra opporsi alla qui riferita nel testo, ed è la seguente:

         Sempre a quel ver che ha faccia di menzogna
    De’ l’uom chiuder le labbra fin ch’ei puote,
    Però che senza colpa fa vergogna.

    Ora voglio dimostrare due cose. 1.º Come il contesto di Dante ristringa il senso di questa sentenza. 2.º Quanto si opporrebbe a’ progressi del sapere l’ammetterlo nella pienezza del significato che avrebbe, se tu la enunci isolata. — Dal contesto, ove legasi la terzina, apparisce chiaro che Dante, o intese parlare di quel verisimile poetico, da cui un buon poeta non dee scostarsi giammai, oppure usò di un sottile accorgimento retorico, per disporre il leggitore a prestare credenza a cosa, che pare non meritarla. E infatti, subito dopo quella massima generale, soggiugne:

         Ma qui tacer nol posso; e per le note
    Di questa commedia, lettor, li giuro,
    S’elle non sien di lunga grazia vote,
         Ch’io vidi per quell’aere grosso e scuro
    Venir notando una figura in suso,
    Meravigliosa ad ogni cuor sicuro.

    È manifesto pertanto, che la massima: «Sempre a quel ver ec.» e qui, com’io diceva, artificiosamente annestata per espugnare la incredulità del lettore, e conciliarne la fede alla soprannaturale e grottesca natura di Gerione, che il poeta medita di descrivergli nel venturo canto. Dante volle scemar forza ad una obbiezione, che il lettore gli avrebbe potuto fare, col prevenirla, quasi dicesse: So che non si dee narrare cosa che ha faccia di menzogna; so questa sentenza delle scuole; pure a questa volta non posso acchetarmivi; e giuro, e giuro per la mia Commedia, a te o lettore, che, e’ ti paia pure da non credersi, quanto sto per narrarti è varo. Nota, esser questo altresì un modo efficacissimo a risvegliare l’attenzione e la curiosità di chi legge. — Che Dante poi non annetta senso più lato alla sentenza, ove non bastino le induzioni, abbiamo i fatti, e sono quegli altri suoi versi, a’ quali ho appiccato la presente noia: «E s’io al vero son timido amico ec.», e tutta la sua Commedia, nella quale non paventò i giudizi ncèle opinioni volgari ed effimere, onde non può venir di certo vergogna, nè chiuse le labbra al vero per meschini rispetti, e tale sarebbe stato il timore di dire un vero, che potesse sembrar menzogna;

    Mordear opprobriis falsis, mutemque colores?

    ma lo disse e cantò altamente, e lo cantò anche pericoloso, e, precorrendo la giustizia di Dio, non temè di dannare alla infamia e all’inferno potentissimi contemporanei. — MA quanto poi fosse per riuscir dannoso il dare a questo adagio una significanza estensiva ed assoluta, e lo applicarlo agli scrittori, provasi per la intera storia dei progressi della mente umana. Forse la immobilità del sole e il moto della terra non sarebbero ancora scoperti, se il grande cosmografo avesse dato orecchio a questo consiglio, e fermatosi alla prima faccia delle cose. Ma i posteri hanno in venerazione il nome dì Galileo, appunto perchè trovò un importante vero, e lo dimostrò e mantenne allora pur, che il promulgarlo gli costava ben altro, che una falsa vergogna.

         — Quid me perferre palique
    Indignum coges?

    Il vero che ha faccia di vero è conosciuto da tutti, e, se è giusto onorarlo, non ha però altrettanto bisogno d’avvocati, quanto il vero che ha faccia di menzogna. La sagacità degli scrittori sta nel riconoscerlo sotto quella falsa larva, e l’ufficio loro nello strapparla, e mostrarlo ignudo al mondo; nè mai si è fatto passo veramente progressivo, se non che svelando alcun vero o ignoto, o avente faccia di menzogna; e questo non vergogna mai ma diè sempre le più belle corone agli scrittori generosi. E tornando finalmente a Dante, che persistesse ad allargare il senso di que’ suoi versi; verrebbe a mostrarci in quell’acerrimo assertore del vero un uomo del volgo, che dissimula quante verità non promuovono il proprio vantaggio, e nello scrittore filosofo curante solo il vero, l’onesto e il bene dell’umanità, posposto ogni personale rispetto, un roco mormoratore di corte, sollecito unicamente di blandire l’orecchio del suo signore, uno cui

    Falsus honor juvat, et mendax infamia terret.

  36. Lettera di Dante, che conservasi nella Laurenziana a Firenze: Pluteo xxix, cod. viii. fol. 123. «In licteris vestris et reverentia debita et affectione receptis, quam repatriatio mea cure sit vobis ex animo, grata mente ac diligenti animadversione concepi. Etenim tanto me districtius obligastis, quanto rarius exules invenire amicos contingit, ad illam vero significata respondeo, et si non eatenus qualiter forsan pusillanimitas appeteret aliquorum, ut sub examine vestri consilii sit ante judicium, affectuose deposco. Ecce igitur quod per licteras vestri meique nepotis nec non aliorum quamplurimum amicorum significatum est mihi per ordinamentum nuper factum Florentie (sic) super absolotione bannitorum, quod si solvere vellem certam pucunie (sic) quantitatem vellemque pati notam oblationis el absolvi possem et redire at presens (sic) in quo quidem duo ridenda et male perconsiliata sunt. Pater, dico male perconsiliata per illos qui talia expresserunt nam vestre litere (sic) discretius et consultius clausulate nihil de talibus continebant estne ista revocatio gloriosa qua d. all. (i. e Dantes Aligherius) revocatur ad patriam per trilustrium fere perpessus exilium? hecne (sic ) meruit conscientia manifesta quibuslibet? hec sudor et labor continuatus in studiis? absit a viro philosophie (sic) domestico temeraria terreni cordis humilitas, ut more cuiusdam cioli et aliorum, infamia quasi vinctus ipse se patiatur offerri, absit a viro predicante iustitiam, ut purpessus iujuriam inferentibus, velut benemerentibus, pecuniam suam solvat, non est hec (sic) vie redeundi ad patriam, pater mi, sed si alia per vos, aut deinde per alios invenietur que fame (sic) d. (Danti,) que onori non deroget, illam non lentis passibus acceptabo. Quod si per nullam talem Florentia introitur, nunquam Florentiam introibo, quidni? nonne solis astrorumque specula ubique conspiciam? nonne dulcissimas veritates potero speculari ubique sub celo (sic) ni prius inglorium, imo ignominiosum populo, florentineque civitati me reddam? quippe panis non deficiet.»
  37. Bartolus, Lex de rejudicandis rei ad cod. i.
  38. Ea res . . . miraculo ostendit divinum illum spiritum Deo familiarissimum. Villani vit. Petr. sul fine.
  39. Tommasini, Petrarca Redivivus, pag. 30
  40. Senil. Lib. 13, ep. 7.
  41. Humanum genus, potissime liberum, optime se habet. Dante, de Monarchia.
  42. Cum omnium rerum fastidium atque odium in animo meo initium ferre non possim.

Note

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