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EPIGRAMMI
I
Ben di nume l'aspetto e lo splendore
può dirsi aver Damon, mentre somiglia
Vulcan ne' piedi suoi, negli occhi Amore.
II
Per una civetta.
Ecco l'augel di Palla; il suo pavone,
vago per mille e mille almi colori,
ben può Giuno scordare al paragone.
III
Epitaffio ad una cagnolina.
Morta Dorina è qui; Pirata dea
la trafisse de' boschi, a sdegno mossa
perché in beltade i cani suoi vincea.
IV
Sopra l'incendio del tempio di Diana in Efeso.
Breve per farsi al sommo onor la via,
arse taluno di Lucina il tempio:
ben presto in fuoco e fiamme il mondo andria
se ognun seguisse un si felice esempio.
V
Venere in Sparta armata Pallade vide, e: — Sia —
disse — compiuta alfine or la vendetta mia.
Qui combattiam tra noi; sia del comun valore
giudice ancor, se il brami, il dardano pastore. —
Venere ad essa: — Invano cerchi vendetta irata;
se già ti vinsi inerme, perché mi sprezzi armata?
VI
O celebre pittor, facil ti fia
Bavio ritrar senza vederlo ancora,
sol che dipinger sappi la pazzia.
VII
Un compagno ha Filen di bruno ammanto,
emulator de' più canori augelli,
che vinto è sol dal suo signor nel canto.
VIII
Ben de' poeti dell'età d'Augusto
sono Dafni e Menalca imitatori,
se Mevio superàr, l’un dei migliori.
IX
Ben sovente Coridone
della gotta si lamenta;
pur non è questo il sol male
che insoffribil lo tormenta,
mentre ognor co' creditori
la chiragra ei soffre ancor.
X
Epitaffio al Sannazaro.
Spargi qui fiori, ove a Maron vicino
ha di giacere il vanto
chi si vicin di già fu a lui nel canto.
XI
Niun presta a Tirsi fé; pur noto è bene
che la data parola, in ogni incontro,
infin che ciò gli giova, egli mantiene.
XII
Di Dameta la tragedia
ben commuove i nostri affetti,
e provato abbiam noi già
qual pietade essa ci fa.
XIII
Preso dal freddo, Empedocle gittossi
nell’Etna ardente: una simil pazzia
forse in estate fatta non avria.
XIV
In morte di un alchimista.
Dopo feroce ed ostinato male,
uccise Morte per isbaglio Elpino,
scordandosi ch'egli era un immortale.
XV
Per un canarino ad un poeta.
Ben di te stesso immago
si amabil augellin
può dirsi; egli, che sempre
la sera ed il mattin
all'aure gode spargere
delle sue voci il suon.
Di te, che, non mai stanco,
colla maestra man
tratti le corde aurate,
e al verde colle e al pian
delle tue voci armoniche
insegni a risonar.
XVI
Nel far versi, o Mopso, invero
più di me veloce sei;
pure i tuoi pria che tu mora
forse morran, mentre vivranno i miei.
Giusto è ben, né alcuno il nega,
che ciò che costa più, più duri ancora.
XVII
In un pozzo gittossi or or Narcisso,
né biasimarlo io so; forse egli volle
Clelia al fiume imitar, Curzio all'abisso.
XVIII
A Pirro, re degli epiroti per una vittoria, la quale costògli moltissimi soldati.
Pirro, che speri? ah! che de' tuoi la morte
si breve non compensa aura di gloria:
inerme in braccio alla nemica sorte
potrà ridurti altra simil vittoria.
XIX
Certo ben raro egli è di Tirsi il libro,
e tal, che un sol l'ha in mano,
e forse altrove invano
ricercar lo vorresti:
un sol l'ha in mano, ed il libraro è questi.
XX
Con ogni studio ed arte il saggio Orgone
dipinse in tela vivamente un matto;
cosi descrisse il vero suo ritratto.
XXI
Di tragico e di comico alla volta
volle Alceste acquistar la gloria, e invero
sopra d'ogni scrittor la palma ha tolta:
e tal, che ognuno è in asserir sincero
sé lagrimar commosso alla commedia,
e rider può sovente alla tragedia.
XXII
Epitaffio ad un viaggiatore.
Qui giace il vecchio Orgon che, fin che visse
mèta a' viaggi suoi mai non prescrisse.
Fissò qui Morte alfin la sua dimora:
se ciò non fosse, egli errerebbe ancora.
XXIII
Per Ottavio poeta latino, che mori bevendo.
Simile ad Ila, Ottavio fu dagli dèi rapito;
quei dalle ninfe, e questi da Bacco in un convito.
Quei, nelle fonti ascoso, preda si fu dell'acque;
questi, dal vino oppresso, vittima esangue giacque.
XXIV
Sommo poeta ben può dirsi Elpino,
mentre Tirteo ne' piè, negli occhi Omero,
e Orazio imita nell'amor del vino;
sol di questi non ha l'arte e il pensiero.
XXV
Sol d'Apollo e delle muse
vuol Niceste dirsi amico,
né le fonti a lui son chiuse
d'Aganippe e d'Ippocren.
Pur di queste ei non si cura,
né sol acqua bever ama,
quel liquor che infonde ei brama
estro insieme e sanità.
XXVI
Sopra un ulivo intorno a cui intrecciossi una vite.
Ahi! qual me, pianta di Minerva, stringe
di Bacco odioso ingombro!
Lungi da me di vite ogni racemo;
ebra esser detta, o ciel, pavento e temo.
XXVII
Per un losco.
Pingi, o Licida, Elpin, ma saggio imita
il greco Apelle, e nel fatai disastro
l’arte a natura cosi presti aita.
XXVIII
Per il celebre astronomo Ticone-Brahé, che, avendo perduto il naso, se ne rifece uno d'oro.
Di Mida la virtù, né strano è il caso,
ebbe da Bacco in dono il gran Ticone,
e tal, che in oro poi cangiossi il naso.
XXIX
Per malattia di un medico.
Benché infermo, Damon cura non prende
d'opporsi a morte, ché il suo nome istesso
troppo da' colpi suoi sicuro il rende.
XXX
Parrasio a Timante.
D'esser vinto da te, no, non mi spiace;
ho duolo sol, perché ora fu di nuovo
vinto da Ulisse il generoso Aiace.
XXXI
Di colomba innocentissima
ha Niceste il bel costume
mentre solo a torri candide
ei rivolge le sue piume;
mio Niceste, in te giammai
innocenza simile io non bramai.
XXXII
Per la specola di Padova.
Quella che un di la strada all'ombre apria,
sotto gli adriaci auspicii
or facile alle stelle apre la via.
XXXIII
Ecco il Vesuvio, ove beate un giorno
ombre spandea la pampinosa vite;
ecco di Bacco il placido soggiorno,
ecco le balze al nume si gradite.
Di Venere la sede ed il diletto
albergo è questo de' scherzosi amori;
fu questo il luogo un di cotanto accetto
de' satiri giocondi ai lieti cori.
Tutto fu preda delle fiamme, e tutto
al suol consunto e incenerito giacque;
avvolge il colle spaventevol lutto
a' numi istessi un tanto orror dispiacque.
XXXIV
Sopra le antichità delle stirpi.
Figli d'Adam tutti noi siamo; il vomere
guidò ciascuno e il suolo apri, perfino
che stanco volle alcun la rustic' opera
abbandonar chi a sera e chi al mattino.
XXXV
D'un orator lo stile abborre Orcone,
e, frutti, dice, ei prezza sol, non fiori;
— Sappi — io rispondo — amico,
che senza fiori aver può solo un fico. —
XXXVI
In morte di Catone.
Dopo di mille generose imprese
diessi Caton la morte, ed in tal modo
vivo per sempre il suo morir lo rese.
XXXVII
Dialogo tra il passeggero e la tortora.
Passeggero
A che per questi boschi
spargendo a' venti vai le tue querele?
Tortora.
Ah! ch'io perdei l'amica mia fedele.
Passeggero.
Non temi, o tortorella, il cacciatore?
Tortora.
Ah! s'ei non è, m'uccide il mio dolore
XXXVIII
Vòlte le vele alle remote genti,
Bavio abbandona della patria il seno:
possan or le procelle amiche e i venti
farci del suo partir giocondi appieno.
XXXIX
Sopra un fonte.
Ninfa, del sacro margine
custode, al fonte io sono;
qui dormo delle limpide
onde cadenti al suono.
A chi si accosta, il placido
mio sonno non dispiaccia;
della fresc'acqua gelida
beva, si bagni, e taccia.
XL
In morte di Federico secondo, re di Prussia.
T'arresta... oimè! la forbice della funesta Parca
i dì recise, ahi barbara! di cosi gran monarca.
Di lui, che, saggio e provvido, vate e guerriero insieme,
de' regi fu l'esempio, de' sudditi la speme.
Pel suo perire or vedesi in braccio al duol più vivo
gemere il popol misero, d'un re, d'un padre privo.
Ecco già Temi e Pallade, già l’eliconio stuolo
la tomba sua circondano con taciturno duolo.
Cadde di palme carico colui che, invitto e fiero,
in campo fe' qual fulmine tremare il mondo intero.
Assai visse alla gloria, poco all'onor sovrano.
O Temi, o muse, o Pallade, ah ! voi piangete invano.
Calmate, orfano popolo, la vostra doglia estrema,
d'un nuovo eroe le tempia cinge il regal diadema.