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..... Gli anni..... intendo Ossian, nei Canti di Selma, v. 134. |
I
L’amicizia
Al marchese di Fosdinovo Carlo Emanuele Malaspina.
Utrumque nostrum incredibili modo Hor., Od., ii, 17. |
Signor dell’onda, che, fuggendo l’Alpe,
lucida bagna gli ubertosi colli
dell’avita Gragnola, abitatore
delle ventose papiriane torri,
5amabile fra i saggi, ov’è la bella
garrula gioia dei passati giorni?
Svaní, qual nebbia, dalla cupa valle
alla sferza dei raggi, o qual nel muto
silenzio della notte estivo lampo;
10ma, quasi solco di canuta spuma,
che segue il corso di fugace antenna,
la memoria ne resta e dentro i gorghi
dell’oceano dei secoli futuri
non perirá, ché degli eterni versi
15la spingerò su le robuste penne
oltre il confin della delusa morte.
Figlio del mio german, biondo qual sole
che si specchia nel rio, d’occhi piú neri
della gelida brace, il sen piú bianco
20del nevoso Appennin, sparse le guance
delle rose d’april, recami l’arpa.
Pende dal muro della sala antica
degli avi tuoi fra le animate forme,
coronata d’allòr, sparsa di mirto.
25Fra le sue corde ancor serpeggia il nome
sacro alla gloria dell’eroe britanno,
e lieto ride di vittoria un inno.
Berrai nel canto mio sensi d’onore,
e apprenderai da quei soavi moti,
30che mi desta del cuor la rimembranza
degli altrui benefíci, ad esser grato;
e intanto, al suon della mia voce e al vivo
articolar de’ misurati accenti,
s’avvezzeranno le crescenti fibre
35a rispettare quel pietoso istinto,
che natura e virtú spirano in petto.
Fino dai giorni, in cui si trema al bieco
torcer dei sguardi di un venal Chirone
dal braccio armato d’implacabil sferza,
40eri, Carlo, il mio amico. Ancor pendea
per me su l’ali il dodicesim’anno,
quando mi vide al fianco tuo gli alpestri
varcar gioghi del Lazio l’Aniene,
precipitoso crollator di sassi.
45Teco m’accolse la superba Roma
dal purpureo senato, e dietro l'orme
dei passi tuoi, nelle latine scuole,
libai la tazza degli achei precetti.
Mentre anelava ad emularti, il saggio
50eroe, cui tanto nei pensier somigli,
ti ricondusse alle paterne mura,
ove l’amor delle commesse genti
affrettava, coi voti, il tuo ritorno.
Io vissi ancor tre primavere in grembo
55alla madre del mondo: il grande, il giusto
Clemente, allor sul combattuto soglio
sedea di Piero, e il prisco onor rendea
del Vaticano alle gemmate chiavi
e all’avvilito timido triregno.
60Cedeano l’ire dei placati regi,
ridea la Chiesa, la Discordia in ceppi
piangea, guatando di Loyola i figli,
pallidi all’ombra del vicino occidio;
ed i genii di pace al sacro tempio
65sul venerato altar recavan palme
in riva còlte del guerriero Tago,
del Sebeto, dell’Ebro e della Senna.
L’altrui consiglio e ’l giovanil desio
dal Tebro all’Arno mi guidò nel muto
70laberinto di corte: un dio mi trasse
dal sentier periglioso, e in sen di Marte
improvviso mi spinse, ed ahi! la sorda
alle preci ed al pianto orrida diva
volea ferirmi, se all’acuto dardo
75non m’era scudo con la cetra Apollo.
Voi, cari boschi, alle cui rupi insegno
ora d’Argene a replicare il nome,
mi rivedeste. Era il mio foco Argene,
candida quasi latte, azzurri i lumi
80qual ciel sereno. Il nostro amor crescea
con il crescer dei giorni, allor che, svelto
dalle braccia di lei, tornai fra l’armi,
vittima infausta del voler tiranno
di un’adorata genitrice. Un lustro
85fra le falangi del sabaudo Giove
quella pace cercai, che alfin rinvenni
nel cheto asilo del paterno albergo.
Breve spazio di via dal mio soggiorno
divide il tuo: nel faticoso calle
90mi riconforta l’amicizia, e meco
pungono i fianchi e su la groppa stanno
del fugace destrier gli avidi affetti.
Ospite io salgo nell’armata ròcca
de’ padri tuoi. Tu m’accogliesti: in volto,
95nunzia del cor, non ti ridea la gioia,
ché su l’altera mal chiomata fronte
s’agitava una fosca nuvoletta.
Tentai tre volte sollevar le braccia
onde cingerti il collo, e oh Dio! tre volte
100cadder delusi gl’indecisi amplessi.
Gelai di téma che coperte avesse
la lontananza le memorie antiche
d’obliosa caligine profonda.
Ma il mio timore era un inganno: a pena
105tu favellasti, nei soavi sguardi
tutta l’anima tua candida apparve.
Teco sei lune, quasi lieto sonno,
mi fuggiron veloci. Altrove un cenno
del genitor mi chiama: ecco la notte
110della mia tenerezza e del mio pianto.
I benefici tuoi tento, né posso
numerar singhiozzando, e tu vorresti
consolarmi, ma invan... M’abbracci: io parto.
Da quel momento un sol destin ci strinse,
115né sciórre ne potrá l’amato nodo
d’astro maligno velenoso influsso,
aurea lusinga di ricchezza, o, figlio
di pallida viltá, freddo spavento.
Non dall’urtar dei coronati nappi
120nacque in noi l’amistá su l’ebrie mense,
non dai lascivi garruli concetti,
padri della licenza e delle risse.
Ci animò la virtú, la non velata
sinceritá ci palesò l’occulta
125somiglianza dei cuori e li congiunse.
Ambo cadremo nel promesso giorno
e nell’istessa lacrimevol ora,
ché taceranno dei tuoi colli i veltri,
dell’arpa mia s’ammutiranno i nervi.
130La guateranno rispettosi, appesa
alle pareti di deserta stanza,
i futuri cantori; e, a quella appresso,
non oserá di brancicar l’imbelle
col fiacco braccio il concavo tuo ferro,
135morte di belve, dal fulmineo lampo.
In riva al mar c’innalzerá la tomba
la pietá dei nipoti. Un nuovo scoglio
serberá il nostro nome: ai naviganti
diverrá segno, fra l’orror dei nembi;
140e il ligure nocchier, salvo dall’onde,
dirá, baciando le muscose pietre:
— Qui dorme il vate, ed ha l’amico accanto.