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II. Il disinganno
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II

Il disinganno

Al marchese Giovanni Giorgio Stanga, fra gli arcadi Isaro Ianagreo.

...... Varium, et mutabile semper
femina...

Virg., Aeneid.., lib. ii.



     Canuto padre dei temuti nembi,
torna, Isaro, l’inverno. Odo il torrente
scender gonfio dall’Alpe e sotto il monte
romoreggiar nel tortuoso letto.
5Sento fischiar della montagna il vento
per la ristretta valle, e su la rupe,
crollar le querce la ramosa fronte.
Ve’ come bianche di caduta neve
sono le torri di Colonco! In quelle
10vi alberga l’idol mio, v’alberga Argene
dal soave rossore: il quinto lustro
varcò di quattro primavere; il seno
le si solleva, quasi mar, che scuote
l’aura placidamente. Angusto varco,
15fra ’l ridente confin di due pozzette,
le divide le labbra, e ’l lieto viso
sottilissimo naso: in arco spinte
su due cerulei languidetti lumi
le biondeggian le ciglia, e il crin raccolto
20in latteo nodo, negligentemente,
agitato, sugli omeri le pende.
Se muove i passi maestosa, e lascia,
scherzo dell’óra, la dipinta veste,
sembra l’arco del ciel; se ride, un raggio
25di colma luna; e se favella, il dolce
mormorar del ruscello o il placidetto
susurro dei tremanti venticelli.

Ha l’anima sul volto, e mai non seppe
contaminarla di beltá l’orgoglio,
né la leggiadra femminil menzogna.
Piú di un pastor de’ viraceli boschi
le chiede amor, ma sol per me, pietosa,
volge furtivi gli amorosi sguardi
e scioglie le soavi parolette.
Ahi! presto il nembo dell’etá nemica
svellerá questa pianta, ed una tomba
asconderá sotto un guancial di polve
tanta virtú, tanta bellezza! Isaro,
benché piú pigro il cinquantesim’anno
ti sferzi il tergo col cangiato crine,
prendi la cetra e all’avvenir consegna
la mia felicitá. Sappiano i tardi
nipoti che, in due nomi, un cuore solo
era Argene e Labindo, e che nel freddo
centro di morte, che ricopre il musco,
dormono insieme ineccitabíl sonno...
     Ma no, sospendi l’ingegnosa mano
su le devote al ver corde tremanti,
né di fallace onor tingere i versi.
Credea... Ma, folle! m’ingannar del volta
l’angeliche sembianze e la soave
querula tenerezza; e pur non era
figlia dell’alma, ma correa sul labbro
spinta dalle lusinghe e dal capriccio.
Giunge dal mare uno stranier. L’invito
alla mensa ospitai: s’empion le tazze,
favellando d’Argene. È la mia lode
fatale all’amor mio. La vede e n’arde:
ella langue e m’oblia, ride superba
del tradimento; io ne arrossisco e taccio.
Parte il rivai. Scordo l’offese: ingrata,
tollerante m’insulta, e s’abbandona
senza consiglio ad un novello affetto,
quasi gioco del vento arida foglia
nei brevi di del tempestoso autunno.
Sveglio la mia ragion, rasciugo il pianto,
i ceppi spezzo, mormorando, e fuggo.

Bella sinceritá, dimmi, ove alberghi?
su le nordiche balze, o nei deserti
70della meridional lucida sabbia?
Son giá tre lustri ch’io ti cerco invano
nei palagi dei grandi e nelle selve.
Forse ti rinverrò debole e curvo
sul baston dell’etá; ma allor di riso
75spettacolo sará l’intempestiva
fiamma alla schiera delle ninfe e al biondo
loquace stuol dei giovanetti amanti.

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