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XXXV. Ad un amico
Scherzi - XXXIV. Alla rosa Scherzi - XXXVI. A Mirtillo

XXXV

Ad un amico,

che, stato dimesso da un impiego, vive in profonda malinconia.

     Quella che t’agita
trista follia,
Sesto, inamabile
malinconia,

     consegna ai rapidi
nordici venti,
che la disperdano
nelle onde algenti.

     Quel deve premere
freddo timore,
a cui tormentano
le colpe il cuore:

     non te, che i vedovi
nemici stessi
con mano provvida
reggesti oppressi.

     Per non commettere
vile atto indegno,
sprezzando i folgori
di regio sdegno,

     sfidando squallide
aspre ritorte,
cedesti all’invida
avversa sorte.


     Bagnò di lacrime
allora il ciglio
Prudenza, e il timido
saggio Consiglio.

     Costretta Temide
tacer dall’oro,
fuggí dal soglio
mesta nel fòro.

     E ti seguirono
nel patrio tetto
la fede candida
ed il rispetto.

     Per via le pallide
madri piangenti
i loro offrivanti
figli innocenti.

     — Ecco — diceano
le folte squadre —
ecco dei poveri
l’amico e il padre.

     Ecco di un barbaro
trono il sostegno,
l’amor, la gloria
di questo regno. —

     Quando sí teneri
veri trofei
il vinto ornarono
giorno dei rei?

     Se ancora sibila
torvo-fremente,
e se il vipereo
acuto dente


     arruota invidia,
lascia che frema
e, invan mordendosi
60le dita, gema.

     Il giusto impavido
non teme i frali
vani giudizi
delli mortali;

     65ma sol la torbida,
di morte figlia,
colpa ed i placidi
dèi che somiglia.

     L’inesorabile,
70per tutti arriva,
ora da premere
la stigia riva.

     Quel re, che all’etere
quasi fa guerra,
75sará ludibrio
di poca terra.

     Quelli che premono
invide brame,
o insaziabile,
80avara fame,

     non potran cingere
eterno alloro;
ma il nome ignobile
morrá con loro.

     85Ma di chi volgersi
ardí d’onore
al calle e aspergersi
di bel sudore,


     allor che spingelo
fato rapace
d’Averno a scuotere
l’urna capace,

     la fama vindice
chiaro rimbomba:
restan le ceneri
sol nella tomba.

     Le virtú spiegano
l’eterno volo,
sprezzando i limiti
del pigro suolo.

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