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ATTO QUARTO
SCENA I.
Un’altra parte della stessa.
Entrano la Principessa. Rosalina, Maria, Caterina, Boyet, signori, seguito e un boscaiuolo.
Prin. Era il re che spronava così vivamente il suo cavallo, e lo faceva salire su quella dirupata collina?
Boy. Non so, ma credo di sì.
Prin. Chiunque ei fosse, era un nobile cavaliere; signori, noi otterremo oggi il nostro congedo, e sabato ripartiremo per la Francia. Guarda, mio amico, dov’è il bosco, perchè possiamo appostarci in esso, e compiervi le parti di cacciatori.
Boy. È qui vicino, e potrete fare la più bella caccia.
Prin. Ringrazio la mia bellezza; perchè son io che debbo cacciare, tu dici che faremo una bella caccia?
Bos. Perdonatemi, signora, ma non è ciò che volli dire.
Prin. Come! Mi lodi, e poi ti disdisci? Oh brevi gioie del mio orgoglio! Io non son dunque bella? oimè! sono assai da compiangere.
Bos. Sì, signora, voi siete bella.
Prin. No, non adoprarti più a fare il mio ritratto. Un volto senza bellezza non può mai esser reso piacevole dal pennello deila lode. Prendi, (dandogli danaro) mio fedele amico, per avermi detto la verità. Belle monete per brutte parole ricompensano generosamente.
Bos. Tutto quello che voi possedete è bello.
Prin. La mia bellezza si salverà in tal guisa coi miei doni.Oh eresia nel giudizio del bello, ben degna di questi tempi! Una mano che dà, foss’ella deforme, è sicura d’essere laudata. Ma via, porgimi l’arco. Ora la bontà ucciderà, e con un malefizio resterà indenne la mia gloria. Così, s’io non colpisco, sarà la pietà che m’avrà impedito di commettere un’uccisione; se colpisco, avrò voluto addimostrare la mia abilità, ch’avrà acconsentito ad uccidere piuttosto per attirarsi elogi, che pel desiderio di spegnere una vita; e in realtà ciò accade qualche volta. La gloria si rende colpevole di detestabili delitti, allorchè per ottener fama e lode, beni esteriori e vani, noi addirizziamo a tale intento tutti gli sforzi del nostro cuore, come farò io oggi che, pel solo scopo d’esser laudata, spargerò il sangue d’una povera damma a cui non voglio alcun male.
Boy. Non è egli unicamente per amore della gloria che le maledette mogli aspirano ad un’esclusiva sovranità sui loro consorti?
Prin. Sì, unicamente per ciò, e noi dobbiamo un tributo di lodi ad ogni femmina che soggioghi il signor suo. (entra Costard) Ma ecco un membro della repubblica.
Cost. Dio vi dia a tutti la buona sera! Ma, ve ne prego, qual è la signora ch’è alla testa delle altre?
Prin. La riconoscerai dalle altre che non han testa.
Cost. Qual’è la più grande, la più alta signora?
Prin. Quella che le soverchia tutte in lunghezza.
Cost. In lunghezza! Sì, il vero è vero. Se la vostra cintura, signora, fosse così minuta com’è il mio spirito, il nastro d’una di queste donzelle varrebbe ad allacciarmi. Siete voi qui la principale?
Prin. Cosa volete? Che cosa volete?
Cos Ho una lettera di monsieur Biron per una signora Rosalina.
Prin. Dammela, dammela, è un mio amico; e allontanati un istante, mio caro messaggiero. — Boyet, potete aprire questa lettera.
Boy. Debbo servirvi. — La lettera è mal indirizzata: essa non va ad alcuna delle signore che sono qui: è scritta a Giacometta.
Prin. La leggeremo, lo giuro: aprila e ognuno stia attento.
Boy. (legge) «Pel Cielo! che tu sii bella, è cosa non dubbia, non dubbio è che tu sii bella, e non dubbio è pure che tu sei amabile. Più bella sei del bello, più vaga della vaghezza, più vera della verità; abbi pietà del tuo eroico vassallo! Il magnanimo e illustrissimo re Cofetua fìsso gli occhi sulla perniciosa e proterva mendica Zenelofonta, e fu egli che potè a buon diritto dire: veni, vidi, vici; che voltato in volgare (o vile o oscuro volgare!) videlicet, venne, vide e vinse; ossia venne uno, vide due, vinse tre. Chi venne? Il re; perchè venne? Per vedere; perchè vide? Per vincere; verso cui venne egli? Versa una mendica; che cosa vide? La mendica; chi vinse? La mendica: la conclusione è la vittoria. Da qual parte? Dalla parte del re. La prigioniera arricchita: mercè cui? Mercè il re. La catastrofe sta nelle nozze. Chi colpisce? il re? No, entrambi lo sono il re: perocchè a ciò riesce la comparazione: tu sei la mendica, quale il tuo umile stato ti attesta. Ti comanderò io d’amarmi? Lo potrei. Ti sforzerò ad amarmi? Lo dovrei. Ti supplicherò di amarmi? Lo vorrei. Che cosa cambierai tu coi tuoi cenci? Altere vesti. Colle tue miserie? I titoli miei. Con te? Me. Così aspettando la tua risposta, io profano le mie labbra sopra i tuoi piedi, i miei occhi sul tuo ritratto, e il mio cuore sopra ogni tua parte.
«Il tuo desideroso ognora di serviti
Don Adriano de Armado».
È così che tu odi il leone Nemèo ruggire contro di te, povero agnello, destinato a divenire sua preda. Cadi con rassegnazione a’ piedi del monarca, che tornando dalle stragi, ei potrà intrattenersi piacevolmente con te: ma se tu gli resisti, misera sfortunata, che mai divieni? il pascolo della sua rabbia, e la vettovaglia della sua caverna.
Prin. Qual penna veste chi dettò questa lettera? Qual banderuola! Qual gallo da campanile! Udiste mai nulla di meglio?
Boy. O molto io m’inganno, o rammento l’autore di questa lettera.
Prin. Lo credo, altrimenti avreste una memoria ben trista.
Boy. Quell’Armado è uno Spagnuolo che frequenta la Corte, un carattere bizzarro e fantastico, che serve di sollazzo al principe, e a’ suoi compagni di studio.
Prin. Dimmi tu, amico: chi ti diede questa lettera?
Cost. Già ve lo dissi: il mio signore.
Prin. A chi dovevi recarla?
Cast. Dal mio signore alla mia signora.
Prin. Da qual signore a qual signora?
Cost. Dal mio signor Biron, mio buon padrone, a una signora di Francia, che chiamasi Rosalina.
Prin. Sbagliasti il tuo messaggio. — Venite, amici miei. — Tu (a Cast.) lasciaci questa lettera, che ti sarà restituita un’altra volta. (esce col suo seguito)
Boy. Chi è l’amante? Chi è l’amante?
Ros. Debbo io insegnarvelo?
Boy. Sì, mio continente di bellezza.
Ros. Ebbene, è quello cne tien l’arco. — Ho ben risposto?
Boy. Egli ucciderà le corna, e se voi vi maritate, appendetemi pel collo se le corna quest’anno mancano. — Come vi sembra l’espressione!
Ros. Io dunque sarò il cacciatore.
Boy. E quale sarà la vostra damma?
Ros. Se dev’essere scelta dalle corna, sarete voi. — Come trovate il detto?
Mar. Voi disputate sempre con lei, Boyet, ed ella vi abbatte nella fronte.
Boy. Ma ella pure rimane abbattuta da me.
Ros. Volete che v’investa con l’antico adagio, che dice: egli era uomo, quando il re Pipino non era ancora che un fanciulletto?
Boy. Potrei rispondervi con quell’altro che corre così: ella era donna allorchè la regina Ginevra di Bretagna poppava ancora.
Ros. (cantando) A nulla tu riesci coi tuoi motti insulsi...
Boy. (cantando) Se io non son da tanto, un altro lo sarà. (escono Ros. e Cat.)
Cost. Sull’onor mio, fu piacevole il dialogo! Come entrambi tiravano diritto.
Mar. E entrambi colpivano nel segno.
Boy. Nel segno! Nella meta infallibile.
Mar. La mano sta vicino all’arco, e sempre lo tiene ammanito. Ma le vostre parole erano troppo libere, e vi insozzavano le labbra.
Cost. Se volete un’altra sfida con lei (a Boy.) ella par pronta ad accettarla.
Boy. Non vi è eguaglianza fra di noi, e perciò buona notte, mio buon cuculo. (esce con Mar.)
Cost. Sull’anima mia, un semplice pastore, un povero paesano e due fanciulle han bastato ad opprimerlo! Per la vita che sento in me furono arguti scherzi! Ma odo suoni di caccia: il divertimento starà per cominciare. (esce correndo)
SCENA II.
La stessa.
Entrano Oloferne, sir Nataniele e Dull.
Nat. Davvero, una buona caccia, e fatta con buona coscienza.
Ol. Il cervo era, come sapete, in sanguis, in sangue; matura come un pomo da acqua, che pende quasi gioiello dall’orecchio del coelo, l’empireo, il firmamento, e tutto ad un tratto cade come un frutto selvatico sulla faccia della terra, il suolo che noi calchiamo.
Nat. In verità, mastro Oloferne, voi variate leggiadramente i vostrì epiteti al par di uno scolaro: io però potrei dirvi che la bestia di cui parlate era un capriuolo.
Ot. Sir Nataniele, haud credo.
Dull. Non era un haud credo, era un capriolo.
Ol. Barbarissima sentenza! Vorrete voi, così insinuandovi, o piuttosto ostentando di credere quel che non credete, indurre in me l’opinione che il mio haud credo non fosse un cervo?
Dull. Dissi che il capriuolo non era un haud credo.
Ol. Doppia follia, bis coctus! Oh mostruosa ignoranza, come sei deforme!
Nat. Signore, quell’uomo là non si è mai nutrito di quelle delicate vivande che trovansi nei libri; egli non ha mai, come potrebbe dirsi, mangiata carta, nè bevuto inchiostro; il suo intelletto è digiuno; egli è un animale sensibile solo alle cose più rozze. E allorchè vediamo sotto i nostri occhi sì sterili piante, dobbiamo essere riconoscenti verso di noi dotti e forniti di perspicacia. Male però sarebbe che ci mostrassimo vani, indiscreti e intolleranti, come male starebbe ad un buffone l’assidersi in mezzo ad una scuola: ma omne bene dico io; ed è il sentimento di un vecchio padre che molti possono sopportare la tempesta, i quali inetti sono a sostenere il vento.
Dull. Voi siete due letterati, ma non sapreste dirmi, con tutto il vostro spirito, chi fosse quello che aveva un mese alla nascita di Caino, e che ora non ha neppure cinque settimane.
Ol. Dictynna, buon uomo Dull, Dictynna, buon uomo.
Dull. Chi è questa Dictynna?
Nat. Un titolo di Febea, di Diana, della Luna.
Ol. La luna aveva un mese, allorchè Adamo aveva trenta giorni; ed essa non aveva neppure cinque settimane, quando Adamo compiva i cent’anni: l’allusione esiste ancora in onta dei nomi cambiati.
Dull. È vero davvero; la collusione ancora sussiste.
Ol. Dio voglia rinforzarti l’ingegno! Dissi che l’allusione esiste ancora.
Dull. Ed io dico che la polluzione sussiste, malgrado il mutamento dei nomi; poichè la luna non compie mai più d’un mese; e dico ancora che fu un capriuolo quello che uccise la principessa.
Ol. Messer Nataniele, volete udire un epitafio estemporaneo sulla morte di quel cerbiatto? Per piacere agli ignoranti io pure lo chiamo capriuolo.
Nat. Perge, mio buon Oloferne, perge, e così porrai termine ad ogni beffa.
Ol. Vedrete quale scelta di vocaboli, e quale facilità. «La stimabile principessa ha ferito un capriuolo, un capriuolo ha ferito la stimabile principessa. I cani hanno latrato dietro all’irata bestia; ma al dardo di una Dea qual bestia si può sottrar!»
Nat. Raro talento!
Dull. Se il talento è un artiglio, a dovere esso squarcia, a dovere.
Ol. È un dono che possiedo semplice, semplicissimo; uno spirito fantastico, pieno di forme, di figure, di oggetti, di idee, di apprensioni, di movimenti, di rivoluzioni: ingenerate esse sono nel ventricolo della memoria, e nutrite nel seno della pia mater: di qui vengono date in luce dalla maturità dell’occasione. Ma tal talento è buono in chi lo possiede acuto, e ringrazio il Cielo che me lo ha dato.
Nat. Signore, lodo Dio per voi, e i miei parrocchiani potrebbero fare altrettanto, perchè mercè vostra i loro figli sono bene educati, e profittano grandemente le loro figliuole. Voi siete un buon membro della repubblica.
Ol. Mehercule, se i loro figli sono ingegnosi, non mancheran d’istruzione: se le loro figlie hanno capacità, io saprò riempirla: ma vir sapit qui pauca loquitur: un’anima femminina ci vien incontro? (entrano Giacometta e Costard)
Giac. Dio vi dia il buon giorno, signor parroco.
Ol. Parroco! E se a lui toccano i saluti, che cosa toccherà al maestro?
Cost. Forse qualche bastonata.
Ol. Le bastonate al maestro? Pensiero giocondo escito da una zolla! Anche la selce ha la sua scintilla, come il maiale ha il suo grugnito. Bene stà, bene stà.
Giac. Mio buono signor curato, fatemi la grazia di legger questa lettera che mi fu data da Costard, e inviatami da Don Armado. Ve ne prego, leggetela.
Ol. Fauste precor gelida quando pecus omne sub umbra, Ruminat..... e così via di seguito. Ahi, buon vecchio Mantovano! Io posso dire di te come il viaggiatore di Venezia:
Vinegia, Vinegia,
Chi no te vede
Ei no te pregia.
Vecchio Mantovano! Vecchio Mantovano, chi non ti intende non ti ama. — Ut, Re, Sol, La, Mi Fa. — Con vostra licenza, signori, che cosa dice quella lettera? piuttosto, come Orazio si esprime: qual suona il verso?
Nat Son versi infatti, signori, e molto belli.
Ol. Ch’io ne oda una stanza, una strofa, un terzetto: lege Domine.
Nat. «Se l’amore mi ha reso spergiuro, come mai di amore potrò giurare? Ah! non vi sono altri sacramenti costanti che quelli che vengono fatti alla bellezza. Sebbene spergiuro a me stesso, sarò fedele a te. Quel che è per me una quercia inflessibile, non è per te che una pieghevole canna. Lo studio abbandona i suoi libri per non leggere che ne’ tuoi occhi, in cui splendono tutti i piaceri che l’arte può compendiare. Se la scienza è lo scopo dello studio, il conoscerti basta ad ottenerne. Dotta è la lingua che sa ben laudarti. L’ignoranza è nell’anima, che senza sorpresa ti vide, ed è un elogio per me l’essere ammiratore del tuo merito. Il tuo occhio lancia il folgore di Giove, e la tua voce il suo formidabile tuono; ma quando tu non sei in collera, il tuo accento è una musica dolce, e il tuo sguardo comunica un soave calore. Figlia del Cielo, amica mia perdonami s’io ti fo ingiuria, cantando con voce mortale le lodi di sì divina cosa».
Ol. Voi non sapete trovare le apostrofi, e sbagliate gli accenti: lasciate ch’io rivegga quella canzonetta. Non vi è che il numero e la misura; ma in quanto all’eleganza, alla facilità, e all’aurea cadenza della poesia caret. Ovidio Nasone era l’uomo! E perchè si chiamava egli Nasone, se non perchè sapeva fiutare i fiori odoriferi dell’imaginazione, e i tempi dell’invenzione? Imitari, equivale a nulla; così fa il cane verso il suo padrone, la scimmia verso il suo guardiano, l’infettucciato cavallo verso il suo cavaliere. Ma, donzella virginea, era a voi diretta quella epistola?
Giac. Sì, signore, per parte di monsieur Biron, uno dei signori della regina forestiera.
Ol. Leggerò la soprascritta: Alla nivea mano della bellissima Rosalina. Riguarderò ancora al contenuto per vedere la denominazione della parte scrivente: Il devoto servitore di Vossignoria, Biron. Messer Nataniele, questo Biron è uno di quelli che fecero voto col re, ed egli ha qui scritto una lettera diretta ad una delle dame della regina, che per caso è capitata a noi. — Correte, mia cara, e ponete questo scritto nelle regie mani: potrebb’essere importante: andate, non vi perdete in cerimonie, che ve ne dispenso. Addio.
Giac. Buon Costard, vieni meco. — Signore, Dio salvi la vostra vita.
Cost. Son teco, mia fanciulla. (esce con Giac.)
Nat. Messere, voi vi comportaste in ciò col debito timore di Dio; molto religiosamente, e come un certo padre dice.....
Ol. Signore, non mi parlate di padri, perchè tale pluralità paterna mi atterrisce. Ma tornando ai versi: vi piacquero essi, sir Nataniele?
Nat. Moltissimo per ciò che risguarda la scrittura.
Ol. Debbo desinar oggi dal genitore di certa mia pupilla, dove le volete avanti al pasto purificare la mensa con azioni di grazia, io penserò, valendomi dei privilegi che tengo presso i parenti della sunnominata, a farvi ben accogliere; e là vi pròvero che questi versi non valgon nulla, perchè non hanno alcuna tintura di poesia, di spirito, o d’invenzione: chieggo il vostro consorzio.
Nat. Ve ne ringrazio assai: perchè il consorzio, dice il testo, è la felicità della vita.
Ol. E certo il testo dice una cosa sensatissima. — Messere, (a Dull.) voi pure invito: voi non mi direte di no: pauca verba. Via; i nobili sono ai loro sollazzi, e noi pure andremo alle nostre ricreazioni. (escono}
SCENA III.
Un’altra parte della stessa.
Entra Biron con un foglio.
Bir. Il re caccia il cervo, ed io caccio me stesso: mi hanno tese le reti, e vi sono rimasto accalappiato. Calmati, dolor mio: è sentenza da pazzo, ma che forza è pur ch’io ripeta. Ben ragionato! — Pel Cielo! questo mio amore è frenetico, come lo era Ajace; esso uccide i montoni; uccide me, che monton sono. Novella serie di squisiti ragionamenti! — Amor non voglio: e anco mi si appenda; in coscienza non amerò. Ah! ma il suo bell’occhio... Per questa luce! se non vi fosse che il suo occhio, non l’amerei: i suoi due occhi non amerei, ma io mento, mento. Oh Cielo! io sono innamorato, e ho imparato a far versi e ad esser malinconico: ecco un brano delle mie rime e della mia malinconia. Bene stà: la bella ha di già avuto uno de’ miei sonetti: lo stupido Costard gliel ha recato, il pazzo lo inviò, e la dama ne prese possesso. Caro stupido, caro pazzo, dama anche più cara! — Viva il cielo! me ne befferei a mio senno, se gli altri tre dividessero la mia follia. — Eccone uno con un foglio: il Signore gli conceda la grazia di sospirare! (monta sopra un albero intanto che entra il Re)
Re. Oimè!
Bir. (a parte) Egli è ferito, pel Cielo! — Procedi, dolce Cupido; tu l’hai ferito colla tua saetta sotto la mammella manca. — Ascoltiamo.
Re. (leggendo il foglio che ha in mano) «Il sole non bacia più dolcemente la rosa bagnata dalla fresca rugiada del mattino, di quello che il primo raggio de’ tuoi begli occhi, baci i pianti che la notte ha fatto sgorgare sulle mie gote. L’argentea lana brilla con minore splendore traverso al seno limpido dell’onda, di quello che lo splendore della tua bellezza traverso alle mie lagrime. Tu splendi in ogni stilla di pianto ch’io verso, e ognuna di esse porta come un carro l’imagine tua che mi sta fitta nella mente. Degnati soltanto di riguardare a queste lagrime che m’inturgidiscono gli occhi, e vedrai manifestarvisi la tua gloria ne’ miei dolori. Astienti dall’amare solo te stessa, perocchè allora i miei pianti più non cesseranno, e ti serviranno di specchio a riflettere la tua bellezza. Oh! regina delle regine, quanto sei incomparabile! Il pensiero dell’uomo non può concepirlo, nè la lingua esprimerlo». — Come le farò io conoscere le mie pene? Lascierò cadere questo foglio: albero amico, cuopri la mia follìa colla tua ombra. — Chi viene in questo luogo? (va in disparte. Entra Longueville anch’egli con un foglio) È Longueville, e legge! Ascoltiamolo.
Bir. (a parte) Ecco un altro pazzo che apparisce e che ti somiglia!
Long. Oimè! io sono uno spergiuro.
Bir. (a parte) S’avvanza come un traditore colla scritta in mano.
Re. (a parte) Egli è amante, lo spero; dolci compagni di vergogna!
Bir (a parte) Un ebbro ama un altr’ebbro.
Long. Sono stato io il primo a rendermi spergiuro?
Bir. (a parte) Potrei consolarti, mostrandoti altri che ti han preceduto. Tu compi il triumvirato, segni il terzo corno del cappello della società, la forma del patibolo dell’amore a cui sta appesa l’innocenza.
Long. Molto temo che questi versi non siano inetti a commuoverti, amabile Maria, sovrana del mio cuore! Vuo’ stracciar queste rime e scriverle in prosa.
Bir. (a parte) Le rime sono i forieri spediti da Cupido; non mancare alle discipline.
Long. Inviamole questi versi. — (legge) «Non è la celeste eloquenza de’ tuoi occhi, dinanzi alla quale l’universo ammutisce, che ha reso il mio cuore colpevole di questo spergiuro? Un voto rotto per cagion tua non merita dì essere punito. Feci voto contro le donne, ma non contro le Dee, e una Dea tu sei. Il mio voto non risguardava che le bellezze mortali, e tu sei una bellezza celeste, lì possedimento delle tue grazie mi monderà di ogni disonore. I giuramenti non son che un soffio, il soffio non è che un vapore, e sei tu astro fulgido sopra di me, come il sole è sopra la terra, che a te attiri tal vapore: esso è salito nella tua sfera. Se il mio giuramento è violato, io non ne ho colpa, e se fossi io pure che violato l’avessi, qual pazzo non sarebbe abbastanza savio per rompere un giuramento, onde guadagnare un paradiso?»
Bir. (a parte) Ecco versi dettati dal fegato, che trasmutano un corpo perituro in una divinità, una giovane oca in una Diva: idolatria, idolatria! Dio ne faccia misericordia! Siam molto fuori del buon sentiero. (entra Dumain con un foglio)
Long. Di chi mi varrò per mandare questo scritto? Chi si avanza? (va in disparte)
Bir. (a parte) Tutti nascosti noi giuochiamo a gatta cieca. Io mi sto qui come un semidio dell’Olimpo, e il mio occhio attento scruta quei miseri insensati, e penetra i loro segreti. Eccone un altro. Oh Cielo! i miei voti son paghi; Dumain è pure innamorato: quattro beccaccie in un piatto solo.
Dum. Di vìnissima Caterina!
Bir. (a parte) Miserabile profano!
Dum. Meraviglia ineffabile e incantatrice!
Bir. (a parte) E te ha bene incantato.
Dum. L’ambra de’ suoi cappelli vince l’ambra medesima.
Bir. (a parte) La similitudine è nuova, se non bella.
Dum. Ella è altera come un cedro.
Bir. (a parte) Aspetta; una delle sue spalle la rende alquanto umile.
Dum. È bella come il giorno.
Bir. (a parte) Come qualcuno di quei giorni in cui il sole non risplende.
Dum. Ah, se i miei voti fossero paghi.
Long. (a parte) E i miei anche!
Re. (a parte) Ed anche i miei, buon Dio!
Bir. (a parte) Amen, purchè i miei pure non vengano obbliati: non è ben detto?
Dum. Vorrei dimenticarla, ma ella è una febbre che regna nel mio sangue, e mi costrìnge a ricordarmi di lei.
Bir. (a parte) Una febbre nel vostro sangue! Un salasso allora vi guarirà. L’amore vuol sangue.
Dum. Rileggerò l’ode che ho composta per essa.
Bir. (a parte) Udirò anche una volta come l’amore possa diversamente manifestarsi.
Dum. «In un giorno di maggio, sciagurato giorno! (maggio fu sempre il mese dell’amore) un amante vide un fiore de’ più belli accarezzato da zeffiro invisibile, che si apriva a poco a poco un passaggio fra le odorose sue foglie. L’amante triste e geloso, invidiò le di lui felicità. Ah! disse egli, perchè non sono io quello zeffiro? perchè come lui non poss’io vincere? Oimè! amabile rosa, la mia mano ha giurato di non mai staccarti dalla tua spina; ma questo giuramento poteva attenersi da un giovine? Non imputarmi dunque a delitto, se per te son divenuto spergiuro: per te, per amore di cui Giove stesso griderebbe che Giunone non è che un’Etiopa, e che abiurando la propria divinità si muterebbe in uomo per venirti ad adorare».
Le manderò questi versi ed alcune altre righe anche più semplici, che le spiegheranno le pene e le privazioni del mio sincero affetto. Quanto pagherei che il re, Biron e Longueville, fossero del pari innamorati! Il male, servendo d’esempio al male, laverebbe la mia fronte dalla vergogna dello spergiuro, e la follia diverrebbe innocente quando tutti la dividessero.
Long. (avanzandosi) Dumain, il tuo amore è spietato, poichè desidera compagni d’infortunio. — Tu puoi impallidire a tuo senno, ma io arrossirei d’essere stato udito a pronunziare le parole che dianzi proferivi.
Re. (avanzandosi) Messere, non arrossite, perchè voi pure versate in egual condizione, e siete due volte più colpevole di lui. Non amate voi Maria? Non avete composti versi per essa? Non vi siete incrociate le mani sul cuore, per contenerne gl’impeti tumultuosi? Io stava nascosto in quel cespuglio, e vi vedevo entrambi, e per entrambi sentii vergogna. Udii le vostre colpevoli rime, e gli ardenti sospiri che esalavate dal petto; osservai i vostri volti, e notai tutti i segni della vostra passione. Oimè! gridava l’uno; oh Giove! sclamava l’altro. L’uno diceva: la sua capigliatura splende come l’oro; l’altro: i suoi occhi brillano come il cristallo. Voi (a Long.) volevate violare la vostra fede e i vostri giuramenti, per la conquista dei paradiso, voi (a Dum.) asserivate che Giove si sarebbe fatto uomo per amore della vostra bella. — Che dirà Biron, allorchè saprà che mancaste ad una parola data con tanto ardore? Oh come egli vi opprimerà coi suoi motteggi! come si farà beffa di voi! come salterà di gioia, come riderà! Per tutti i tesori ch’io ho veduti, non vorrei ch’egli ne avesse a rimproverare di così fatta colpa.
Bir. Vengo a punir l’ipocrisìa (discende dall’albero). Ah mio buon sovrano! vogliate perdonarmi... Cuor generoso, si addice egli a voi il rimproverare questi infelici perchè amano, se voi amate più di loro? I vostri occhi non serbano forse l’imagine di una bella? Non vi è forse una certa principessa che si dipinge nelle vostre lagrime? Voi non vorreste rendervi spergiuro, è cosa odiosa; e solo i menestrelli possono piacersi nelle rime. Ma perchè arrossite? Non avete tutti e tre vergogna di essere stati così sorpresi e messi a nudo? Voi, Longueville, vedeste un fascello nell’occhio di Dumain; il re ne vide uno nei vostri; ma io scorsi una trave nell’occhio di tutti e tre. Oh! a quali stravaganze ho assistito! Di quanti sospiri, gemiti, dolori e disperazioni sono stato testimonio! Con qual pazienza mi son tenuto nascosto per vedere un re mutato in un pastore, per vedere il robusto Ercole danzante una ridda, il saggio Salomone sciogliente la voce ad una canzonetta, Nestore che giuocava alle palle coi fanciulli, e il cinico Timone che rideva delle vanità della terra! Dov’è ito il tuo dolore, dimmelo, mio caro Dumain? Dove son le tue pene, mio amato Longueville? Dove i mali che contristavano il mio sovrano? Tutti nel cuore, non è vero? Olà! si rechi qualche cordiale.
Re. Troppo amare son le tue beffe; ci tradimmo dunque così da noi stessi?
Bir. Non foste voi che vi tradiste, fui io il tradito, io che virtuoso e sincero riguardavo come un delitto di violare un voto, e che posto mi era in compagnia d’uomini così leggieri e incostanti. Allorchè voi mi vedrete scrivere versi, o esalare sospiri, spendere un minuto di tempo nel farmi bello, o nel lodare una mano, un piede, un volto, un occhio, un portamento, un aspetto, un sopracciglio, una gola, una cintura, una gamba..... (vedendo arrivare Costard vuole allontanarsi)
Re. Fermatevi, dove correte? È un uomo onesto o un ladro chi fugge così?
Bir. Fuggo dall’amore; vaghi amanti, lasciatemi andare. (entrano Giacometta e Costard)
Giac. Dio benedica il re!
Re. Che hai tu costà?
Cost. Un certo tradimento.
Re. Chi ne tradisce qui?
Cost. Toccherà voi l’indovinarlo.
Re. Non ho tempo da perdere; vattene.
Giac. Supplico Vostra Altezza di leggere questo foglio: fu il nostro curato che disse che avevate ragione di farlo.
Re. Biron, (dandogli la lettera) leggete. — Da cui l’avesti? (a Giac.)
Giac. Da Costard.
Re. E tu? (a Cost.)
Cost. Da don Adramadio, don Adramadio.
Re. Ebbene! che avete? Perchè la lacerate?
Bir. Era cosa da nulla, signore; non abbiate alcun timore.
Long. Quella lettera lo commosse, bisogna esaminarla.
Dum. (raccogliendone i brani) Fu scritta da Biron; ecco qui il suo nome.
Bir. (a Cost.) Ah bastardo insensato! tu nascesti per mia vergogna. — Son colpevole, mio sovrano, son colpevole, lo confesso.
Re. E di che?
Bir, Voi siete tre pazzi, a cui manca solo il quarto, e sono io. Noi tutti, mio sovrano, commettemmo il medesimo peccato, e meritiamo di morire. — Congedate coloro, e ve ne dirò di più.
Dum. Ora il numero è pari.
Bir. Sì, siamo quattro. — Vogliono andarsene quelle tortore?
Re. Itevene, amici; andate.
Cost. Le persone oneste se ne vadano, e i traditori rimangano. (esce con Giac.)
Bir. Miei dolci signori, miei cari amanti, abbracciamoci; noi siamo così fedeli nei nostri giuramenti, come lo possono essere la carne e il sangue. Il mare avrà sempre il suo flusso e riflusso, il cielo mostrerà sempre la sua volta stellata; il sangue dei giovani ardenti non obbedirà mai ai consigli della fredda vecchiaia. Noi non ci possiamo allontanare dal termine pel quale slam nati. Ond’è che siamo costretti a divenir spergiuri.
Re. Come! I brani di quella lettera contengono forse qualche composizione amorosa?
Bir. Me lo chiedete? Ma chi può vedere la celeste Rosalina senza piegare dinanzi a lei il capo, come fa il selvaggio Indiano dinanzi al sole nascente? Chi può, abbagliato dal suo splendore, non umiliar la fronte fino a baciare la polvere? Qual occhio audace, fosse egli penetrante come quello dell’aquila, oserebbe fissare in lei i suoi sguardi, senza rimanere acciecato dai raggi della sua maestà?
Re. Qual passione, qual furore si è così di subito impossessato di te? L’amante mia, signora della tua, è una luna gradita, e Rosalina non è che una stella del suo seguito, il di cui chiarore s’intravvede appena.
Bir. I miei occhi dunque non sono occhi, ed io non sono Biron. Oh! se il cielo volesse per amor mio mutare il giorno in notte! I più bei colori stanno dipinti sulle sue gote, e nulla a lei manca di quello che può appetire al desiderio. Datemi una tromba... ma no, lungi da me rettorica inzuccherata, ella non ne ha bisogno. Sono le derrate comuni che richieggono gli elogi del venditore: ella vince ogni lode, ed ogni lode diventa un’ingiustizia per lei. Un eremita, sul di cui capo fossero passati cento inverni, potrebbe, mirandola, ringiovanire, perchè la vista della bellezza rende alla vecchiaia il colorito dell’adolescenza, e riconduce verso la culla dell’infanzia il bacolo della caducità. È il sole che fa risplendere tutti gli oggetti.
Re. Pel Cielo! l’amante tua è nera come l’ebano.
Bir L’ebano le rassomiglia? Oh legno soave! Una donna fatta di tal legno sarebbe la suprema felicità. Chi mi farà giurare? Dov’è il sacro libro ond’io attesti che la bellezza è imperfetta, se non ritrae lo sguardo da’ suoi begli occhi? Non vi è bel volto se nero non è come il suo.
Re. Oh paradosso! Il color nero è il simbolo dell’inferno, il color delle prigioni e della fosca notte: e i cieli si addicono alla bellezza più perfetta.
Bir. I demoni per tentarci con maggior sicurezza assumono le forme dì angeli luminosi. Se i sopraccigli della mia bella son neri, è perchè essa duolsi che un color menzognero, una chioma usurpata seducano gli amanti con una mendace apparenza. Rosalina è nata per convertire il nero in bellezza.
Re. La razza degli Etìopi diverrà dunque la più leggiadra.
Long. L’oscurità non avrà più bisogno di faci, poichè le tenebre si cambiano in luce.
Bir. Le vostre amanti non osano mai esporsi alla pioggia per tema che i loro colori non vengano lavati sulle loro gote.
Re. Non sarebbe male che la vostra detergesse le sue per cancellarne quel bruno che vi sta.
Bir. Vi convincerò che Rosalina è bella, o parlerò fino al dì del supremo giudizio.
Re. In quel gran dì nessun demonio ti spaventerà al pari di lei.
Dum. Non ridi mai estimar tanto cosa che meritasse meno prezzo.
Long. Vuoi mirare la tua amante? Guarda una delle mie scarpe e raffrontala al suo vìso.
Bir. Quando le strade fossero lastricate d’occhi simili ai tuoi non sarebbero abbastanza molli pei suoi piedi delicati.
Dum. Oh strana imagine! Allora la strada vedrebbe ogni sua cosa... come se ella camminasse sopra la testa.
Re. A che tanti discorsi? Non siam noi tutti innamorati?
Bir. Nulla è più vero, ed è per ciò cle siam tutti spergiuri.
Re. Finiamo dunque un vano dialogo; e tu, caro Biron, provami che il nostro amore è legittimo, e che la nostra fede non fu violata.
Dum. Sì, rendici questo servigio, e soja un po’ la nostra debolezza.
Long. Produci qualche argomento che ci autorizzi a proseguirò in questa passione, e che ci valga in difesa contro il diavolo.
Dum. Di’ qualche apologia pel nostro spergiuro.
Bir. Oh! vi son più ragioni che non ne occorrano. State attenti soldati dell’amore. Considerate quello che avete giurato in principio, di digiunare, di studiare, e di non vedere alcuna donna, proponimento troppo grave contro il reale impero della giovinezza. Potete voi digiunare? I vostri stomachi son troppo teneri, e l’astinenza genera infermità. Volete studiare? Il fondamento e l’eccellenza dello studio risiede nella beltà del volto d’una femmina. È negli occhi delle donne che trovasi il testo, il fondo, il libro, da cui scaturisce la vera fiamma di Prometeo. Tutti gli sforzi dello studio incatenano gli spiriti della vita nelle arterie, come il movimento e un’azione troppo lungo tempo continuata affaticano i nervi e la vigoria del viaggiatore. Giurando di non vedere alcuna donna, avete dunque giurato di non studiare, che era il principio e l’oggetto del vostro voto. Dove è nel mondo l’autore che dia così chiare idee della bellezza, come l’occhio di una fanciulla? La scienza non è che un accessorio, che sempre ne accompagna, e quando noi ci miriamo nelle pupille di una donzella amabile noi travediamo anche la scienza. Facemmo voto di studiare, miei signori, ma stoltamente lo facemmo, perchè primo ed unico maestro della vita è l’amore. Le altri arti non producono che sterili sapienti, che di rado mostrano qualche frutto dei loro sudori; ma l’amore rinforza tutto le facoltà dell’uomo, lo eleva al disopra della sua natura, rende gli occhi di un amante più fulgidi di quelli di un uccello, l’orecchio di un amante più sagace di quello di un selvaggio, ogni altro senso ne perfeziona. L’amoro non è egli forse il più possente in fra gli Dei? E quando parla tutti i Numi dell’Olimpo non si assopiscono forse ai suoni della sua voce armoniosa? Non mai poeta osò toccare una penna per iscrivere, che bagnata non l’avesse prima nei pianti dell’amore, e ciò facendo i suoi versi divenivano incantevoli per le orecchie più barbare, e aveano potenza d’intenerire anche il cuore dei tiranni. Quest’è la scienza ch’io ricavo dagli occhi delle belle. Quegli occhi hanno in sè tutto quello che può allettare il mondo, e senza di loro alcun uomo non diverrà mai eccellente in nulla. Così voi eravate insensati violando quella fede che dovete alle donne, e sareste stati insensati, mantenendo quel voto. In nome della saviezza, parola che amano tutti gli uomini; o in nome degli uomini, autori delle donne; o in nome dell’amore e delle donne, rinunziamo ai nostri giuramenti per essere uomini, o cessiamo d’esser uomini per serbare i nostri giuramenti. Religione è il divenire spergiuri in tal guisa: la carità ce lo comanda, la carità che non va mai scompagnata dall’amore.
Re. Santo Cupido! Andiam sul campo, soldati.
Bir. Spiegate le vostre insegne, e avventiamoci contro il nemico.
Long. Parliamo chiaro: vogliam noi amoreggiare quelle belle francesi?
Re. Sì, e conquiderle anche: pensiamo a qualche divertimento per intrattenerle.
Bir. Anzitutto conduciamole qui, e dopo il pranzo penseremo a rallegrarle con qualche nuovo sollazzo, quale in questa pressa potremo imaginare, avvegnachè i balli, le maschere e i piaceri precedono i passi dell’amore, e spargono di rose il suo cammino.
Re. Partiamo: non gettiamo altro tempo, profittiamo delle occasioni che ci rimangono.
Bir. Andiamo; ma quando si semina la zizzania non si raccoglie il grano, perchè la giustizia tien sempre eguale la sua bilancia. Donne volubili potrebbero divenire il flagello d’uomini spergiuri, e se questo accade, il nostro ramo non ci comprerà miglior tesoro. (escono).